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Autore: Linpatootie    06/11/2012    14 recensioni
John decide di fare coming out. Più o meno. Non che sia gay o cosa. Si sta solo scopando il suo coinquilino.
[Traduzione a cura di Yoko Hogawa della serie Two Coffees One Black One With Sugar Please di Linpatootie - Parte IV]
Genere: Introspettivo, Romantico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson , Sherlock Holmes
Note: Missing Moments, Traduzione | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Due Caffè, Uno Nero e Uno Zuccherato per Favore'
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Desclaimer: Prima o poi mi stancherò di scriverli... tutto ciò non è mio: i personaggi sono stati creati da Sir Doyle e appartengono a Moffat e Gatiss, mentre la storia è della bravissima Linpatootie. Io non scrivo e/o traduco per scopo di lucro.

 

Note: Questa è la mia preferita delle quattro, è inutile. Ed è anche l’ultima, il che mi lascia un certo moto di soddisfazione nel poter dire che ho finalmente finito di tradurre questa serie meravigliosa.

In ritardo. Lo so. Però guardiamo il lato positivo: ce l’ho fatta 8D

È doveroso, da parte mia, portare i ringraziamenti dell’autrice originale della serie, ovvero Linpatootie; è meravigliata da come il fandom italiano ha risposto positivamente e vi ringrazia tutti quanti dal profondo del cuore per le parole meravigliose che le avete scritto.

Da parte mia, il mio ringraziamento va a tutti coloro che si sono trovati bene con la mia traduzione e che mi hanno espresso i loro complimenti. Per me è un ottimo modo per esercitare l’inglese, ma sono felice che l’adattamento scelto per quelle parole o quei detti intraducibili in italiano sia apprezzato. All my feels 

 

Per l’ultima volta, il link alla storia originale in inglese: Two Coffees One Black One With Sugar Please

 

A chi vorrà leggere, buona lettura ;D

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La Somma di Noi (Calcolata per la Maggior Parte da Tutti gli Altri)

– The Sum of Us (Mostly Calculated by Everybody Else) –

 

 

 

 

C’è un momento specifico in cui John si accorge che ha smesso di tenere nascosta la sua relazione nuova di zecca con Sherlock. Arriva quando sta facendo spesa e ci ha trascinato uno Sherlock non molto entusiasta.

Sherlock è un tipo stravagante dentro un supermercato, una specie aliena che fissa le scatole dei cereali come se si aspettasse di vederle saltare giù dagli scaffali e inscenare un numero di tip-tap lungo la corsia dei prodotti per la colazione. Ed è un motivo sufficiente per John per portarlo con lui – solo il ricordo lo fa ridere per giorni.

Sherlock se ne lamenta spesso e rumorosamente, ovviamente, ma di solito finisce per trovare qualcosa con cui tenersi occupato e getta nel carrello cose di cui non hanno davvero bisogno, dichiarando felicemente che potrebbe usarle per qualche malevolo esperimento che gli è appena venuto in mente.

Oggi il suo capriccio sembra essere la maionese, e sei diversi tubetti compaiono misteriosamente in mezzo ai cartoni del latte e alla pagnotta che John ha messo nel carrello. Lui aggiunge tranquillamente un cartone di uova, così quando Sherlock si sarà stancato dell’idea – qualunque sia – che sta architettando, John potrà usare qualche suo rimanente per fare un’insalata di uova, o roba simile.

Sherlock piroetta lungo gli scaffali, leggendo gli ingredienti su scatole e bottiglie, preoccupando occasionalmente gli altri clienti dicendo cose come “c’è una concentrazione perfetta di polisaccaridi in questa composta di mela!”.

Ma questa volta la ridicolaggine è tutta di John, quando incontra per caso una sua ex-ragazza al reparto frutta e verdura.1 Il suo nome è Tessie, un’assistente di volo dalle gambe lunghe con cui John è uscito per un paio di settimane circa un anno fa.

Sherlock gironzola attorno ai pomodori ma non interviene, lanciando stilettate con gli occhi nella schiena della povera ragazza. Tessie sorride e fa ondulare i suoi capelli e chiede a John come sta, con quel tono di voce che suggerisce che c’è una certa opzione ancora libera per lui, lì, e qualcosa nel cervello di John va in cortocircuito.

« Sono impegnato in una relazione gay con il mio coinquilino » dice senza riflettere, e il momento diventa immediatamente così teso che persino la lattuga sembra a disagio.

« Oh. Che carino » dice lei e mostra i denti in quello che tecnicamente dovrebbe essere un sorriso ma la fa sembrare solo disgustata. Anche John si sente abbastanza disgustato, soprattutto quando si accorge che Sherlock è rosso quasi quanto i pomodori attorno ai quali sta gironzolando nel tentativo di non ridere. Tessie gli lancia un’occhiataccia e sparisce al reparto latticini con un fruscio della sua gonna e Sherlock è improvvisamente interessato ai broccoli.

« Oddio... » sospira John, fissando una zucchina. Non gli offre nessun tipo di consolazione, ma comunque a John non sono mai piaciute, le zucchine.

« Fine, John. Davvero fine ».

« Ho fatto coming out da Tesco ».

« Sì. Sì, l’hai fatto ».

Con la coda dell’occhio vede il sorrisetto che Sherlock gli sta facendo ed entrambi si piegano in un attacco di risatine che non smette del tutto prima di avere pagato ed essersi incamminati verso casa, il sole che riscalda allegramente le loro teste.

 

« Suppongo che questo voglia dire che sono pronto a dirlo agli altri » riflette John mentre Sherlock pesca le chiavi del loro appartamento dalla tasca.

« Dire cosa? ».

« Di noi. Che adesso siamo una coppia ».

« Ah. Va bene ».

Entrano a passo malfermo nel corridoio e su per le scale, John con le braccia piene di sacchetti e Sherlock con le mani esasperatamente nelle tasche.

« Sei d’accordo, però? ».

« Con cosa? » già troppo distratto, probabilmente stava riassumendo nella propria testa gli ingredienti della maionese.

« Oh, stai al passo, vorresti? Con me che dico alle altre persone che siamo una coppia ».

« Ah, sì. No, non mi importa. Le persone per me importanti lo sanno già e non mi interessa minimamente cosa pensano tutti gli altri ».

C’è verità in quelle parole, suppone John, anche se insinuano qualcosa a proposito di come Sherlock si relaziona con la sua attuale famiglia che è piuttosto deprimente. In ogni caso, mrs. Hudson già lo sa, e apparentemente anche Mycroft.

Non avevano dovuto dirglielo specificatamente, era stato capace di intuirlo in pochi giorni guardando a malapena le loro facce, o lo stato dei loro vestiti, o qualsiasi cosa sia stata ad averli venduti.

« Quindi, John, è questa la parte in cui ti dico che se gli spezzi il cuore io ti spezzo le gambe? » aveva chiesto amabilmente.

« Non possiamo semplicemente lasciarlo implicito e saltare il discorso? » aveva suggerito John, e Mycrfot gli aveva fatto un sorriso educato quanto raccapricciante, prima di lasciare l’appartamento.

« Tuo fratello è terrificante » aveva dichiarato John, Sherlock aveva scrollato le spalle e aveva cominciato a suonare il violino.

 

In ogni caso, il problema è tutto di John. Ci dorme sopra per tre notti, finché non si sveglia un delizioso martedì mattina e trova Sherlock profondamente addormentato accoccolato sotto al suo braccio, i capelli in disordine, le labbra appena socchiuse, e l’onda di felicità che questa visione gli provoca è sufficiente a spazzare via dalla sua testa qualsiasi dubbio vi permei. Lo sveglia con un bacio e pensa che sarebbe bello indossare quella beatitudine attorno al collo, così che tutti possano vederla.

 

 

Sa che dovrebbe probabilmente cominciare da Harry, davvero lo sa, ma è difficile e dunque si distrae dall’inevitabilità di tutto ciò fermandosi al Barts per vedere Mike Stamford.

Immagina di doverlo dire a Mike personalmente – lui è quello che gli ha presentato Sherlock, dopotutto. Dovrebbe portargli montagne di ricchezze per quel motivo, un enorme “GRAZIE” detto con i fiori, scritto nei cieli di Londra con uno di quei piccoli aeroplani, o almeno regalargli una bella cravatta, ma John davvero capita lì per caso e decide che portargli un cappuccino funzionerà ugualmente.

