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Autore: Rika88    20/05/2007    14 recensioni
Gennaio 1945: in una Germania devastata, Alphonse Elric, arruolato per una guerra ormai persa, lascia i figli a casa del fratello Edward. Tuttavia, come Thomas e Charlotte Elric scopriranno presto, i problemi non si limitano alla difficile convivenza tra due caratteri troppo simili, come quelli del bambino e di Ed: l'abitazione e la libreria sotto di essa sono il fulcro di un movimento incessante e, forse, anche pericoloso.
Genere: Malinconico, Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Alphonse Elric, Edward Elric, Sorpresa
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
Capitoli:
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München, 1945


    1. Il peggior compleanno

Sospettavo che quella gita nascondesse qualcosa, a dire il vero.
Quando mio padre, Alphonse Elric, venne a svegliarmi con una scrollata troppo energica per un uomo solitamente così calmo, risposi con un grugnito di disappunto, tentando di infilarmi di nuovo sotto le coperte.
 - Alzati e vestiti, pigrone - mi disse, in fretta - Andiamo a trovare la mamma. -
 - E dobbiamo farlo proprio a quest'ora del mattino? - chiesi, alzando controvoglia la testa dal cuscino.
Lui mi porse i vestiti con un gesto secco. Misi a fuoco il suo volto quel tanto che bastava per riconoscervi un profondo turbamento: se fosse paura di qualcosa, fretta o altro, non riuscii ad identificarlo sul momento.
 - Oggi sarebbe stato il suo compleanno, ricordi? - mi rispose pazientemente.
Buona scusa, senza dubbio; di solito, per il compleanno della mamma, io, papà e mia sorella minore Charlotte svolgevamo tutti i lavori di casa, per farla riposare, e io facevo lo sforzo di evitare commenti: infatti, per una strana casualità, sono nato il giorno dopo il suo compleanno. Ma nessuno lo trovava un motivo valido per esonerarmi dalle faccende domestiche o dai compiti.
Quel venti gennaio 1945, per la prima volta, potemmo soltanto rimanercene in piedi di fronte alla sua tomba, nel cimitero che la nebbiolina umida rendeva più lugubre di quanto già non fosse, almeno agli occhi di un bambino quale io ero.
Lanciai un'ennesima occhiata a mio padre, il cui volto era in buona parte nascosto dal cappello e dal bavero del cappotto. Stringeva le labbra fino a farle quasi sparire, e spostava il peso del corpo da un piede all'altro, ansiosamente, come chi deve dire qualcosa di molto importante.
Angoscia, ecco cosa rifletteva il suo volto, decisi finalmente.
 - Thomas, Lotte... - iniziò, lentamente - devo dirvi una cosa. -
Noi ci irrigidimmo, preoccupati dal suo tono: mia sorella si aggrappò alla sua mano, mentre io fissai lo sguardo oltre la lapide con il nome di Caroline Heinrich, mia madre.
 - Non siamo venuti qui solo per il compleanno della mamma, vero? - chiesi
Lui si voltò verso di me per un istante, per poi tornare a fissare la nebbia, sospirando. Finalmente, si decise a parlare:
 - Thomas, sai cos'è una cartolina di precetto? - domandò
Presi un respiro profondo, afferrando la situazione.
 - Sì. -
 - Io no. - si intromise mia sorella, offesa dal fatto che la stavamo tagliando fuori dalla conversazione
 - Vuol dire che deve partire per la guerra, Lotte. - risposi per lui, con tono acido
Lei lo guardò, con gli occhi sgranati per lo stupore
 - Ci...ci lasci da soli? -
Nostro padre si accosciò, per guardarla in faccia.
 - No, Lotte. Voi rimarrete per qualche tempo da vostro zio, fino al mio ritorno. Sarà... - tentò di sorridere - una specie di vacanza. Ti ricordi di Edward, no? -
Io rimasi in silenzio, guardando la disperazione che traspariva dal volto di mio padre: tirai su col naso, e mi imposi di non piangere.
Avrei compiuto dodici anni di lì a poche ore: inutile dire, quindi, che non comprendevo nè m'interessavo alla politica. Della guerra, avevo sentito due versioni: quella della radio, dei giornali e della scuola (quando ancora era aperta), fatta di onore e gloria e sacrificio per la Patria, per il Reich; e quella di mio padre, raccapricciante e senza senso.
A dirla tutta, avevo due versioni praticamente di ogni cosa, e la cosa portava una gran confusione: se, da un lato, avevo troppa ammirazione per papà per pensare che mentisse, non riuscivo neppure a credere che lo facessero i miei conoscenti, gli insegnanti e il resto del mondo. Ne avevo parlato con il mio migliore amico, Hanno Lindemann, l'unico con cui si potessero avere discorsi seri, e lui si era limitato a scuotere la testa:
 - Stai attento, Tom, o diranno che tu e tuo padre siete dei disfattisti. - mi aveva avvertito, prima di esporre il suo punto di vista. - Mio padre è arruolato, e io ne sono orgoglioso, come lo sarei se potessi farlo anch'io, se la guerra durasse abbastanza. -
Forse avrei dovuto anche io vederla così, invece di pensare solo, egoisticamente, a me stesso...
Forse.
 - Domani vi porterò dallo zio - stava continuando papà, calcandosi il cappello sulla testa, per difendersi dal vento freddo e tagliente - Io partirò subito dopo. -
 - Domani? - ripetei, sbigottito - Già domani? -
 - Mi dispiace rovinarti il compleanno, Thomas. -
 - Ma... - mi interruppi, evitando di parlare delle mie paure: mi ripetei ancora una volta i miei propositi, tirando per l'ennesima volta su col naso. Non potevo ammettere con i miei amici che avevo pianto come una femminuccia, e, soprattutto, che avevo paura.

