München, 1945
1. Il peggior compleanno
Sospettavo che quella gita nascondesse qualcosa, a dire il vero.
Quando mio padre, Alphonse Elric, venne a svegliarmi con una scrollata troppo
energica per un uomo solitamente così calmo, risposi con un grugnito di
disappunto, tentando di infilarmi di nuovo sotto le coperte.
- Alzati e vestiti, pigrone - mi disse, in fretta - Andiamo a trovare la
mamma. -
- E dobbiamo farlo proprio a quest'ora del mattino? - chiesi, alzando
controvoglia la testa dal cuscino.
Lui mi porse i vestiti con un gesto secco. Misi a fuoco il suo volto quel tanto
che bastava per riconoscervi un profondo turbamento: se fosse paura di qualcosa,
fretta o altro, non riuscii ad identificarlo sul momento.
- Oggi sarebbe stato il suo compleanno, ricordi? - mi rispose
pazientemente.
Buona scusa, senza dubbio; di solito, per il compleanno della mamma, io, papà e
mia sorella minore Charlotte svolgevamo tutti i lavori di casa, per farla
riposare, e io facevo lo sforzo di evitare commenti: infatti, per una strana
casualità, sono nato il giorno dopo il suo compleanno. Ma nessuno lo trovava un
motivo valido per esonerarmi dalle faccende domestiche o dai compiti.
Quel venti gennaio 1945, per la prima volta, potemmo soltanto rimanercene in
piedi di fronte alla sua tomba, nel cimitero che la nebbiolina umida rendeva più
lugubre di quanto già non fosse, almeno agli occhi di un bambino quale io ero.
Lanciai un'ennesima occhiata a mio padre, il cui volto era in buona parte
nascosto dal cappello e dal bavero del cappotto. Stringeva le labbra fino a
farle quasi sparire, e spostava il peso del corpo da un piede all'altro,
ansiosamente, come chi deve dire qualcosa di molto importante.
Angoscia, ecco cosa rifletteva il suo volto, decisi finalmente.
- Thomas, Lotte... - iniziò, lentamente - devo dirvi una cosa. -
Noi ci irrigidimmo, preoccupati dal suo tono: mia sorella si aggrappò alla sua
mano, mentre io fissai lo sguardo oltre la lapide con il nome di Caroline
Heinrich, mia madre.
- Non siamo venuti qui solo per il compleanno della mamma, vero? - chiesi
Lui si voltò verso di me per un istante, per poi tornare a fissare la nebbia,
sospirando. Finalmente, si decise a parlare:
- Thomas, sai cos'è una cartolina di precetto? - domandò
Presi un respiro profondo, afferrando la situazione.
- Sì. -
- Io no. - si intromise mia sorella, offesa dal fatto che la stavamo
tagliando fuori dalla conversazione
- Vuol dire che deve partire per la guerra, Lotte. - risposi per lui, con
tono acido
Lei lo guardò, con gli occhi sgranati per lo stupore
- Ci...ci lasci da soli? -
Nostro padre si accosciò, per guardarla in faccia.
- No, Lotte. Voi rimarrete per qualche tempo da vostro zio, fino al mio
ritorno. Sarà... - tentò di sorridere - una specie di vacanza. Ti ricordi di
Edward, no? -
Io rimasi in silenzio, guardando la disperazione che traspariva dal volto di mio
padre: tirai su col naso, e mi imposi di non piangere.
Avrei compiuto dodici anni di lì a poche ore: inutile dire, quindi, che non
comprendevo nè m'interessavo alla politica. Della guerra, avevo sentito due
versioni: quella della radio, dei giornali e della scuola (quando ancora era
aperta), fatta di onore e gloria e sacrificio per la Patria, per il Reich; e
quella di mio padre, raccapricciante e senza senso.
A dirla tutta, avevo due versioni praticamente di ogni cosa, e la cosa portava
una gran confusione: se, da un lato, avevo troppa ammirazione per papà per
pensare che mentisse, non riuscivo neppure a credere che lo facessero i miei
conoscenti, gli insegnanti e il resto del mondo. Ne avevo parlato con il mio
migliore amico, Hanno Lindemann, l'unico con cui si potessero avere discorsi
seri, e lui si era limitato a scuotere la testa:
- Stai attento, Tom, o diranno che tu e tuo padre siete dei disfattisti. -
mi aveva avvertito, prima di esporre il suo punto di vista. - Mio padre è
arruolato, e io ne sono orgoglioso, come lo sarei se potessi farlo anch'io, se
la guerra durasse abbastanza. -
Forse avrei dovuto anche io vederla così, invece di pensare solo,
egoisticamente, a me stesso...