« Sei un dono del cielo, in mensa hanno ancora la stessa brodaglia di sempre » dice Mike, accettando il caffè da sopra una pila di fogli che sta leggendo.

« Me l’ero immaginato, sì » sogghigna John in sua direzione.

Mike ha l’ufficio più piccolo immaginabile, del tutto stipato di libri e raccoglitori, le pareti affollate di diplomi e fotografie di famiglia.

Parlano del più e del meno per un po’. John viene a sapere che la figlia di Stamford si è fratturata una clavicola ad una partita di calcio; nel frattempo dà un’occhiata casuale a qualche documento e si meraviglia di come certe cose nello studio della medicina non siano cambiate tanto quanto si era aspettato.

« Allora, com’è la vita con Sherlock? » chiede Stamford e John immagina che sia il momento.

« Bene. Molto bene, in realtà. Vado a letto con lui? ».

« Cosa? ».

« Sì, beh... ».

Stamford lo fissa per un lungo, immobile momento, con la tazza in carta del caffè a qualche centimetro2 dalla bocca, poi gli offre un mezzo ghigno e la più divertita scrollata di spalle che John ha mai visto. « Oh. Bene, allora. Congratulazioni. Meglio per te, suppongo ».

« Sì, nemmeno io ne sono sempre convinto. Potrebbe non essere la decisione più brillante che ho preso, uscire insieme a Sherlock Holmes. Non mi annoio mai, almeno. Ieri ha fatto esplodere tre tubetti di maionese, che è finita per tutta la cucina, e mi ci è voluta quasi un’ora per tentare di togliergliela dai capelli. Ed ecco qui l’amore, presumo ».

Mike lo guarda, John risponde allo sguardo e scoppiano entrambi a ridere. Per quella che sembra essere la milionesima volta, John si sente fortunato che Mike sia suo amico.

 

 

« Ci sono state due morti come questa fin’ora, Sherlock, pensavo ne fossi più interessato ».

Non è una melodia insolita, quella, ovvero Lestrade che cerca disperatamente di farsi aiutare da Sherlock per un caso.

Sherlock non è ancora convinto. Ha detto che è un sei, al massimo, e non ancora meritevole di un cambio d’abito. Lestrade è vagamente irritato – ha due morti sul piatto, dopotutto. Un po’ di cooperazione da parte dell’unico consulting detective al mondo sarebbe molto apprezzata.

« Non è ancora certo che le morti siano collegate » brontola Sherlock, affondando ancora di più nella propria poltrona.

« È quello che mi serve che tu faccia. Provalo. Ho un presentimento ».

Sherlock sbeffeggia il presentimento di Lestrade con uno sprezzante movimento della mano.

John rimane fuori dalla discussione, seduto sul divano ad allacciarsi le scarpe e preparandosi per un turno inaspettato all’ambulatorio. Sarah ha chiamato poco prima, uno dei medici si è dato malato, gli dispiacerebbe coprire un paio d’ore? A John non dispiacciono un po’ di soldi extra, e finché Sherlock non accetta il caso può tranquillamente farlo.

« Se cambi idea, telefonami. Per l’amor di Dio. Se queste morti sono collegate, potremmo essere sulla strada del disastro » dice Lestrade cupamente. Sembra che John stia per lasciare l’appartamento e non apprezza particolarmente l’idea di essere lasciato solo con Sherlock. In tutta onestà, John non può biasimarlo.

« Ok, voi due smettete di battibeccare, io esco ». Prende il cappotto, infila in tasca il portafoglio e fa il giro della poltrona di Sherlock. « Comportati bene. Non farò tardi ». Appoggia una mano sulla spalla di Sherlock e si china in avanti per posare un caldo bacio su labbra ricettive. Solo quando si risolleva realizza che lo ha appena fatto davanti a Lestrade, che ora lo sta guardando come se avesse appena fatto comparire per magia dalla sua tasca una scimmia che fischia “God Save the Queen”.

« Beh... a dopo » saluta John a disagio, dando qualche colpetto alla spalla di Sherlock e fuggendo dall’appartamento. Fa finta di non sentire la risatina divertita di Sherlock che lo insegue giù per le scale.

Lestrade lo segue all’esterno, raggiungendolo giù dalle scale. « A cosa diavolo ho appena assistito? » chiede. Sembra divertito – è un buon segno, crede.

« A me che saluto il mio ragazzo con un bacio » ammette John.

« Oh. Ah. Vedo ».

Camminano in silenzio e John può quasi sentire Lestrade pensare, il criceto sconcertato sulla sua ruota arrugginita prendere velocità.

« Quindi, da quanto voi...? Perché non mi sono mai accorto di niente, quindi o sono davvero stupido oppure voi siete molto bravi a farmi credere che la vostra etichetta “non una coppia” fosse vera ».

Entrambe, pensa John, ma sarebbe troppo rude dirlo a voce alta. Sherlock lo farebbe, in realtà, ma suppone che almeno uno di loro debba mantenere un certo decoro sociale.

« È abbastanza recente » dice: « solo un paio di mesi. È semplicemente capitato, in realtà, ma va tutto bene, quindi andiamo avanti così ».

« Mycroft lo sa? ».

« Oh, sì. Ha importanza? ».

« No, niente affatto » dice Lestrade distrattamente, ficcando le mani dentro le tasche del cappotto.

« Lo stavamo tenendo segreto » aggiunge John, facendo attenzione.

« Sì, beh... se volete davvero tenerlo segreto, probabilmente dovete fare attenzione alle dimostrazioni pubbliche d’affetto ».

« Il nostro appartamento difficilmente è pubblico ».

« Giusto. Ma fate attenzione se avete degli spettatori, allora. Non sono ancora sicuro di come categorizzare quest’esperienza piuttosto inaspettata ».

John ridacchia e colpisce la spalla di Lestrade. Greg sogghigna in sua direzione prima di chiamare un taxi.

 

 

Dopo aver cominciato a fare sesso, Sherlock ha sviluppato velocemente l’abitudine di dormire nudo. John è assolutamente in disaccordo, con tutto ciò. Al mattino, Sherlock è un lungo e magro insieme di pigra nudità distesa sul letto e John è decisamente troppo vecchio per essere così arrapato. È diventato una sorta di riflesso pavloviano quando la sola vista del grazioso arco della parte inferiore della sua schiena, il rigonfiamento dei glutei nascosto per metà da un drappo stupidamente artistico di lenzuola bianche, manda con una caduta a picco tutto il sangue dal cervello di John al suo inguine.

« Fottiti » sospira John e Sherlock sogghigna tranquillamente.

« Per me va bene »3

« Silenzio. Sono in ritardo »

« No, non lo sei. Non ancora, per lo meno. Vorresti esserlo? »

« No. Taci, stai zitto »

Si veste in fretta e lascia l’appartamento, evitando a malapena di confrontarsi con uno Sherlock intento a fare colazione nudo. Alla fine, come sempre accade, poteva anche rimanere e godersi lo spettacolo, dato che rimane in ambulatorio appena due ore prima che il suo telefono suoni una, due volte, ed è costretto a chiedere a Sarah un altro dei favori che non riuscirà mai a ripagare per correre a Scotland Yard.

Non era stato nemmeno Sherlock contattarlo. Era stato Lestrade a mandargli il messaggio ingiustamente esasperato “per favore di’ al tuo ragazzo di smetterla di terrorizzare la mia unità forense”, e gli servono appena quattro messaggi ed un paio di pubbliche minacce da fidanzato per capire che c’erano stati altri tre avvelenamenti e Sherlock aveva finalmente accettato il caso con frenetico entusiasmo.

Le vittime erano tutte state avvelenate con l’arsenico, ma non avevano assolutamente niente in comune – persino Sherlock fallisce nel trovare il comun denominatore. Estremamente preoccupante, ovviamente, e John pensa che potrebbe non essere mai più in grado di comprare un sandwich per strada, ma Sherlock è convinto che potrebbe esserci una connessione, un determinato tipo di cibo, qualcosa che potrebbe usare per dedurre la strada verso l’omicida.

Questo da origine ad una confusa ricerca attraverso Londra che John pensa finirà per far bandire Sherlock da tutti i negozi per il resto della sua vita (e dopo dove sarebbe andato a finire tutto il divertimento di John?).