Il pomeriggio dopo, poco prima del tramonto, mentre il nostro trio oltrepassava frettolosamente la Ludwigskirche trasportando due valigie e una vecchia sacca (che un tempo fu di mio padre, ma che lui mi regalò quella mattina), mi resi conto che avevo pochi ricordi dello zio Edward: non lo vedevo da anni, anche perchè abitava dalla parte opposta della città. Non era venuto al funerale della mamma, non sapevo il nome della via in cui abitava, nè se viveva da solo.
Imboccata una piccola traversa, trovammo di fronte ad un edificio ad un piano malridotto quanto gli altri, costruito sopra quello che un tempo era stato un negozio di antiquariato, trasformato poco prima della guerra in libreria: l'insegna era grossa, ma della verniciatura restavano solo poche tracce sparse.
Mio padre rinunciò all'aria di finta allegria che aveva tenuto fino ad allora, e bussò in fretta alla pesante porta di legno a destra della vetrina, nervosamente, come se avesse avuto paura che, aspettando, gli sarebbe mancato il coraggio per farlo.
Pochi secondi dopo, un rumore di passi dall'interno della casa ci annunciò la presenza di un inquilino. Per la prima volta da quattro mesi, vidi quanto di più simile ad un vero sorriso sul volto di mio padre.
L'Edward Elric che ci aprì la porta non era poi così diverso da quello delle foto che si trovavano in casa nostra, o da quello che riuscivo a ricordare: un individuo piuttosto enigmatico, in contraddizione con se stesso fin nel più piccolo particolare. A quarant'anni, ne dimostrava parecchi di meno, e si ostinava a lasciar crescere i capelli biondi fino a doverli tenere legati in una coda, pettinatura più unica che rara in un uomo. Indossava abiti formali, con addirittura i guanti, ma il colletto della camicia era alzato, più per insofferenza che per distrazione. Quando si trovò di fronte a mio padre, non potei non notare che era più basso di metà testa, ma sembrava circondato da una tale aura di autorità che nessuno avrebbe potuto confondere il fratello minore col maggiore.
Sentii Lotte aggrapparsi ai pantaloni di papà e tentare di nascondersi dietro la sua schiena: lui capì il suo disagio, e le scompigliò i ricci biondi con una mano.
 - Eccoci qui - sospirò, rivolgendosi al fratello - Ragazzi, salutate lo zio e non fate i timidi: vi ricordate di lui, no? È venuto a trovarci per Natale...quello di due anni fa, se non sbaglio. -
La diplomazia di mio padre: il "ragazzi" era per me, visto che da quando avevo deciso di essere ormai grande mi infastidiva essere chiamato "bambino", mentre l'esortazione era rivolta a Charlotte, che era timida con tutti gli adulti che si trovava davanti, mentre io tendevo a fissare la gente in modo particolarmente svergognato. Quella del Natale, invece, era una bugia bella e buona: Edward non era venuto per quella ricorrenza, perchè non la festeggiava; semplicemente, aveva voglia di vedere il fratello, e un giorno valeva l'altro.
 - Al piano di sopra sono in corso le grandi pulizie - esordì mio zio, cercando penosamente di scherzare - posso farvi accomodare solo nella libreria. -
 - Più che sufficiente. - fu la risposta di mio padre

