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Autore: Dar K ya    03/06/2007    1 recensioni
La stanza si allargava immensa davanti a me, e al centro lui che mi osservava fisso negli occhi quasi volesse rubarmi l’anima. Nei dieci anni in cui ho vissuto con lui non una volta sono riuscito a sostenere il suo sguardo, e neanche quel giorno non potei fare meno di abbassare gli occhi. Odiavo quegli occhi, soprattutto il sinistro, più chiaro, sempre più spalancato rispetto all’altro, mi fissava come un avvoltoio ogni volta che mi incrociava. Quell’occhio era il protagonista dei miei incubi peggiori, quei sogni così terribili che al risveglio svaniscono come nebbia al sole e tu ti senti fortunato ad aver dimenticato quelle immagini, ma comunque un’atmosfera tetra ti perseguita per il resto della notte, come un ombra, sussurrandoti alle orecchie il vero significato del terrore.
Genere: Dark | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Nato come un compito in classe, quando facevo la prima superiore ho pensato che valeva la pena pubblicarlo (almeno secondo il mio parere). Ispirato da “il cuore rivelatore” di Edgar Allan Poe, ma è un’altra storia, diversa…la mia prof di italiano mi disse che non era un lavoro normale per una ragazzina di 15 anni…

Spero che vi piaccia…e se la leggete commentate please!!! ho bisogno di sapere i vostri giudizi...



Frenesia



La stanza si allargava immensa davanti a me, e al centro lui che mi osservava fisso negli occhi quasi volesse rubarmi l’anima.
Nei dieci anni in cui ho vissuto con lui non una volta sono riuscito a sostenere il suo sguardo, e neanche quel giorno non potei fare meno di abbassare gli occhi. Odiavo quegli occhi, soprattutto il sinistro, più chiaro, sempre più spalancato rispetto all’altro, mi fissava come un avvoltoio ogni volta che mi incrociava. Quell’occhio era il protagonista dei miei incubi peggiori, quei sogni così terribili che al risveglio svaniscono come nebbia al sole e tu ti senti fortunato ad aver dimenticato quelle immagini, ma comunque un’atmosfera tetra ti perseguita per il resto della notte, come un ombra, sussurrandoti alle orecchie il vero significato del terrore.
Era una sera come le altre e stavamo mangiando al solito lungo tavolo, sempre deserto oltre a noi due. In silenzio come era di abitudine. Cercavo in ogni modo di guardare nella sua direzione, ma sentivo la sua attenzione puntata su i me, come una sottile lama di ghiaccio che mi trapassa nella schiena. La fioca luce della lampada a petrolio proiettava tutt’intorno lunghe ombre, neri fantasmi danzanti che mi circondavano quasi per bloccarmi ogni via di fuga.
On osavo parlare a nessuno delle mie paranoie, più di una volta i miei parenti mi avevano sottoposto ad esami strami, in strano ospedali, mi ricordo che più di una volta dovetti passare le notti in quei luoghi…li le persone dovevano soffrire terribilmente, perché in ogni momento si sentivano urla isteriche, pianti intensi, rumori come di qualcosa di molto pesante scaraventato contro le pareti. Ricordo ancora quelle terribili notti in quella stanza buia, mi sembrava di diventar pazzo, il mio vicino nel sonno mormorava frasi incomprensibili incessantemente, mentre nella stanza accanto qualcuno batteva violentemente contro il muro ridendo sguaiatamente, inquietanti melodie riempivano l’aria e ti entravano nel cervello anche se ti tappavi le orecchie, si stavo per diventare pazzo, stavo per diventare pazzo. Per qualche ragione i miei parenti non vollero avere più niente a che fare con me e mi lasciarono in quella casa, maledetto quel giorno, maledetti tutti quanti!
Da allora sono diventato più sensibile, più percettivo in ogni sensazione, sempre in tensione, sobbalzavo per ogni rumore improvviso e spesso sentivo gelarmi il sangue nelle vene con la sensazione di essere osservato, soprattutto la notte, quando ero solo. Quelle notti mi rannicchiavo in un angolo e cantando la canzoncina che risuonava nei miei ricordi legati al soggiorno in ospedale, non so perché lo facevo, ma quel peso opprimente di uno sguardo nascosto puntato su di me stava per portarmi alla follia.