 

Molly non è minimamente turbata quando Sherlock entra con fare disinvolto nel suo laboratorio, con tre sacche piene di diversi tipi di cibo. John cerca di non pensarci troppo.

Sherlock, eccitato, comincia a tagliare dei campioni, ficcando pezzetti di mela e patatine fritte sotto il microscopio. Molly lo aiuta senza nemmeno chiedere una spiegazione, aggiungendo qualche sorta di prodotto chimico ai campioni di cibo e osservando attentamente la reazione. John lavoricchia in giro, passando loro qualche arnese e sentendosi vagamente inutile.

 

Sherlock butta a lato mezza mela. John la raccoglie e la annusa. « Nessun veleno, matrigna? ».

« Cosa? ».

« Lascia perdere. È sicura da mangiare? ».

Sherlock lo guarda accigliato, la sua attenzione tutta ai risultati e ai numeri e agli enzimi – i nomi dei quali John sa a malapena pronunciare – e fa fatica a capire la altrui situazione giornaliera di essere leggermente affamato e circondato da cibo di dubbie origini. « Oh, giusto. Sì, sì. È solo una mela ».4

John sogghigna e la morde. Gli occhi di Sherlock si focalizzano sulla sua bocca per un breve istante prima che distolga lo sguardo, con una specie di sorrisetto negli occhi. John sorride ancora e si volta, toccando gentilmente con la spalla la schiena di Sherlock prima di gironzolare attorno al tavolo di Molly. Si siede, osservandola lavorare, masticando la mela.

« Quella mela è sicura da mangiare? » chiede lei, alzando gli occhi dalla capsula Petri.

« Oh, sì. Sherlock l’ha controllata »

« Qualcosa è cambiato, fra voi due » dice all’improvviso, una domanda nei suoi occhi a cui non vuole dare voce.

Lei capisce le persone fin troppo bene, pensa John. Notevole, per una persona che passa la maggior parte del proprio tempo attorno ai morti, essere così percettiva nei confronti dei vivi.

«» risponde semplicemente. Non ha senso girarci intorno. Molly è una ragazza sveglia, può connettere quei piccoli e strani puntini.

« Oh » lei tiene gli occhi puntati su di lui, e John può vedere il suo cuore rompersi, cadere in pezzetti seghettati che strappano e tirano le sue viscere, e ciò lo fa sentire una persona incredibilmente orribile.

« Quindi voi siete... siete... capisco » continua lei, e si sforza di fare un sorriso.

« Con-congratulazioni. Voglio dire... è una bella cosa ». Lo dice davvero e non lo dice davvero tutto insieme, e per un momento John è perso. Vorrebbe abbracciarla, più o meno, dirle che andrà tutto bene e che ci sono molti altri pesci nel mare, ma allo stesso tempo c’è questo bisogno intenso di farle sapere che, ehi, capisco che questo inusuale e selvatico pesce tropicale è una meraviglia, ma lui è mio. John non ha mai sperimentato quel livello di possessività, prima. È positivamente illuminante.

« Grazie » le dice comunque, forzando un sorriso che combacia con quello di lei. Rimangono a sorridersi falsamente a vicenda per qualche secondo mentre Sherlock nell’angolo bestemmia contro il microscopio e scuote una pipetta come se fosse una bacchetta magica, come se dovesse far comparire i risultati desiderati con la sola forza di volontà.

« Da quanto? » chiede Molly, cercando di suonare perfettamente colloquiale e amichevole e carina, e lui è quasi tentato di dirle che non deve sempre fingere di essere per forza d’accordo con qualsiasi cosa.

« Non molto. Un mese o due ».

« Oh... » La sua espressione vacilla e guarda altrove per un momento, prima di prendere un profondo respiro e tornare a guardarlo: « Mi sento così stupida... » dice, così piano che è quasi un sussurro. « Mi dispiace, io... non intendo... ecco... »

« Ho capito » risponde John, e trova la forza dentro di sé di allungare la mano e darle qualche lieve pacca sulla spalla. Il falso sorriso ritorna e lei si agita e si allontana, gli occhi che volano a Sherlock per un istante.

« Scusami » dice lei in tono piatto e poi sparisce fuori dalla porta. John la guarda correre per il corridoio e scomparire dietro l’angolo e può solo immaginare: è andata a piangere in un cubicolo del bagno, forse? Non è per niente sicuro di come affrontare questa situazione ed il suo cuore duole un po’ per lei, per quella ragazza con una terribile sfortuna. Spera solo di non provocarle ferite che mezzo chilo di gelato ed una maratona di Glee non possano guarire.

Sherlock ne rimane deliziosamente ignaro, mentre gira la manopola del microscopio e sembra frustrato. John gli passa un braccio attorno alla vita e appoggia la testa alla sua spalla. Sherlock non reagisce nemmeno, ma va tutto bene. John non si aspettava che lo facesse.

« Non ha senso » borbotta Sherlock.

« Non stai trovando ciò che ti eri aspettato? ».

« No ».

Sherlock alza lo sguardo ed il laboratorio vuoto lo colpisce solo in quel momento.  « Dov’è Molly? Ho bisogno che faccia qualche altro test ».

« Le serviva un momento » dice John attentamente.

« Per cosa? ».

« Ha scoperto di noi ».

« Gliel’hai detto tu? ».

« No, ci è arrivata da sola. Non sei l’unica persona del pianeta brava osservare gli altri ».

« Oh. E perché se ne è andata? ».

« Perché le serviva un momento da sola. Lascia che sia ». Non lo capiresti comunque, pensa John. Sherlock osserva accigliato lo spazio vuoto e John si china e posa un bacio nell’angolo della sua bocca, solo per un istante, bisognoso di quella piccola assicurazione più di quanto serva a Sherlock.

Sherlock torna al suo microscopio e la sua concentrazione si dissolve completamente dentro qualsiasi cosa abbia dissezionato sotto la lente e John rimane appoggiato a lui ancora per qualche minuto, solido calore vivente, prima di lasciarlo e trovarsi un posto in cui sedersi ed aspettare diligentemente che Sherlock abbia finito.

 

 

Il caso viene risolto, come sempre accade, con Sherlock che ha un qualche strano lampo di genio e John che si risolve a non comprare mai più un altro budino per il resto della propria vita. Le cose vanno avanti, ancora come sempre accade, e John tenta di non pensare troppo a come catturare un avvelenatore seriale sia il pane quotidiano, per loro.

È a malapena due giorni dopo che l’avvelenatore seriale viene trovato morto nella propria cella, che qualcun altro viene a sapere della relazione di John e Sherlock.

Sherlock aveva detto a John, dopo l’inaspettato momento di onestà di quest’ultimo al Tesco, che tutte le persone per lui più importanti sapevano già di loro.

Era una bugia.

Ovviamente non è qualcuno di cui potrebbe parlare a John, ma eventualmente è con un semplice messaggio – che porta ad una meno semplice conversazione – che Sherlock lo dice all’ultima persona a cui potrebbe immaginare di volerlo dire. Trova una strana soddisfazione in tutta la faccenda e capisce, allora, perché per John è così importante. La felicità di una persona, capisce, è fatta per essere messa in mostra, come le piume di un pavone sono progettate per essere mostrate e risplendere.

 

Il Guatemala è bellissimo in questo periodo dell’anno. Dovresti unirti a me – I

 

Non credo che John apprezzerebbe molto se andassi all’improvviso a girovagare in America Centrale. – S

 

Il dottor Watson è parecchio premuroso nei confronti tuoi e di dove girovaghi, non è vero? – I

 

Beh, sono suo, fa bene ad essere premuroso. – S

 

I miei occhi mi ingannano, o ti sei appena riferito a te stesso come suo? – I

 

L’ho fatto. – S

 

Finalmente si è arreso? Congratulazioni, sono stranamente orgogliosa di voi. – I

 

Non credo che “arrendersi” sia necessariamente la descrizione giusta per lo svolgersi degli eventi. Ma sì. – S

 

Presumo significhi che non posso più rivolgermi a te come “il vergine”? – I

 

Potresti, ma sarebbe incorretto. – S

 

La conversazione continua ancora, vorticando verso un territorio molto più esplicito piuttosto in fretta. Sherlock ne esce con qualche favolosa idea su cose che potrebbe fare a John, e non gli rivelerà mai da dove le ha prese.

