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Autore: Beauty    19/11/2012    8 recensioni
Grace non sa chi sia, Grace non si ricorda di lui, Grace chiama "papà" un altro uomo.
Ma Jefferson, pur essendo ormai uno sconosciuto, un giorno riesce a mantenere la promessa fatta a sua figlia...
Genere: Fluff, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Jefferson/Cappellaio Matto, Paige/Grace
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Aveva affidato Grace alle cure dei vicini, e con loro era rimasta, per ventotto anni. Jefferson spesso tentava di consolarsi dicendosi che, se non altro, Regina aveva permesso che sua figlia vivesse serenamente accanto a due brave persone che le volevano bene e non le facevano mancare nulla. Ma era sempre comunque doloroso sentirla chiamare papà un uomo che non era lui.

Jefferson sollevò il bavero del cappotto, benché non facesse poi così freddo da doverlo indossare, e infilò le mani nelle tasche, ritraendosi un poco quando udì la campanella della scuola elementare suonare l’orario di uscita. Ormai, il Cappellaio Matto viveva solo per pochi momenti, gli unici momenti in cui usciva da quella casa grande e vuota, buia e solitaria. Quei momenti erano soltanto due nella sua giornata: alle otto e mezzo del mattino, quando il portone della scuola elementare di Storybrooke si apriva, e alle quattro e mezza del pomeriggio, quando si riapriva di nuovo, lasciando uscire il fiume dei bambini. Jefferson aveva anche tentato di recarsi presso la scuola durante l’intervallo di metà mattina e della pausa pranzo, ma aveva avuto troppa paura di essere scoperto. Un adulto, solo, che si aggirava nei pressi della scuola, guardando i bambini, sarebbe subito stato notato, qualcuno avrebbe potuto prenderlo per un maniaco e denunciarlo. E lui non voleva perdere anche quelle poche occasioni che gli erano rimaste per vedere la sua bambina, anche se solo per pochi minuti.

Sapeva tutto o quasi di Grace e della sua nuova vita. Sapeva che si chiamava Paige, che era nella stessa classe della maestra Blanchard e del figlio di Regina. Sapeva chi erano le sue migliori amiche, sapeva che odiava la matematica ma amava leggere, e sapeva che era brava a disegnare. Sapeva che le piaceva andare in altalena e giocare con le bambole, sapeva che ogni domenica andava al parco in bici con le altre bambine, che le piaceva il gelato fragola e cioccolato e che il suo colore preferito era il blu. Jefferson sorrideva fra sé quando pensava che, in fondo, Paige non era poi molto diversa da Grace. La maledizione di Regina non l’aveva cambiata, come invece aveva fatto con lui.

Jefferson si ritrasse, nascondendosi ancora di più nell’ombra per evitare di essere visto. Il portone della scuola si aprì, e la folla di bambini si riversò allegramente in cortile, andando incontro ai propri genitori. Il Cappellaio si sporse un poco in avanti, scorgendo il volto di sua figlia in mezzo agli altri bambini, senza sorprendersi del fatto che, dopo ventotto anni, il suo cuore facesse un balzo nel petto. Sapeva che, ogni giorno, all’uscita da scuola, c’era l’uno o l’altro dei suoi nuovi genitori ad attenderla per riaccompagnarla a casa. Grace correva sempre loro incontro allegramente, abbracciandoli e dando loro un bacio sulla guancia. Una volta, vedendola saltare in braccio e abbracciare l’uomo che credeva essere suo padre, Jefferson si era sentito salire le lacrime agli occhi ed era scappato a casa come una furia, sentendosi il cuore ridotto a un cumulo di frammenti.

Vide Grace salutare le sue amiche e trotterellare allegramente fuori dal portone.

Da sola.

Jefferson si sporse ancora di più al di fuori dell’ombra, confuso. Non era possibile; cercò di individuare fra la folla di genitori coloro che un tempo erano stati i suoi vicini di casa, ma non vide né l’uno né l’altro. Com’era possibile? Non mancavano mai, non era mai accaduto che nessuno venisse a prendere Grace a scuola. Che se ne fossero dimenticati, che avessero avuto un imprevisto?

Ma la bambina non sembrava preoccupata. Grace non si guardò neppure intorno alla ricerca dei genitori, ma si avviò tranquillamente verso il cancello d’uscita, iniziando a percorrere il marciapiede diretta a casa sua. Sembrava serena, quasi sapesse che mamma e papà non sarebbero venuti, ma Jefferson non si sentiva comunque tranquillo.

