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Autore: e m m e    20/11/2012    19 recensioni
È opinione comune che, dopo il suo finto suicidio, Sherlock torni da John nel giro di tre anni.
La verità, però, è che non se n’è mai andato. Non realmente.
[Per il Big Bang Italia]
Genere: Angst, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: John Watson , Mary Morstan, Nuovo personaggio, Sherlock Holmes
Note: What if? | Avvertimenti: Triangolo
Capitoli:
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Autore: emme
Fandom:
Sherlock BBC

Titolo: Sonata N°2 in LA minore
Personaggi: John, Sherlock, un po’ tutti i restanti conditi con vari OC.
Riassunto: È opinione comune che dopo il suo finto suicidio Sherlock torni da John nel giro di tre anni. La verità, però, è che non se n’è mai andato. Non realmente.
Rating: Pg13
Word: 39083 (fdp)
Generi: Introspettivo, Romantico, Drammatico. (Un terzetto vincente! YEP!)
Avvisi: Slash, Het, Angst, Fluff, What If?
Note: Questa storia doveva essere POV Sherlock, o al massimo-massimo POV Sherlock&John, doveva essere di quattro pagine, doveva essere solo Slash e fluff in modo violento.
Questa storia ha una struttura corale in cui mi perdo io stessa, mi ha preso talmente la mano che ho rinunciato a darle una lunghezza ragionevole, contiene molto più Het rispetto allo Slash ed è terribilmente Angst.
Ora, io mi chiedo: perché?
Ah, sì, la nota utile è questa: partecipa alla Community Bigbang_italia
Beta: Geilie, mi amor, che si è davvero fatta in quattro questa volta, tra impegni universitari e necessità di mangiare e dormire in modo sano. *abbraccia*

 

Gifter: La mia gifter, M_bfly, aka Madame Butterfly, ha creato questa cover di una bellezza allucinante, che sinceramente potrei anche analizzare dal punto di vista artistico dato che devo dare l’esame di storia dell’arte entro breve, ma credo che mi limiterò a sottolineare la bellezza poetica della mano di Sherlock che sembra abbracciare e afferrare John. Credo che sia la sintesi perfetta di questa storia. Grazie.

 

Sonata N°2 in LA minore
[Click]

 

 

Capitolo I

Tre dei sei chili persi sono tornati al loro posto.                   
Occhiaie pronunciate ma volto non più incavato: dorme con maggior serenità.
Zoppia evidente ma non necessita del bastone.
Capelli puliti, barba fatta, vestiti in ordine.
Sembrerebbe quasi il vecchio John, se non fosse palese che il vecchio John non esiste più.
Lo vede ordinare un caffè allo Starbucks, vicino all’ambulatorio.
Quattro giorni prima ha ricominciato a lavorare: il soggiorno dalla sorella, in qualche strano modo, gli ha fatto bene.
Il pedinatore silenzioso non sa in che modo sia iniziata la ripresa: era in Francia in quel periodo. Potrebbe scoprirlo, ma non è necessario.
Partirà di nuovo – per la Germania – tra qualche ora.
E non c’è alcun motivo per cui debba pedinare John, dato che la sua ripresa psicofisica è perfettamente avviata.
Nessun motivo logico.
Suppone di farlo solo per passare il tempo.

***

 

John arrivò in ambulatorio molto presto quella mattina, cosa abbastanza insolita per lui, ma si era svegliato nel cuore della notte in preda a un incubo – per la prima volta sull’Afghanistan, dopo il Barts – ed era troppo eccitato, troppo emozionato per riprendere sonno.
Non credeva che sarebbe mai arrivato fino a quel punto, a sperare in un incubo sulla guerra piuttosto che rivedere di nuovo Sherlock saltare da quel tetto, ancora, e ancora, e ancora, notte dopo notte.
Scolò il proprio bicchiere di caffè giusto in tempo per gettare il vuoto dentro a un cestino pubblico prima di entrare in ambulatorio.
La giornata sarebbe stata piena, tanto per cambiare, e lui aveva ben poca voglia di mettersi al lavoro, sapendo che a casa lo attendeva il deprimente odore di polvere e muffa del vecchio monolocale – l’unica cosa che aveva potuto permettersi dopo... be’, dopo – e solo la televisione a dargli il benvenuto.
Di un nuovo coinquilino non c’era neanche bisogno di parlare.
Ci aveva sorriso sopra, a volte – un sorriso triste, certo – per come quella sorta di voragine che si era creata nella sua vita era molto, forse troppo, simile a quella che di solito lascia la fine non voluta di una relazione.
Quando pensi di non potere amare nessuna, nessun’altra donna, per il resto della tua vita. Non dopo che lei se ne è andata.
Solo che per John quella situazione era mille volte peggio.
Non pretendeva di capire come dovesse sentirsi un uomo che perde la propria donna in quel modo, ma forse ci arrivava davvero vicino.
Dopotutto erano davvero una coppia e Irene Adler non si era allontanata troppo dalla verità.
Avrebbe quasi potuto riderci sopra, se non fosse stato così straziante.
« Buongiorno, John! » trillò Sarah appena fu entrato, ancora più mattiniera di lui.
Strano come quella ragazza fosse stata – apparentemente  – l’unica a non entrare in conflitto con Sherlock e a iniziare, in qualche modo strano e inquietante, ad apprezzare l’amicizia che legava John a quel particolare individuo, ad accettarla e a comprendere infine che non c’era alcuna possibilità per lei di inserirsi tra loro.
Erano rimasti amici, lei e John, con grande piacere di quest’ultimo.
« Buongiorno... come si prospetta la mattinata? »
Sarah roteò gli occhi mentre indossava il camice e al contempo gli consegnava il suo.
« Un vero inferno » rispose, accompagnando le parole con un sorriso quieto.
Tutti erano molto posati nei confronti di John da quando era successo, come se ridere troppo o essere troppo felici, o semplicemente essere in pace con se stessi, fosse estremamente offensivo nei suoi confronti.
John ci aveva fatto l’abitudine.
« Perfetto » rispose con tono sarcastico, poi si infilò nel suo studio senza aggiungere altro e attese che il primo paziente della giornata si facesse vivo.