John non se ne lamenta, comunque.

 

 

Ogni due o tre mesi John esce con i suoi vecchi compagni di rugby di Blackheath.5 Non gioca più ormai, non dopo l’Afghanistan, non ora che ha la spalla e la gamba e il suo coinquilino esasperante da rincorrere su e giù, ma vedere i ragazzi è un piacevole ricordo dell’essere giovani e di quanto gli piaceva farsi regolarmente spaccare i denti su di un campo infangato.

Hanno quasi tutti raggiunto i quaranta ora, la maggior parte è sposata, alcuni hanno dei bambini, rispettabili padri di famiglia con un seggiolino per neonati sull’auto. Eppure, le loro serate fuori sono rozze come ci si aspetta, una follia spacca-spalle e trangugia-birra, ed è uno spiraglio di normalità nella vita tutt’altro che normale di John.

Gli si presenta una scelta pesante da fare, però. Dire o no a questi ragazzi di Sherlock?

Si scola una pinta6 e lascia che il pensiero ristagni per un momento nell’atmosfera muschiata del pub. Le loro discussioni rumorose arrivano velocemente alle loro vite – a Kev è nato un maschietto giusto il mese scorso, la cui fotografia passa di mano in mano finché anche il più lontano dal centro del gruppo fa le moine a quella facciotta – e il caro vecchio Stephen sta pianificando di sposare la sua Joyce in estate, il che conduce a prese in giro che coinvolgono catene e palle di ferro e l’occasionale imitazione della sferzata di una frusta.

È un enorme bastione di eterosessualità e, ovviamente, cominciano molto presto a dare il tormento all’ultimo uomo single del gruppo – John Hamish Watson, grazie tante.

« Allora, stai finalmente pensando di sistemarti anche tu, Johnny? » dice Kev, agganciando un braccio alle spalle di John.

« Speriamo di no, dovrà pure rimanere qualcuno di cui essere gelosi, qui! »  dice Amir, felicemente sposato e padre di tre bambini.

« Già, e John non è mai a corto di attenzioni femminili, non è vero? » rimarca Stephen e John ghigna in sua direzione.

« È sorprendente che tu ci riesca, per essere un omarino piccolo e fesso »  Eliot lo spintona con la spalla e John gli da una gomitata scherzosa al fegato. « Si chiama sex appeal, amico. Sex appeal » risponde.

« Andiamo, dicci qualcosa di più. Stai vedendo qualcuno di recente? » insiste Kev.

Va bene. Quello è il suo segno, decide John.

Prende un lungo sorso della sua Lager e annuisce con la bocca piena.

« Questo è il nostro Johnny! Parlacene, come si chiama? ».

Sente il cuore battere nelle orecchie, ingoiandosi il ronzio del pub tutto intorno. « Sherlock » sputa fuori, a disagio.

« Sherlock? Che diamine di nome è, per una ragazza? ».

« Non è una ragazza ».

C’è un battito, un momento di scioccato silenzio, e il braccio di Kev scivola via dalle sue spalle. Lascia un vuoto tangibile, come una fresca folata di vento che persiste nel piccolo spazio che Kev stava occupando fino a poco prima.

« Che diamine di nome è, per un tizio? » dice Eliot, ed un sogghigno vagamente maniacale sfugge al controllo di John.

« Aspetta, sei diventato gay? » li interrompe Kev, e qualcosa nel suo tono di voce innalza segnali d’avvertimento che John avrebbe preferito non veder comparire intorno ai suoi amici di vecchia data.

« No, non proprio » dice.

« Bisessuale allora ».

« Non lo sono. No, non penso ».

« Ma esci con un uomo ».

Kev sta avendo dei problemi a seguire il discorso e John lo vede provare a connettere le cose in un modo in cui potrebbe capirle, ma fallisce nel tentativo. Suppone che sarebbe più semplice per l’altro se lui fosse capace di stamparsi addosso quell’etichetta, “omosessuale”, una categoria chiara e nitida, ma John non può imporre a se stesso di banalizzare così tanto i propri sentimenti per Sherlock.

«» risponde John. « Esco con un uomo, sì. Mi sono innamorato di un uomo, persino. So che è strano. È... beh, è incredibilmente complicato ed incredibilmente semplice in parti uguali. Non ha senso e contemporaneamente ha tutto il senso del mondo. So come suona, è solo che– ».

« Le persone non diventano gay tutto d’un tratto » lo interrompe Kev. Eliot si agita nervosamente, piegando le mani a coppa intorno alla sua pinta. Amir si blocca e fissa John come se gli fosse cresciuta una seconda testa.

« Sherlock è il nome del tuo coinquilino, vero? Da quanto tempo te lo scopi? » continua Kev e c’è una nota d’accusa nella sua voce, il sentore che la confessione di John fosse una sorta di affronto personale, il che accende una fiammella di rabbia negli occhi di John.

« Non sono affari tuoi da quanto tempo me lo scopo » dice sulla difensiva. « Sherlock mi rende felice come non ricordo nemmeno di essere mai stato. Se per te è un problema che sia un uomo, puoi anche levarti dai coglioni ».7

« Forza ragazzi, manteniamo toni civili... » prova a dire Steven, alzando la mano per cercare di calmarli, ma John la schiaffeggia via.

« No, non mi piace il suo tono. Hai dei problemi con me? Con me che ho un ragazzo? » la parola con la R sembra riscuoterli, un’immagine molto più concreta del vago “uscire con un uomo”.

« Sì, forse ce l’ho » risponde Kev, stizzito. « Non è un crimine, certo. Non ti sto mettendo in croce. Ho solo un problema quando uno dei miei compagni mi dice all’improvviso di essere una checca come se fosse una cosa di poco conto ».8

« Mia sorella è gay e lo sai da anni, anche quello è un problema per te? ».

Kev lo ha appena chiamato “checca”. John si era immaginato che sarebbe successo presto o tardi, ma gli risuona in testa e manda un brivido strano lungo il suo sistema nervoso non dissimile da quello che si avrebbe masticando la stagnola.9

« Non me ne frega un cazzo di tua sorella. Me ne frega quando tu ce lo butti in faccia come se niente fosse. Facevamo la doccia insieme, amico! ».

Qualcosa nel cervello di John va finalmente in cortocircuito, un lampo bianco di qualcosa per cui sperava di essere troppo vecchio, e deve trattenersi per non attaccare fisicamente Kev. Lui è più massiccio, ma John sa di poterlo battere, se deve.

« Qual è il tuo cazzo di problema?! » urla John. Amir fa un passo indietro, uscendo dal cerchio. « Sei preoccupato che io ti faccia segretamente la corte? È quello? Beh, permettimi di far esplodere la bolla per te: non toccherei il tuo culo da femminuccia nemmeno con un palo lungo tre metri. Sì, mi sono innamorato di un uomo. Un ragazzo alto e bellissimo, più intelligente di tutti noi messi insieme e che è infinitamente meglio di te in un modo che non puoi neanche immaginare. Quindi non sforzare quella tua piccola testa ignorante pensando a come potrei trasformarmi in una sorta di predatore gay che brama di scoparvi tutti uno per uno perché fidati, ho qualcosa di meglio da cui tornare ».

« Mi stai accusando di qualcosa?! » ribatte Kev con rabbia, gonfiando il petto.

« Sì, forse lo sto fottutamente facendo. Guardati, va tutto bene finché non scopri che mi sono innamorato di qualcuno che ha un cazzo. Se hai qualcosa da dirmi, Kevin, devi dirmelo in faccia! ».

Lo guarda dritto negli occhi ma Kev rimane in silenzio, squadrandolo a sua volta.

« Qualcun altro ha qualcosa da dire? » continua John, fissandoli con uno sguardo d’ira pura che solo una persona bassa può avere; un accenno di rabbia cruda a malapena avvolto da un pacchetto troppo piccolo. Amir evita il suo sguardo, ed Eliot sembra ridicolmente incapace nonostante la sua stazza imponente.

« Credo che Kev stia cercando di dire... » comincia Stephen con cautela dopo un momento di silenzio profondamente imbarazzante, ma John lo interrompe.

