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Autore: Katekat    03/11/2012    2 recensioni
Lei doveva morire, non c’era altra soluzione. Doveva morire.
La sua morte era inscritta in un Piano più grande. Che fosse innocente, poco importava.

[Albus/Gellert/Ariana]
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash, Crack Pairing | Personaggi: Albus Silente, Ariana Silente, Gellert Grindelwald | Coppie: Albus/Gellert
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate, Triangolo | Contesto: Dai Fondatori alla I guerra
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When Angels deserve to die
 

 
 
 
 


 
Un Angelo, la prima volta che la vidi – un Angelo.  
Io non avevo mai creduto agli angeli, né ai diavoli. Né a dio né agli dei.
Io credevo nell’Uomo e nella sua volontà di potenza.
Credevo anche che non tutti gli uomini fossero uomini allo stesso modo: semplicemente, accade che alcuni lo siano più degli altri.
Credevo nel dominio dell’uomo sull’uomo. Governatori e Governati. Io appartenevo alla prima casta.
Io credevo a ciò che le mie mani potevano toccare, afferrare, imprigionare nella loro stretta, possedere. Credevo a ciò che i miei occhi scrutavano, indagavano, penetravano, facevano proprio.
Non credevo agli angeli.
Poi i miei occhi me ne mostrarono uno: Toh, mi dissero, guarda 
e io guardai. E il ghigno mi scivolò via dalla faccia, perché non avevo mai visto nulla di così bello e irreale, al limite della sofferenza.
Non credevo agli angeli.
Finchè le mie mani non ne sentirono uno, sulla pelle: Ecco, mi dissero, ora sai cosa si prova a toccare un angelo. E non mi stancai di toccarla per molto, moltissimo tempo. Sarei potuto invecchiare secoli e secoli e attendere con tranquilla indifferenza la Morte, purchè nell’attesa mi fosse stato concesso di continuare a toccarla.
 
Avevo sempre proclamato che non esiste dio, se non nell’uomo; che ogni uomo è dio di se stesso.
«Se vuoi trovare dio, non cercarlo da qualche parte lì fuori; non si nasconde nei simulacri e negli idoli dorati, nell’incenso bruciato sugli altari e nei sacrifici, nei canti e nelle preghiere inascoltate se non dagli uccelli. Guarda dentro di te e lo troverai
Ed ecco sopraggiungere il terremoto che aveva scosso le fondamenta del mio spirito, la bufera che aveva reso pericolanti le mie inossidabili convinzioni.
Io avevo visto e toccato dio; lo avevo avuto tra i miei occhi e le mie mani
– una sua creatura, che equivaleva alla deità in persona.
Dovevo dunque ricredermi? Dovevo inginocchiarmi e adorare la rappresentazione della sua grandezza, accettare la prova della sua esistenza, riconoscere un Principio più alto dell’Uomo e rinunciare all’attuazione dei miei progetti?
A lungo vagai nella landa dell’incertezza, spazzato dal vento del dubbio, nell’oscurità più totale.
Per la prima volta, la Ragione mi deludeva. La mia Fede nell’intelletto umano – l’unica mia vera fede – veniva meno. Ero tradito dal mio stesso Scopo.
Se lei non era un Angelo – cosa di cui cercavo disperatamente, con rabbiosa caparbietà, di convincermi – allora gli Angeli non esistono.
Non avevo mai sperimentato nulla pari alla sua timida bontà; la sua innocenza non aveva età, la sua fiducia sconfinata era così assoluta da lasciare attoniti.
Era una goccia di cera rappresa, scivolata giù dalla candela della somma conoscenza; una lacrima piovuta dal Paradiso a smuovere lo stagno buio dei miei tetri pensieri: era bastata una goccia a sconvolgere in profondità i miei piani; con la violenza di un maremoto si era abbattuta sulle rive, schiantando gli argini, riversando intorno un inferno dilagante.
Per la prima volta mi dibattevo nel dubbio, e nell’incertezza annegavo.
Si era sgretolata all’improvviso la roccaforte – che credevo salda e inespugnabile – su cui mi ero elevato, a dominare la solitudine del mare che mi circondava, specchio della mia grandezza unica, a guardare dall’alto i miei simili, così inferiori, sballottati dalle acque, senza volontà, in attesa di un barcaiolo pietoso che li trascinasse a riva.
E ora avevo scoperto che quel baluardo in cui mi ero trincerato, facendomene scudo di orgoglio e motivo di vanto, era solo uno scoglio e una tempesta più forte delle altre lo aveva travolto.
Io ero stato abbattuto. Io che mi ritenevo invincibile, inarrivabile, invulnerabile.
La marea aveva lottato contro la mia fiamma distruttiva, ma non c’era stata battaglia: l’aveva sommersa di un manto liscio e fremente.
Un gran fumo si era levato dalle macerie del mio io.
 