Sua figlia era sola. Non c’era nessuno con lei. La razionalità gli suggeriva di non fare stupidaggini, non c’era nulla da temere, cosa voleva che succedesse a Storybrooke, chi avrebbe mai potuto fare del male a Grace? Jefferson l’ignorò; sebbene fosse molto improbabile che qualcuno le facesse del male, sarebbe comunque potuta accadere qualunque cosa. Una macchina, dei ragazzini prepotenti, o anche solo un ginocchio sbucciato, non importava, lui non avrebbe lasciato sua figlia da sola.

Ma l’hai abbandonata. L’hai abbandonata per ventotto anni.

Jefferson zittì quel pensiero, facendo lo stesso anche con la sua coscienza che gli urlava di non fare sciocchezze, e uscì completamente dall’ombra in cui si era nascosto. Grace aveva svoltato l’angolo; il Cappellaio la seguì in silenzio, rimanendo a distanza ma senza perderla di vista.

Poi me ne vado. Mi assicuro solo che torni a casa sana e salva, e poi me ne vado. Me ne vado.

I nuovi genitori di Grace abitavano non molto lontano dalla scuola, in un quartiere abbastanza grazioso e pulito. Jefferson scivolò silenziosamente dietro un albero, osservandola avvicinarsi alla staccionata di casa sua. Era una bella casa, a due piani, bianca, con un giardino ben curato e una veranda con un divanetto a dondolo e un tavolino. Nulla a che vedere con la catapecchia in cui vivevano da quando sua moglie era morta e lui aveva smesso di lavorare per Regina. Jefferson si chiese se, in fondo, per Grace non fosse stato meglio che lui se ne fosse andato.

Vide Grace aprire il cancello.

Solo un attimo e me ne vado. Solo un attimo.

Jefferson si sporse da dietro l’albero. Incespicò; non riuscì a trattenere un gemito quando la sua gamba strisciò contro il tronco ruvido. Grace si voltò, gli occhi sgranati.

Jefferson s’immobilizzò sul posto, dimenticandosi per un attimo di respirare.

Idiota! Stupido, imbecille, idiota! Imbecille! Idiota, idiota, idiota!

- Chi sei tu?

Jefferson sbatté le palpebre, mentre le vie respiratorie riprendevano lentamente a funzionare e il sangue a fluire. Lo stesso non poteva dire del cervello, o della voce. Il Cappellaio sentì il capo improvvisamente leggero, gli sembrava quasi di non essere realmente lì, ma di vivere in un sogno. Schiuse le labbra per parlare, ma dalla sua gola improvvisamente secca non scaturì alcun suono.

- Mi stavi seguendo?- Grace si ritrasse, sulla difensiva.

Jefferson si riscosse, improvvisamente di nuovo lucido.

- No!- gracchiò in fretta.- No, io…non ti stavo seguendo.

- E perché ti nascondevi?- certo; la sua Grace era una bambina intelligente, non sarebbe stato semplice convincerla del contrario.

- Non mi stavo nascondendo - Jefferson disse la prima cosa che gli venne in mente, la più semplice e idiota bugia che potesse inventare.

Grace rimase seria, guardandolo a malapena, e aprì il cancello.

- Scusa, ma la mamma mi dice sempre che non devo parlare con gli sconosciuti…

Jefferson abbassò lo sguardo; aveva ragione, faceva bene a non parlare con gli sconosciuti. Perché lui era uno sconosciuto.

- Hai…hai ragione…- mormorò.- Sarà meglio che me ne vada…

Si voltò appena, comandando alle sue gambe di muoversi, ma doveva essersi tagliato perché la gamba gli faceva male. Zoppicò per un paio di passi. Grace se ne accorse.

- Che cos’hai?- chiese; indicò la sua gamba.- Perché zoppichi?

Jefferson la guardò, leggermente imbarazzato.

- Non è nulla. Solo un graffio.

Grace ci pensò un po’ su.

- Forse, puoi entrare a riposarti. Magari ti passa.

Era una bambina d’oro; lo era sempre stata. Le era bastato vederlo zoppicare, per dimenticare i consigli della mamma. Quante volte gliel’aveva detto, di non lasciarsi commuovere! La vita, il mondo era pieno di pericoli, per lei. Ma Grace era buona. Per lei non esisteva il male.