Forse.
- Domani vi porterò dallo zio - stava continuando papà, calcandosi il
cappello sulla testa, per difendersi dal vento freddo e tagliente - Io partirò
subito dopo. -
- Domani? - ripetei, sbigottito - Già domani? -
- Mi dispiace rovinarti il compleanno, Thomas. -
- Ma... - mi interruppi, evitando di parlare delle mie paure: mi ripetei
ancora una volta i miei propositi, tirando per l'ennesima volta su col naso. Non
potevo ammettere con i miei amici che avevo pianto come una femminuccia, e,
soprattutto, che avevo paura.
Il pomeriggio dopo, poco prima del tramonto, mentre il nostro trio oltrepassava
frettolosamente la Ludwigskirche trasportando due valigie e una vecchia sacca
(che un tempo fu di mio padre, ma che lui mi regalò quella mattina), mi resi
conto che avevo pochi ricordi dello zio Edward: non lo vedevo da anni, anche
perchè abitava dalla parte opposta della città. Non era venuto al funerale della
mamma, non sapevo il nome della via in cui abitava, nè se viveva da solo.
Imboccata una piccola traversa, trovammo di fronte ad un edificio ad un piano
malridotto quanto gli altri, costruito sopra quello che un tempo era stato un
negozio di antiquariato, trasformato poco prima della guerra in libreria:
l'insegna era grossa, ma della verniciatura restavano solo poche tracce sparse.
Mio padre rinunciò all'aria di finta allegria che aveva tenuto fino ad allora, e
bussò in fretta alla pesante porta di legno a destra della vetrina,
nervosamente, come se avesse avuto paura che, aspettando, gli sarebbe mancato il
coraggio per farlo.
Pochi secondi dopo, un rumore di passi dall'interno della casa ci annunciò la
presenza di un inquilino. Per la prima volta da quattro mesi, vidi quanto di più
simile ad un vero sorriso sul volto di mio padre.
L'Edward Elric che ci aprì la porta non era poi così diverso da quello delle
foto che si trovavano in casa nostra, o da quello che riuscivo a ricordare: un
individuo piuttosto enigmatico, in contraddizione con se stesso fin nel più
piccolo particolare. A quarant'anni, ne dimostrava parecchi di meno, e si
ostinava a lasciar crescere i capelli biondi fino a doverli tenere legati in una
coda, pettinatura più unica che rara in un uomo. Indossava abiti formali, con
addirittura i guanti, ma il colletto della camicia era alzato, più per
insofferenza che per distrazione. Quando si trovò di fronte a mio padre, non
potei non notare che era più basso di metà testa, ma sembrava circondato da una
tale aura di autorità che nessuno avrebbe potuto confondere il fratello minore
col maggiore.
Sentii Lotte aggrapparsi ai pantaloni di papà e tentare di nascondersi dietro la
sua schiena: lui capì il suo disagio, e le scompigliò i ricci biondi con una
mano.
- Eccoci qui - sospirò, rivolgendosi al fratello - Ragazzi, salutate lo
zio e non fate i timidi: vi ricordate di lui, no? È venuto a trovarci per
Natale...quello di due anni fa, se non sbaglio. -
La diplomazia di mio padre: il "ragazzi" era per me, visto che da quando avevo
deciso di essere ormai grande mi infastidiva essere chiamato "bambino", mentre
l'esortazione era rivolta a Charlotte, che era timida con tutti gli adulti che
si trovava davanti, mentre io tendevo a fissare la gente in modo particolarmente
svergognato. Quella del Natale, invece, era una bugia bella e buona: Edward non
era venuto per quella ricorrenza, perchè non la festeggiava; semplicemente,
aveva voglia di vedere il fratello, e un giorno valeva l'altro.
- Al piano di sopra sono in corso le grandi pulizie - esordì mio zio,
cercando penosamente di scherzare - posso farvi accomodare solo nella libreria.