Per un po’, dell’aspra lotta, del mio dilaniarmi interiore, del morso del dubbio, del digrignare dell’orgoglio sconfitto, non era rimasto che un velo di fumo, teso su una calma oceanica e sconosciuta che si era insinuata nei miei sensi. Non li aveva anestetizzati, no
sentivo ancora.
Era solo un diverso modo di sentire: più pacato, meno arrabbiato; più lucido, meno offuscato dall’odio.
Per la prima volta mi arrischiavo a sfiorare una nuova prospettiva di vita.
Non ero più il Chirurgo del mondo, deputato a mondarlo delle sue imperfezioni, a resecare il marcio, a restituire all’Umanità un corpo di nuovo perfettamente funzionante. Ero adesso il paziente disteso sul tavolo operatorio, illuminato dalla luce impietosa di un essere ignoto e terribile, il sommo Aguzzino di cui mi rifiutavo di riconoscere l’esistenza, pronto a lasciarmi aprire ed esporre organo per organo, rovistare all’interno, farmi rattoppare dopo l’eviscerazione.
Ero dall’altra parte, ora: non più con i Governatori, ma con i Governati.
Mi ero sbagliato, dovevo riconoscerlo; il mio orgoglio doveva tacere.
Mi ero sbagliato: gli Angeli esistono. E se esistono gli Angeli esiste anche dio 
 e quel dio non sono io.

Eppure lo vedevo riflesso nei suoi occhi di luce, ogni volta che mi guardava. Attraverso di lei intravedevo quella beatitudine che sarebbe sempre stata fuori dalla mia portata.
Lei mi rivelava a me stesso in quella luce divina da me tanto agognata; guardandomi con i suoi occhi vedevo il compiersi del processo in atto, il concretizzarsi del mio ideale, l’ultimarsi della creazione del mio archetipo.
Solo nel suo sguardo mi realizzavo come la divinità che ambivo ad essere. Una divinità immanente, terrestre, che non aveva nulla di celestiale, o di metafisico, o di ultraterreno. Una umana divinità.
 