Quell’uomo , che sedeva davanti a me, sono sicuro che mi odiasse, se no perché tutti quei trucchi per farmi perdere la ragione? Io lo odiavo con tutto il cuore, si con tutto il cuore. Ma in quel momento il mio cuore era impegnato a battere freneticamente, come un forsennato; avevo paura, ma non sapevo perché.
In quel momento sentivo tutta la tensione accumulata in quella prigione, come degli spilli che trafiggevano ogni cellula del mio corpo, in una sinfonia di doloro insopportabile.
Mi alzai dalla tavola senza mostrargli il mio stato d’animo e con educata tranquillità me ne tornai nella mia camera. Anche quella sera mi strinsi in un angolo, con quelle gelide note strette fra i denti. La stanza mi sembrava ancora più buia del solito, le ombre riflesse nella tenue luce della luna che passava dalla finestra erano di un nero così intenso che mi sembravano pozzi per un'altra realtà. Quelle stesse ombre parevano muoversi intorno a me, simili a quelle proiettate dalla lampada nel salone, serpeggiavano senza tregua mentre io ripetevo il ritornello nella mia mene per distrarmi.
Non so per quanto tempo rimasi immobile in quell’oscurità, forse parecchie ore, sta di fatto oramai il mio cuore non riusciva a sopportare quell’atmosfera e impazzito mi stava influenzando con il suo battito incessante. Intanto guardavo la stanza intorno a me, soprattutto negli angoli più bui, dove sentivo dei movimenti strani, sentivo ancora quello sguardo su di me, non uno, ma tantissimi, migliaia di occhi puntati su di me, occhi accusatori, inquietanti, chiari occhi da avvoltoio.
Non ce la facevo più uscii veloce da quella stanza e involontariamente iniziai a piangere, e le lacrime si mescolavano al sudore sul mio viso.
Adesso intorno a me sentivo voci, voci familiari, voci già sentite; qualcosa come “è pazzo!” “bisognerebbe rinchiuderlo” “non lo voglio più in casa mia”.
Frasi dimenticate del mio passato, frasi intrise d’odio, e ogni parola che mi ritornava alla memoria recava rinnovato dolore al cuore già straziato.
Presi una decisione e veloce raggiunsi la camera del vecchio, con chiari occhi freddi come ghiaccio che nel buio seguivano ogni mio movimento.
Senza esitazione spalancai la porta e con violenza lo buttai giù da letto, e una volta disteso gli rovescia addosso tutto il peso dell’armadio posto li vicino. Feci tutto veloce senza che lui potesse accorgersi di niente, e nemmeno emettere un grido.
Non c’era sangue, forse era ancora vivo, o forse no. La curiosità di vedere il suo aspetto ora in contrasto da quello di una volta, sempre impeccabile e rispettoso oltre che inquietante, mi portò a sollevare il mobile che lo copriva.
Guardai compiaciuto il cadavere che giaceva immobile sul pavimento con gli occhi spalancati fissi nel vuoto. Si dice che gli occhi sono lo specchio dell’anima, un riflesso sulle proprie emozioni, ma ora l’unica cosa che riflettevano era Morte. Mi accorsi con fastidio e inquietudine che il suo occhio sinistro mi osservava ancora, ma questa volta con paura e terrore, spalancato dritto verso di me, come un’accusa al mio gesto. In quell’occhio vedevo la mia vittoria, eppure ancora c’era qualcosa che mi turbava; un suono sordo e velato, periodico come lo è un battito di un cuore.
Il terrore si era impossessato di me quando realizzai che il battito che udivo non era il mio. Non potevo rimanere li con le mani in mano mentre quel suono rimbombava nelle mie orecchie. Era terribile perché mi ero accertato della sua morte e non avevo nessun dubbio, i cuori dei morti non battono.
Avevo i respiro affannato, non sapevo che fare, allora presi un tagliacarte, sottile e appuntito, appoggiato allo scrittoio. So che pensate che quello che mi accingevo a fare era un gesto da pazzo, ma io non lo sono, me lo ripeto continuamente, poi voi non potete capire quello che provavo in quel momento, voi non eravate lì ad ascoltare quei battiti infernali che mi trafiggevano la testa, dovevo farlo smettere in un modo o nell’altro. Quel tagliacarte che stringevo tremolante nella mano avrebbe risolto ogni cosa.