-
- Più che sufficiente. - fu la risposta di mio padre
* * *
Feci strada nel locale, ed indicai la porta del magazzino: Al, tuttavia, propose
ai suoi figli di restare a sbirciare tra gli scaffali, prima di precedermi nel
retro.
Quello che chiamavo - chiamavamo - pomposamente "magazzino" era, prima della
guerra, un prolungamento del negozio: al momento, invece, si era trasformato
nella stanza gelida e piena di spifferi in cui avevo portato un tavolo, una
sedia e, talvolta, depositavo anche la mia persona. La mia sala di lettura
personale, insomma.
Mio fratello ammirò il disordine in silenzio: qualche libro appoggiato su uno
scaffale altrimenti vuoto, il mio soprabito gettato sulla sedia quando me lo ero
tolto di dosso per andare ad aprire, il volume che stavo leggendo aperto sul
tavolo, con i miei occhiali che fungevano da segnalibro.
- Di sopra fa più caldo. - lo rassicurai, vedendolo sfregarsi le mani tra
di loro, nel tentativo di scaldarle - Io stesso scendo di rado nel mio
appartamento, per non sprecare carbone. -
- Di carta ne hai in abbondanza... - mormorò mio fratello
- Non posso, il mio locatario - nonchè datore di lavoro - non me lo
permette. -
Mio fratello stirò appena le labbra, nell'ombra di un sorriso:
- Pensavo non avessi neppure preso in considerazione l'idea di bruciare
dei libri. -
- La maggior parte di quelli contenuti qui dentro sono buoni giusto come
combustibile. - sbottai - Del resto, di questi tempi sono pochi quelli che
possono o vogliono usare i pochi soldi che hanno per dei libri. Ormai teniamo
aperto solo un paio di giorni la settimana. -
- Dunque, hai cominciato ad andare a tempo pieno dal signor Schulz? -
- Per forza: mi paga soprattutto in cibarie, il che, per certi versi, è
meglio. -
Herr Schulz era il proprietario di un podere, fuori città, a cui in
teoria tenevo in ordine i conti; in pratica, arrotondavo riparando ogni cosa si
rompesse, dal tetto ai ripiani delle cantine, e lavorando come bracciante
durante i mesi estivi.
- E i tuoi rapporti con le mucche? -
- Ci odiamo cordialmente. Il latte, comunque, ai tuoi figli non
mancherà... - aggiunsi, disgustato.
Dalla libreria giunsero le voci dei bambini. Al sorrise, con aria lugubre:
- Non tieni libri vietati tra gli scaffali, vero? - mi domandò, tentando
di fare del sarcasmo
- Nulla di sconveniente arriverà in mano ai miei nipoti. - gli promisi
Anche perchè, avevo già fatto sparire praticamente tutto.
Liberai la sedia dalla mia giacca, e feci cenno a mio fratello di sedersi: lui
scosse la testa, senza smettere di rabbrividire.
- Non mi tratterrò a lungo, giusto il tempo di salutare Thomas e Lotte. -
cominciò a frugare nelle tasche dei pantaloni, per poi estrarne un rettangolo di
carta stropicciato - Questo è il recapito dove scrivermi. -
Non degnai di un'occhiata nè il numero del reggimento, nè la macchia umida che
aveva fatto sbavare una parte dell'inchiostro: appoggiai il ritaglio sul libro
aperto, meccanicamente, per poi tornare a fissare mio fratello
- Pensavo che ormai fosse finita... - disse, più a se stesso che a me - e
poi, non avevano mai arruolato nessuno del laboratorio. Invece... -
- Al... - mi
bloccai, accorgendomi di non sapere cosa dirgli: riguardati? Stai attento? Che
idiozia, stava andando al fronte!
- Tieni i ragazzi lontani dai guai. - mi interruppe lui, con voce rotta,
soffocando a stento un singhiozzo.