Non l’ho mai amata.
Lei è stata solo una giornata di sole, limpida, meravigliosa e perfetta, in una vita di tempeste.
Una bianca conchiglia del cristallo più fragile, luccicante sulla battigia per qualche minuto, prima di essere risucchiata al largo dalla risacca furiosa.
È stata solo una parentesi
piacevole, insolita, travolgente parentesi della mia esistenza, niente più.
Anche se non fosse morta, non avrebbe avuto alcun posto nella mia vista. Non c’era spazio per lei,  pur se di spazio ne occupava così poco.
Se fossi stato capace di amarla, sarei potuto diventare un uomo migliore. Non potevo correre il rischio.
Sarei potuto venire a più miti consigli; sarei stato meno drastico nelle mie decisioni, meno inclemente nei miei giudizi, meno cieco nelle mie azioni, meno egoista nei miei sentimenti.
Da lei mi sarei imbevuto di pietà, comprensione, dolcezza. Avrei smesso di voler desiderare di guidare gli uomini, mi sarei limitato a indicare loro il cammino con una mano. Da uomo d’azione sarei diventato uomo di pensiero, un predicatore, un umile filosofo, un passivo interprete della vita.
Mi sarei spogliato dell’armatura del guerriero, del creatore di nuovi valori.
Meditare e discutere senza alzare un dito è roba da filosofi e ai filosofi io la lascio, così credevo. Solo gli inetti ragionano e blaterano, solo coloro che non sono capaci d'altro. I veri uomini agiscono; rovesciano regimi per instaurarne altri, espugnano fortezze per rinforzarle, abbattono despoti per sottrarre loro lo scettro.
Gli straccioni che si reputano “pensatori” ammorbano l’aria delle loro ciance pestilenziali, avvelenano le orecchie, instillano accidia nei cuori. Tessono dorate trame di parole infiorate, imprigionando il mondo in una parafrasi mediocre, invitando all’accettazione, esaltando la passività, lodando la remissività. Tu devi! strillano, dunque piegati al tuo dovere.
Le loro parole sono vuote; non si rendono conto che non c’è poesia nella storia: di qui la ridicola recita della loro parafrasi.
La storia è fatta di guerre per il potere, lotte di classe, conflitti di interessi; la storia è scritta in una prosa arida e scarna che da tempo ha ceduto il superfluo, il retorico, gli eufemismi, i fiori della poesia. E’ di una crudezza che offende quasi nella sua banalità, nella sua logica ferrea intinta nel sangue di innocenti.
Ma non esistono innocenti, se uno solo, o dieci, o mille sono sacrificati per il bene di tanti, di tutti.
Ad alcuni tocca questa sorte; è una triste necessità, perché sia realizzato l’Ideale.
Non esiste il sacrificio, è un’invenzione di quegli odiosi sofisti. Se fosse per loro, dovremmo ritirarci in un angolo, cospargerci il capo di cenere e pregare il Cielo che ci scansi da ogni male e, mentre questo ci piove addosso o colpisce i nostri vicini, restare a guardare, continuare a pregare e non fare nulla.
 
Avrei dovuto rinunciare al mio Scopo, se l’avessi amata.
Avrei dovuto mescolarmi alla fila di uomini senza pregi né difetti di nota, avrei iniziato a inchinarmi con gli altri, a pensare come gli altri; la mia individualità sarebbe stata soffocata, il mio ego ucciso, la mia natura violentata, quel millesimo di geni che mi rendeva diverso da ogni altro non avrebbe contato più nulla. La mia voce sarebbe stata soverchiata dalla folla urlante.
Nella massa acefala e informe il mio nome sarebbe stato solo un nome, e io uno fra tanti. Non potevo permetterlo.
 