« Stai dalla sua parte? Seriamente? Così, come niente? Non me lo sarei mai aspettato da voi, ragazzi, mai » scatta. « Sto solo cercando di essere onesto, ok? Vi sto solo dicendo costa sta succedendo nella mia vita e voi mi sparate addosso queste stronzate? ».

Rimangono in silenzio, fissando lui o i loro bicchieri, e John ne ha semplicemente abbastanza.

« Sapete cosa? Non mi serve questa merda » sputa, sbattendo il proprio bicchiere sul bancone con un botto deciso. Sa benissimo che se non se ne va ora potrebbe, in effetti, prendersela troppo e finirebbe con il regalare a qualcuno di loro – probabilmente Kev – un naso sanguinante.

Afferra il suo cappotto mentre se ne va, così incazzato che a malapena avverte la pioggerellina fine pungergli il volto. Non sapeva cosa aspettarsi. Poteva essere peggio, ma poteva anche essere meglio, e si perde nel tentare di capire cosa diavolo sia successo esattamente, là dentro.

 

 

Non gli viene in mente di fermare un taxi o di prendere la Tube finché non è già a metà strada, schivando gli avventori di altri pub e una ripugnevole gang di turisti tedeschi. Suppone che potrebbe semplicemente continuare a camminare, con Londra che diventa sempre più scura e sempre più bagnata attorno a lui. Quando finalmente apre la porta del 221B, la pioggia gli scivola nel colletto sottoforma di pigre goccioline.

La puzza lo coglie a metà delle scale.

Sembra essere sia organica che chimica al tempo stesso, con una forte base di carne bruciata. Scatta su per le scale e dentro la cucina dove una non meglio identificabile massa mezza-bruciata di qualcosa se ne sta sopra il tavolo. Sherlock, almeno, ha avuto l’accortezza di mettere un telo di plastica sul tavolo, prima, ma tutto l’appartamento puzza come un Transformer che ha combattuto fino alla morte contro un rinoceronte, finendo poi entrambi in quel casino bruciacchiato sulla superficie del tavolo.

« Cosa diavolo è successo qui?! » grida.

« Un esperimento ». Sherlock è seduto dietro il laptop di John, e sta scrivendo.

« Cosa... cosa?! Cosa accidenti è questo?! » allunga un dito per toccare la massa strana e tremolante, ma Sherlock lo ferma con un urlo acuto: « non toccarlo senza guanti! ».

« Che?! Non posso lasciarti solo nemmeno per cinque minuti, vero?! » John non fa altro che urlare.

Sherlock alza lo sguardo e aggrotta le sopracciglia. « Te ne sei andato solo per cinque minuti? ».

Ovviamente. Ovviamente Sherlock si era accorto a malapena che se ne era andato per un paio d’ore, ovviamente non aveva nemmeno considerato che era tornato prima del previsto.

« Cos’hai combinato? Cos’è questo casino?! ».

« L’effetto del calore e di un certo mix di sostanze chimiche sui tessuti animali, John. È rilevante per un caso ».

« Beh, hai intenzione di ripulire? ».

« Non è ancora finito ».

Questo abbatte l’ultimo pilastro superstite della pazienza di John e lui afferra la prima cosa a portata di mano – un libro che lui stesso aveva lasciato sul tavolinetto, quel pomeriggio – e lo scaglia dall’altra parte del salotto. Si schianta contro il muro e ricade tristemente sul tappeto. Sherlock si stacca dalla scrivania e lo guarda ad occhi sgranati.

« Fai sempre così! » grida John. « Fai un casino e non ti prendi nessuna responsabilità! Non ti accorgi per niente degli effetti che ha sulla vita delle persone! Il nostro appartamento puzza come uno zoo di robot, te ne rendi almeno conto? Ti rendi conto che ci devo vivere anche io qui dentro?! ».

Sì, John ha, tipo, mescolato insieme più cose. Ne è dolorosamente consapevole, come una luce gialla e brillante che lampeggia nella sua visione periferica, ma la copre con una rabbia vagamente male indirizzata.

« Pulirò...? » offre Sherlock, ma non è abbastanza.

« Non è questo il punto, Sherlock! Pensa prima di fare qualcosa, pensa! Pensa a me, per una volta! ».

Sherlock si sente quasi offeso da quelle parole e John si rende conto di cosa sta dicendo, e si sente irragionevole, e odia ogni cosa per un desolato, vuoto momento.

« Fanculo, fanculo tutto. Vado a letto. Lasciami solo » ringhia.

Gira i tacchi, ignorando appositamente il casino in cucina, ed entra in camera da letto. Getta i suoi vestiti a casaccio attraverso la stanza, quasi strappa la maglietta con cui dorme tentando di infilarsela dalla testa così violentemente che quella quasi protesta e si rintana iracondo nel letto di Sherlock.

A questo punto gli viene in mente che questo suo “andarsene a dormire con stizza” avrebbe avuto più senso se fosse andato nel suo, di letto. La sua camera al piano di sopra è rimasta esattamente com’era, un sottile strato di polvere a coprire le lenzuola inutilizzate. L’idea di andare di sopra a dormire gli fa chiudere dolorosamente lo stomaco, invece, quindi rimane dov’è, provocatoriamente accucciato dalla sua parte del letto.

 

Sherlock entra in camera forse mezz’ora dopo e si arrampica sul letto senza accendere la luce. È così dolorosamente silenzioso fra loro, pensa John, che può quasi sentirlo trattenere il fiato, e John stringe i pugni sotto le lenzuola.

« Ti ho fatto arrabbiare » dice Sherlock nell’oscurità immobile, ogni parola cautamente misurata.

« Te ne sei accorto, meglio per te » borbotta John.

« Ho ripulito. L’odore rimarrà per un giorno o due, però. Mi dispiace ».

John si gira sulla schiena e fissa il soffitto. « No, non è vero. Non scusarti se non intendi farlo sul serio ».

Sherlock rimane in silenzio per un po’ e John strizza gli occhi e cerca di obbligarsi a dormire. Non funziona, la rabbia ed un senso di inutilità si rincorrono nella sua testa come un cane che insegue la propria coda. Da un lato, inoltre, un guizzo di senso di colpa richiede la sua attenzione per essersi sfogato su Sherlock in quel modo, ma quello sceglie di ignorarlo. Non è sicuro di essere dell’umore giusto per affrontare tutto in una volta senza rischiare la combustione spontanea.

« Dimmi cos’ho sbagliato » chiede Sherlock. Dovrebbe suonare come un ordine ma non lo sembra –  impercettibilmente trattenutosi per evitare che John si arrabbi ancora di più.

« Oh, Cristo » borbotta John. « Hai trasformato la cucina in una discarica di rifiuti tossici, tanto per cominciare. Senti, non è... non sei solo tu ». Sospira e si strofina gli occhi con i pollici. « Ho parlato di noi ad alcuni dei miei vecchi compagni di rugby. Il responso è stato... affatto favorevole ».

« Oh... » Sherlock lascia che le parole si depositino. « Te la sei presa con me ».

« Sì, sì l’ho fatto. Perché sono un cazzone, a quanto pare. Ma un cazzone giustificato, penso, considerando la cucina ».

« Mi dispiace ».

« Di nuovo: no, non lo sei. Tu fai sempre del casino e non ti scusi mai ».

« Non per la cucina. Per i tuoi amici ».

« Ah, già. Beh... anche io, in realtà ».

« Ti hanno insultato? ».10

« Oh, no. No, no. Niente di così... immediatamente omofobico, credo. Non l’hanno semplicemente accettato. Non hanno accettato te. Ho urlato loro contro ».

Sherlock si muove verso di lui ma si ferma, tirandosi indietro. L’esitazione esce da lui come un’onda, e John è felice di non poter vedere gli occhi da cucciolo che sicuramente Sherlock gli sta facendo nell’ombra, ma comunque sospira.

« Vieni qui, stupido » mormora, e Sherlock è attorno a lui praticamente subito, lunghe e snelle braccia che lo circondano e lo tirano contro il suo petto come un bambino. Indossa il pigiama, il che dice a John che si sentiva troppo a disagio a causa della situazione per dormire nudo come faceva di solito. Sherlock non è l’unico che può dedurre certe cose delle altre persone, dopotutto.

« Credo che vada tutto bene » medita John, appoggiando la fronte sul cotone soffice della maglietta di Sherlock. « Almeno ora so chi sono i miei veri amici ».