- Era scontato. - gli risposi, brusco. - Pensavo ti fidassi di me. -
- Conosco le tue innate capacità di procurarti delle grane. - mi disse,
passandosi una mano sugli occhi - Ho saputo perchè non sei venuto al funerale di
Caroline. -
- Nulla di cui tu debba preoccuparti, ho avuto dei problemi quella
mattina... -
- Nella fattispecie, una scazzottata nel vicolo? -
Sobbalzai, preso in fallo. Speravo che quella faccenda non arrivasse alle sue
orecchie, ma, a quanto pareva, vivevo circondato da una manica di pettegoli
disposti a vendere le loro madri pur di far sapere al mondo intero cosa
combinavano gli inquilini delle case a fianco e, soprattutto, quando e in che
modo si cacciavano nei pasticci. Quel giorno avevo abbozzato una scusa, ma, per
avvertire mio fratello, avevo dovuto aspettare innanzitutto di rinvenire, e poi
che la mia guancia sinistra si sgonfiasse abbastanza da permettermi di parlare
senza che il mio interlocutore credesse che io avessi una cucchiaiata di
minestra bollente in bocca.
- Il fatto che io non sia simpatico al vicinato, non significa che i
bambini corrano pericoli. - brontolai
Al sospirò, scoraggiato.
- Ed, hai una minima idea di cosa significhi un'accusa di disfattismo, di
questi tempi? Se... -
- Non farmi la predica, lo so. -
Lui scosse la testa, visibilmente demoralizzato. Doveva essersi già pentito
della sua scelta, perchè aggiunse: - Non vi conoscete molto, è vero, ma sei
l'unico parente stretto a cui posso lasciare Thomas e Lotte: non vedo mio
suocero da settimane...e, del resto, sai in che rapporti sono con lui. -
Certo che lo sapevo: Karl Heinrich era stato il mio datore di lavoro, il
direttore del laboratorio in cui io lavoravo come chimico e Al come biologo. Lui
stesso era stipendiato da un qualche riccastro che doveva averlo nominato in un
momento di sconsideratezza, ma comunque guadagnava abbastanza bene da non
prendere con filosofia il fatto che sua figlia si fosse sposata con un
dipendente, un uomo senza un buon patrimonio. Aveva tentato di farle cambiare
idea prima con le lusinghe, poi con le minacce; Caroline Heinrich, tuttavia,
aveva continuato per la sua strada.
Ho sempre apprezzato mia cognata.
Nel 1933, mentre la Germania ancora risentiva del crollo della Borsa di New York
e la disoccupazione aumentava esponenzialmente, era nato Thomas, e quel vecchio
infame di Heinrich, diviso tra la preoccupazione per l'avvenire della sua
bambina e il disprezzo nei confronti di suo genero e di tutta la sua lurida
parentela, arrivò ad una soluzione che a lui parve accettabile: nominò Alphonse
suo vice e licenziò in tronco me, costringendomi ad un decennio di instabilità,
in cui avevo fatto ogni sorta di lavoro e mi ero spostato per mezzo mondo.
Devo dire che non gli ero mai riuscito simpatico.
- Al - dissi, guardandolo negli occhi - Ti prometto che andrà tutto bene.
Non preoccuparti per i bambini, non gli succederà nulla. -
Lui si passò una mano sulla fronte, con aria stanca.
- Grazie. -
Aprì la porta, e andò dai bambini: erano impegnati a passare in rassegna i
libri, ma appena videro il padre gli andarono incontro, mentre la piccola faceva
scivolare la mano in quella del fratello.
Non credo che Al avesse la voglia nè la forza di fare lunghi discorsi: si limitò
ad abbracciarli entrambi per alcuni minuti. I suoi singhiozzi vennero coperti
solo parzialmente da quelli della piccola Charlotte.
- Fai la brava, Lotte. - sussurrò, accarezzando la testa della figlia -
Buon compleanno, Thomas. -
Alzandosi, si voltò ancora una volta verso di me, facendomi solo un cenno col
capo. Risposi alzando leggermente la mano, mentre un fastidioso bruciore agli
angoli degli occhi mi costringeva a sbattere più volte le ciglia.
* * *
Quando l'alta figura di mio padre sparì oltre la porta della libreria, mi sentii
soffocare, al pensiero di essere rimasto solo. Mi sembrava di essere un puntino
nell'Universo, e la sola idea mi dava le vertigini.
Per non pensarci, tentai di calmare Charlotte con qualche moina: Edward, dopo
alcuni istanti in cui rimase a fissare la porta senza realmente vederla, venne
riscosso da alcuni tonfi sordi provenienti dal piano di sopra, che mi fecero
sobbalzare ed interruppero i lamenti di mia sorella.
