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Autore: ferao    05/11/2012    9 recensioni
Sei giorni dopo, Audrey tornò dal lavoro con un gran sorriso sulle labbra.
Percy ebbe paura. Quel sorriso, rivolto proprio a lui, poteva significare decine di cose diverse, che andavano dal “mi dispiace” all’“avevi ragione tu” al ben più inquietante “sto per ucciderti, Avada Kedavra!”; in quest’ultimo caso, il giornale che teneva tra le mani non avrebbe costituito un efficace riparo e la bacchetta era troppo lontana, per cui poteva solo avere paura.
Genere: Commedia | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Famiglia Weasley, Percy Weasley | Coppie: Audrey/Percy
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Dopo la II guerra magica/Pace
Capitoli:
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Capitolo 3: Tra le nove e cinquanta e le dieci e venti
 
 
 
Convincere i Weasley ad affidare i propri figli a Percy non era stato affatto semplice come può sembrare. Audrey aveva dovuto sfoggiare tutte le proprie capacità di persuasione per vincere le resistenze di alcuni di loro, in particolare dei più giovani, convinti – e non a torto – che il vecchio Perce fosse la persona meno adatta al mondo in assoluto a tener dietro a dei poveri bambini innocenti.
Alla fine, però, e con un piccolo aiuto da parte della signora Weasley (la prima), tutti avevano acconsentito a che “zio Percy” si accollasse quel compito, perché, come aveva detto saggiamente l’anziana donna, “è ora che inizi a dimostrare un po’ di maturità”.
– Va bene, ma perché deve dimostrarla a spese dei miei figli? – si lagnò Ron, quella domenica mattina.
– Ron, Percy non è mica l’orco delle fiabe. Al massimo – asserì Hermione, mentre aiutava Hugo a infilarsi la maglietta, – li farà stare seduti a disegnare.
– Non voglio disegnare – sbuffò Hugo emergendo a fatica dalla maglietta, il faccino improvvisamente imbronciato.
– E allora non disegnerai. – Hermione sorrise e gli diede un buffetto su una guancia. – Rosie, sei pronta?
– Sì, mamma. – La bambina si affacciò alla stanza di suo fratello. – Però nemmeno io voglio disegnare.
– Tu dovrai fare i compiti di matematica, signorina. Hai preso i libri, sì?
L’accenno all’odiata materia bastò per far immusonire anche Rose. – Ma mamma, devo proprio? La scuola ricomincerà a settembre! – piagnucolò. – E poi a Hogwarts non si studia matematica, a che mi serve impararla adesso?
– Rose, ubbidisci a tua madre. I compiti vanno fatti, a prescindere dalla loro utilità. Vai a prendere i libri, marsh!
L’intervento di Ron, per quanto pronunciato con tono affettuoso, bastò a far rientrare la piccola ribellione di Rose: la ragazzina chinò la testa e tornò in camera sua, trascinando i piedi in segno di scontento.
Hermione attese che se ne fosse andata, poi guardò suo marito e ridacchiò. – "A prescindere dalla loro utilità?"
Ron alzò le spalle. – Che ti devo dire… In tanti anni che vivo con te, potrei aver imparato qualcosa.
– Allora, impara anche a dare il buon esempio: sei ancora in pigiama, e ho detto a Audrey che saremmo arrivati presto al Ghirigoro. Datti una mossa!
Non aspettandosi quell’attacco, l’uomo tentò di impietosire Hermione con un ultimo, patetico sguardo pieno di afflizione, ma ovviamente non ci riuscì.
– E va bene, – borbottò. – Andiamo a portare i miei figli da zio Percy. Spero solo che non dovremo pentircene…
E se ne andò in camera, le spalle curve, trascinando i piedi come Rose.
 
