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Autore: Gaber_Ricci    11/11/2012    2 recensioni
Tu sei anche codardo, e tutto questo tempo hai ignorato le mie sfide. Ecco, ed io ti ho preso qualcosa per te molto prezioso.
Genere: Azione, Sportivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Vega
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Il personaggio protagonista di questa fanfiction non mi appartiene, ma è proprietà della Capcom. Se qualche mio personaggio vi sembra un essere umano realmente esistente, vi sbagliate di grosso.

Come sempre, spuntò quel vivo sentimento del contrario che era una delle poche emozioni che non riusciva a reprimere, e che gli pareva di ricordare qualcuno avesse chiamato umorismo; ed in effetti, se vi fosse stato più predisposto per carattere, Vega avrebbe sorriso, pensando che, forse, era l'unico al mondo ad esporre un Hopper davvero magnifico dentro un camper, per di più a pochi passi da una ridicola versione di design di quella che una volta era stata una sua maschera (no: di quella che una volta era stata una sua faccia), e che finiva per farlo somigliare più ad un messicano eccentrico che ad un esteta spagnolo, e da una versione più safe (aveva ceduto all'inglese con una rassegnazione pari all'entusiasmo con cui, anni prima, era passato all'esperanto), in polietilene, di quegli artigli che, un tempo, fissati alla sua mano, erano stati la sua arma più temibile.

Si chiese perché, alla fine, avesse scelto di lasciarsi convincere a rinunciarvi: tanto, se non i più amati tra i face, certo la GWF, o come diavolo si faceva chiamare adesso la Federazione Mondiale del Wrestling, gli avrebbe permesso ben volentieri di far sanguinare, e forse finanche di uccidere, le mezzeseghe e le comparse più patetiche, purché mettesse la sua complicata firma su quel maledetto contratto a molti zeri; ma la domanda era ripetitiva e puerile, e la risposta evocava ricordi controversi (anche per lui, che sapeva benissimo come si erano svolti gli eventi), e pareva contraria ad uno dei principi in cui credeva, o fingeva di credere: “un intento morale è un imperdonabile manierismo stilistico” recitò, quasi meccanicamente, decidendo così d'ignorare il quesito, e la sua soluzione.

Volse gli occhi intorno; sul suo tavolo, come ogni mattina, qualche galoppino aveva deposto sette rose rosse, ed il New York Times, scelto dopo un'attenta disamina dei caratteri tipografici con cui, negli Stati Uniti, venivano stampate le diverse testate; le rose erano agonizzanti, e parevano più una strana specie di carciofo con una striatura vagamente rossastra, che le inarrivabili e quasi crudeli regine dei fiori; la loro bruttezza lo offendeva e, mentre afferrava il giornale, Vega decise che abbreviare il più possibile la loro sofferenza era un atto di giustizia, oltre che di pietà.

Schiacciò un tasto, ed uno specchio, anch'esso poco lontano dall'Hopper, s'illuminò; badando bene a non guardarci dentro, Vega spostò i fiori perché anche loro fossero riflessi dal vetro argentato; poi, continuando a volgergli le spalle, si sedette di fronte ad esso, e, con evidente e simulata vanità, fissò, finalmente, i suoi stessi occhi.

L'imprevedibilità fu solo apparente: erano anni, ormai, che si ripeteva quello stesso spettacolo, a cui prima aveva assistito con terrore, poi con rassegnazione o addirittura indifferenza, e che, infine, in una sorta di compensazione, aveva preso a provocare; ed anche quel giorno, come ognuno dei precedenti, non appena si specchiò, le rose appassirono.

In verità, il cambiamento fu ben modesto: solo un lieve, ulteriore incartapecorimento dei petali, ed il loro distacco dal gambo, segnalò che i fiori, finalmente, avevano trovato quella pace eterna che il suo capriccio, e l'incapacità di qualche fioraio, avevano fatto loro desiderare da quando erano calate nel caldo clima del Texas.