- Le pulizie sono finite - esordì Ed - Possiamo salire in casa a
scaldarci: magari anche a mettere qualcosa sotto i denti...avete già cenato? -
- No, zio. - risposi
Lui portò le mani sui fianchi, facendo una smorfia: avevo già fatto una gaffe.
- Niente "zio". - disse - Edward, o Ed, vanno benissimo. -
Non lo conoscevo molto bene, ma tentai lo stesso di fare del sarcasmo:
- Va bene, zio Edward. - ghignai
Lui mi folgorò con lo sguardo, ma non sembrava particolarmente offeso.
Quella del nome fu solo una delle tante stranezze che scoprii, da quel giorno in
poi, nel mio eccentrico parente; all'epoca, non riuscii a darmi una spiegazione
su quel bislacco ordine, ma oggi, che sono a mia volta zio (e prozio, ahimè!),
posso tentare un'ipotesi: la parola "zio" lo faceva sentire vecchio.
Lo stesso motivo per cui, adesso, rifiuta di farsi chiamare "nonno" e
"bisnonno", anche se non lo ammetterebbe mai.
La palazzina, ci spiegò Edward mentre uscivamo da una porta laterale e ci
immettevamo in un atrio piuttosto buio, era di proprietà di un'unica famiglia,
ma si componeva di due appartamenti: il più piccolo, di fianco al negozio, era
quello che aveva in affitto. Nell'altro, al primo piano, abitava il padrone di
casa e, da un paio d'anni, ci dormiva anche lui.
- Per risparmiare. - ipotizzai
Ed confermò, mentre cercava alla cieca l'interruttore per accendere la luce
nell'atrio: Lotte tastò con il piede il primo gradino della scala che portava ai
piani superiori.
- Come sono vecchi... - esclamò, notando l'ansa che cominciavano a fare,
causata da anni e anni di scarpe che passavano continuamente.
- Ah, ma allora ce l'hai ancora la lingua. - la presi in giro
Finalmente, Ed si arrese all'evidenza che non c'era elettricità, e iniziò a
salire le scale a tentoni, tenendoci per mano.
- Il palazzo è uno dei più antichi della zona. - le disse lo zio - La
famiglia di antiquari era piuttosto ricca; ora, però, il capofamiglia è in
guerra, e c'è solo la figlia a controllare che io non ritardi il pagamento -
Un rumore ci fece alzare la testa. Sobbalzai, notando per la prima volta una
ragazza, poco più anziana di me, che ci fissava dalla tromba delle scale: doveva
aver seguito tutta la conversazione, in maniera così silenziosa che non avevo
neppure sospettato la presenza di un'altra persona.
- Ecco, lei è Margarethe - esclamò Edward - Abita con me...o meglio, io
abito con lei, visto che le pago l'affitto. È una persona molto discreta: non
spaventatevi se ve la troverete alle spalle senza che ve ne accorgiate. A me
capitava spesso, e ancora non capisco come riesca a non far scricchiolare le
assi del pavimento! -
Salendo le scale con gli altri, riuscii a vederla abbastanza bene, grazie alla
luce della torcia che teneva in mano, e non potei trattenermi dal pensare che,
anche nell'aspetto, Margarethe sembrava fatta apposta per non essere notata:
aveva un volto anonimo, nè brutto nè bello, con gli occhi scuri e i capelli
castani, e arti così magri da sembrare di vetro.
Lotte, sempre molto più espansiva con i ragazzi piuttosto che con gli adulti, le
sorrise:
- Ciao! - esclamò - Molto piacere: io mi chiamo Charlotte. Lui è mio
fratello, si chiama Thomas. -
La giovane si limitò ad abbassare il capo, in cenno di saluto; Ed, notando la
perplessità di mia sorella, che temeva di averla offesa, le mise una mano sulla
spalla, ridendo:
- Non ti preoccupare, anche lei è felice di fare la tua conoscenza. Però,
- aggiunse - tra i molti pregi di Margarethe, c'è quello del silenzio. -
Non so se mia sorella comprese subito quel che voleva dire: per quel che mi
riguarda, devo ammettere che solo notando la lavagnetta che pendeva dal fianco
della giovane riuscii a capire che era muta.
