Carrie, con quei suoi occhi grandi, vivaci, un po' folli, lo aveva conquistato fin dall'inizio.
E ficcato in un immenso casino.
Non era solo la testardaggine, l'impetudine o la totale mancanza di buonsenso quando la sua testa le diceva che fare qualcosa era giusto e basta – perché la sua testa lavorava come una macchina impazzita, sapeva mettere in piedi altre mille cose senza mai dimenticarsi di tenere a bada la ragionevolezza. No, c'era di più.
In ogni aspetto della sua vita, come preda di una disperata tendenza suicida, cercava un muro contro cui sbattere. Ostacoli da distruggere sul suo cammino, vite da travolgere.
Lei non si fermava – non ne aveva il tempo, né la forza.
Lei era il caos.

Carrie, con quei suoi occhi grandi, bugiardi, lo sta uccidendo.
E anche se a dividerli é solo un passo – una frase non detta – per Saul é troppo da sopportare.
Ti voglio bene.
Basterebbe sbilanciarsi un poco di più, allungare le braccia e stringerla, forte, forte, forte, soffocarla in un abbraccio e soffocare tutte le sue ossessioni, il suo terrore di rimanere sola.
Tu hai me, Carrie.
Invece Saul rimane immobile, sul bordo di quel crepaccio che continua ad allargarsi.
Fa un passo indietro.
Deve fermarsi, andarsene e raccogliere i pezzi, perché quella Carrie, così sbagliata, fa male. Forse, una volta tornata in sé, riuscirà a decifrare il suo volto, a leggervi lo sgomento. Il dolore.
Restare, lottare, é quello che farebbe lei; ma é lui a dover decidere, per entrambi, é questo che fa un padre – anche se non lo é davvero, se non é obbligato ad esserlo, se non potrà esserlo per sempre.
E Saul sa che tutto ciò che vuole dirle, ora, non va detto, sarebbe altrettanto sbagliato.

Lei é ancora la sua Carrie; semplicemente, non può permettersi di sbagliare.