* * *


Feci strada nel locale, ed indicai la porta del magazzino: Al, tuttavia, propose ai suoi figli di restare a sbirciare tra gli scaffali, prima di precedermi nel retro.
Quello che chiamavo - chiamavamo - pomposamente "magazzino" era, prima della guerra, un prolungamento del negozio: al momento, invece, si era trasformato nella stanza gelida e piena di spifferi in cui avevo portato un tavolo, una sedia e, talvolta, depositavo anche la mia persona. La mia sala di lettura personale, insomma.
Mio fratello ammirò il disordine in silenzio: qualche libro appoggiato su uno scaffale altrimenti vuoto, il mio soprabito gettato sulla sedia quando me lo ero tolto di dosso per andare ad aprire, il volume che stavo leggendo aperto sul tavolo, con i miei occhiali che fungevano da segnalibro.
 - Di sopra fa più caldo. - lo rassicurai, vedendolo sfregarsi le mani tra di loro, nel tentativo di scaldarle - Io stesso scendo di rado nel mio appartamento, per non sprecare carbone. -
 - Di carta ne hai in abbondanza... - mormorò mio fratello
 - Non posso, il mio locatario - nonchè datore di lavoro - non me lo permette. -
Mio fratello stirò appena le labbra, nell'ombra di un sorriso:
 - Pensavo non avessi neppure preso in considerazione l'idea di bruciare dei libri. -
 - La maggior parte di quelli contenuti qui dentro sono buoni giusto come combustibile. - sbottai - Del resto, di questi tempi sono pochi quelli che possono o vogliono usare i pochi soldi che hanno per dei libri. Ormai teniamo aperto solo un paio di giorni la settimana. -
 - Dunque, hai cominciato ad andare a tempo pieno dal signor Schulz? -
 - Per forza: mi paga soprattutto in cibarie, il che, per certi versi, è meglio. -
Herr Schulz era il proprietario di un podere, fuori città, a cui in teoria tenevo in ordine i conti; in pratica, arrotondavo riparando ogni cosa si rompesse, dal tetto ai ripiani delle cantine, e lavorando come bracciante durante i mesi estivi.
 - E i tuoi rapporti con le mucche? -
 - Ci odiamo cordialmente. Il latte, comunque, ai tuoi figli non mancherà... - aggiunsi, disgustato.
Dalla libreria giunsero le voci dei bambini. Al sorrise, con aria lugubre:
 - Non tieni libri vietati tra gli scaffali, vero? - mi domandò, tentando di fare del sarcasmo
 - Nulla di sconveniente arriverà in mano ai miei nipoti. - gli promisi
Anche perchè, avevo già fatto sparire praticamente tutto.
Liberai la sedia dalla mia giacca, e feci cenno a mio fratello di sedersi: lui scosse la testa, senza smettere di rabbrividire.
 - Non mi tratterrò a lungo, giusto il tempo di salutare Thomas e Lotte. - cominciò a frugare nelle tasche dei pantaloni, per poi estrarne un rettangolo di carta stropicciato - Questo è il recapito dove scrivermi. -
Non degnai di un'occhiata nè il numero del reggimento, nè la macchia umida che aveva fatto sbavare una parte dell'inchiostro: appoggiai il ritaglio sul libro aperto, meccanicamente, per poi tornare a fissare mio fratello
 - Pensavo che ormai fosse finita... - disse, più a se stesso che a me - e poi, non avevano mai arruolato nessuno del laboratorio. Invece... -