* * *
Sentivo puzza di guai. Non per colpa di qualcuno in particolare, ma per la
situazione che si era creata. Bastava guardare in faccia il ragazzino, il
maggiore, per capire che era il nipote di Edward: oltre all'aspetto fisico molto
simile, aveva quello sguardo fiero, selvaggio e (devo pur ammetterlo) arrogante
tipico del signor Elric. La bambina, invece, pur essendo così irruente, aveva
gli occhi dolci del fratello di Edward, l'uomo con cui i due erano arrivati e
che era venuto a trovarci quasi ogni giorno, nelle ultime settimane: i ricci
biondi e le lentiggini, invece, doveva averli presi dalla madre, perchè erano
estranei agli Elric.
Non potei fare a meno di chiedermi come avrebbero convissuto due persone come
Edward e Thomas, ma sperai che la piccola Charlotte fosse abituata al carattere
del fratello.
La risposta arrivò prestissimo: per essere precisi, durante la cena.
Si arrivò in argomento in modo del tutto innocente: Thomas chiese allo zio il
biglietto su cui suo padre aveva segnato il recapito a cui inviare le lettere.
- Ce l'ho nella giacca. - fu la risposta
- Possiamo scrivergli già domani? - domandò Lotte, tirando le bretelle del
fratello
- Per me va bene... - il ragazzino s'interruppe per sorbire una
cucchiaiata di minestra - Ottima, Margarethe! -
Grazie, scrissi in fretta.
- Una volta - riprese la bambina - ho visto la lettera che il padre di una
mia amica aveva scritto alla famiglia: era tutta cancellata da righe nere. -
- Forse - ipotizzò il fratello, in un goffo tentativo di spiegazione -
Aveva detto delle cose non vere... -
- È più probabile che avesse detto troppe cose vere. - ribattè l'uomo,
acido.
Ahia, pensai. Ci siamo. Colpii con il palmo della mano il braccio di Edward,
seduto alla mia destra, per farlo tacere, ma era decisamente troppo tardi.
Thomas, infatti, non prese bene l'affermazione.
- Cosa vuoi dire? - chiese, asciutto
- Che non sarebbe una bella pubblicità, per il Reich, se i soldati
tedeschi descrivessero come vivono e muoiono, o avvertissero le famiglie che la
guerra è ormai persa... -
- La guerra non è persa. - lo interruppe Thomas - Altrimenti non
continuerebbero ad arruolare persone. -
- Io direi che il fatto che si continui a cercare carne da macello sia un
indizio lampante di come vada la faccenda. Tuttavia, è da un po' che non ascolto
la radio tedesca: probabilmente, lì stiamo ancora vincendo. -
Charlotte ed io appoggiammo il cucchiaio nel piatto, perplessa lei, preoccupata
io: cercai lo sguardo del signor Elric, per pregarlo di smetterla, ma lui
continuava a mangiare come se nulla fosse. Thomas, al contrario, sembrava
profondamente offeso dalle sue parole.
- Immagino tu sia molto più informato di me sulla vita al fronte. -
ribattè, sarcastico - Quando ci sei stato? -
Ovviamente, conosceva benissimo la risposta
- Non ci sono mai stato. - rispose Ed, fingendo grande calma
- E perchè, se posso saperlo? -
- È una lunga storia...diciamo che ho fatto un favore al figlio di un
personaggio influente. -
Sospirai. Parlare di favore era decisamente un eufemismo, visto che il signor
Elric salvò la vita di quel bambino: me lo ricordo, era il 1934, ed era appena
venuto a vivere in affitto da noi, anche se passava molto tempo fuori,
nell'eterna caccia ad un impiego.
- In che senso? - domandò timidamente Lotte
- L'ho tirato fuori dai rottami di una macchina, nulla di più! - sbottò Ed
- Non è difficile, quando hai un braccio d'acciaio! -
La vicenda fu molto più complessa: fui io stessa a raccontarla ai piccoli Elric,
in seguito.
Era dicembre, e aveva nevicato da poco, lasciando la strada coperta da quel
sottile strato di ghiaccio e neve pigiata che la rende così pericolosa.
Infatti, avevamo aperto il negozio da poco più di due ore, quando sentimmo un
rumore di freni, seguito da uno schianto: io, che all'epoca avevo sette anni,
mio padre e il signor Elric, come molte altre persone, uscimmo in strada per
vedere cosa era accaduto.
