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Autore: Jailer    19/11/2012    3 recensioni
"Ecco, mamma, tutti i nostri rituali simbolici di quel tempo miravano solo a quello: alla memoria.
Cancellammo tutto per non dimenticare niente.
Non che ce ne fosse realmente bisogno –i miei arti e l’armatura a cui era incatenato Al non lo avrebbero mai permesso-, ma noi, allora più che mai, eravamo alchimisti e avevamo bisogno di un cerchio di fuoco per permettere la trasmutazione della nostra vita.
Nel simbolo della nostra infanzia bruciata innestammo il futuro."

Una lettera di Edward a Trisha, quando tutto è diventato memoria. Anche Alphonse.
[Lievissimo EdWin]
Genere: Angst, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Alphonse Elric, Edward Elric, Trishia Elric
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Epiloghi

 
Lasciammo Resemboll quando l’incendio non aveva ancora finito di consumare la nostra casa e il nostro passato. Non volevamo vederle raffreddarsi, le ceneri.
Partimmo con ancora il bagliore del fuoco negli occhi –li chiudevo e ancora vedevo la sua luce nel buio: un’immagine per l’eternità, il giuramento di una rinascita. Avremmo ritrovato –ne eravamo sicuri- gualche granello di quella stessa cenere nelle mille città che avremmo visitato, forse ci sarebbe finito negli occhi, forse lo avremmo scorto semplicemente nel vento: un frammento di un’età che non era più nostra, e allo stesso tempo lo era più di qualsiasi altra cosa. Avremmo ricordato.
Ecco, mamma, tutti i nostri rituali simbolici di quel tempo miravano solo a quello: alla memoria.
Cancellammo tutto per non dimenticare niente.
Non che ce ne fosse realmente bisogno –i miei arti e l’armatura a cui era incatenato Al non lo avrebbero mai permesso-, ma noi, allora più che mai,  eravamo alchimisti e avevamo bisogno di un cerchio di fuoco per permettere la trasmutazione della nostra vita.
Nel simbolo della nostra infanzia bruciata innestammo il futuro.
Ci dissero che fummo molto coraggiosi; io penso molto codardi, perché, così facendo, eliminammo il pericolo di una tentazione e di un fallimento certo.
Proprio in quel gesto ora mi rendo conto di quanto più fosse la paura del futuro rispetto al passato: bruciammo il vissuto per non perdere quanto ci sarebbe stato da vivere.
Eravamo ancora bambini e già adulti, anime cronologicamente sfalsate.
L’armatura di Alphonse –chissà come- scricchiolava molto e tremolava un po’, tremava, come aveva tremato al tuo funerale quando mi chiese di tornare a casa.
Per dirgli di andarcene gli toccai con la mano destra la spalla nel silenzio e tremai anche io: non rispose per il contatto fisico, semplicemente udì il cozzare e il successivo rimbombo dell’armatura vuota. Sentii precisamente che cosa eravamo diventati proprio allora.
Acciaio contro acciaio eravamo fratelli come quando lo eravamo fatti di carne –forse di più, perché in noi c’era il sodalizio di chi ha visto scorrere il proprio sangue a terra.
Ma eravamo corpi vuoti e mutilati, ricordo che pensai questo, anzi, non eravamo nemmeno corpi.
“Andiamo via, Al.”
“Di già?”
“Mi bruciano gli occhi.”
Non ho mai investigato per cosa mi bruciassero: oltre al fumo, dentro e fuori di me c’era un così grande turbinio di tutto, forse lacrime, ma non piansi perché avevo giurato di smettere.
Fu un mantra: andiamo via, mi bruciano gli occhi;  andiamo via, mi bruciano gli occhi;  andiamo via, via, via, mi bruciano gli occhi.
Di quanto fui crudele in quell’ultima frase me ne rendo conto solo ora: la verità fu che per attenuare il senso di disgusto che provavo per me, volli discriminare Al per sentirmi un po’ più umano, io. Mi bruciavano gli occhi e quindi ero ancora un po’ umano, umano –almeno- rispetto a lui.
Povero Al.
Mi avresti sgridato, vero mamma? Ero il fratello maggiore e dovevo sostenerlo, non denigrarlo così.
Sono sicuro che in quel momento se avesse potuto avrebbe pianto. Tacque solamente e mi venne dietro, ma guardava altrove.
All’inizio ho parlato come noi, ma in realtà non so che cosa pensò Alphonse quel giorno. Lui forse non voleva andarsene via subito.
Lui forse voleva restare a cullare quelle fiamme: restare al fianco di quel focolare finché non avesse divorato anche le fondamenta –forse allora, lui, incertezze non ne avrebbe più avute.
Con gli anni era diventato bravo a vegliare, non dormiva mai –non poteva, non riusciva. Vegliava su tutto: forse fu lui il vero custode del nostro passato. Sicuramente fu lui il motivo principale per cui non indietreggiai mai per quanto doloroso mi sembrasse il mondo, non tornai indietro perché ogni volta che guardavo il suo “corpo” sentivo viva e sottopelle la mia colpa.