 - Al... - mi bloccai, accorgendomi di non sapere cosa dirgli: riguardati? Stai attento? Che idiozia, stava andando al fronte!
 - Tieni i ragazzi lontani dai guai. - mi interruppe lui, con voce rotta, soffocando a stento un singhiozzo.
 - Era scontato. - gli risposi, brusco. - Pensavo ti fidassi di me. -
 - Conosco le tue innate capacità di procurarti delle grane. - mi disse, passandosi una mano sugli occhi - Ho saputo perchè non sei venuto al funerale di Caroline. -
 - Nulla di cui tu debba preoccuparti, ho avuto dei problemi quella mattina... -
 - Nella fattispecie, una scazzottata nel vicolo? -
Sobbalzai, preso in fallo. Speravo che quella faccenda non arrivasse alle sue orecchie, ma, a quanto pareva, vivevo circondato da una manica di pettegoli disposti a vendere le loro madri pur di far sapere al mondo intero cosa combinavano gli inquilini delle case a fianco e, soprattutto, quando e in che modo si cacciavano nei pasticci. Quel giorno avevo abbozzato una scusa, ma, per avvertire mio fratello, avevo dovuto aspettare innanzitutto di rinvenire, e poi che la mia guancia sinistra si sgonfiasse abbastanza da permettermi di parlare senza che il mio interlocutore credesse che io avessi una cucchiaiata di minestra bollente in bocca.
 - Il fatto che io non sia simpatico al vicinato, non significa che i bambini corrano pericoli. - brontolai
Al sospirò, scoraggiato.
 - Ed, hai una minima idea di cosa significhi un'accusa di disfattismo, di questi tempi? Se... -
 - Non farmi la predica, lo so. -
Lui scosse la testa, visibilmente demoralizzato. Doveva essersi già pentito della sua scelta, perchè aggiunse: - Non vi conoscete molto, è vero, ma sei l'unico parente stretto a cui posso lasciare Thomas e Lotte: non vedo mio suocero da settimane...e, del resto, sai in che rapporti sono con lui. -
Certo che lo sapevo: Karl Heinrich era stato il mio datore di lavoro, il direttore del laboratorio in cui io lavoravo come chimico e Al come biologo. Lui stesso era stipendiato da un qualche riccastro che doveva averlo nominato in un momento di sconsideratezza, ma comunque guadagnava abbastanza bene da non prendere con filosofia il fatto che sua figlia si fosse sposata con un dipendente, un uomo senza un buon patrimonio. Aveva tentato di farle cambiare idea prima con le lusinghe, poi con le minacce; Caroline Heinrich, tuttavia, aveva continuato per la sua strada.
Ho sempre apprezzato mia cognata.
Nel 1933, mentre la Germania ancora risentiva del crollo della Borsa di New York e la disoccupazione aumentava esponenzialmente, era nato Thomas, e quel vecchio infame di Heinrich, diviso tra la preoccupazione per l'avvenire della sua bambina e il disprezzo nei confronti di suo genero e di tutta la sua lurida parentela, arrivò ad una soluzione che a lui parve accettabile: nominò Alphonse suo vice e licenziò in tronco me, costringendomi ad un decennio di instabilità, in cui avevo fatto ogni sorta di lavoro e mi ero spostato per mezzo mondo.
Devo dire che non gli ero mai riuscito simpatico.
 - Al - dissi, guardandolo negli occhi - Ti prometto che andrà tutto bene. Non preoccuparti per i bambini, non gli succederà nulla. -
Lui si passò una mano sulla fronte, con aria stanca.
 - Grazie. -
Aprì la porta, e andò dai bambini: erano impegnati a passare in rassegna i libri, ma appena videro il padre gli andarono incontro, mentre la piccola faceva scivolare la mano in quella del fratello.
Non credo che Al avesse la voglia nè la forza di fare lunghi discorsi: si limitò ad abbracciarli entrambi per alcuni minuti. I suoi singhiozzi vennero coperti solo parzialmente da quelli della piccola Charlotte.
 - Fai la brava, Lotte. - sussurrò, accarezzando la testa della figlia - Buon compleanno, Thomas. -
Alzandosi, si voltò ancora una volta verso di me, facendomi solo un cenno col capo. Risposi alzando leggermente la mano, mentre un fastidioso bruciore agli angoli degli occhi mi costringeva a sbattere più volte le ciglia.