A prima vista, non sembrò nulla di particolarmente grave: sì, la bella macchina
si era accartocciata contro un muro, finendo per somigliare a quella fisarmonica
che, all'epoca, avevamo in vetrina, ma l'uomo dai grandi baffi biondi alla guida
era fuori, che le correva intorno, illeso.
Fu Edward ad avvicinarglisi, e a capire per primo cos'era successo: l'uomo non
cercava di attirare l'attenzione sulla macchina sfasciata, ma sul bambino
incastrato all'interno.
- Ho aperto la portiera, ma non riesco ad infilare le mani tra le lamiere
- gli gridò il padre, disperato
L'allora trentenne Edward Elric si sporse, per vedere il ragazzino: era minuto,
con i capelli biondi che si rizzavano leggermente sulla fronte.
- Ti sei fatto male da qualche parte? - gli domandò
Lui si limitò a tirare su col naso. Ed tentò di sorridergli.
- Coraggio...come ti chiami? -
- Klaus. -
- Va bene, Klaus...ti fa male da qualche parte? -
Il bambino scosse la testa: - Ho i piedi bloccati - si lamentò
- Non stento a crederlo... - mormorò Edward, notando che i sedili davanti,
accartocciandosi, lo avevano intrappolato.
Come al solito, decise di fare a modo suo: infilò il braccio destro tra i
rottami e, non potendo affidarsi al tatto, lo usò come metro, per stabilire fino
dove fossero incastrate le gambe del bambino. Riuscì ad arrivare fin quasi alle
caviglie, e la cosa lo confortò.
- Bene, Klaus. - annunciò - Ora cercherò di tirarti fuori: se ti faccio
male, avvertimi. -
Lavorò di buona lena, chiacchierando allegramente con il piccolo: quanti anni
hai? Undici? E che scuola fai? Non la conosco, in che via si trova?
Mentre il padre finiva di mangiarsi le unghie per l'agitazione, finalmente
l'attesa ebbe termine: Ed riuscì, grazie alla protesi d'acciaio, ad aprirsi un
varco tra le lamiere abbastanza grande da permettere a Klaus di spostare le
gambe ed uscire dai rottami della vettura.
Il padre, rabbrividendo, dopo aver controllato la salute del figlio si rivolse
ad Ed:
- Non so come ringraziarvi...- balbettò - davvero, sembrerà la frase più
scontata, ma... -
Fece per tirare fuori il portafoglio, ma l'altro lo fermò:
- Non voglio soldi - lo prevenne, ruvido
- Come si chiama? -
- Edward Elric. -
- Herr Elric,un giorno la ripagherò. E sappia che non è abitudine
della famiglia Holze dimenticare le promesse. -
Alzò il braccio nel saluto nazista, imitato docilmente dal figlio: Ed, suo
malgrado si irrigidì, ma nessuno parve notarlo. Anche perchè, l'occhio del
signor Holze era caduto sul braccio metallico dell'uomo.
Thomas, durante quella maledetta cena, non parve troppo colpito dalla frase
dello zio: ovviamente, non conoscendo tutta la vicenda.
- E allora, cosa c'entra tutto ciò con l'arruolamento? - chiese
In effetti, Ed ricevette la lettera di precetto già nel 1940, appena ritornato
da uno dei suoi viaggi: e, decisamente, non disertò solo per timore di
ritorsioni contro suo fratello Alphonse e la sua famiglia.
Eppure, si rese presto conto che qualcosa non quadrava: alla visita medica, gli
fecero sapere che il dottore voleva vederlo prima, da solo. Edward rabbrividì:
anche se doveva ammettere che non gli avrebbe fatto piacere mostrare gli arti
artificiali a chissà quante persone, con tutte le domande che questi avrebbero
sollevato, la situazione era quantomeno singolare.
- Signor Elric? -
Alle sue spalle, era entrato il medico: un uomo robusto, con grandi baffoni
color grano.
- Posso sapere perchè sono stato mandato qui? - chiese Ed, tentando di
sembrare educato e, di fatto, riuscendo incredibilmente sfacciato.
- Perchè l'ho chiesto io - rispose l'altro, sornione
Gli tese la mano: - Dottor Georg Holze. Le ho fatto una promessa, ricorda? -
Edward trasalì, riconoscendo il padre del piccolo Klaus, e comprendendo il
perchè del saluto ricevuto anni prima; dopo alcuni istanti, riuscì a riprendersi
abbastanza per stringergli la mano.
