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Autore: _fritjof    19/11/2012    6 recensioni
[I ragazzi del Reich]
Urlo. La neve mi cade sulle guance, la sento, riesco perfino ad avvertirne il profumo.
Odora di menta.

( One shot incentrata sulla visione di Friedrich della sua amicizia con Albrecht.
ACHTUNG : accenni a slash. Don't like, don't read. )
Genere: Drammatico, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Titolo: Odora di menta.
Personaggi: Friedrich Weimer / Albrecht Stein.
Rating: Giallo.
Genere: Drammatico, introspettivo, malinconico.

Note: Se è possibile vorrei che venisse letto insieme a questa canzone. ||http://www.youtube.com/watch?v=CqGRZlUDuV4&feature=share||
Tutti i diritti della canzone appartengono a Sarah Bettens; il montaggio del video a StrangerInTokyo; i personaggi e la storia originale a Dennis Gansel; lo scritto a me.









 
Odora di menta.

 
Urlo.
La neve mi cade sulle guance, la sento, riesco perfino ad avvertirne il profumo. Mi pizzica le orecchie, smuove i ricordi.
No, non voglio ricordare, non voglio ricordare nulla.
Fa male, aizza i sensi, le lacrime spazzano via copiose ogni singolo segno di terriccio o nevischio che sento bruciare sulla pelle.
Brucia; la morte scappa, la vita si fa strada in questo burrone dell'incoscienza. Voglio serrare l'amore fra le mie mani, ma si ritrovano sporche di una sostanza bianca, granulosa, umidiccia.
Stringono sangue. Profumano di sangue.
 
«Passatemi la cassetta del pronto soccorso, presto!».
 
Trema nel freddo come l'ultima foglia di un albero morente, lascio che sentano le mie urla.
Mi irrigidisco, ma solo un attimo; la mente è completamente fuori controllo.

«Non abbiamo sparato a degli uomini, abbiamo ucciso dei ragazzini!»

Le voci rimbombano, gli echi attutiti sono una fredda lama sul mio ventre.
Il sangue scorre, non hanno urlato, la consapevolezza pesa.
Sono un assassino. A sangue freddo. Nessuno scrupolo, tutti principi. Sono un soldato, una volta fiero di esserlo.

«È una scuola d'élite, ed è provvista di tutto: docce, alianti, palestra... E non dovremmo preoccuparci nemmeno di pagare!».

Scappai di casa per vivere. Mi ritrovai a morire, mandato nel limbo della conoscenza che pochi hanno il dovere di affrontare.

«Sei solo un bastardo egoista! Dì qualcosa!».

Lo picchiai, piansi, mi strinsi alla sua spalla. Facemmo l'amore. La prima e l'ultima volta.
Sentivo il suo fiato tra i capelli, disteso sul pavimento del bagno in comune con gli sportivi, quello sempre vuoto. Era il nostro ritrovo, nessuno oltre a noi due sentiva il bisogno di un posto del genere. Era anche meglio dell'ufficio che gli avevano donato per scrivere, riportare gli avvenimenti settimanali su quello stupido giornalino scolastico.
Adorava la scrittura. Sfornava temi su temi, era lo scrittore migliore che avessi avuto l'onore di leggere.
Non l'ha mai saputo.

«La settimana prossima compirò diciassette anni, l'età giusta perché mi spediscano sul fronte orientale».

Le sue mani mi carezzavano il mento, era come un dolce abbraccio che non ebbi mai il coraggio di ricambiare.
Scivolai sul suo corpo nudo: era bellissimo. I suoi occhi azzurri esprimevano tutto il dolore di cui eravamo stati testimoni due notti prima, nel bosco, coi russi.
La sua bocca era fantastica; il più bel ricordo che ne conservo è di quando pronunciava il mio nome con voce stizzita.
Passai una mano fra i suoi capelli. Odoravano di menta.

«Friedrich, per favore!».

Sembrava fosse il padrone del mondo. Si comportava come tale. Magari lo era.
Ricordo il suo sorriso. Rammento i suoi gemiti appena soffocati fra quelle piastrelle bianco sporco di quello squallido bagno. Lo desideravo almeno tanto quanto lui desiderava me. Le nostre divise ci imponevano il contrario, tuttavia non ci importava. Non saprei dire quando mi sono innamorato di lui, forse nemmeno l'ho fatto. Era il mio migliore amico, il mio confidente, il mio compagno, il mio amante.

«Non ti rendi conto di quello che abbiamo fatto!?».