 
In un’altra città, in un’altra casa Weasley, i preparativi erano di tipo completamente diverso.
– Moglie! Cosa stai facendo?!
La domanda era stata praticamente urlata nell’orecchio della povera donna, ma costei era troppo abituata a sorprese del genere per esserne turbata. Si limitò a rigirarsi dall’altra parte, ad avvolgersi di più nelle lenzuola e a borbottare una frase che doveva essere “È domenica mattina, lasciami in pace”, ma che risuonò come un insieme di rantoli confusi.
– Questo è pazzesco! – seguitò a dire l’uomo che aveva urlato poco prima. – Oggi è una giornata quasi storica… e lei dorme! DORME! Parola mia, donna, tu non sei mia moglie: sei solo una sua copia più carina e meno vestita.
– George, piantala. Ho capito – bofonchiò lei contro il cuscino. Con un sonoro sbadiglio si tirò su e si strofinò il viso. – Che succede?
– Come, che succede? Non ricordi che giorno è oggi?
A quelle parole, Angelina Weasley spalancò gli occhi. – Oh, cavolo…
Esatto.  
Suo marito George, autore di quella sveglia inopportuna, era in piedi accanto al letto, vestito di tutto punto e con la sua miglior espressione di disapprovazione in volto. – Non posso credere – seguitò, – che tu sia in grado di dormire fino alle nove e cinquanta sapendo cosa accadrà oggi, davvero non posso…
Le nove e cinquanta?!
George annuì severo, e si sarebbe lanciato subito in una finta filippica sullo stampo di quelle di Percy, se Angelina gliene avesse dato il tempo: questa invece scattò in piedi e corse in bagno, da cui uscì nemmeno un minuto dopo già lavata, pettinata e persino… truccata? Sì, truccata.
– Merlino Merlino Merlino è tardi! – strillò Angelina. – Dobbiamo essere a Diagon Alley per le dieci e un quarto! Devo preparare la colazione! Vestire i bambini! Svegliarli! È tardi!
Nel dir ciò si era lanciata a capofitto verso le scale, diretta alla cameretta dei bambini. Sembrava un uccello impazzito, notò George; di questo passo avrebbe cercato di uscire dalla finestra frantumando i vetri a testate.
Dovrei proprio fermarla, poveretta. Sì sì. Tra un po’.
– Geooooooorge!
Okay, forse era meglio che quel tra un po’ diventasse subito: sette “o” in “George” indicavano che la situazione era ben grave.
– Arrivo, tesoro! – Si Smaterializzò, per apparire nella stanza di Freddie e Roxanne. – Che cosa c’è?
Fece uno sforzo disumano per trattenersi: Angelina era in piedi al centro della stanza e guardava alternatamente i due lettini, vuoti e rifatti.
– G-george… i bambini! Sono scomparsi!
– Cosa? Dici sul serio?
Il suo tono di voce, in un altro momento, lo avrebbe tradito, ma Angelina era troppo scossa per riuscire a sospettare qualcosa. Si voltò invece a guardarlo, gli occhi pieni di confusione e spavento. – Certo che dico sul serio! Qui non ci sono! Oh cielo, George, che ho fatto? Se solo mi fossi svegliata in tempo! Dobbiamo trovarli! Dobbiamo…
Si interruppe, interdetta. Di fronte a lei, suo marito si stava letteralmente accartocciando su se stesso, in preda a spasmi incontrollabili. Il che significava solo una cosa: se la stava facendo sotto dal ridere.
Il panico scemò, lasciando finalmente il posto alla consueta lucidità. – George, – disse, mettendosi le mani sui fianchi, – che cosa hai combinato, stavolta?
L’uomo impiegò qualche secondo a calmarsi. Alla fine, però, riuscì a parlare. – N-niente, amore – rispose, asciugandosi una lacrima.
– Amore un corno. Allora? Dove sono i miei bambini?
Uffa, mi sono fatto sgamare troppo facilmente. Sto invecchiando.
– Va tutto bene, ti dico. Seguimi e vedrai.
Prese la moglie per mano e l’accompagnò in cucina, dove, educatamente seduti al tavolo, Freddie e Roxanne mangiavano placidi le loro tazze di latte e cereali. Erano già stati lavati e vestiti, e i loro zainetti erano pieni dei giocattoli considerati indispensabili per l’avventura che li attendeva.
– Oggi è un giorno speciale, – mormorò George, osservando Angelina sorridere rassicurata. – I miei cuccioli dovranno far uscire di testa lo zio Percy, e non posso permettere che arrivino in ritardo neanche di un minuto.
Angelina sbuffò, divertita. – Va bene, – ridacchiò, – ma era proprio necessario farmi quasi prendere un infarto?
– Certo! – rispose George con finto sussiego. – Come posso dare loro il buon esempio, altrimenti?
La donna non rispose; si limitò a scuotere la testa in segno di rassegnazione. – Sei pessimo, – commentò, prima di correre ad abbracciare i suoi bambini.
 