La guardavo, insistentemente continuavo a guardarla, rimuginando tra me e me questi pensieri, avido di carpire il segreto dietro la sincerità, impaziente di cogliere la malizia dietro l’innocenza. Avrei così avuto un pretesto per ribellarmi
 ma non ce l’avevo.
La guardavo e vedevo un germoglio tenerissimo che cresceva a stento, bruciato precocemente dalla vampa di un sole spietato prima che potesse schiudere i suoi boccioli.
Mi incuriosiva; mi attirava. Mi chiedevo come fosse possibile che un essere così debole, così esposto agli insulti, al danno, privo di scorza, senza strumenti di difesa né di offesa, potesse sopravvivere in un mondo di lupi, in terra di nessuno.
Ho sempre disprezzato i deboli, e lei era la creatura più debole su cui avessi mai posato lo sguardo. In genere non li vedevo nemmeno, non mi curavo di loro, passavo oltre. Ma quella volta in cui i miei occhi la sfiorarono, riconoscendo in lei la prova palese della sua debolezza e fecero per andar via, scoprii di non poterlo fare, di essere mio malgrado incollato e vincolato a quella creatura.
Già allora avrebbe dovuto sembrarmi strano quell’attaccamento immotivato, avrei dovuto scavare nel mio animo, indagare più a fondo il mio cuore, interrogarmi su cosa mi attirasse in quell’esserino che mai avrei potuto stimare, ma solo soggiogare.
Questo, era proprio questo ad affascinarmi? Il desiderio di esercitare un potere assoluto su una creatura così indifesa, la peggiore delle perversioni conosciute, quella della vanità, dell’ego che si accresce con il dominio altrui? Attingere al suo spirito innocente per irrobustire il mio? Come può il forte ricavare forza dal debole, se non dalla sua sottomissione? O forse volevo impregnarla di me, vedere lo specchio luminoso dei suoi occhi cangiarsi in grigio sporco e poi in nero maledetto, diventando torbido riflesso del mio?
Non avevo ancora un piano preciso su di lei; le mie intenzioni erano ancora soltanto fumo e ombre vaghe e agitate, ma davo per scontato che ne sarei uscito vincitore.
Sì, ero certo di poter far mio quel piccolo Angelo che avevo considerato così innocuo; invece era stata lei a farmi suo, senza fare assolutamente nulla. Semplicemente guardandomi e tacendo, giorno dopo giorno.
Il suo sguardo e il suo silenzio avevano la costanza alacre della formica; erano lo stillare dell’acqua sulla roccia, sabbia che fruscia aldilà del vetro della clessidra. Con inesorabile pazienza era arrivata fino a me; dopo aver roso alla base il pilastro della mia persona, tutto il resto era crollato come un gigantesco domino, rivelandomi per quello che ero: un Golia dai piedi d’argilla.
Mi ero ritrovato la gola stretta in catene morbide come seta, tessute di luce. Dove esse tiravano, io andavo; quando le sentivo scrollarsi, mi alzavo e seguivo il loro tintinnio. Seguivo la sua voce sottile come un filo, chiara come un mattino d’argento e nel suono terso della sua risata riascoltavo l’eco di quel Principio sovrano, da me rinnegato, che sentivo ora guardarmi dall’alto con un sopracciglio beffardamente inarcato, compiaciuto della mia improvvisa capitolazione.
 
Quando mi ero costretto ad ammettere che lei costituiva per me un pericolo di gran lunga maggiore di quello che ero io per lei, l’Angelo si era mutato in Demonio.
Lei era il richiamo della rovina, la vertigine del vuoto che attira verso il nulla, l’unica tentazione alla quale non dovevo cedere
la tentazione del Bene, quell’entità estratta che recava in sé il sapore di tante cose per me eternamente e consapevolmente perdute: fratellanza, amicizia, comprensione, perdono, compassione.

Da quando mi ero ridotto così? Perché l’avevo capito così tardi?
Mi vergognavo di me stesso. Mi giudicavo ferocemente e mi condannavo senza appello.
Mi ero mostrato più debole di una debole; non ero stato all’altezza del mio nobile Scopo.
La luce abbagliante di quegli occhioni mi aveva accecato e fatto perdere di vista il mio obiettivo. Per questo, mi odiavo e digrignavo i denti, desiderando farmi male.
Mi ero ridotto a ciò che mai sarei dovuto essere. Avevo perso me stesso dietro l’illusione di qualcosa che non corrispondeva al vero.
Dunque ero perduto? No, era giunto il momento di ritornare sulla strada che mi ero tracciato; abbandonare l'inconsistenza della fede, tornare alla sicurezza della Ragione. Riportare l’Uomo sul suo piedistallo, restituirgli la dignità. Rovesciare l’effigie dell’impostore; spezzare le catene
– morbide e tentatrici, sussurravano dolci cantilene che inducevano a un docile sonno, a una accidiosa inerzia.
Dovevo lottare, non cedere. Dovevo riaccendere la fiamma che era in me.
 
Dovetti fare quello che feci, non ho remore ad ammetterlo
 dovetti. Per me stesso e per il Bene Superiore.
Non poteva esserci nulla, nulla, a frapporsi tra me e il mio Scopo; nessun ostacolo sulla mia ascesa tra tenebre e fiamme.
Lei doveva morire, non c’era altra soluzione. Doveva morire.
La sua morte era inscritta in un Piano più grande. Che fosse innocente, poco importava.
 