A quel punto, pensò di gettare un'occhiata distratta al Times; e lo fece, giusto quel tanto che bastava per far ridurre la sua pupilla ad una capocchia di spillo, e per far schizzare i suoi occhi alla ricerca dei resti di quella decomposizione. Il simbolismo, si sa, a volte può far girare la testa, ed il suo fratello degenerato, il deve esserci un senso, può essere più fottutamente stroboscopico della feniciclidina, del tetraidrocannabinolo e di quella cazzo di dietinilammide dell'acido lisergico messe tutte insieme; o almeno a Vega, che pure certi membri di vecchie controculture non avrebbero esitato a riconoscere (non era cambiato affatto, da allora), pur con un altro nome, come un esperto in materia, quel titolo, o meglio, la somma di quel titolo e di quella morte che aveva appena provocato, fece quell'effetto.

Lasciò cadere il giornale come se ne fosse stato ustionato e, alla prima pagina rivelatrice, iniziarono a sovrapporsi, a ritroso nel tempo e nella crudeltà, frasi sconnesse eppure narrative, intervallate da pozze di sangue color Starchild ed organi interni che compivano il primo passo verso l'avanzato stato di decomposizione, strabordando in tutta la loro vita da ferite aperte di fresco.

“...tremendi i segni lasciati sulla donna...”
“...irriferibili le condizioni del cadavere...”
“...le foto in esclusiva, di cui si sconsiglia la visione ad un pubblico impressionabile...”
“...l'addome orrendamente squarciato, da cui pendevano gli intestini...”
“...privato di un arto e degli organi genitali...”
“...poco lontano ritrovati i piedi e le orecchie della vittima...”
“...chi possa essere stato a ridurre in pezzi un povero bambino innocente...”.

Quel trip si concluse con lui in ginocchio, la testa tra le mani, dietro gli occhi chiusi finalmente il buio e non un flusso non gradito di ricordi; ma, dentro, una violenta furia che ancora poco aveva a che fare con la disintossicazione. Senza alzarsi, quasi a quattro zampe, si diresse verso l'Hopper, lo scansò con malagrazia e quasi lo lanciò via, facendo comparire alla vista un piccolo miracolo di ingegneria: lo sportello di una cassaforte. Quando l'ebbe aperta, ed ebbe infilato dentro il braccio, d'improvviso, qualcuno staccò la corrente.

Lo scarto fu tremendo, e rischiò, o forse fu l'improvvisa tranquillità, di farlo cadere di nuovo bocconi; subito dopo, tuttavia, ogni cosa gli apparve in tutta la sua chiarezza, come se fosse illuminata. Tirò indietro il braccio, godendosi la contrazione di ogni singolo muscolo coinvolto in quel complesso movimento, e mormorando qualcosa che fu molto simile ad un “dopo”; quindi, senza smettere di far scappar via parole a fil di labbra, richiuse l'ingresso a quel segreto e lo sigillò nuovamente con l'Hopper, dopo averlo amorevolmente spolverato e badando a che fosse ben dritto.

Per un attimo, in seguito, la sua attenzione si fissò ancora una volta sullo specchio, ma fu solo per identificare su quali recessi del suo torace muscoloso sarebbe calato, di lì a poco, il ridicolo, lucido olio, che il circo certo non si sarebbe fermato, per un funerale, e per sciogliere la lunga treccia, che giaceva riversa sulla sua spalla, con la precisione necessaria a non far intrecciare i fili della sua chioma; subito dopo, esso sparì dalla sua mente, come se, semplicemente, non ci fosse mai stato, e registrò il fatto che rimanesse illuminato come uno strano scherzo del fato.

Andò ad inginocchiarsi tra i petali secchi ed iniziò a raccoglierli, con la destra ponendoli nella sinistra, uno per volta, con la massima cura. Quand'ebbe finito, si alzò a sedere sui talloni e, senza chiudere il pugno per paura di ridurre in polvere il suo tesoro, sporse l'altro braccio in direzione della sua biblioteca, quella che certo il proprietario di tutto quel baraccone aveva trovato, tra le sue stranezze, la più strana: cercava, come se fosse una Bibbia indispensabile per un rito, un libro di Oscar Wilde.