Che cosa pensasse tutta la notte, ogni notte, in quel drammatico ritorno, non gliel’ho mai chiesto.
Quel giorno, come tutti i precedenti e tutti i successivi, fu di una fedeltà disarmante: mi seguì, perché pensava che avrei sempre fatto il giusto, perché mi scusò di tutte le cattiverie.
Se mi bruciavano gli occhi allora quello era il limite della resistenza umana, forse pensò: sì, perché, non avendo un criterio fisico con cui misurare la stanchezza –e quindi il tempo-, ne aveva perso la cognizione.
Non provava dolore fisico, diceva, e il dolore fisico è il metro degli uomini.
Con la drammaticità della nostra esistenza fino ad allora, era nata in noi, quasi involontariamente, la concezione che fosse proprio la sofferenza a determinare l’uomo in quanto tale. Di qui, la confusione e lo sconforto di Al.
“Fratellone, se non provo dolore sono umano?”
Me lo chiedeva spesso, come se la risposta da una volta all’altra potesse cambiare, ma era sempre: “Esistono tanti tipi di dolore”.
Il suo era il peggiore, pensavo. Quanto di più e quanto più forte era il dolore che provava lui!
E tu lo sai mamma, perché anche tu eri brava a vegliare come Al: aspettavi quel padre che per noi non era mai stato tale, aspettavi l’amore della tua vita, aspettavi la primavera.
Lottavi con pianti silenziosi come furono i suoi.
All’inizio quando mimava il pianto, mio fratello mugolava, dopo un po’ smise anche di fare quello. Quanto forte avresti voluto piangere, fratellino mio?
Forse tutte quelle lunghe notti in cui io dormivo e trovavo requie e tu restavi sveglio ad attendere –attendevi, attendevi davvero sempre.
Sai, mamma, fra le prime cose che fece Al con il suo corpo ci furono: abbracciare tutti, mangiare qualcosa, dormire, e poi pianse tutta la sua prima notte.
“Dormi Al, sei ancora debolissimo.”
E intanto piangevo anche io, perché anche io, un po’ per orgoglio, un po’ per solidarietà, avevo smesso di piangere.
Piangemmo tutta la prima notte –proprio tutta.
Per cosa? Non lo sapevamo.
C’erano un sacco di motivi per piangere, c’erano anni di tristezza e frustrazione, c’era un passato per il quale non avevamo avuto tempo, c’era un futuro che faceva paura, perché era l’alba dopo la vittoria, e dopo una vittoria bisogna sempre ricominciare a correre –quello è veramente difficile.
Ma, comunque, quando ancora non potevamo piangere, talvolta trattavo male Al come quella notte, e, quasi per ripicca –sì, era una ripicca sicuramente, voglio pensare così per non impazzire-, Al, lui, mi restava fedele, e anzi lo si dimostrava ancora di più.
Quegli anni passarono veloci: Amestris stava per diventare l’altare per un’ecatombe, noi cercavamo i nostri corpi e io, nel mio piccolo, mi innamorai. Vivevamo con forza –eravamo tristi, distrutti, inferociti, ma vivevamo.
Respiravamo sangue come aria gelida all’alba, talvolta incappavamo in case di soldati calde come la famiglia che non avevamo più. Nei giorni peggiori aggiungevamo alla lista una nuova tomba a cui portare fiori; in quelli migliori il tuo ricordo, mamma, non faceva nemmeno così male.
Li ricordo come i peggiori e i migliori anni della mia vita.
Ho il coraggio di scriverlo solo ora, in questa calma, nel riparo tiepido e soffuso del lume del mozzicone di candela davanti al quale scrivo. Ora che sono solo e i bambini e Winry sono a letto –te la ricordi Winry? È di lei che mi innamorai, e per un po’ l’amore mi salvò da tutta la tristezza del mondo.
Adesso che mi immedesimo con il mio stesso padre, quel padre che ho odiato con tanta forza, e che con altrettanta tu hai amato, quell’uomo a cui tanto assomiglio se mi guardo nello specchio, dicevo, adesso nemmeno l’amore mi salva più.
E forse per questo scorgo nei miei stessi occhi quello sguardo da eterna solitudine che anche lui aveva in quella vecchia foto di famiglia.
Abbiamo vinto che non sono dieci anni, e già mi trovo nuovamente solo e tremendamente vecchio. Ancora più solo di allora –il calore di Winry e dei miei figli sembra non bastare.
Sono stato un pessimo fratello e ora un pessimo padre. Non sono diverso da lui.
Alphonse è morto.
È forse per questo che ho il coraggio di scoperchiare il feretro di un passato del quale a voce non so parlare. È forse per questo che ho preso questa nuova coscienza.
Alphonse è morto, ma lo sapevamo, in fondo: era un corpo che aveva patito troppo il suo, non avrebbe resistito oltre.
Alphonse, però, è morto con il sorriso.
“Sono morto come avrei voluto”, ha detto lì.