Non avevo mai avuto intenzione di colpire Albus.
Il mio amico perdeva tutta la sua saggezza e il suo acume e la sua perspicacia, quando si trattava di me. Non riusciva a essere obiettivo nel giudicarmi. Come sua sorella era stata per me, io ero per lui il raggio che lo abbagliava: non riusciva a sostenere il mio sguardo troppo a lungo.
Per questo non è mai riuscito a capirmi davvero. Non è mai arrivato fino in fondo al mio cuore. Non ha mai capito niente.
Lo amavo di un sentimento così grande e possessivo da vergognarmene e torturarmi costantemente, ma amavo di un amore ancora più tenace e superbo e malato lo Scopo. In quanti modi può amare un uomo? Tanti e uno solo. Ma non dovevo concedere all’amore per un singolo uomo di sopraffare lo Scopo. Lo Scopo, prima di tutto. La Missione che mi ero imposto. Il Bene Superiore.
 
Non avevo mai avuto intenzione di colpire Aberforth.
Mi era indifferente
 una lumaca attaccata alla punta della mia scarpa. Era rozzo, insignificante, straordinariamente privo di interesse e di qualità, rispetto al geniale fratello. Un essere poco evoluto, dal semplice sentire, primitivo, da pensieri brevi e lineari, come quelli di un bambino. Dalle ire violente.
Mi divertiva essere spesso l’oggetto delle sue ire. Mi odiava. Mi detestava di quel rancore tenace e ostinato che si attacca come una patina e non si scolla più; quell’astio ottuso che non ammette ragioni, che incattivisce col tempo, come vino che invecchia in una buia cantina muffita.
Eccome se aveva ragione di odiarmi, anche più di una. Gli avevo portato via il fratello, e di questo poco gli calava. Ma gli avevo portato via anche la sorella, e questo non poteva perdonarmelo.
Godevo nell’avvertire i suoi occhietti pieni di livore trafiggermi, quando credeva che non me ne accorgessi; seguiva immancabilmente una porta sbattuta con rabbia e il mio riso beffardo sotto i baffi. Sapevo di essere in una posizione privilegiata, inattaccabile. E il fatto che un tale insetto mi vedesse come suo nemico, suo rivale, mi divertiva in modo riprovevole. Sapevo che era del tutto impotente: ero io suo padrone incontrastato, perché tenevo per le palle quel suo fratello troppo buono e troppo intelligente e, con l’altra mano, ero incatenato a doppio filo con lacci dorati con cui la dolce, ingenua, pazza Ariana giocherellava distratta, tra le dita sottili e fragili. Quelle dita che sembravano così delicate quando le stringevo tra le mie che temevo sempre di farle male. Ma lei non protestava, non diceva nulla. Sorrideva con i suoi denti ancora di latte e tornava ad offrirmi la mano. Sempre, me la offriva.
Quando invece stringevo con troppa forza le dita di Albus, lui me lo diceva.
«Gellert» diceva piano, e basta. Coglievo il monito. A volte, indispettito, lo facevo apposta a disubbidirgli e stringevo con ancora più forza, per sentir sfuggire alla sua bocca un "Gellert" dal sapore diverso, stavolta, non più di ammonimento ma di supplica. Un sapore che mi piaceva.
Erano così simili, lui e sua sorella, che mi pareva di trovarmi intrappolato in un gioco di specchi, prigioniero tra due riflessi eternamente somiglianti che non cessavano mai di riversarsi l’uno nell’altro. Gli stessi occhi, gli stessi colori. La stessa mitezza.
Albus non si è mai accorto di me e di Ariana. Non si accorgeva mai della sorella.
Non che non le volesse bene. Aveva troppa paura della sua salute cagionevole, della sua stranezza. Paura che un giorno quella pazzia e quella stranezza gliel’avrebbero portata via per sempre.
Io, che l’ho conosciuto più profondamente di chiunque altro, so che Albus la guardava il meno possibile perché, ogni volta che lo faceva, – me lo avrebbe confidato lui –, vedeva nel visino scarno della bambina l’immagine della Morte. E preferiva chiudere gli occhi di fronte ad essa, almeno temporaneamente.
Vigliacco. Vile, vigliacco Albus. Sei stato così coraggioso in tante cose, e così codardo davanti ad altre. Sei stato un uomo, ti sei rifiutato di diventare un dio. Dentro di te, non hai mai creduto di poterlo diventare davvero. Hai fatto marcia indietro prima dell’irrimediabile punto di non ritorno verso cui io ti spingevo, con sempre maggiore insistenza.
Mi hai tradito anche tu, Albus, come hai tradito tua sorella: le hai rifiutato la mano, lasciando che sprofondasse nel buio
–  nel buio che ero io.
Avresti dovuto difenderla, ma tu non vedevi niente, quando si trattava di me. Percepivi la voragine oscura del mio cuore e ti mantenevi sull’orlo per non precipitare; camminavi al mio fianco contornando continuamente, ossessivamente, il limite del precipizio. Quale testimonianza maggiore della tua fedeltà, del tuo amore, che offrirmi la possibilità, la scusa, di darti una piccola spinta e precipitarti nel buio per sempre?
Ma io sono sempre stato più esigente, più sofisticato di questo, Albus. Ecco perché non mi sono accontentato di te, e ho voluto anche Ariana. Il piccolo Angelo.
Lei era il mio piccolo esperimento, la mia personale resa dei conti col Bene, con dio, con la menzogna... chiamalo come vuoi.
 