Lo trovò, lo afferrò, lo aprì, con movimenti che decise troppo rapidi per i suoi scopi; così, per ristabilire una qualche forma di equilibrio, sprecò un poco di tempo a leggere qualche frase notevole di quell'irlandese non privo d'ingegno: “La sofferenza è solo un lunghissimo momento. Non possiamo dividerlo secondo le stagioni; possiamo soltanto registrarne i mutamenti e segnare volta a volta il loro ripetersi. Per noi, il tempo non progredisce. Esso ruota su se stesso; sembra girare su un perno di dolore. L'immobilità paralizzante di una vita di cui ogni particolare è regolato da un piano immutabile, così che mangiamo e beviamo e ci corichiamo e preghiamo, o almeno ci inginocchiamo nell'atto di pregare, secondo le leggi inflessibili di una regola di ferro, questo carattere di immobilità che fa ogni singola orrenda giornata identica alla precedente fin nei minimi dettagli, sembra comunicarsi a quelle forza esterne la cui essenza stessa è invece un continuo mutamento”.

Per quel che lo riguardava, non significava assolutamente nulla: dunque, quella pagina era perfetta.

Inclinando leggermente la mano, lasciò che uno dei petali, uno soltanto, vi cadesse dentro; poi, facendo bene attenzione a non produrvi strappi (sarebbe stata una sciagura, se fosse accaduto), passò alla successiva, ed anche lì depose una scheggia di rosa, e poi ancora, ed ancora, fino a che non ebbe più nulla da far precipitare, come lacrime, dentro quel libro, ed allora lo chiuse, e rimase a fissarne la copertina finché una voce dentro il suo capo, da qualche parte tra il quarto ventricolo ed il corpo calloso, non gli disse: “Ora. È il momento”.

Il volume venne lasciato cadere a terra e, sopra di lui, cadde il Times di quella mattina epifanica. Stavolta con calma, scansò l'Hopper e riaprì la cassaforte, cavandone un'altra tela, un poco più piccola, che non riuscì ad evitare di guardare per un attimo, e di guardare con disgusto.

La appoggiò presso la porta, rimproverandosi quel momento di debolezza, strappò via un brandello di stoffa da un suo costume di scena e, con un accendino, vi diede fuoco. Mentre usciva, il suo ritratto sotto il braccio, e chiudeva alle sue spalle la porta sul rogo di parole di Wilde, residui di rose ed inchiostro del Times, al titolo di quest'ultimo (“Shadaloo caduta! Il generale Bison ucciso, i suoi seguaci ridotti all'impotenza. Intervista esclusiva al colonnello Guile, artefice dell'operazione”), si sovrappose l'immagine di una colomba, di nome Redenzione, abbattuta a fucilate, e la sua stessa voce che urlava: “Patrujo Shadaloo au morto!”.

L'unica cosa che avesse detto con convinzione.
*

Benché fosse usanza aizzare faide tra i lottatori, nessuno aveva mai chiesto a Vega perché, al contrario di lui, Terrence La Coste, per tutti “The Ironman”, non avesse mai indossato una maschera, per salire sul ring a combattere (per salire sul ring a recitare); comprendeva che tutti ritenevano fosse coerente col suo personaggio rispondere, ghignando, che doveva essere perché il più grande danno che La Coste poteva ricevere era che una cicatrice alterasse la regolarità dei suoi esagerati baffoni. E forse, in passato, una simile risposta non avrebbe dovuto neppure essergli suggerita, l'avrebbe data in piena autonomia.

Il tempo, tuttavia, pur senza essere con lui generoso di rughe e canizie, gli aveva insegnato la comprensione per le umane vicissitudini: così, mentre lo fissava sul maxischermo, una bandana ricavata dal vessillo a stelle e strisce a nascondergli la calvizie, più che la chioma, Vega pensò che, in effetti, era prossimo al crimine nascondere espressioni tanto grottesche quanto immutabili.

Nessun altro, per dire, sarebbe stato capace di affettare, per tre anni, con altrettanta sincerità, sempre quell'espressione di sconcertata sorpresa, ad ogni loro incontro pubblico o privato, e perfino quando, come in quel caso, tra di loro si interponevano una telecamera, un operatore, un regista con relativa cabina, svariati manager e sceneggiatori, per non parlare del pubblico pagante e festante; e di sopprimere nel contempo, in modo straordinariamente naturale, il disappunto e forse perfino l'invidia che doveva provare nei confronti di un uomo sensibilmente più anziano (no: più vecchio) di lui, ma che nonostante questo sembrava suppergiù un suo nipote di second'ordine (e la possibilità doveva pure preoccuparlo, visto che aveva una figlia possidente età ed attitudini per fargli uno scherzo del genere).