« No, non va tutto bene » dice Sherlock, e John ci vede un fondo di verità. Sherlock respira nei suoi capelli e, per quanto odi ammetterlo, la sua sola presenza calma la matassa di sentimenti surriscaldati che vortica nel petto di John. Si arrotola sul dito l’orlo della maglietta di Sherlock, ascolta il battito del suo cuore e si sistema in una sorta di fragile calma fra le braccia dell’altro.

La tangibilità del battito del cuore di Sherlock, così fermo, battiti sordi, a volte lo coglie ancora di sorpresa. Sherlock è così lontano dalla normalità, talmente al di fuori da quel cerchio che rappresenta tutto ciò che è comune, che è fin troppo semplice vederlo come più che umano (o meno, dipende con chi si sta parlando).

Il fatto che sia come chiunque altro, dopotutto, che il suo cuore batta e il suo stomaco a volte faccia strani rumori e che si tagli le unghie dei piedi... quello è qualcosa che, ogni tanto, John considera.

Arriva sempre con la realizzazione che lui è, probabilmente, l’unica persona a cui Sherlock ha permesso di avvicinarsi così tanto da vedere anche quel lato di sé. Il lato che parla nel sonno e arrossisce come una pesca sotto la forza delle labbra e dei denti desiderosi di John sopra la sua pelle pallida.

« È stato il nostro primo litigio come coppia » dice poi Sherlock. La sua voce è un tremore profondo nel suo petto e sa di casa più di ogni altra cosa a cui John possa pensare.

« Mh... probabilmente non sarà l’ultimo » dice John. Sherlock ridacchia – un altro tremore profondo, e John vuole accucciarvisi sopra e non lasciarlo mai.

« Ti amo » gli offre Sherlock.

« Succhiamelo ».

« Idiota ».

« Ti amo anche io ».

« Lo so ».

John sorride e sospira e prende fra i denti un po’ di tessuto della maglietta di Sherlock. Si sente molto meglio.

 

 

John riceve un messaggio di Eliot, fra tutti, la mattina successiva.

 

Scusa per ieri sera, amico. Nn volevo ferire i tuoi sentimenti. – Eliot

 

Sì, lo so. Ha fatto piuttosto schifo, però. – J

 

Lo sai cm è Kev, tt agitato x l’aria fritta. Non sono d’accordo con qll ke ha detto, . – Eliot

 

So com’è Kev. Scusa, ma non voglio avere più niente a che fare con lui. Non mi serve, nella mia vita. – J

 

Siamo ancora amici, ok? Nn mi interessa cs fai a letto cn gli uomini. – Eliot

 

Siamo ancora amici, Eliot. – J

Grazie. – J

 

Nn c’è problema, Johnny. Saluta il tuo uomo da parte mia. – Eliot

 

John lo fa. Sherlock ne è piacevolmente confuso.

 

 

E poi, tre settimane e quattro giorni dopo la sua decisione di essere aperto sulla sua riscoperta sessualità, che è sempre più convinto sia “eterosessuale-con-l’eccezione-di”, John non può più evitare l’inevitabile.

Una cosa è fare coming out con la padrona di casa, con il fratello del tuo ragazzo, con i tuoi amici. La tua famiglia, tuttavia, è una cosa completamente diversa, un acquario di pesci spaventosi e giudicanti.

Ti conoscono da tutta la vita. Le percentuali di disapprovazione, di delusione, o di puro rifiuto sono così vaste e devastanti che quasi lo affogano, lo tengono sveglio, lo distraggono.

Desidererebbe poter dire che il tutto verrebbe mitigato dal coming out di Harry, fatto quando aveva diciannove anni. Ma non lo è. È sapere come la sua famiglia ha reagito con lei che rende le cose difficili a lui. Il senso di profonda responsabilità, il desiderio di non far passare a sua madre ciò che Harry le fece passare all’epoca, è così immediato che gli fa venire la nausea. Un traditore verso sua sorella, verso se stesso, forse anche verso Sherlock, ma è radicato così profondamente dentro di sé che non riesce a scrollarselo di dosso.

 

Quindi Harry. Sì, Harry.

Rimane in piedi davanti alla sua porta per circa dieci minuti dopo aver bussato prima che finalmente lei venga ad aprire, apparendo sorpresa e più che colpevole. Lui fa finta di non accorgersene, cerca di non pensare a cosa stesse facendo, ma c’è una bottiglia vuota di vino nel lavello e un’altra mezza vuota sul ripiano e nessun altro in casa. Sembra in forma, ha messo su un po’ di peso, ma il trucco sbavato sul suo volto a malapena nasconde le profonde occhiaie sotto i suoi occhi.

L’appartamento è come’è sempre stato ma l’assenza di Clara è palese: le sue piccole cose sono sparite, le candele profumate che accendeva sempre e i lavori all’uncinetto sul divano di casa sono spariti. Lui non ne fa parola. Non commenta nemmeno la nuova bottiglia di vino con la quale lei torna dalla cucina, accettandone silenziosamente un bicchiere.

Chiacchierano di cose stupide per un po’ – Harry gli parla del suo lavoro, John le dice della clinica, riempiendo gli spazi vuoti con parole che si sono detti l’un l’altra talmente tante volte da risuonare insensate. È una di quelle chiacchierate che a Sherlock non piacerebbe, piatta e semplice, e per venti minuti buoni John invidia la capacità del detective di declinare obblighi sociali di quel tipo.

Finalmente, dopo il secondo bicchiere che lei ha bevuto da quando è arrivato, gli chiede perché è lì. Una domanda che potrebbe essere rude, forse, se non fosse così insolito per suo fratello presentarsi alla sua porta all’improvviso come ha appena fatto.

« Ho bisogno di parlarti » dice lui lentamente, le parole bloccate in gola. Il vino è pesante e gli impasta la lingua. Lei alza le sopracciglia.

« Di Sherlock » continua lui. Ancora troppo vago. Una delle sopracciglia si abbassa, l’altra rimane alzata.

« Di Sherlock e di me ». Lui la guarda e aspetta che realizzi.

Lo fa, una luce che si accende nella parte del cervello di Harry non troppo affetta dalla sbornia. « Oh » dice. « Oh. Cristo, Johnny. Dici sul serio? ».

Lui annuisce, portandosi il bicchiere vuoto al petto. « Maledettamente serio ».

« Oh. Oh, Cristo ».

I minuti passano sull’orologio a muro – una cosetta pacchiana, caratteri elaborati, Harry se ne è innamorata in un negozietto bric-à-brac11 fin troppo costoso di Hastings – mentre rimane seduto e osserva Harry rielaborare tutto ciò che sapeva di suo fratello.

« Com’è successo? » chiede finalmente.

Lui le fa un sorrisetto stentato e con una scrollata di spalle le dice la loro storia, e per la prima volta racconta a qualcuno tutta la faccenda dall’inizio alla fine.

« Potrà sembrare stupido, ma ha cominciato a dormire nel mio letto per uno dei suoi sventurati esperimenti. Solo dormire, nient’altro. Beh, all’inizio. Solo... non lo so. Ad un certo punto mi sono reso conto di quanto fosse bello averlo accanto per tutto il tempo. Parla nel sonno, è... stranamente confortante. Poi, ad un certo punto, ci siamo accorti di essere già in una relazione senza che nessuno di noi due avesse fatto lo sforzo effettivo di entrarci e io ho dovuto mettere in ordine parecchie cose, dentro di me. Ne sono uscito con la consapevolezza di essere stupidamente innamorato di lui e non mi ero nemmeno mai accorto di esserlo. Gliel’ho detto. Lui mi ha detto di provare la stessa cosa. Sono passati un paio di mesi e... beh... è tutto molto semplice, in realtà, in un modo strano e non mi sono mai sentito al mio posto come ora. Se per te ha senso ».

« Sì, è sensato » dice Harry con una voce calma e reverenziale, guardandolo come non lo ha mai guardato prima e lo colpisce il fatto che, per la prima volta nella loro vita, si capiscono perfettamente a vicenda. « Lo dirai alla mamma? ».

John sussulta. « Non lo so. Forse, non so. Parlo raramente con lei, comunque. So che probabilmente suono come un codardo, però... ».

« Sì, sei un codardo, ma ti capisco » lo interrompe con un sospiro. « Non c’è bisogno di riaccendere quel trauma infantile, hai ragione ».