 
 
– Sono già arrivati? – domandò Lucy, fissando la porta con curiosità.
Percy consultò l’orologio. – Non credo, sono solo le nove e cinquanta. Forse la mamma ha dimenticato qualcosa…
… o forse sono davvero arrivati in anticipo. Oh no. Oh no no no. Per favore, no.
Strinse la mano di Lucy e si avvicinò all’uscio. – Coraggio, – si disse, – non è la fine del mondo.
– Che cosa, papà?
– Nulla.
Non poteva mostrarsi insicuro di fronte a sua figlia. Con un gesto rapido e deciso, aprì la porta.
Fu come se un uragano, un tornado e un terremoto si fossero incontrati lì per caso e avessero deciso di festeggiare la rimpatriata invadendo la casa più vicina – ossia quella di Percy. Il pover’uomo fu travolto da un’onda d’urto che, nell’ordine, lo spinse indietro di due metri, gli scompigliò i capelli e gli strappò Lucy di mano.
– Tesoro di nonna! Fatti abbracciare! – gongolò l’onda d’urto, la quale – ora Percy riusciva a vederla bene – assomigliava in maniera impressionante alla signora Molly Weasley. Questa teneva tra le braccia Lucy e la sommergeva di baci, cui la piccola rispondeva entusiasta.
– Ehilà! – salutò Arthur Weasley, varcando la soglia subito dopo. Si muoveva a fatica, ingombrato da pacchi, pacchetti e strani involti di cui Percy non era sicuro di voler conoscere il contenuto.
– Scusaci se non abbiamo avvisato, – continuò Arthur, – ma tua madre ci teneva a passare, sai com’è… Potresti aiutarmi, per favore?
Percy si riscosse e andò incontro a suo padre, togliendogli i pacchi dalle mani. Nel frattempo, richiamata dalle voci, anche Molly (la giovane) era corsa all’ingresso e stava salutando i nonni con gioia.
– Restate qui anche voi? – domandò Lucy speranzosa. Sua nonna le sorrise, ma scosse la testa.
– No, passerotto. Siamo venuti solo per portarvi il pranzo.
Per poco i pacchi non caddero di mano a Percy. – Il… pranzo? – balbettò. – Ma… non dovevi, ci ha già pensato Audrey…
– Oh, figuriamoci – ribatté la donna. – Non sa regolarsi con le quantità, di sicuro ha preparato meno del necessario.
La mente di Percy corse alla cucina, dove giacevano almeno quattro teglie di lasagne (ricetta a cura di Magda Bennet), diversi Leberkäse (souvenir di Ingeborg Bennet dall’ultimo viaggio in Baviera), parecchi cespi di insalata già pronta da condire e, ultimo ma non meno importante, un numero compreso tra il venti e l’infinito di biscotti al cioccolato. E l’impasto per i pancake da preparare a merenda.
Decisamente Audrey non sapeva regolarsi con le quantità, ma in senso contrario a quello che voleva insinuare la signora Weasley.
– Mamma, grazie, ma non serviva… – iniziò a dire Percy, ma capì subito che non ci sarebbe stato verso di fermare sua madre. Nei successivi due minuti la signora Weasley non ascoltò nulla e nessuno, perché troppo intenta a distribuire abbracci e raccomandazioni alle adorate nipotine che non vedeva dalla bellezza di tre giorni. Dopodiché, seguita dal marito, imboccò di nuovo la porta e scomparve in fretta.
La quiete calò all’improvviso nella stanza, disturbata solo dal pigro ronzio di un moscone ritrovatosi per caso tra il tornado e l’uragano. Lucy guardò prima suo padre, poi sua sorella, infine tirò un grosso sospiro. – La nonna è tanto cara, – dichiarò con fare solenne, – ma quando esagera, esagera.
Quella piccola perla di saggezza, pronunciata da un esserino che sapeva risultare adorabile a chiunque, ebbe il curioso effetto di distendere gli animi dei presenti: Molly e Percy dimenticarono l’astio di poco prima e si scambiarono un sorriso intenerito, e persino Tip, che si era nascosta sotto il divano, osò mettere il muso fuori con fare relativamente poco ostile.
In quel momento, Percy si sentì d’un tratto pieno di fiducia e buoni propositi; guardò Molly chinarsi su Lucy per stamparle un bacio sulla guancia e pensò che era da tanto che non passava un’intera giornata con entrambe le sue figlie, e che forse non sarebbe andata poi così male. Anzi, pensò, a conti fatti nulla poteva andare male finché aveva loro accanto.
Già. Nulla può andare male, finché ho Lucy e Molly.
Era così preso da quell’atmosfera di pace e serenità che invadeva la stanza, che per un istante fu tentato di dire quella frase ad alta voce e spazzare via sedici anni di paternità inflessibile e severa (o almeno, così la reputava lui); e l’avrebbe fatto, se in quello stesso istante non si fosse accesa una fiamma verde nel camino.
… cosa?! È già ora?!
Ebbene sì: le lancette dell’orologio, implacabili e beffarde, segnavano le dieci spaccate. Anche Tip parve accorgersene, e soffiando tornò a rintanarsi sotto il divano, mentre il moscone sbatacchiò più volte contro la finestra più vicina finché non riuscì a scappare via. A Percy sarebbe tanto piaciuto seguire il suo esempio – tranne che per la parte degli sbatacchiamenti, ovvio.
D’un tratto i pacchi tra le sue braccia si fecero incredibilmente pesanti; contemporaneamente, la gamba sinistra tornò a farsi sentire con prepotenza. È davvero ora.
– Pensaci tu, – borbottò rivolto a Molly, lanciandole un’occhiata eloquente. – Io vado a sistemare questa roba.
E si dileguò in cucina.
 