- Dunque, se non ricordo male, lei ha un braccio destro un po'
particolare...è una protesi? -
- Sì. -
- Fin dove arriva? -
- Fino alla spalla. -
- Posso vederla? -
Il dottor Holze rimase affascinato da quello che definì "l'opera di un genio".
- Non è tedesca, vero? -
- No. -
- Altre protesi? -
- La gamba sinistra. -
Il medico fischiò: - Una vita movimentata, eh? -
Si sedette dietro la scrivania, grattandosi la tempia con una penna, come uno
studente che non sappia cosa scrivere:
- Allora...da quel che ho potuto vedere, lei risulta totalmente privo di
un braccio e di buona parte di una gamba, mi corregga se sbaglio. -
- No, è esatto. -
- Quindi... - l'uomo alzò lo sguardo, sorridendo leggermente - non posso
certo mandare al fronte un menomato, no? -
Edward lo fissò, chiedendosi se quello fosse un insulto. Tuttavia, nelle
intenzioni di Georg Holze non c'era l'offesa, anzi.
- Signor Elric, - annunciò, alzandosi - lei è inabile a combattere. Spero
che questo basti a ringraziarla per aver salvato mio figlio, sei anni fa. -
Ignaro della vicenda, Thomas sembrava decisamente disgustato.
- Questa è un'azione da vigliacchi! Che ringraziamento è? - domandò
- Forse anche un altro medico l'avrebbe fatto: il dottor Holze non fece
domande, è questo il punto. - rispose Ed
- Ciò non toglie che tu non sei mai andato in guerra, quindi non puoi
sputare sentenze come se sapessi tutto! -
Il bicchiere di Edward tremò tra le sue mani, prima che questi lo appoggiasse
bruscamente sul tavolo.
- Il fatto che non abbia partecipato a questa guerra non vuol dire
che non ne sappia niente. E comunque - riprese, alzando la voce - credo di
saperne di più di un bambino che è cresciuto con le sciocchezze della
propaganda! -
- Allora cosa andrebbero a farci i nostri soldati in guerra, se non
proteggere la patria e renderla grande? - esplose Thomas
- Vanno a morire, oppure ad uccidere dei perfetti sconosciuti che, per un
puro caso, hanno la divisa diversa dalla loro! -
- Stai dicendo che papà è un comune assassino! -
- No, questo no: come so che io sarei inutile alla guerra, perchè non
sparerei mai, conosco abbastanza bene tuo padre da sapere che preferirebbe farsi
uccidere, piuttosto che ammazzare l'uomo che gli sta di fronte! -
Gli occhi di Charlotte si riempirono di lacrime, mentre io tentavo di fermare i
due: proprio in quel momento, tuttavia, Thomas balzò in piedi, furibondo.
- Sei un codardo! - gli gridò - Sei un codardo, e di mio padre non te ne
importa niente! -
Incurante della sedia caduta per terra, corse nella sua camera e si sbattè la
porta alle spalle.
* * *
Pensierino della buonanotte:
Se già il primo capitolo mi dà così
tante grane, non voglio sapere cosa farò con gli ultimi!
Il litigio mi lascia molti dubbi: nella mia mente funziona benissimo, ma non so
se per il lettore è altrettanto comprensibile; la mia idea si basava sul fatto
che, se Thomas parte da presupposti totalmente errati, dettati dalla propaganda,
anche Edward ha la sua parte di responsabilità, in quanto, pur avendo ragione,
parla con troppa arroganza. In realtà, temo che anche tutto il racconto di
Margarethe appesantisca lo scambio di battute: in effetti, inizialmente si
trovava nel secondo capitolo, ed era Thomas a raccontarlo, dopo averlo sentito
da Charlotte. In linea teorica funzionava meglio, in pratica non mi convinceva:
una storia narrata da un personaggio, a cui è stata raccontata da un altro, a
cui a sua volta è stata narrata da terzi perde credibilità.
A proposito: no. Il soprannome di Charlotte, Lotte, NON viene da Un ciclone
in convento, ma da I dolori del giovane Werter, di Goethe. Me l'ha
già chiesto talmente tanta gente, che ho anche pensato di cambiarle nome.