* * *


Quando l'alta figura di mio padre sparì oltre la porta della libreria, mi sentii soffocare, al pensiero di essere rimasto solo. Mi sembrava di essere un puntino nell'Universo, e la sola idea mi dava le vertigini.
Per non pensarci, tentai di calmare Charlotte con qualche moina: Edward, dopo alcuni istanti in cui rimase a fissare la porta senza realmente vederla, venne riscosso da alcuni tonfi sordi provenienti dal piano di sopra, che mi fecero sobbalzare ed interruppero i lamenti di mia sorella.
 - Le pulizie sono finite - esordì Ed - Possiamo salire in casa a scaldarci: magari anche a mettere qualcosa sotto i denti...avete già cenato? -
 - No, zio. - risposi
Lui portò le mani sui fianchi, facendo una smorfia: avevo già fatto una gaffe.
 - Niente "zio". - disse - Edward, o Ed, vanno benissimo. -
Non lo conoscevo molto bene, ma tentai lo stesso di fare del sarcasmo:
 - Va bene, zio Edward. - ghignai
Lui mi folgorò con lo sguardo, ma non sembrava particolarmente offeso.
Quella del nome fu solo una delle tante stranezze che scoprii, da quel giorno in poi, nel mio eccentrico parente; all'epoca, non riuscii a darmi una spiegazione su quel bislacco ordine, ma oggi, che sono a mia volta zio (e prozio, ahimè!), posso tentare un'ipotesi: la parola "zio" lo faceva sentire vecchio.
Lo stesso motivo per cui, adesso, rifiuta di farsi chiamare "nonno" e "bisnonno", anche se non lo ammetterebbe mai.
La palazzina, ci spiegò Edward mentre uscivamo da una porta laterale e ci immettevamo in un atrio piuttosto buio, era di proprietà di un'unica famiglia, ma si componeva di due appartamenti: il più piccolo, di fianco al negozio, era quello che aveva in affitto. Nell'altro, al primo piano, abitava il padrone di casa e, da un paio d'anni, ci dormiva anche lui.
 - Per risparmiare. - ipotizzai
Ed confermò, mentre cercava alla cieca l'interruttore per accendere la luce nell'atrio: Lotte tastò con il piede il primo gradino della scala che portava ai piani superiori.
 - Come sono vecchi... - esclamò, notando l'ansa che cominciavano a fare, causata da anni e anni di scarpe che passavano continuamente.
 - Ah, ma allora ce l'hai ancora la lingua. - la presi in giro
Finalmente, Ed si arrese all'evidenza che non c'era elettricità, e iniziò a salire le scale a tentoni, tenendoci per mano.
 - Il palazzo è uno dei più antichi della zona. - le disse lo zio - La famiglia di antiquari era piuttosto ricca; ora, però, il capofamiglia è in guerra, e c'è solo la figlia a controllare che io non ritardi il pagamento -
Un rumore ci fece alzare la testa. Sobbalzai, notando per la prima volta una ragazza, poco più anziana di me, che ci fissava dalla tromba delle scale: doveva aver seguito tutta la conversazione, in maniera così silenziosa che non avevo neppure sospettato la presenza di un'altra persona.
 - Ecco, lei è Margarethe - esclamò Edward - Abita con me...o meglio, io abito con lei, visto che le pago l'affitto. È una persona molto discreta: non spaventatevi se ve la troverete alle spalle senza che ve ne accorgiate. A me capitava spesso, e ancora non capisco come riesca a non far scricchiolare le assi del pavimento! -
Salendo le scale con gli altri, riuscii a vederla abbastanza bene, grazie alla luce della torcia che teneva in mano, e non potei trattenermi dal pensare che, anche nell'aspetto, Margarethe sembrava fatta apposta per non essere notata: aveva un volto anonimo, nè brutto nè bello, con gli occhi scuri e i capelli castani, e arti così magri da sembrare di vetro.
Lotte, sempre molto più espansiva con i ragazzi piuttosto che con gli adulti, le sorrise:
 - Ciao! - esclamò - Molto piacere: io mi chiamo Charlotte. Lui è mio fratello, si chiama Thomas. -
La giovane si limitò ad abbassare il capo, in cenno di saluto; Ed, notando la perplessità di mia sorella, che temeva di averla offesa, le mise una mano sulla spalla, ridendo:
 - Non ti preoccupare, anche lei è felice di fare la tua conoscenza. Però, - aggiunse - tra i molti pregi di Margarethe, c'è quello del silenzio. -
Non so se mia sorella comprese subito quel che voleva dire: per quel che mi riguarda, devo ammettere che solo notando la lavagnetta che pendeva dal fianco della giovane riuscii a capire che era muta.