 
Diversamente da quanto si potrebbe pensare, quella dei Weasley non era una famiglia del tutto unita. Certo, i fratelli mantenevano degli ottimi rapporti tra di loro, e così i loro figli; ogni volta che uno aveva bisogno degli altri, l’aiuto richiesto arrivava immediatamente. E i nonni Weasley erano sempre felicissimi di ospitare qualunque dei nipoti per qualsiasi ragione e per tutto il tempo necessario, specie d’estate quando, volendo, potevano accoglierli tutti insieme.
Però… non erano uniti, ecco. Tanto per dirne una, era assai difficile che si trovassero tutti quanti radunati per più di una volta al mese, eccetto occasioni particolari o feste comandate. Si poteva dire che i nipoti di Arthur e Molly fossero cresciuti assieme? Sì, se per “crescere” si intende “incontrarsi a qualche compleanno, a qualche pranzo o per una settimana in estate e approfittare dell’occasione per giocare a dar fuoco agli gnomi in giardino”.
Il motivo di ciò si spiega facilmente: dopo la guerra e i numerosi matrimoni ad essa seguiti, i Weasley erano diventati decisamente troppi per potersi permettere molte adunanze collettive; a ciò si aggiungevano i naturali impegni lavorativi o con le famiglie delle diverse signore Weasley, che contribuivano a rendere ben difficili le rimpatriate globali.
Tutto ciò serve a spiegare come mai, a conti fatti, Percy non conoscesse poi così bene i suoi nipoti. Sapeva ciò che c’era da sapere, come i nomi, i compleanni, le età e qualche dettaglio circa i rispettivi caratteri, ma a parte quello non sarebbe stato in grado di dire granché su di loro.
Di Dominique e Victoire – tredici e quattordici anni – sapeva che erano diligenti e studiose, ma la fonte di quella informazione, ossia Molly, era tutt’altro che affidabile in proposito; in quel momento poi sembravano tutto tranne che diligenti, vista la lunghezza (o meglio, la non-lunghezza) dei loro vestiti. Poco distante da loro, a due passi dal camino, il decenne Louis – piccola copia di Bill con innestati i capelli di mamma Fleur – aveva già raggiunto il suo abituale compagno di disastri, ossia James. Sì, disastri: era ancora vivo in Percy il ricordo dell’ultimo Natale passato alla Tana, un Natale che né lui né il povero Ghoul della soffitta avrebbero mai dimenticato…
Albus e Rose, otto anni, fissavano affascinati la discreta libreria del salotto – la bambina doveva esserci abituata, pensò Percy, ma di sicuro in casa di Ginny e Harry Potter non circolavano molti volumi. Non si sarebbe stupito se anche il placido Albus, prima o poi, fosse diventato un teppista al pari dei suoi predecessori.
Freddie, un anno più giovane di loro, stava usando la mano sinistra per stringere quella della sua sorellina più piccola, e la destra per sistemare una faccenda importante all’interno di una narice, una faccenda che pareva assorbirlo molto a fondo e che doveva richiedere uno sforzo di concentrazione non indifferente.
Infine, defilati in un angolo, Lily e Hugo osservavano gli altri con timore, come se si sentissero in difficoltà per il fatto di essere due dei più piccoli.
Nessuno di loro badava a Percy, probabilmente perché quel poco che ricordavano su di lui era condito da un’intensa aura di tedio. Non era forse quello, lo zio che li sgridava non appena combinavano qualche marachella, anche minima? E non era sempre lui quello che prima si offriva di aiutarli a fare i compiti, e poi finiva col raccontare storie noiose su quanto fosse bravo a scuola e quanto i professori fossero severi ai suoi tempi?
E non era sempre lui che…
– Ahem. Buongiorno, ragazzi.
Tutti si voltarono. Zio Percy era in piedi davanti a loro e li osservava con un’espressione tra il serio e l’ansioso. I più grandi risposero al saluto, i più piccoli si limitarono a guardarlo a loro volta. Roxanne, quattro anni, gli guardò i piedi e fece un gran sorriso.
– Ti piace il rosa! – trillò entusiasta.
