Epiloghi
Lasciammo
Resemboll quando l’incendio non
aveva ancora finito di consumare la nostra casa e il nostro passato.
Non
volevamo vederle raffreddarsi, le ceneri.
Partimmo con ancora il bagliore del fuoco
negli occhi –li chiudevo e ancora vedevo la sua luce nel buio:
un’immagine per
l’eternità, il giuramento di una rinascita. Avremmo ritrovato –ne
eravamo
sicuri- gualche granello di quella stessa cenere nelle mille città che
avremmo
visitato, forse ci sarebbe finito negli occhi, forse lo avremmo scorto
semplicemente nel vento: un frammento di un’età che non era più nostra,
e allo
stesso tempo lo era più di qualsiasi altra cosa. Avremmo ricordato.
Ecco, mamma, tutti i nostri rituali
simbolici di quel tempo miravano solo a quello: alla memoria.
Cancellammo tutto per non dimenticare
niente.
Non che ce ne fosse realmente bisogno –i
miei arti e l’armatura a cui era incatenato Al non lo avrebbero mai
permesso-,
ma noi, allora più che mai, eravamo
alchimisti e avevamo bisogno di un cerchio di fuoco per permettere la
trasmutazione della nostra vita.
Nel simbolo della nostra infanzia bruciata
innestammo il futuro.
Ci dissero che fummo molto coraggiosi; io
penso molto codardi, perché, così facendo, eliminammo il pericolo di
una
tentazione e di un fallimento certo.
Proprio in quel gesto ora mi rendo conto di
quanto più fosse la paura del futuro rispetto al passato: bruciammo il
vissuto
per non perdere quanto ci sarebbe stato da vivere.
Eravamo ancora bambini e già adulti, anime
cronologicamente sfalsate.
L’armatura di Alphonse –chissà come-
scricchiolava molto e tremolava un po’, tremava, come aveva tremato al
tuo
funerale quando mi chiese di tornare a casa.
Per dirgli di andarcene gli toccai con la
mano destra la spalla nel silenzio e tremai anche io: non rispose per
il
contatto fisico, semplicemente udì il cozzare e il successivo rimbombo
dell’armatura vuota. Sentii precisamente che cosa eravamo diventati
proprio
allora.
Acciaio contro acciaio eravamo fratelli
come quando lo eravamo fatti di carne –forse di più, perché in noi
c’era il
sodalizio di chi ha visto scorrere il proprio sangue a terra.
Ma eravamo corpi vuoti e mutilati, ricordo che pensai
questo, anzi, non eravamo nemmeno corpi.
“Andiamo via, Al.”
“Di già?”
“Mi bruciano gli occhi.”
Non ho mai investigato per cosa mi bruciassero: oltre
al fumo,
dentro e fuori di me c’era un così grande turbinio di tutto, forse
lacrime, ma
non piansi perché avevo giurato di smettere.
Fu un mantra: andiamo via, mi bruciano gli occhi;
andiamo via, mi bruciano gli occhi;
andiamo via, via, via, mi bruciano gli occhi.
Di quanto fui crudele in quell’ultima frase
me ne rendo conto solo ora: la verità fu che per attenuare il senso di
disgusto
che provavo per me, volli discriminare Al per sentirmi un po’ più
umano, io. Mi bruciavano gli occhi e quindi ero
ancora un po’ umano, umano –almeno- rispetto a lui.
Povero Al.
Mi avresti sgridato, vero mamma? Ero il
fratello maggiore e dovevo sostenerlo, non denigrarlo così.
Sono sicuro che in quel momento se avesse
potuto avrebbe pianto. Tacque solamente e mi venne dietro, ma guardava
altrove.
All’inizio ho parlato come noi, ma in realtà non so
che cosa pensò
Alphonse quel giorno. Lui forse non voleva andarsene via subito.
Lui forse voleva restare a cullare quelle
fiamme: restare al fianco di quel focolare finché non avesse divorato
anche le
fondamenta –forse allora, lui, incertezze non ne avrebbe più avute.