 

* * *


Sentivo puzza di guai. Non per colpa di qualcuno in particolare, ma per la situazione che si era creata. Bastava guardare in faccia il ragazzino, il maggiore, per capire che era il nipote di Edward: oltre all'aspetto fisico molto simile, aveva quello sguardo fiero, selvaggio e (devo pur ammetterlo) arrogante tipico del signor Elric. La bambina, invece, pur essendo così irruente, aveva gli occhi dolci del fratello di Edward, l'uomo con cui i due erano arrivati e che era venuto a trovarci quasi ogni giorno, nelle ultime settimane: i ricci biondi e le lentiggini, invece, doveva averli presi dalla madre, perchè erano estranei agli Elric.
Non potei fare a meno di chiedermi come avrebbero convissuto due persone come Edward e Thomas, ma sperai che la piccola Charlotte fosse abituata al carattere del fratello.
La risposta arrivò prestissimo: per essere precisi, durante la cena.
Si arrivò in argomento in modo del tutto innocente: Thomas chiese allo zio il biglietto su cui suo padre aveva segnato il recapito a cui inviare le lettere.
 - Ce l'ho nella giacca. - fu la risposta
 - Possiamo scrivergli già domani? - domandò Lotte, tirando le bretelle del fratello
 - Per me va bene... - il ragazzino s'interruppe per sorbire una cucchiaiata di minestra - Ottima, Margarethe! -
Grazie, scrissi in fretta.
 - Una volta - riprese la bambina - ho visto la lettera che il padre di una mia amica aveva scritto alla famiglia: era tutta cancellata da righe nere. -
 - Forse - ipotizzò il fratello, in un goffo tentativo di spiegazione - Aveva detto delle cose non vere... -
 - È più probabile che avesse detto troppe cose vere. - ribattè l'uomo, acido.
Ahia, pensai. Ci siamo. Colpii con il palmo della mano il braccio di Edward, seduto alla mia destra, per farlo tacere, ma era decisamente troppo tardi.
Thomas, infatti, non prese bene l'affermazione.
 - Cosa vuoi dire? - chiese, asciutto
 - Che non sarebbe una bella pubblicità, per il Reich, se i soldati tedeschi descrivessero come vivono e muoiono, o avvertissero le famiglie che la guerra è ormai persa... -
 - La guerra non è persa. - lo interruppe Thomas - Altrimenti non continuerebbero ad arruolare persone. -
 - Io direi che il fatto che si continui a cercare carne da macello sia un indizio lampante di come vada la faccenda. Tuttavia, è da un po' che non ascolto la radio tedesca: probabilmente, lì stiamo ancora vincendo. -
Charlotte ed io appoggiammo il cucchiaio nel piatto, perplessa lei, preoccupata io: cercai lo sguardo del signor Elric, per pregarlo di smetterla, ma lui continuava a mangiare come se nulla fosse. Thomas, al contrario, sembrava profondamente offeso dalle sue parole.
 - Immagino tu sia molto più informato di me sulla vita al fronte. - ribattè, sarcastico - Quando ci sei stato? -
Ovviamente, conosceva benissimo la risposta
 - Non ci sono mai stato. - rispose Ed, fingendo grande calma
 - E perchè, se posso saperlo? -
 - È una lunga storia...diciamo che ho fatto un favore al figlio di un personaggio influente. -
Sospirai. Parlare di favore era decisamente un eufemismo, visto che il signor Elric salvò la vita di quel bambino: me lo ricordo, era il 1934, ed era appena venuto a vivere in affitto da noi, anche se passava molto tempo fuori, nell'eterna caccia ad un impiego.
 - In che senso? - domandò timidamente Lotte
 - L'ho tirato fuori dai rottami di una macchina, nulla di più! - sbottò Ed - Non è difficile, quando hai un braccio d'acciaio! -
La vicenda fu molto più complessa: fui io stessa a raccontarla ai piccoli Elric, in seguito.
Era dicembre, e aveva nevicato da poco, lasciando la strada coperta da quel sottile strato di ghiaccio e neve pigiata che la rende così pericolosa.
Infatti, avevamo aperto il negozio da poco più di due ore, quando sentimmo un rumore di freni, seguito da uno schianto: io, che all'epoca avevo sette anni, mio padre e il signor Elric, come molte altre persone, uscimmo in strada per vedere cosa era accaduto.