Percy alzò gli occhi al cielo e si rifiutò di commentare. Quelle pantofole erano comode e funzionali al punto giusto, e soprattutto erano un regalo di Lucy: va bene, il color salmone le rendeva leggermente appariscenti, ma lui non intendeva comunque liberarsene solo perché andavano contro il comune senso dell’estetica.
– Dunque, – riprese, come se nulla fosse, – oggi i vostri…
– È vero, zio? Ti piace il rosa? – chiese James.
– Non è rosa, Jimmy: è salmone – puntualizzò Lucy, in piedi accanto a lui. James aveva solo qualche mese più di lei, per cui la bambina si sentiva in diritto di considerarlo il suo cugino preferito e quindi di battibeccare con lui ogni volta che voleva.
– Va bene, Lu, ma sembra rosa. Non ti pare?
– A mio papà non piace il rosa, quindi se porta quelle pantofole significa che non sono rosa.
– Ha ragione Lucy, – intervenne Lily, la quale arrossì subito dopo aver parlato.
A quel punto Percy avrebbe voluto riprendere il suo discorso e fermare quelle chiacchiere infantili, che già iniziavano a urtarlo; ormai però era troppo tardi: l’affermazione di Lily aveva dato il via a una discussione cui quasi tutti i ragazzi vollero prendere parte.
– Ma il salmone non è un pesce?
– È anche un colore.
– I pesci sono grigi, se sono color salmone quelle ciabatte dovrebbero essere grigie.
– Ma no, deficiente, il salmone è rosa!
– Il salmone è salmone, Jimmy.
– Deficiente a chi?
– A me piace il rosa!
– Anche a me!
– Deficiente a te, deficiente!
Allibito, Percy assistette alla degenerazione di quel semplice dialogo senza sapere come fermarla: James e Albus stavano per venire alle mani, incitati da tutti gli altri in un tripudio di confusione e strilli; Victoire e Dominique mostravano tutta la loro superiorità dando le spalle ai piccoli e chiacchierando fittamente con Molly, l’unica con cui sembrassero interessate a intrattenere rapporti. Infine, nello stesso punto in cui si trovava all’inizio, Freddie sembrava esser venuto a capo dell’annosa questione che lo aveva tenuto impegnato fino a quel momento: il risultato, però, sembrava molto più appiccicoso del previsto, e il bambino non sapeva proprio che farsene.
– Vuoi le botte? Le vuoi?
– Vuoi che dico a tutti che ti fai la pipì a letto? Lo vuoi?
– Va bene, adesso basta!
I due giovani Potter si erano già messi le mani al collo, quando la voce improvvisamente stentorea dello zio li richiamò all’ordine. Come se nulla fosse, si lasciarono e si rimisero in ordine i vestiti.
– Molto bene. Dicevo. Oggi i vostri genitori avranno da fare fino alle cinque del pomeriggio, quindi…
Le cinque? – Rose sgranò gli occhi. – Mamma mi aveva detto fino alle tre!
Percy la guardò perplesso. – Beh, forse si è sbagliata…
– Mia mamma non sbaglia mai – replicò la bambina, rigida.
– La mia ha detto che venivano a riprenderci stasera. Ma le cinque non sono stasera – fece Louis pensoso.
– Papà ha detto che potevamo anche restare qui per sempre – concluse Freddie.
… e certo, ci mancherebbe solo questo. Accidenti.
– In ogni caso, – riprese Percy, – sarà un lungo tempo da passare insieme, quindi…
– Oh no! – gemette Rose. – Dovrò fare matematica fino alle cinque!
– Matematica? Che sfiga!
– Jimmy, non dire quella parola. Non mi piace.
– Scusa, Lu.
– Insomma! Mi fate parlare o no?!
Tutti si zittirono di nuovo, ma non sarebbe durata ancora a lungo. – Quello che voglio dirvi è: comportatevi bene e non ci saranno problemi di nessun tipo. Chiaro?
Squadrò i ragazzi uno per uno finché non annuirono tutti. – Freddie, hai capito anche tu?
Freddie annuì distrattamente, concentrato più su ciò che teneva tra le dita che su quanto gli accadeva attorno. Non solo era appiccicoso, ma anche piuttosto schifoso; doveva liberarsene alla svelta.
Dopo qualche istante di riflessione, il bambino non trovò di meglio che passare le dita su una povera sedia innocente lì accanto; subito dopo guardò Percy e sorrise soddisfatto.
– Capito, zio! Saremo bravi! – disse, e come se nulla fosse tornò a dare la mano a Roxanne.
 