Con gli anni era diventato bravo a
vegliare, non dormiva mai –non poteva, non riusciva. Vegliava su tutto:
forse
fu lui il vero custode del nostro passato. Sicuramente fu lui il motivo
principale per cui non indietreggiai mai per quanto doloroso mi
sembrasse il
mondo, non tornai indietro perché ogni volta che guardavo il suo
“corpo”
sentivo viva e sottopelle la mia colpa.
Che cosa pensasse tutta la notte, ogni
notte, in quel drammatico ritorno, non gliel’ho mai chiesto.
Quel giorno, come tutti i precedenti e
tutti i successivi, fu di una fedeltà disarmante: mi seguì, perché
pensava che
avrei sempre fatto il giusto, perché mi scusò di tutte le cattiverie.
Se mi bruciavano gli occhi allora quello
era il limite della resistenza umana, forse pensò: sì, perché, non
avendo un
criterio fisico con cui misurare la stanchezza –e quindi il tempo-, ne
aveva
perso la cognizione.
Non provava dolore fisico, diceva, e il
dolore fisico è il metro degli uomini.
Con la drammaticità della nostra esistenza
fino ad allora, era nata in noi, quasi involontariamente, la concezione
che
fosse proprio la sofferenza a determinare l’uomo in quanto tale. Di
qui, la
confusione e lo sconforto di Al.
“Fratellone, se non provo dolore sono
umano?”
Me lo chiedeva spesso, come se la risposta
da una volta all’altra potesse cambiare, ma era sempre: “Esistono tanti
tipi di
dolore”.
Il suo era il peggiore, pensavo. Quanto di
più e quanto più forte era il dolore che provava lui!
E tu lo sai mamma, perché anche tu eri
brava a vegliare come Al: aspettavi quel padre che per noi non era mai
stato
tale, aspettavi l’amore della tua vita, aspettavi la primavera.
Lottavi con pianti silenziosi come furono i
suoi.
All’inizio quando mimava il pianto, mio fratello
mugolava, dopo un po’ smise anche di
fare quello. Quanto forte avresti voluto piangere, fratellino mio?
Forse tutte quelle lunghe notti in cui io
dormivo e trovavo requie e tu restavi sveglio ad attendere –attendevi,
attendevi davvero sempre.
Sai, mamma, fra le prime cose che fece Al
con il suo corpo ci furono: abbracciare tutti, mangiare qualcosa,
dormire, e
poi pianse tutta la sua prima notte.
“Dormi Al, sei ancora debolissimo.”
E intanto piangevo anche io, perché anche
io, un po’ per orgoglio, un po’ per solidarietà, avevo smesso di
piangere.
Piangemmo tutta la prima notte –proprio
tutta.
Per cosa? Non lo sapevamo.
C’erano un sacco di motivi per piangere,
c’erano anni di tristezza e frustrazione, c’era un passato per il quale
non
avevamo avuto tempo, c’era un futuro che faceva paura, perché era
l’alba dopo
la vittoria, e dopo una vittoria bisogna sempre ricominciare a correre
–quello
è veramente difficile.
Ma, comunque, quando ancora non potevamo piangere,
talvolta trattavo male Al come quella notte, e, quasi per ripicca –sì,
era una
ripicca sicuramente, voglio pensare così per non impazzire-, Al, lui,
mi
restava fedele, e anzi lo si dimostrava ancora di più.
Quegli anni passarono veloci: Amestris
stava per diventare l’altare per un’ecatombe, noi cercavamo i nostri
corpi e
io, nel mio piccolo, mi innamorai. Vivevamo con forza –eravamo tristi,
distrutti,
inferociti, ma vivevamo.
Respiravamo sangue come aria gelida
all’alba, talvolta incappavamo in case di soldati calde come la
famiglia che
non avevamo più. Nei giorni peggiori aggiungevamo alla lista una nuova
tomba a
cui portare fiori; in quelli migliori il tuo ricordo, mamma, non faceva
nemmeno
così male.
Li ricordo come i peggiori e i migliori
anni della mia vita.
