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Autore: ljbrary    09/11/2012    3 recensioni
Atelofobia: paura di essere imperfetti, di non essere mai abbastanza.
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Niall Horan, Nuovo personaggio
Note: Cross-over | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Atelophobia.
 

Diversa. Mi mentivo in questo modo: diversa. A scuola mi sentivo tremendamente a disagio. Tutti mi guardavano come se fossi un’aliena. E probabilmente lo ero. Ero una specie di ufo venuto sulla Terra per sterminare qualunque comune mortale ci vivesse. Ero inutile, non importava a nessuno di me. Probabilmente, se fossi morta, nessuno se ne sarebbe accorto. Ci pensavo sempre, ogni giorno. Pensavo che ci avrei messo pochi secondi a far smettere di battere il mio cuore, dopodiché non avrei sentito più nulla e tutti, sapendo che ero morta, avrebbero organizzato qualcosa come un party.
Non avevo amiche. Avevo un fratellastro che se ne strafotteva dei miei problemi personali e non faceva il minimo sforzo per aiutarmi, e dei genitori che pensavano che la mia vita fosse rose e fiori. L’unica cosa di cui non mi potevo lamentare erano i miei voti a scuola. Ero una secchiona, ma non mi importava del giudizio della gente; ormai avevo imparato a non ascoltarlo. Non credevo che avrebbero avuto tempo per insultarmi quando io sarei andata a Yale e loro in manicomio o in carcere.
Avevo sempre pensato ad un modo per scappare. Scappare in un mondo dove tutti mi avrebbero accettato per quel che sono. Probabilmente esisteva, spettava a me trovarlo, e qualcosa mi diceva che non sarebbe stato facile.
Entrai in un bar e presi una bottiglia d’acqua minerale. Il cameriere mi lanciò uno sguardo di stupore. Si, sono diversa, pensai. Mi sedetti ad un tavolino e guardai le persone che mi circondavano. Felici, a quanto pare. Anch’io sembravo felice, almeno credevo. Agli occhi di tutti io ero una normale persona. Ai miei occhi, invece, ero un mostro. Un vero mostro. Mi sentivo inutile. Perché, ormai, viviamo in una comunità in cui, se non sei figa, simpatica e normale, non verrai mai accettata. Era tutto così crudele. La Terra era il pianeta peggiore in cui sarei potuta nascere. Ma ormai sapevo cosa fare: sterminare tutti. Non ci sarebbe voluto molto. Un paio di settimane e sarei rimasta solo io, felice. Da quanto tempo non sorridevo? Forse mesi, o addirittura anni.
Mi alzai dal tavolino e uscii dal bar, tenendo lo sguardo basso a fissare le mia all stars verde acqua. Il colore era simile ai miei occhi, di un verde smeraldo bellissimo. Solo questo amavo di me, i miei occhi. Triste, eh? Camminai per un po’ sul marciapiede, quando vidi tre ragazze bionde avvicinarsi a me, erano assolutamente perfette.
“Hey sfigata!” rise una di loro. “Se stai cercando il negozio ‘Abiti extralarge per ragazze grassone’ è qui vicino” Mi diede una spinta e si allontanò, insieme alle sue amiche. Le lacrime minacciavano di rigarmi il viso. Perché tutti mi odiavano? Perché non ero nata bella come tutte le altre ragazze? Anzi, perché ero nata? Tutto sarebbe andato per il meglio se non fosse successo. Ormai tutte le persone che incontravo mi prendevano in giro per il mio peso esagerato.
Un giorno, mia madre, vedendomi piangere molto spesso, mi mandò da uno psicologo. Lui mi disse che soffrivo di atelofobia. Dopo la seduta, curiosa, cercai il significato sul dizionario e trovai scritto nero su bianco proprio ciò che provavo ogni giorno. L’atelofobia era la paura di essere imperfetti, di non essere mai abbastanza. Ci pensai su per un po’, poi capii che avevo davvero questa fobia, ma non me ne ero mai accorta. Probabilmente perché la mia mente era troppo occupata dagli insulti che ricevevo ogni giorno per dare spazio al ragionamento.
Sentii le risate di un gruppo di ragazzi provenienti qualche metro un po’ più in là di dove ero seduta io. Mi ero accasciata su un marciapiede senza badare a quanto fosse lurido, mentre piangevo e pensavo perché ero ancora lì, perché ero nata se nessuno mi amava? Ero uno scherzo della natura? Probabilmente si, anzi, sicuramente. I ragazzi si avvicinavano sempre di più e io mi ero già preparata psicologicamente per ricevere altri insulti; sarebbero stati come un coltello conficcato nel cuore. Il brutto era che ogni giorno c’era sempre un altro coltello che prendeva il posto del precedente.
Quando mi videro lì, seduta a terra, alzai lo sguardo ed incontrai il loro. Erano cinque ed erano davvero attraenti e muscolosi, non avrebbero mai notato una ragazza come me. Uno di loro, dai capelli ricci e gli occhi verdi, mostrò totale indifferenza e si allontanò trattenendo una grande risata. Gli altri lo seguirono, anzi, non tutti, perché uno rimase fermo, a fissarmi. Incontrai i suoi occhi cielo e pensai “Su, picchiami. Cosa aspetti?”. Passarono vari secondi, ma lui non si mosse, intanto i suoi amici lo aspettavano su una panchina, chiedendosi perché non muoveva il culo e mi lasciava lì a piangere.
Non saremmo potuti rimanere lì a fissarci, così decisi di alzarmi per andarmene, ma, appena gli diedi le spalle, lui mi fermò stringendomi il polso con una mano. Mi girai verso di lui, incuriosita dal suo gesto.
“S-se v-vuoi prendermi a calci, f-fallo subito”, sussurrai.
“Non voglio picchiarti”, mi rassicurò. Questo migliorava leggermente le cose, ma c’era ancora una domanda che assaliva la mia mente.
“E allora cosa vuoi?”. Glielo chiesi, sperando che la mia mente si liberasse da quest’altro peso.
“Voglio presentarmi”, ammise.
“Presentarti?”, gli feci eco, stupita.
“Sì”.
“Okay”.
“Piacere, Niall”, mi porse la mano, lasciando finalmente la presa dal mio polso.
“Piacere, Natalie” gliela strinsi.
“Che bel nome”.
“Grazie”.
“Cosa ci faceva lì a terra?” domandò.
“Piangevo” risposi.
“Mi dispiace”. Mi piacque sul serio il suo gesto. Un ragazzo normale mi avrebbe sicuramente chiesto il perché, ma lui non lo aveva fatto.
“A nessuno dispiace”. Abbassai lo sguardo. Rimase zitto, come per farmi capire che lui mi avrebbe aiutato, se avesse potuto, e quindi il silenzio era un suo modo per non farmi pesare ancora di più la faccenda. Avevo sempre sognato di incontrare una persona del genere, ma non credevo esistesse, fino a quel momento.
“Io devo andare”, dissi, cercando di fuggire via da quella situazione. Anche essendo un ragazzo davvero dolce, non volevo instaurarci un rapporto, poiché mi avrebbe solo fatto soffrire, come tutte le persone che mi stavano intorno.
“No, non andartene”. Questa volta non mi prese per un polso. Il suo tono era supplichevole e non sembrava volermi dare un ordine.
“Perché?”, domandai.
“Mi piacerebbe naufragare ancora un po’ nei tuoi bellissimi occhi azzurri”.
 