A prima vista, non sembrò nulla di particolarmente grave: sì, la bella macchina si era accartocciata contro un muro, finendo per somigliare a quella fisarmonica che, all'epoca, avevamo in vetrina, ma l'uomo dai grandi baffi biondi alla guida era fuori, che le correva intorno, illeso.
Fu Edward ad avvicinarglisi, e a capire per primo cos'era successo: l'uomo non cercava di attirare l'attenzione sulla macchina sfasciata, ma sul bambino incastrato all'interno.
 - Ho aperto la portiera, ma non riesco ad infilare le mani tra le lamiere - gli gridò il padre, disperato
L'allora trentenne Edward Elric si sporse, per vedere il ragazzino: era minuto, con i capelli biondi che si rizzavano leggermente sulla fronte.
 - Ti sei fatto male da qualche parte? - gli domandò
Lui si limitò a tirare su col naso. Ed tentò di sorridergli.
 - Coraggio...come ti chiami? -
 - Klaus. -
 - Va bene, Klaus...ti fa male da qualche parte? -
Il bambino scosse la testa: - Ho i piedi bloccati - si lamentò
 - Non stento a crederlo... - mormorò Edward, notando che i sedili davanti, accartocciandosi, lo avevano intrappolato.
Come al solito, decise di fare a modo suo: infilò il braccio destro tra i rottami e, non potendo affidarsi al tatto, lo usò come metro, per stabilire fino dove fossero incastrate le gambe del bambino. Riuscì ad arrivare fin quasi alle caviglie, e la cosa lo confortò.
 - Bene, Klaus. - annunciò - Ora cercherò di tirarti fuori: se ti faccio male, avvertimi. -
Lavorò di buona lena, chiacchierando allegramente con il piccolo: quanti anni hai? Undici? E che scuola fai? Non la conosco, in che via si trova?
Mentre il padre finiva di mangiarsi le unghie per l'agitazione, finalmente l'attesa ebbe termine: Ed riuscì, grazie alla protesi d'acciaio, ad aprirsi un varco tra le lamiere abbastanza grande da permettere a Klaus di spostare le gambe ed uscire dai rottami della vettura.
Il padre, rabbrividendo, dopo aver controllato la salute del figlio si rivolse ad Ed:
 - Non so come ringraziarvi...- balbettò - davvero, sembrerà la frase più scontata, ma... -
Fece per tirare fuori il portafoglio, ma l'altro lo fermò:
 - Non voglio soldi - lo prevenne, ruvido
 - Come si chiama? -
 - Edward Elric. -
 - Herr Elric,un giorno la ripagherò. E sappia che non è abitudine della famiglia Holze dimenticare le promesse. -
Alzò il braccio nel saluto nazista, imitato docilmente dal figlio: Ed, suo malgrado si irrigidì, ma nessuno parve notarlo. Anche perchè, l'occhio del signor Holze era caduto sul braccio metallico dell'uomo.
Thomas, durante quella maledetta cena, non parve troppo colpito dalla frase dello zio: ovviamente, non conoscendo tutta la vicenda.
 - E allora, cosa c'entra tutto ciò con l'arruolamento? - chiese
In effetti, Ed ricevette la lettera di precetto già nel 1940, appena ritornato da uno dei suoi viaggi: e, decisamente, non disertò solo per timore di ritorsioni contro suo fratello Alphonse e la sua famiglia.
Eppure, si rese presto conto che qualcosa non quadrava: alla visita medica, gli fecero sapere che il dottore voleva vederlo prima, da solo. Edward rabbrividì: anche se doveva ammettere che non gli avrebbe fatto piacere mostrare gli arti artificiali a chissà quante persone, con tutte le domande che questi avrebbero sollevato, la situazione era quantomeno singolare.
 - Signor Elric? -
Alle sue spalle, era entrato il medico: un uomo robusto, con grandi baffoni color grano.
 - Posso sapere perchè sono stato mandato qui? - chiese Ed, tentando di sembrare educato e, di fatto, riuscendo incredibilmente sfacciato.
 - Perchè l'ho chiesto io - rispose l'altro, sornione
Gli tese la mano: - Dottor Georg Holze. Le ho fatto una promessa, ricorda? -
Edward trasalì, riconoscendo il padre del piccolo Klaus, e comprendendo il perchè del saluto ricevuto anni prima; dopo alcuni istanti, riuscì a riprendersi abbastanza per stringergli la mano.