« Eventualmente lo farò » dice lui debolmente ed entrambi sanno che sta mentendo.

« A papà non sarebbe importato » aggiunge lei e John vorrebbe che non l’avesse fatto, ma comunque annuisce.

Lei si versa un altro bicchiere di vino e permette a lui di rifiutarlo. « Ora te lo devo chiedere. Sei gay, adesso? ».

« Dubito che le persone possano essere “gay adesso” » dice lui meditabondo.

« Sai quello che intendo ».

« Sì. No, non davvero. È solo lui, ne sono abbastanza sicuro. Non che il mio occhio non abbia subito un ampliamento d’orizzonti – giusto un po’ – però sai... lui fa questo effetto a tutti, non solo a me. Prende tutto quello che sai essere vero di te stesso e del mondo in cui vivi e te lo rigira completamente ».

Lei sogghigna, ingoiando una sorsata di vino. « Ho letto da qualche parte che se un gemello è gay, l’altro ha il 70% di possibilità di esserlo a sua volta ».12

« Sono abbastanza sicuro che si applichi solo ai gemelli identici ».

« Dettagli. Andiamo, guarda noi due: è strano, non è vero? Il lato positivo è che mamma potrebbe anche avere quel genero che ha sempre voluto ».

« Oh, fidati, nessuno vorrebbe avere Sherlock come genero ».

Lei ghigna di nuovo, facendo girare il vino dentro al bicchiere. « Sai, credo di doverlo incontrare per forza, adesso. Più di prima. Ci devi presentare, perché praticamente fa già parte della famiglia ».

« Sì, sì. Lo incontrerai presto, ne sono sicuro. Preparati ad una delusione, lui vive per insultare la gente ».

« Anche tu. Lui lo fa solo in modo più evidente ».

John la guarda, sorpreso per quell’intuizione improvvisa, e appoggia il bicchiere vuoto sul tavolo.

« È davvero una cosa seria, comunque? » chiede lei dopo aver finito di bere il suo senza riempirlo di nuovo.

« In che senso? ».

« Nel senso se stai pensando al matrimonio eccetera ».

« Oh santo cielo. No, no, no ». Non che John non riesca ad immaginarsi loro due insieme per il resto della vita – dubita che Sherlock lo lascerebbe, dopotutto – ma l’idea di fare quel nodo sembra più che sciocca, a questo punto. Sherlock potrebbe non smettere mai più di ridere se John suggerisse un’idea simile, in ogni caso.

La loro è un’unione per la vita che rimarrà beatamente non-ufficiale.

« Ne sei sicuro? Penso che sarebbe carinissimo con addosso un vaporoso vestito bianco ».

John le lancia addosso un cuscino.

 

 

John si sente una persona completa. È una conclusione bizzarra, dato che non ricorda di essere mai stato solo mezza persona, o tre quarti di persona, o qualche altro numero matematicamente complesso ma si sente esattamente così ed è bellissimo, e quindi non se ne lamenta.

È innamorato. Non lo sta nascondendo a nessuno. Ha la più stravagante situazione domestica che chiunque a Londra possa avere (e se effettivamente c’è qualcun altro in città il cui fidanzato ha l’abitudine di tenere un timo umano nel frigorifero dentro un contenitore della Tupperware gli farebbe piacere incontrarlo, perché è sicuro che andrebbero meravigliosamente d’accordo), ed è ancora soggetto a più sparatorie di quanto dovrebbe, ma è innamorato e tutti lo sanno e lui è, semplicemente, pacificamente e anche facilmente, felice.

Ha contato le sue perdite ed i suoi guadagni ed è arrivato al perfetto bilanciamento. Immagina che sia tutto ciò che chiunque chiederebbe per se stesso, nella vita.

 

Appoggia la sua zuppa di pomodoro fatta in casa davanti a Sherlock, in una scodella con un Puffo disegnato sopra che ha avuto gratis all’alimentari. Sherlock nota il Puffo e John si chiede per un istante se sa cos’è.

« Non ho fame, John » dice Sherlock semplicemente e torna sulle sue carte. Qualcosa che ha a che fare con il timo e che implica un sacco di numeri e lunghi paragrafi scritti nella calligrafia disordinata di Sherlock. John non fa domande. È divertente che la maggior parte della loro relazione si riduca a quello, in realtà.

« Hai mangiato qualcosa, oggi? ».

« Ho fatto colazione ».

« Stai mentendo ».

« Non è vero ».

Col cavolo che non è vero. Sherlock poteva essere ancora addormentato quando John è uscito per andare al lavoro, ma sarebbe pronto a giurare sulla propria anima che quell’insopportabile cazzone non ha mangiato niente per tutto il giorno.

« Fuori la lingua, fammi vedere ».

Sherlock si acciglia, tirando fuori un vagamente confuso pezzo di lingua e guardando verso John.

« Ecco, visto? Non hai mangiato niente ».

La lingua torna di scatto dentro la sua bocca e Sherlock lo guarda meravigliato. « Come fai a dirlo?! ».

John sogghigna. « Non posso. Me l’hai appena confermato tu. Ora dammi ascolto e mangia questa dannata zuppa ».

Sherlock lo fissa con cipiglio crucciato ed emette un suono insoddisfatto che le persone non dovrebbero più fare dopo i sei anni, ma comincia comunque a portarsi alla bocca qualche cucchiaiata di zuppa. È una buona zuppa, in ogni caso. John si sente orgoglioso di come riesce a ficcare cose a caso dentro una pentola piena d’acqua e farle bollire.

Si siede di fronte a Sherlock, apre il proprio laptop e aspetta pazientemente che si accenda. Al suo blog serve un aggiornamento – è passata una settimana da quando ci ha scritto qualcosa sopra. Non hanno nessun caso al momento, però, non ha molto da condividere, tranne forse per... beh.

Si chiede se dovrebbe. Si chiede se potrebbe. Sa che a Sherlock non importa e sa che sarebbe, effettivamente, la via più veloce per rendere il tutto deliziosamente cristallino a tutti quanti.

Fissa lo schermo del suo laptop e pensa.

« Posso? » gli chiede Sherlock, spingendo la ciotola vuota in sua direzione a titolo dimostrativo.

« Puoi cosa? ».

« Aggiornare il tuo blog ».

« Tu vuoi aggiornare il mio blog? ».

« Stai pensando di scrivere di noi sul tuo blog, ma hai dei problemi a trovare le parole giuste per dirlo. Posso provare io? ».

Come fa a farlo, come?

« Tu vuoi scrivere un post... su di noi ». John solleva un sopracciglio in direzione di Sherlock da sopra lo schermo.

« Sì, John, è ovvio, continua così ». Sherlock non lo sta nemmeno guardando mentre scrive ancora qualche nota su quello che John pensa essere un disegno molto dettagliato e sorprendentemente accurato del timo.

« Perché non lo scrivi sul tuo, di sito? ».

« Nessuno legge il mio sito, John ».

Oh. Già, ok, è abbastanza. « Va bene » dice.

Sherlock alza lo sguardo, sopracciglia sollevate fino all’attaccatura dei capelli. « Davvero? ».

« Sì, davvero. Ma lo leggerò prima di pubblicarlo, va bene? Niente sorprese ».

Sherlock gli fa un mezzo sorrisetto e un mezzo sogghigno e abbandona subito il suo lavoro sul timo, il che significa che è abbastanza serio riguardo al post. John si alza, prende il piatto vuoto e pensa che potrebbe benissimo lavare i piatti, nel frattempo. Sherlock si sistema e scrive in silenzio.

 

John ha finito di lavare i piatti, pulito il ripiano, le pentole, ha quasi finito di scaldare l’acqua per il tè, quando Sherlock lo chiama.

« John, ho finito. Puoi venire a leggerlo? ». Gira il laptop e John si siede e lo legge e, letteralmente, quasi cade dalla sedia.

 

Salve, lettori delle parole di John. Oggi non è l’onorevole Dr. Watson ad intrattenere le masse. Sono io, invece, Sherlock Holmes in carne ed ossa, a cui è stato concesso il privilegio unico di aggiornare il famigerato blog di John.

Per la cronaca, il mio sito può essere trovato all’indirizzo www.thescienceofdeduction.co.uk. Visitatelo se cercate un’esperienza più educativa.