Uccidemmo quei giovani russi insieme.
Sono convinto che gli incubi non abbiano accompagnato solo me, quella notte.

«Non tengo il broncio. Ho paura».

Avrei voluto tenergli la mano, fargli sentire il contatto della mia pelle sulla sua. Non ne ebbi mai il coraggio, se non in quel pomeriggio. Ricordo ogni dettaglio come fosse stato solo pochi minuti fa. Il mio cuore appartenne a lui fin dal primo momento in cui lo vidi.
Gli appartiene ancora.

«...di cosa?».

 
Pronunziai il suo nome fino allo sfinimento. Mi sollevava, mi faceva sentire terribilmente in colpa. I suoi caldi occhi color ghiaccio riuscivano a trasformarmi in qualcun altro, qualcuno di migliore.
Mi comunicarono gioia, spesso.
Mi comunicarono rabbia, quasi mai.
Mi comunicarono puro terrore quando le sue mani erano state tinte del colore predominante nella nostra bandiera: rosso, rosso cremisi, rosso bordeaux, rosso sangue. Quegli stessi occhi che non mi fece scorgere quella mattina di inverno.
Deve essere stato molto tempo fa, o forse solo ieri.

«Che ti importa?».

È morto in quella mattina azzurra e gelata d'inverno. Sono deceduto io stesso in quella mattina azzurra e gelata d'inverno.
Nell'acqua.
Nell'acqua fredda del lago vicino alla scuola.
Sotto lo sguardo attento dei miei compagni, esposto a qualunque ingiuria e allo stesso tempo nascosto e protetto a tutto e tutti.

«E ora che intendi fare?».

Poche parole, sapevamo entrambi che la reale risposta avrebbe fatto troppo male.

«Non lo so...».

Trema, trema nel vento e nel gelo e nella nebbia quel corpo esangue, l'unico ancora in vita fra quelli a cui avevamo ficcato piombo in corpo.
L'unico che ancora aveva il coraggio di sanguinare.
Il silenziatore aveva fatto dello sparo un sussurro. Gli ansimi soffocati e soffocanti di quei ragazzi con la paura del cuore che ci avevano mandato a uccidere non erano valsi la moneta.
Rimbombano ancora nella mia testa, ma ho trovato il modo di farla finita.

«Spasibo, tovarish...».

Stringo la neve sotto i palmi. Sono accerchiato da sguardi assassini e pietosi che ho contribuito ad uccidere, forse solo allucinazioni.
La mia mente non è capace di pensare ad altro, ad altro che al suo palmo aperto sotto il ghiaccio, che scendeva giù, sempre più giù, nell'azzurro cristallino dell'acqua e del cielo.
Non è esilarante?
Esser morti come si è nati, esser nati colpevoli ed esser morti innocenti.
Io non sono innocente. Merito la condanna, la voglio, la esigo.

«... mio padre vuole che faccia domanda per entrare nelle SS».

Chissà se in Paradiso mi pensa.
Non credo, si sarà già messo a scrivere la nostra storia su un pezzo di cielo.
Non mi interessa. Per quanto sembri infantile, lui non è più mio, un mio giocattolo, il mio cuore. Magari lo sarà di nuovo, un giorno.
Mi chiesero perché un compagno qualsiasi della camerata fossi così importante, per me. Risposi: «Lo amo».
Te l'ho mai detto?











~








Urlo.
La neve mi cade sulle guance, la sento, riesco perfino ad avvertirne il profumo.
Odora di menta.
Mi pizzica le orecchie, smuove i ricordi.
No, non voglio ricordare, non voglio ricordare nulla.
Fa male, aizza i sensi, le lacrime spazzano via copiose ogni singola cicatrice e terreno e nevischio fangoso che sento bruciare sulla pelle.
Brucia; la vita scappa, la morte ride e si fa strada in questo burrone dell'incoscienza. Voglio dormire, senza mai più rialzarmi.
Curioso, questo. Ogni giorno si assassinano sedicimila vittime che vorrebbero alzarsi per un'ultima volta, assaporare il suono, l'odore, il mormorio della vita.
E io? Io no.
Fammi gridare, voglio gridare. È l'unica cosa che mi è rimasta.
Finalmente solo, finalmente pazzo.
Finalmente pazzo, finalmente libero.












«...chi si rivede, Friedrich».







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Ho scritto questa storia con il cuore in mano, e anche abbastanza di getto a dire il vero, ma mi ispiravano troppo qualcosa di sentimentale.
Per finire, ringrazio infinitamente la Moglie che mi ha fatto da beta. ♥

   
 
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