Umano?
No, Ed, felice.”
Mi ha letto nel pensiero fino all’ultimo.
Il suo viso era così pallido e magro da sembrare di cera. In questi anni non ha preso molto peso –è stato come se il suo corpo fosse incapace di riprendersi, e, insomma, lo si può anche capire.
Al è sempre stato per davvero felice, malgrado tutto. Come facesse non lo so: forse è stata quella sua sofferenza a nobilitarlo, forse è stata la così totale assenza di dolore che glielo rese gradevole.
Non fui mai capace di fare altrettanto: mio fu sempre uno sguardo che si volgeva indietro.
Ero il più grande e testardo dei fratelli; sono quello che non sa però togliersi quella sofferenza di dosso. Ora ancora meno.
Vi siete portati via tutto, tu e lui. Siete proprio madre e figlio, tanto bravi nelle veglie quanto bravi a far piangere e a farvi amare.
Morendo come voleva, Alphonse ha tolto a me la morte che avrei voluto io, o meglio: mi ha dato la morte che non avrei voluto. Non volevo morire solo.
Egoisticamente, avrei voluto  che fosse Alphonse quello al capezzale dell’altro.
Egoisticamente, vorrei tanto tanto morire, perché questa solitudine fa troppo male. Ho perso mio fratello e una parte di me, ho perso il mio compagno di gioie e soprattutto di dolore.
Non lascerò sola Winry e i bambini perché me lo ero giurato, che non sarei stato come lui, che ci ha lasciati soli.
Non sapete, però, quanto sia forte la mia voglia di morire.
O forse sì, tu lo sai benissimo, mamma. Ma non sei morta finché non è stata la vita a lasciarti.
Io sono bravo a ricordare, giuro che me lo ricorderò.
Voglio essere anche io figlio tuo tanto quanto Al.

Al… È finita davvero così la storia dei fratelli Elric…

 Edward

 
***

è una storia che è nata così, da sola e d’improvviso. Su quel momento tanto doloroso e tanto bello della vita dei fratelli.
Ovviamente il finale da cui parto è quello del manga.
Ah, nel caso vi interessi (no, ma è lo stesso), è in qualche modo legata, nel senso che affronta l’argomento del “passaggio”, con la mia drabble Borderline, che potete trovare qui:

 http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=883101&i=1

Grazie a chiunque sia arrivato fin qui, (e anche a chi si è fermato prima), ma anche a chi (chi?) recensirà (perché non mi lascerete sola come un fungo, vero? Vero?!).

   
 
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