- La mamma non ti aveva detto di non parlare con gli sconosciuti?- sorrise Jefferson.

La bambina, per tutta risposta, gli tese la mano aperta.

- Io mi chiamo Paige, molto piacere di conoscerti.

Jefferson gliela strinse; non riusciva a smettere di sorridere.

- Io sono Jefferson.

- Ecco, ora ci siamo presentati!- disse allegramente la bambina.- Non siamo più due sconosciuti. Ti va di prendere un thé con me?

Jefferson disse addio a tutti i suoi buoni propositi, a tutte le voci che gli dicevano di rifiutare e di non farsi mai più vedere, e si ritrovò a perdere il controllo delle proprie azioni, a seguire Grace oltre la soglia che gli era proibita, a salire i gradini della veranda dove, vide, era sistemato un tavolino con delle sedie.

- Prego, siediti pure!- disse Grace, indicando una seggiola, prima di accomodarsi a sua volta.

Jefferson si sedette; la bambina era due posti più in là di lui. Sul ripiano era posto un servizio da thé giocattolo, con teiera, tazzine e piattini, e dei biscotti al cioccolato in una ciotola. Intorno al tavolino erano poste altre tre  sedie, sulle quali erano sistemati dei pupazzi: una bambola di pezza, un tasso di peluche e un coniglio, un coniglio bianco con una giacca rossa. Jefferson ricordò improvvisamente l’altro coniglio, quello che Grace aveva quando erano ancora a casa, la loro casa. Era stato l’ultimo regalo che le aveva fatto, prima di andarsene. Ricordò quel pomeriggio al mercato, quel banco di giocattoli. Grace aveva preso fra le braccia un coniglio di pezza, entusiasta. Aveva letto il desiderio negli occhi di sua figlia, quel giocattolo, quella piccola cosa, l’avrebbe resa felice, ma lui non era stato in grado di offrirle neppure quello. Grace si era dovuta accontentare di un mucchio di vecchi stracci cuciti alla bell’e meglio, e lui si era vergognato profondamente di poterle dare solo quello, solo un misero giocattolo di seconda mano. Ma la sua Grace era una bambina dolce, buona, e aveva compreso.

E’ bellissimo, papà. Grazie.

Non si era mai sentito così felice come quando aveva udito quelle parole.

Guardò Grace: la bambina aveva iniziato a disporre le tazzine sul tavolo e a versare del thé invisibile con la teiera. Gli sorrise.

- Preferisci zucchero o limone?

- A me…a me piace lo zucchero…- mormorò Jefferson. Subito Grace gli porse due zollette invisibili.- E a te, cosa piace?

- Zucchero. Anche se la mamma dice che fa male ai denti - rise.

Alla parola mamma, il cuore di Jefferson perse un battito.

- Grace…

- Come?- la bambina lo guardò, sorpresa. Jefferson si maledisse mentalmente.

- Scusami. Paige…dove sono i tuoi genitori?

- Si sono dovuti fermare al lavoro, oggi. Torneranno fra un’ora - rispose la bambina.- Non ti piace il thé?- chiese poi, vedendo che Jefferson non aveva toccato la tazzina.

Papà, non ti piace il thé?

Jefferson sorrise, prese la tazzina fra le mani un po’ tremanti e bevve un sorso di quel thé invisibile. Era ciò che avrebbe dovuto fare allora. Sorridere e continuare a bere il thé. Non avrebbe mai dovuto alzarsi, non avrebbe mai dovuto prendere in braccio Grace, metterle la mantellina sulle spalle e mandarla dai vicini. Non sarebbe mai dovuto andarsene. Avrebbe dovuto stare con lei, continuare a giocare con lei e non pensare ad altro. Non avrebbe dovuto lasciarla facendole una promessa che non avrebbe mantenuto.

Sarebbe stato di ritorno per il prossimo thé. Non sarebbe mancato per nulla al mondo.

Così aveva detto, ed era sparito.

Il solo pensiero di come aveva dovuto sentirsi la sua bambina, sola in casa di estranei, mentre lo aspettava senza vederlo arrivare, per giorni, settimane, mesi…

Immaginò Grace seduta da sola a un tavolino del thé identico a quello, mentre giocava senza di lui, e avvertì una morsa di dolore stritolargli il cuore.