Aberforth se n’era accorto.
Anche per quello mi odiava. Quello era solo uno dei tanti motivi per cui ce l’aveva con me, ma era sicuramente il maggiore. Mi odiava ma non parlava, per non turbarti. Quanto sono ingenue le persone rozze e sempliciotte; com’è facile prevedere le mosse degli onesti, degli uomini medi! Sapevo che non ne avrebbe mai fatto parola. Avevo le spalle coperte. Ero al sicuro.
Alla resa dei conti, Ariana era stata abbandonata da tutta, ma proprio tutta la sua famiglia. Entrambi i fratelli erano stati incapaci di proteggerla. Paradossalmente, solo io ero rimasto al suo fianco.
Il mio piccolo Angelo. La mia giornata di sole. Il diavolo innocente. La mia maledizione. Il pericolo della debolezza. Il rischio del Bene.
 
Avevo sempre, fin dall’inizio, avuto intenzione di colpire lei.
Quando era caduta, mi ero sentito in pace
–  in pace, sì; era morta. Il suo era solo un altro degli innumerevoli corpi calpestati e superati nella marcia dell’umanità verso il proprio perfezionamento.
Era morta; dunque gli Angeli non esistevano, proprio come avevo sempre sostenuto.
E se non esistevano gli Angeli, non esisteva neppure dio – un vero dio non avrebbe abbandonato delle sue creature, le avrebbe salvate – e neppure il diavolo. Esistono solo uomini che fanno male ad altri uomini.
Le mie convinzioni erano intatte. Avevo superato la prova; mi ero riconciliato con me stesso.
Avevo sempre saputo, dentro di me, di avere ragione. Era solo questione di tempo, prima di smascherare la subdola menzogna dalla quale, per un po’, mi ero lasciato irretire e cullare 
senza crederci davvero, se non per un folle attimo di sbandamento. Ero rinsavito in tempo; mi ero reso conto che era tutto finto e falso e non sarebbe durato.
Ora che avevo rimosso trastulli e distrazioni, dubbi e tentazioni, potevo tornare a dedicarmi, con cuore più limpido e convinzione ancora più salda, al mio vero Obiettivo.

Gli Angeli non esistono.
 

 

Father into your hands
I commend my spirit
Why have you forsaken me in your eyes
forsaken me in your thoughts
forsaken me in your heart
forsaken me
Trust in my self-righteous suicide
Why cry when Angels deserve to die
 
Sistem of a Down, Chop Suey



Fine
 

  
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