Certo, i suoi discorsi non erano all'altezza della sua prosopopea; ma, almeno per quelli che divenivano di pubblico dominio, aveva una scusante: non era lui ad idearli. Di quello che stava tenendo in quel momento, Vega non aveva captato che poche parole, sufficienti però a coglierne il senso, che più o meno era questo: “Yo, io face, tu heel. Mi è stato detto che dici brutte cose su me e famiglia, ed io amo famiglia (applausi e levate di striscioni). Quindi, per il bene dell'umanità, qualcuno deve sconfiggere il male che hai dentro. E-quel-qualcuno-sono-IO!”.

Benché fosse un cultore della bellezza, e questa fosse figlia della semplicità, quel genere di monologhi, da tempo, aveva preso ad annoiarlo, più che ad affascinarlo. Quindi, accolse con gioia il cambiamento, quando Ironman si spostò, e la telecamera lo seguì fino ad inquadrare l'oggetto del mistero, uno storto treppiede in legno, divorato da qualche misterioso parassita, e coperto da un lenzuolo sporco e lacero: doveva essere da tempo che non si vedeva un quadro, nella GWF.

Al vederlo apparire, le reazioni furono multiformi: Vega si lasciò andare ad una breve, invisibile sorriso, mentre il clap clap del pubblico s'incrinò di perplessità, ed anche Ironman non pareva del tutto sicuro di sé, quando disse (Vega non perse nemmeno una delle sue parole, benché fosse stato lui stesso a suggerire quella variazione): “Mapperò, tu sei anche codardo, e tutto questo tempo hai ignorato le mie sfide. Ecco, ed io ti ho preso qualcosa per te molto prezioso”.

Afferrò il lenzuolo e tirò. L'“ooooh” che ne seguì segnalò una cosa che Vega non aveva previsto: e cioè, che per il resto del mondo quello poteva essere nulla più la copia fedele del viso e del corpo di un uomo che la fortuna (o il Signore Iddio, o il diavolo in persona) aveva baciato col dono dell'eterna giovinezza, e non, com'era per lui, un insieme mutageno di forme e colori, che rappresentavano tutte le storture e le imperfezioni che su di lui sarebbero dovute ricadere, se solo qualche pittore sinistramente dotato non avesse usato una tecnica innominabile nell'immortalarlo (un brivido. Doveva porre più attenzione, nella scelta dei verbi).

Anche Ironman, che pure era persona che stimava l'utile molto più del bello, dava segni di stupore, di fronte a quell'apparizione, e quasi sembrava dispiaciuto, quando giunse al punto in cui la sceneggiatura prevedeva, dopo avergli fatto dire: “Vediamo un po' se questo ti smuove, Mr Universo”, che lacerasse il dipinto con una coltellata.

La lama cadde con precisione sul punto in cui il quadro aveva il cuore, e venne trascinata fino ad aprire un grosso squarcio nell'addome; contemporaneamente, Vega sentì il suo corpo rilassarsi, pesanti pieghe andare a segnargli il viso, i suoi capelli che s'imbiancavano e cadevano; le mani si stavano coprendo delle macchie dell'età, quando le portò al taglio, identico, che si era aperto sul suo corpo, e da cui sprizzò fuori, con sibilo di soddisfazione, uno schizzo di sangue tanto violento che imbrattò il vestito della festa di alcuni degli spettatori della prima fila.

Ironman continuava, intanto, a lanciare parole di sfida a quello che, ormai, era a tutti gli effetti un cadavere, e si fermò solo quando il “cazzo!” del cameraman gli fece porre attenzione al fatto che il taglio nella tela si era completamente rimarginato.

Nessuno si godé il suo svenimento, tutti erano troppo impegnati a scorticarsi le mani, entusiasti.

Il silenzio calò solo quando qualcuno salì sul palco per accertarsi delle condizioni di salute del wrestler e, sollevando la maschera sul suo volto vecchio e deceduto, offrì allo zoom di una camera il sorriso beato di Vega.

  
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