Dopo sette persone che vantavano malattie molto classiche e una di loro che credeva di aver contratto l’AIDS per aver dato un bacio a un omosessuale – Dio, ma esistevano davvero queste persone del genere? – John sperava sinceramente di poter interrompere il lavoro per andare a pranzo.
Tuttavia la sua speranza andò in fumo quando la segretaria gli cedette una paziente di Sarah perché quest’ultima si era dovuta assentare per dieci minuti.
Evidentemente la signorina – John guardò la cartella clinica che gli era appena stata portata – Mary Morstan non poteva aspettare nemmeno quei dieci minuti.
John sospirò afflitto, eppure si sentì stranamente sollevato dal fatto di non riuscire a stare da solo con se stesso neppure un quarto d’ora quel giorno.
I giorni solitari erano i peggiori, dopotutto.
La segretaria fece accomodare la signorina Morstan nell’ambulatorio e chiuse la porta dietro di sé.
La donna che era entrata aveva più o meno una trentina d’anni, il viso pulito e una massa di capelli rossi molto curati che mettevano in evidenza l’ovale del volto.
Era truccata in modo leggero, con un velo di rossetto aranciato sulle labbra e una serie di lentiggini che evidentemente apprezzava, perché non c’era traccia di fondotinta a coprirle.
John la squadrò da capo a piedi, notando i fianchi pronunciati e il seno piccolo, ma visibile, sotto una maglietta scura. Indossava un paio di jeans non troppo aderenti e scarpe rasoterra.
Di solito quando era in ambulatorio John manteneva un contatto strettamente professionale con le sue pazienti, ma in quel caso la giovane donna che era appena entrata era davvero troppo carina per cercare di nascondere l’ammirazione nei suoi confronti.
John si alzò in piedi e la salutò gentilmente, con un sorriso.
« Non- non c’è la dottoressa? » domandò lei per tutta risposta, apparentemente intimidita.
« Si è dovuta assentare, ma le assicuro che sono un medico perfettamente qualificato » scherzò John, per poi concludere con: « Si accomodi. Qual è il problema? »
La signorina Morstan si sedette sulla sedia bianca che John le aveva appena indicato e sospirò.
« È... una cosa un po’ delicata. Imbarazzante, in effetti. Ecco- »
John attese senza mostrare impazienza: più volte gli erano capitati pazienti che si vergognavano in modo assolutamente privo di logica di qualche sintomo che lamentavano.
In quel caso, però, Mary Morstan non aprì più bocca, ma si limitò a prendere la propria borsa e rovesciarla sulla scrivania di John.
Insieme al portafoglio e al cellulare, al posto di tutte le cianfrusaglie che le donne si portano sempre dietro fuoriuscì una quantità industriale di test di gravidanza.
« Ma cosa...? »
« Ho speso una fortuna, ma ecco... il risultato è sempre incerto. »
John per poco non scoppiò a riderle in faccia.
« Signorina, questi test non sono infallibili. Se vuole essere certa, prima di iniziare ad avere nausee mattutine deve fare delle analisi del sangue. »
« È così imbarazzante » ripeté di nuovo lei, affrettandosi a gettare di nuovo nella borsa tutti gli inutili test.
John la guardò, iniziando a divertirsi. Gli sembrava di avere davanti una ragazzina che scopre per la prima volta come nascono i bambini.
« Credo che lo stato di gravidanza sia qualcosa di perfettamente normale, signorina Morstan. »
« Non è questo, il fatto è che... non mi è mai capitata una cosa del genere. Insomma, sono una ragazza per bene. Io... non sono solo preoccupata di essere rimasta incinta, io- vede, quell’uomo- ma siamo sicuri che non possa parlare con la dottoressa? »
John si portò in avanti, osservando come le guance della ragazza si stessero colorando di rosso a ogni parola che diceva.
Deliziosa, davvero.
« Ha per caso subito una violenza? »
« No! » esclamò lei, sconvolta. « Cielo, no. Come le viene in mente?! Il fatto è che ho conosciuto quest’uomo in un pub, e lui era ubriaco e io ero ubriaca e non so nemmeno il suo nome. Oddio, non è proprio una cosa da me, non capisco che cosa mi sia preso! » Guardò John di sottecchi, esaminando la sua espressione come a sfidarlo a giudicarla in qualche modo.
« Glielo avevo detto che era imbarazzante. »
John prese un respiro profondo. « Più della gravidanza in sé per sé, signorina, lei dovrebbe preoccuparsi delle malattie a trasmissione sessuale. »
« Sì, certo... lo so, è che non riesco a pensare a nient’altro, io... »
« Sarà meglio che la visiti, e dopo fisseremo delle analisi del sangue. Inoltre farebbe bene a pensare di andare da un ginecologo. »
Mary Morstan puntò i suoi occhi limpidi e scuri in quelli di John, guardandolo con un certo panico dilagante.
John scorse le sue labbra mimare le lettere “HIV” e si rese conto che il pensiero fisso della giovane adesso non era più concentrato su un’eventuale gravidanza indesiderata.
Stranamente si trovò ad essere preoccupato per lei.