Perdonami, Grace. Ti prego, perdonami.

- E’ molto buono - sussurrò.

Era la verità. In tutta la sua vita, precedente e in quei ventotto anni trascorsi a Storybrooke, aveva bevuto innumerevoli tazze di thé, di ogni tipo, con zucchero o limone, con menta o miele, ma quel thé invisibile era in assoluto il più buono che avesse mai assaggiato.

Grace lo guardò, silenziosa, quasi pensierosa. Jefferson ricambiò lo sguardo, domandandosi se avesse detto o fatto qualcosa di sbagliato.

- Perché piangi?

Solo allora Jefferson si rese conto che due lacrime, solo due, piccole e silenziose, erano sfuggite dai suoi occhi e gli avevano rigato le guance. Le asciugò velocemente, quasi con furia, quindi si sforzò nuovamente di sorridere.

- Perdonami…- mormorò.- Credo…credo che sia il polline…

Si sentiva debole, vulnerabile. Grace era la sua forza, era tutto ciò a cui aveva bisogno di aggrapparsi per stare meglio. La bambina non disse nulla; il Cappellaio la osservò chinare il capo mentre estraeva qualcosa da una tasca: un fazzoletto bianco dal bordo azzurro.

Glielo porse.

- Tieni. Ne hai bisogno - sorrise.

Jefferson lo prese, asciugandosi brevemente gli occhi. Aveva un buon profumo. Il profumo di Grace, profumo di thé…profumo di ricordi…

Il Cappellaio si rende conto che, forse troppo presto, un’ora è quasi passata. I genitori di Grace saranno lì fra poco, e lui non può rischiare di farsi trovare lì da loro. Sarebbe la fine. Sarebbe l’ultima volta che potrebbe vedere la sua bambina.

- Devo andare, ora. Grazie per il thé - è tutto ciò che riesce a dire, e un altro migliaio di parole e di gesti restano intrappolati in fondo al cuore, chiusi gelosamente come lo sono stati per ventotto anni e più. Le porge il fazzoletto.

- Tienilo tu. Così ti ricorderai di me.

Jefferson sorride; vorrebbe dire che non gli occorre un fazzoletto per ricordarsi di lei, nessun oggetto può eguagliare i ricordi che ha di Grace, vivi e nitidi quasi lei fosse accanto a lui in ogni momento, ricordi che niente e nessuno potrà mai cancellare. Ma accetta comunque quel regalo, e sa che lo custodirà come un tesoro.

E’ già a metà del vialetto quando sente la voce di Grace.

- Tornerai a trovarmi?- chiede la bambina.- Mi farebbe piacere…Potremmo prendere di nuovo il thé insieme, se vuoi…

Jefferson si volta a guardarla, un sorriso di tenerezza dipinto sulle labbra.

- Ci terrei tanto, Paige. Non mancherò.

Esce dal cancello con il sorriso di Grace nella mente.

Jefferson percorre la strada di ritorno lentamente, senza prestare attenzione a ciò che gli sta intorno. E’ triste, la ferita nel suo animo fa ancora male, ma non prova quel dolore sordo e disperato che aveva creduto non appena se n’era andato.

Piuttosto, qualcosa è cambiato. C’è un sentimento nuovo, in lui. Non è ancora allegria, ma nemmeno la tristezza infinita che ha provato per ventotto anni. Non è felicità, non può ancora permettersi di essere felice.

E’ qualcos’altro. E’ speranza.

Jefferson stringe fra le dita il fazzoletto di Grace. Ha fatto una promessa, quel giorno.

Sarebbe tornato per il prossimo thé. E durante il prossimo thé che lui e Grace avrebbero preso insieme, lei avrebbe saputo chi aveva di fronte. Grace l’avrebbe di nuovo chiamato papà.

E quella era una promessa che aveva intenzione di mantenere.

 

FINE

 

Angolo Autrice: Come avrete compreso, questa è una shot semplice semplice senza alcuna pretesa. E’ solo che l’episodio di Jefferson-Cappellaio è uno dei miei preferiti, e la sua storia è straziante, a mio parere. Mi sembrava impossibile che, per ventotto anni, se ne fosse rimasto lontano da sua figlia senza nemmeno averle parlato una sola volta, così ho pensato a un eventuale incontro quando la maledizione non era ancora stata spezzata.

Spero vi sia piaciuta :).

Ciao!

  
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