 
 

Un anno dopo…

Stavo tremando da più di mezz’ora. L’idea di rivedere Niall dopo un anno era davvero strana. Rivedere il suo sorriso, abbracciarlo, baciarlo… Tutto ciò non succedeva da molto tempo, ma l’amore che provavo per lui non era mai diminuito, neanche un po’, neanche per un secondo.
Non avevo mai creduto nell’esistenza del famoso ‘principe azzurro’, ma quando avevo conosciuto Niall, mi ero resa conto di essermi sbagliata. Eravamo riusciti, in pochi mesi, ad amarci più di chiunque altro e, quando mi dichiarò di amarmi, la mia vita ricominciò ad avere un senso. Adesso non facevo più caso agli insulti che continuavo a ricevere, perché Niall era con me e, quando ero con lui, tutto sembrava più bello, tutto era fottutamente perfetto.
Ma, sfortunatamente, lui dovette partire poiché la madre doveva operarsi e, per farla guarire del tutto, dovette rimanere con lei per un anno. Per me un anno senza di lui fu orribile, un po’ come lo Yin senza lo Yang: insignificante. Ma ogni giorno sorridevo, sperando che i giorni sarebbero passati più in fretta e pensando che un giorno avrei rivisto Niall.
Adesso mi ritrovavo lì, in piedi aspettando che l’aereo atterrasse, e, quando scorsi una piccola figura che si avvicinava, sentii il cuore battere a mille e le mani sudare.
I passeggeri scesero dall’areo correndo felici verso i loro cari. Ad un tratto scorsi una chioma bionda. Corsi verso di lei ed abbracciai la persona alla quale apparteneva. Niall non disse nulla, anzi, sembrava gli desse fastidio il mio abbraccio. Accanto a lui c’era una ragazza.
“Natalie…”, mi salutò, per niente felice. “Ciao”.
“Ciao”. Ci fu qualche attimo di silenzio. “Chi è lei?” indicai la ragazza bionda di fianco a lui.
“È la mia ragazza” , ammise. Sentivo le lacrime pizzicarmi gli occhi. Corsi via, non scusandomi con le persone che spingevo. Mi aveva illusa per tutto questo tempo. Mi sentivo una merda, una merda che tutti potevano calpestare senza che lei potesse reagire.
Entrai nella mia camera e sbattei violentemente la testa contro il muro, continuando a piangere e cercare di capire perché tutti mi odiavano, ma, sapendolo, mi odiavo anch’io. Entrai in bagno ed afferrai il barattolo dei sonniferi, ne misi una manciata sulla mano tremante e li buttai velocemente in bocca. Dopo qualche secondo tutto diventò nero.






“Il suicidio è stupido? Tagliarsi è stupido? Sai cos'è stupido veramente? Insultare una persona fino ad indirla a tutto questo”.
“Il bullismo psicologico è quello peggiore, che rimane per sempre. il dolore fisico passa”.















































































Salve.
Questa one-shot è molto triste, lo so. Per scriverla mi sono ispirata al testo di "Little Things" aggiungendo, appunto, la drammatica parte finale. Ma l'ho scritta anche perché sono una delle persone che odia il bullismo e che vorrebbe eliminarlo. Vorrei solo far capire a molte persone cosa causa un semplice insulto. Per il mittente non sembrerà nulla di importante, ma per il destinatario è un qualcosa che lo tormenterà per tutta la vita.

Spero che vi sia piaciuta e mi piacerebbe molto sapere cosa ne pensate tramite una recensione.
Ciao :)








-S




Twitter: @myidolsvoices.

  
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