 
 
No. Dai, riprenditi. Non puoi sfiorare l’isteria ad ogni difficoltà. Avanti! Che ti succede? Esci da questo bagno e fai il tuo dovere, per Circe!
Niente: il riflesso nello specchio era più testardo di un mulo. Percy cercava da due buoni minuti di convincerlo a comportarsi da uomo e a non frignare come una mammoletta, ma quello non voleva proprio saperne e seguitava a scuotere il capo, esasperato.
Dannazione.
L’uomo sapeva, sapeva di star esagerando, lo sapeva benissimo. Non era successo nulla di grave, solo un po’ di confusione e… e del moccio sulla sua sedia. Nulla, paragonato a ciò che aveva vissuto anni prima, alla guerra e a tutto il resto; perché doveva avere una crisi di nervi per quello?
Sapeva di star esagerando, lo sapeva. Tuttavia, non poteva fare altrimenti.
Era più forte di lui, lo era sempre stato: quelli che a chiunque sarebbero apparsi come dei comportamenti più che normali per dei bambini e delle adolescenti – mettersi le dita nel naso, litigare per delle sciocchezze, indossare minigonne – a Percy sembravano solo delle espressioni di incommensurabile volgarità e grettezza, tutte cose che odiava vedere negli altri esseri umani a prescindere dall’età. Per questo detestava occuparsi dei suoi nipoti, e per questo la punizione di Audrey era terribilmente perfetta.
Ma non cederò. Non devo. Non posso. In fondo cosa sarà mai qualche ora? Posso resistere senza problemi fino a oggi pomeriggio, d’altronde sono già le…