Ho il coraggio di scriverlo solo ora, in
questa calma, nel riparo tiepido e soffuso del lume del mozzicone di
candela
davanti al quale scrivo. Ora che sono solo e i bambini e Winry sono a
letto –te
la ricordi Winry? È di lei che mi innamorai, e per un po’ l’amore mi
salvò da
tutta la tristezza del mondo.
Adesso che mi immedesimo con il mio stesso
padre, quel padre che ho odiato con tanta forza, e che con altrettanta
tu hai
amato, quell’uomo a cui tanto assomiglio se mi guardo nello specchio,
dicevo,
adesso nemmeno l’amore mi salva più.
E forse per questo scorgo nei miei stessi
occhi quello sguardo da eterna solitudine che anche lui aveva in quella
vecchia
foto di famiglia.
Abbiamo vinto che non sono dieci anni, e
già mi trovo nuovamente solo e tremendamente vecchio. Ancora più solo
di allora
–il calore di Winry e dei miei figli sembra non bastare.
Sono stato un pessimo fratello e ora un pessimo
padre. Non sono diverso da lui.
Alphonse è morto.
È forse per questo che ho il coraggio di
scoperchiare il feretro di un passato del quale a voce non so parlare.
È forse
per questo che ho preso questa nuova coscienza.
Alphonse è morto, ma lo sapevamo, in fondo:
era un corpo che aveva patito troppo il suo, non avrebbe resistito
oltre.
Alphonse, però, è morto con il sorriso.
“Sono morto come avrei voluto”, ha detto lì.
Umano?
“No,
Ed, felice.”
Mi ha letto nel pensiero fino all’ultimo.
Il suo viso era così pallido e magro da
sembrare di cera. In questi anni non ha preso molto peso –è stato come
se il
suo corpo fosse incapace di riprendersi, e, insomma, lo si può anche
capire.
Al è sempre stato per davvero felice,
malgrado tutto. Come facesse non lo so: forse è stata quella sua
sofferenza a
nobilitarlo, forse è stata la così totale assenza di dolore che glielo
rese
gradevole.
Non fui mai capace di fare altrettanto: mio
fu sempre uno sguardo che si volgeva indietro.
Ero il più grande e testardo dei fratelli; sono
quello che non sa però togliersi quella sofferenza di dosso. Ora ancora
meno.
Vi siete portati via tutto, tu e lui. Siete
proprio madre e figlio, tanto bravi nelle veglie quanto bravi a far
piangere e
a farvi amare.
Morendo come voleva, Alphonse ha tolto a me
la morte che avrei voluto io, o meglio: mi ha dato la morte che non
avrei
voluto. Non volevo morire solo.
Egoisticamente, avrei voluto che fosse
Alphonse quello al capezzale
dell’altro.
Egoisticamente, vorrei tanto tanto morire,
perché questa solitudine fa troppo male. Ho perso mio fratello e una
parte di
me, ho perso il mio compagno di gioie e soprattutto di dolore.
Non lascerò sola Winry e i bambini perché me
lo ero giurato, che non sarei stato come lui,
che ci ha lasciati soli.
Non sapete, però, quanto sia forte la mia
voglia di morire.
O forse sì, tu lo sai benissimo, mamma. Ma
non sei morta finché non è stata la vita a lasciarti.
Io sono bravo a ricordare, giuro che me lo
ricorderò.
Voglio essere anche io figlio tuo tanto
quanto Al.
Al…
È finita davvero così la storia dei fratelli Elric…
è
una storia che è nata così, da sola e d’improvviso.
Su quel momento tanto doloroso e tanto bello della vita dei fratelli.
Ovviamente il finale da cui parto è quello
del manga.
Ah, nel caso vi interessi (no, ma è lo
stesso), è in qualche modo legata, nel senso che affronta l’argomento
del “passaggio”,
con la mia drabble Borderline, che
potete trovare qui:
http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=883101&i=1
Grazie
a chiunque sia arrivato fin qui, (e
anche a chi si è fermato prima), ma anche a chi (chi?) recensirà
(perché non mi
lascerete sola come un fungo, vero? Vero?!).