La ragione per cui John mi sta permettendo di aggiornare è che c’è qualcosa che desidera condividere con il mondo, e ha dei problemi a farlo nel modo giusto. Gli ho offerto la mia assistenza – dopotutto, questo discorso riguarda anche me in modo personale.

La cosa è questa – le voci, sì? Quelle che girano su John e me più o meno dal giorno in cui ci siamo incontrati. Oggi, confermiamo che sono vere. Molto vere. Non sono sempre state vere, ma lo sono ora. Io e John siamo, in effetti, coinvolti in una relazione romantica e sessuale.

Per molto tempo le persone hanno dato per scontato che fossimo una coppia quando non lo eravamo. Per la maggior parte del tempo John ha creduto che fosse lui a fare in modo che gli altri lo pensassero, probabilmente riguardo a qualcosa di ambiguo nel suo comportamento, ma si sbagliava. Ero io. Era il modo in cui l’ho sempre guardato, e tutti quanti lo avevano notato, tranne lo stesso John.

John è l’uomo più affascinante che io abbia mai avuto il piacere di conoscere. Straordinario, persino. Non riesco mai a conoscerlo del tutto, il che è fantastico. Mi sorprende continuamente. Appena penso di averlo finalmente capito fa qualcosa di imprevedibile. Appena mi convinco che il mio mondo ruota gentilmente verso destra, lui gli da’ un colpo e lo fa girare a sinistra.

Non appena penso di avere un indizio su di lui e su di noi, lui sorride e mi dice di amarmi. Non ho mai provato nei confronti di altri niente di simile a ciò che provo per John Watson, il che è esilarante e terrificante in parti uguali.

John scrive questo blog su di me, sulla vita con me, e voi commentate dicendogli di essere fortunato, di come la sua vita sia eccitante ed interessante per merito mio, ma vi sbagliate. È la mia vita ad essere eccitante ed interessante per merito suo e sono io, in realtà, il fortunato.

Quindi eccola, caro lettore, per te è la nostra verità: non ho mai amano nessuno, o niente, in tutta la mia vita, come amo John Hamish Watson, il mio blogger. Non posso descrivere quanto profondamente mi rende felice il fatto che abbia deciso di amarmi a sua volta.

 

Sinceramente,

Sherlock Holmes

 

John si risiede. Rilegge. Fissa Sherlock, che è tornato a scrivere le sue note come se non avesse appena scritto la più fantastica testimonianza di sempre della loro relazione. John la rilegge ancora una volta.

Clicca su “pubblica”. In pochi secondi è tutto là fuori, e John si sente incredibile.

« Sei davvero un bel tipino, lo sai? »13 dice affettuosamente. Sherlock gli fa una vaga scrollata di spalle. « Chi avrebbe mai detto che, dopotutto, hai il cuore di un poeta? ».

A questa, Sherlock gli lancia un’occhiataccia – come osa insinuare che sia altro oltre uno scienziato? – ma c’è qualcosa all’angolo delle sue labbra, quella curva verso l’alto da lieve compiacimento, che lascia intuire a John che l’altro abbia accettato le sue parole come un complimento.

John si alza, spegne il laptop – è abbastanza sicuro che ci sarà una valanga di commenti da gestire domani mattina, ma per il momento non ne vuole sapere – e si muove verso Sherlock, gli circonda le spalle con le braccia, strofina il naso contro la sua nuca. « Idiota ».

« Mi è piaciuta la zuppa. Ce n’è ancora? ».

« Ho appena finito di pulire la cucina, non dirmi che adesso ti è venuta fame ».

« Mh ».

John sospira, si raddrizza spettinando i capelli di Sherlock, e va in cucina. Toglie il resto della zuppa dal frigorifero e accende il fornello.

 

 

 

 

 

 

 

__________________________________________________________________________________

 

1. Il testo usa "produce section", ma dato che non ha senso, e più avanti si parla di zucchine, ho considerato che si trattasse del reparto ortofrutticolo. Se qualcuno sa illuminarmi, magari poi correggo.

 

2. Il testo usava la misura anglosassone "inch" (pollice) che comunque corrisponde a qualche centimetro, dunque l'ho europeizzata un po' ;D

 

3. Nel dialogo originale:

 

Fuck,” John breathes and Sherlock grins leisurely.

“Fine by me.”

 

L'uso del verbo "to fuck" è più impersonale rispetto all'italiano "fottiti", motivo per cui la resa del gioco di parole è infinitamente peggiore, nella nostra lingua. Volendo renderlo più aderente all'inglese potrebbe essere tradotto con "fottimi"/"per me va bene" ma non mi piace che non concordi con l'insulto classico italiano. La onde per cui ho lasciato la prima traduzione anche se non rende il gioco di parole al 100%.

 

4. La frase in inglese era un po' più incasinata, e tradotta letteralmente non rendeva bene il senso. Mi sono presa la libertà di adattarla un po'.

 

5. Blackheat è un sobborgo della periferia di Londra.

 

6. La "pinta" è un'unità di misura anglosassone per i liquidi (usata per lo più in Gran Bretagna, Irlanda e Stati Uniti). Esistono la pinta inglese e la pinta americana ed entrambe equivalgono a circa mezzo litro (la seconda a un po' meno).

Gli inglesi utilizzano l'espressione "a pint" quando intendono ordinare una birra perché il comune bicchiere da birra tiene esattamente una pinta di liquido.

 

7. John usa il termine "bloke" qui, e mi dispiace ammettere che è uno di quei termini che tradotto letteralmente fa perdere l'impatto di tutta la frase.

La traduzione letterale sarebbe "tizio, tipo" e mentre in certe frasi potrebbe starci (ad esempio qualche riga prima, in cui Eliot dice: "what the hell sort of a name is that for a bloke?" tradotto con: "che diamine di nome è, per un tizio?") in frasi come quella che pronuncia John in questo caso ("[...]If it's a problem for you that he's a bloke, you can just piss off") metterci "tizio", per quanto letterale, rovinerebbe l'impatto.

A seconda delle frasi ho optato per aggiustamenti diversi.

 

8. In questa frase viene usato il modo di dire (o quello che a me sembra tale) "I'm not bashing your head in".

Ora, letteralmente "bashing a head" sarebbe "sbatterci la testa/sbattere una testa" ed effettivamente il detto "devi sbatterci la testa/devi sbatterci il muso" si usa anche in italiano... ma nella frase in oggetto è rivolto a John, e temo che tradotta letteralmente in italiano cambi completamente di senso.

Ho provato a cercare in giro ma purtroppo non ho avuto fortuna, dunque avverto che questa è una traduzione a cuore aperto: credo che "I'm not bashing your head in" voglia dire una cosa tipo "non voglio darti la colpa di niente/non voglio accusarti di niente" dunque ho preferito il nostro modo di dire "mettere in croce", che mi sembra un po' più adatto al senso generale.

 

9. "Chewing on tinfoil" è un altro modo di dire che, purtroppo, non ha traduzione in italiano se non la letterale "masticare la stagnola". Il senso sarebbe richiamare qualcosa che fa male, che provoca dolore.

Precisazione: sinceramente ignoro se la parola "stagnola" sia conosciuta solo regionalmente o sia usata nazionalmente, comunque si sappia che altro non è che il foglio d'alluminio che si usa in cucina.

 

10. La frase originale sarebbe "Did they call you names?" che è un altro modo di dire. Letteralmente, "call a name" significa insultare, prendere una persona a parole, diffamare.

 

11. Il "bric-à-brac" è una catena di negozi, da quellpo che ne so, ma la parola in sé è riferita ad oggetti di particolare gusto estetico molto spesso paragonati a semplici chincaglierie.

 

12. L'autrice ha la convinzione - e non ho ancora capito da cosa provenga ma fa lo stesso - che John ed Harry siano gemelli eterozigoti, dunque che siano nati lo stesso giorno ed abbiano la stessa età.

 

13. La frase originale sarebbe "You're a right piece of work, you know that" in cui - indovinate? Sì! - c'è un modo di dire. "Piece of work" in inglese viene usato per descrivere una persona molto particolare con la quale è difficile convivere di giorno in giorno e che rende difficili e complesse anche le cose facili.

Il caro dizionario mi dice che è giusto tradurlo con "bel tipo", dunque chi sono io per andare contro il dizionario?

  
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