Presi coraggio e con forza lo infilai nel petto del vecchio, all’altezza del cuore, trapassandolo finche non sentii il duro pavimento contro la punta. Ma tutto questo non fu sufficiente, no perché quel suono non mi abbandonava e il suo ricordo era ancora vivo in me.
Estrassi l’oggetto e velocemente lo pugnalai di nuovo, sempre in prossimità del cuore, un colpo dietro l’altro con il sangue che schizzava ovunque sulla mia persona, e sentivo piacere nel lacerare la sua carne e straziare quel cadavere che da vivo aveva straziato me solo con il suo sguardo.
Quando finii ansimavo e mi lasciai andare in una risata sguaiata e isterica, divertito come non lo ero da molto tempo. Mi guardai le mani insanguinate e presi tra le dita il taglia carte, rosso per il sangue versato. Quale gioia provai in quel momento! Guardai il suo petto e notai con piacere che quel suono massacrante aveva finito di torturarmi.
Sangue ovunque, sul pavimento, sui mobili e soprattutto su di me, i miei vestiti erano tinti di scarlatto, le miei mani grondavano del vitale liquido. Sentivo quel sangue freddo anche sul viso e questo mi rese ancora più felice, non sentivo più raggelare il mio corpo, ero libero. Si, era proprio felicità quella che provavo!
Comunque la mia vittoria non finì così, ancora non mi ero saziato a dovere, non mi sentivo appagato del tutto. Lo fissai intensamente in viso e subito mi balenò in mente un idea geniale.
Lo guardai dritto negli occhi un ultima volta, perché d’ora in poi non gli avrei più osservati ni quel viso, poi guardai l’Occhio, quello lo avrei continuato ad osservare. Mi procurai subito un barattolo di vetro e lo riempii di alcol. Ritornai dal vecchio e raccolsi da terra la mia preziosa arma sorridendo come un bambino davanti a un giocattolo che aveva desiderato per tanto tempo.
Ero li chino sul suo viso e con la precisione degna di un chirurgo asportai l’occhio da avvoltoio, facendo attenzione a non inciderlo con la lama, poi lo misi con cura nel barattolo.
Lo contemplai a lungo, ora non mi terrorizzava più, il mio sangue non gelava più a un suo sguardo.
Intanto ridevo, sempre più forte, gridavo al cielo la mia felicità e mi ripetevo “non sono pazzo!!no, no, no!!!”; stringevo il barattolo nelle mie mani e ridevo di gusto.
Poco dopo arrivò la polizia e mi sorprese vicino al cadavere ancora in uno stato di euforia, ogni cosa nella stanza era ancora sporca di sangue. Avevo nascosto il mio trofeo, non volevo che lo trovasse nessuno, non dovevano portarmelo via, era mio! Infatti molti agenti si interrogarono circa l’occhio sparito dal cadavere, ma io non mi feci sfuggire una parola al riguardo. In tribunale non fui condannato, il giudice farfugliò qualcosa riguardo all’”infermità mentale”, ma vi rendete conto dell’ironia della situazione? Ho sempre affermato di non essere pazzo, io sapevo, ero consapevole delle mie azioni, tutti gli altri sono pazzi, non io, sono gli altri che non vogliono capire!
Nessuno seppe mai la verità sull’occhio, lo portai con me all’istituto di igiene mentale, il mio prezioso trofeo; potevo guardare finalmente quella truce iride da avvoltoio a testa alta, non con terrore.
Mentre mi conducevano al manicomio parlai con frasi enigmatiche riguardo al famoso occhio, e alle loro domande sorridevo poi cantavo la mia canzoncina, unico conforto nelle lunghe notti insonni.
Qualche notte però, mi sembra ancora di essere osservato nel buio, e le ombre della stanza sembrano farsi più scure del normale, mentre un inquietante musica si espande nell’aria.
A quel punte le ombre mi sembrano muoversi come fiamme crepitanti e un suono ritmico e costante mi penetra nelle orecchie. In quelle notti mi accingo ad osservare l’anima del vecchio attraverso il vetro della sua prigione, e a volte posso giurare di aver visto il bulbo oculare fisso davanti a me pulsare producendo il terribile suono che mi portò alla follia.
  
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