… che caz-eh no, eh! Non diciamo scemenze! Stupido orologio!
Il povero orologio, in realtà, era solo colpevole di svolgere troppo bene il suo lavoro: le sue lancette segnavano le dieci e venti esatte, non un minuto di più.
Percy gemette, appoggiando la fronte sullo specchio. Dieci e venti. Era passata meno di mezz’ora da quando i giovani Weasley e Potter erano entrati in casa sua; meno di mezz’ora, e già era stanco marcio dei loro bisticci e della loro sporcizia. E delle loro voci. E dei loro respiri.
Scrollò il capo e si riprese: con insolita decisione, tentò ancora di convincere il proprio riflesso che poteva tenere a bada un branco di ragazzini, accidenti, era o non era in pratica il vice-Ministro della Magia? Aveva avuto a che fare coi Mangiamorte, cosa voleva che fossero dodici – si asciugò una goccia di sudore – bambini in confronto? E in ogni caso era meglio se tornava di là a controllarli invece di restare lì a parlare con se stesso, perché okay, lui poteva non sopportare la loro presenza, ma lasciarli da soli era un rischio, un grossissimo rischio, chissà cosa avrebbero potuto combinare se non fosse tornato, avanti, doveva assolutamente uscire da quel bagno e…
CRASH!
 
Ecco, appunto.
 
 
 
 










 

 
 







Rieccomi! Vi sono mancata? No? Fa niente, voi mi siete mancati ^^
Speravo di mantenere un ritmo più sostenuto con questa storia, ma ho tante cose da fare e soprattutto mi piace troppo occuparmi di questa ff, per cui credo che le cose dureranno ancora per un po’.
(Anche perché sto finalmente prendendo l’abitudine di non fare capitoli più lunghi di cinque pagine Word. I poveretti che hanno seguito UBL sanno che ho una tendenza alla grafomania assurda, e che per me il nirvana sono 12 pagine, ma… insomma, meglio di no.)
 
Le (in)evitabili note:
1) “Parola mia, donna”: l’avete riconosciuta? Ma certo! È una citazione dal primo libro, esattamente da pagina 90 della prima edizione: troviamo queste stesse parole rivolte a Molly da Fred, quando lui le fa credere di essere George e si finge indignato per il mancato riconoscimento.
… in effetti, se non sbaglio di grosso quella è la primissima battuta di Fred nella saga.
… *il DOLORE.*
2) Leberkäse: http://it.wikipedia.org/wiki/Leberk%C3%A4se
Onestamente non ho idea se sia buono o no. Però mi serviva una ricetta bavarese (ogni scusa è buona per nominare Inge!) e questo mi sembrava un piatto piuttosto appetibile per dei bambini. Credo.
3) La “mia” famiglia Weasley non è unitissima? No. E ve lo spiego subito: non trovo credibile che quella marea di persone sia sempre “tutti-insieme-appassionatamente”; reputo molto più probabile che, a seguito dell’accumularsi di impegni eccetera, non si incontrassero tutti quanti più spesso di quanto ho detto.
Ma è una mia idea, eh. Magari in realtà non è così.
4) La cronologia delle nascite è una mia invenzione, chiaramente: ho tenuto fermi i punti “canon” (Victoire, i figli di Harry) e ho sparpagliato gli altri bimbi a buffo.
Per chi non avesse letto UBL/non lo avesse capito, nel Feraverse la più grande non è Victoire ma Molly. Ehm.
5) “Vuoi che dico a tutti che…” e altre frasi: sì, lo so, sono vagamente sgrammaticate, ma solo perché pronunciate da dei bambini.
6) La – ehm – escavazione di Freddie è un’auto-citazione da un’altra mia fanfiction, solo che qui la questione è descritta in maniera meno disgustosa, o almeno credo.
7) Per le ciabatte color salmone di Percy, devo mio malgrado ringraziare MedusaNoir, visto che quell'idea l'ha avuta lei. Grazie, sorella. *limona*
8) … non so, come capitolo mi sembra un po’ moscio. Ad ogni modo, spero vi sia piaciuto almeno un pochino, in caso contrario sono qui pronta a ricevere insulti e frutta marcia. ^^
 
Grazie di aver letto!
Sempre vostra
Fera
   
 
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