 - Dunque, se non ricordo male, lei ha un braccio destro un po' particolare...è una protesi? -
 - Sì. -
 - Fin dove arriva? -
 - Fino alla spalla. -
 - Posso vederla? -
Il dottor Holze rimase affascinato da quello che definì "l'opera di un genio".
 - Non è tedesca, vero? -
 - No. -
 - Altre protesi? -
 - La gamba sinistra. -
Il medico fischiò: - Una vita movimentata, eh? -
Si sedette dietro la scrivania, grattandosi la tempia con una penna, come uno studente che non sappia cosa scrivere:
 - Allora...da quel che ho potuto vedere, lei risulta totalmente privo di un braccio e di buona parte di una gamba, mi corregga se sbaglio. -
 - No, è esatto. -
 - Quindi... - l'uomo alzò lo sguardo, sorridendo leggermente - non posso certo mandare al fronte un menomato, no? -
Edward lo fissò, chiedendosi se quello fosse un insulto. Tuttavia, nelle intenzioni di Georg Holze non c'era l'offesa, anzi.
 - Signor Elric, - annunciò, alzandosi - lei è inabile a combattere. Spero che questo basti a ringraziarla per aver salvato mio figlio, sei anni fa. -
Ignaro della vicenda, Thomas sembrava decisamente disgustato.
 - Questa è un'azione da vigliacchi! Che ringraziamento è? - domandò
 - Forse anche un altro medico l'avrebbe fatto: il dottor Holze non fece domande, è questo il punto. - rispose Ed
 - Ciò non toglie che tu non sei mai andato in guerra, quindi non puoi sputare sentenze come se sapessi tutto! -
Il bicchiere di Edward tremò tra le sue mani, prima che questi lo appoggiasse bruscamente sul tavolo.
 - Il fatto che non abbia partecipato a questa guerra non vuol dire che non ne sappia niente. E comunque - riprese, alzando la voce - credo di saperne di più di un bambino che è cresciuto con le sciocchezze della propaganda! -
 - Allora cosa andrebbero a farci i nostri soldati in guerra, se non proteggere la patria e renderla grande? - esplose Thomas
 - Vanno a morire, oppure ad uccidere dei perfetti sconosciuti che, per un puro caso, hanno la divisa diversa dalla loro! -
 - Stai dicendo che papà è un comune assassino! -
 - No, questo no: come so che io sarei inutile alla guerra, perchè non sparerei mai, conosco abbastanza bene tuo padre da sapere che preferirebbe farsi uccidere, piuttosto che ammazzare l'uomo che gli sta di fronte! -
Gli occhi di Charlotte si riempirono di lacrime, mentre io tentavo di fermare i due: proprio in quel momento, tuttavia, Thomas balzò in piedi, furibondo.
 - Sei un codardo! - gli gridò - Sei un codardo, e di mio padre non te ne importa niente! -
Incurante della sedia caduta per terra, corse nella sua camera e si sbattè la porta alle spalle.

* * *


Pensierino della buonanotte:

Se già il primo capitolo mi dà così tante grane, non voglio sapere cosa farò con gli ultimi!
Il litigio mi lascia molti dubbi: nella mia mente funziona benissimo, ma non so se per il lettore è altrettanto comprensibile; la mia idea si basava sul fatto che, se Thomas parte da presupposti totalmente errati, dettati dalla propaganda, anche Edward ha la sua parte di responsabilità, in quanto, pur avendo ragione, parla con troppa arroganza. In realtà, temo che anche tutto il racconto di Margarethe appesantisca lo scambio di battute: in effetti, inizialmente si trovava nel secondo capitolo, ed era Thomas a raccontarlo, dopo averlo sentito da Charlotte. In linea teorica funzionava meglio, in pratica non mi convinceva: una storia narrata da un personaggio, a cui è stata raccontata da un altro, a cui a sua volta è stata narrata da terzi perde credibilità.
A proposito: no. Il soprannome di Charlotte, Lotte, NON viene da Un ciclone in convento, ma da I dolori del giovane Werter, di Goethe. Me l'ha già chiesto talmente tanta gente, che ho anche pensato di cambiarle nome.

   
 
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