 

***

 

Attacco di panico.
Pupille dilatate, respiro corto, incapacità di rimanere eretta, cuore che palpita.
L’ultima paziente della mattina di John sta uscendo dall’ambulatorio con i sintomi evidenti di un attacco di panico.
Il ragazzo seduto alla pensilina dell’autobus la degna a malapena di uno sguardo quando si accascia su una panchina sul lato opposto della strada, a pochi passi dalla porta dell’ambulatorio.
Se fosse a conoscenza del ruolo che quella donna giocherà in seguito nella vita di John, di certo sprecherebbe più di una rapida occhiata per catalogarla.
Cinque minuti dopo la donna è ancora lì che si tiene la testa tra le mani, lacrime agli angoli degli occhi e respiro sempre più accelerato.
L’osservatore scorge John uscire dalla porta con passo tranquillo, il giornale sotto un braccio.
Anche il dottore si accorge della donna.
La fissa per qualche attimo.
Il giovane che attende l’autobus vede passare sul suo volto un sentimento simile alla pietà, poi attrazione, poi indecisione e infine comprensione.
Lo vede avvicinarsi e sedersi accanto a lei.
Li osserva parlarsi per qualche minuto, fino a che John non le prende la mano.
A quel punto il ragazzo alto, un po’ curvo, con spessi occhiali da vista e un computer portatile sotto il braccio sale sull’autobus numero 3, passando completamente inosservato agli occhi dei due.
Infila la mano nei jeans sdruciti che indossa ed estrae un telefono ultimo modello.
Controlla in fretta gli ultimi messaggi.
Dieci chiamate senza risposta da parte di Mycroft Holmes e un sms lapidario:

L’aereo è pronto da venti minuti.
Sto perdendo la pazienza.
MH

Con una mano sola il ragazzo risponde con un altro breve messaggio:

Mezz’ora.
SH

Al di là degli occhiali spessi i suoi occhi glaciali non mostrano nient’altro che fredda indifferenza. Ha un lavoro da fare, e l’aereo non lo aspetterà ancora a lungo.

 

***

 

John doveva ancora metabolizzare il fatto di stare uscendo da tre settimane con una donna incinta di un altro uomo e soprattutto di non avere alcun desiderio di interrompere quella relazione.
Mary era... di un altro pianeta.
Alternava momenti di ingenuità assoluta a momenti di incredibile saggezza, quasi che passasse dal dimostrare cinque anni a dimostrarne novanta.
Mary era riuscita a fargli parlare di Sherlock al secondo appuntamento.
Era riuscita a fargli parlare di molte cose riguardo a lui e Sherlock, ma non di tutte, e questa era una cosa ancora migliore: voleva dire che John non si era del tutto legato a un’altra persona così come era accaduto nel caso del suo ex-coinquilino.
Mary lo faceva stare in pace con se stesso, perché lei non si sentiva in dovere di ammortizzare un lutto del quale sapeva poco e quel poco che sapeva le era giunto solo per vie traverse.
Mary lo aveva convinto a conoscere sua madre dopo sole due settimane e quando John pensava a loro due lo faceva come se si conoscessero da sempre.
Mary aveva bisogno di lui.
E la cosa migliore era che anche John aveva bisogno di Mary.
E non gli importava un fico secco se lei aspettava un bambino: la cosa importante, la cosa per la quale era stato in ansia per lei – mai successo con un paziente – erano stati i risultati del test dell’HIV.
Negativi, ovviamente.
Certo, questo non li tranquillizzava del tutto, dato che i sintomi possono presentarsi anche sei mesi dopo un eventuale contagio, ma la notizia che aveva dato alla giovane dopo aver letto le analisi li aveva portati a uscire in modo ufficiale per la prima volta.
Era stato l’ampio sorriso mescolato alle lacrime di sollievo che aveva osservato sul volto della ragazza che gli aveva illuminato la giornata. E questo sì che era stato straordinario.

« E così sai anche cucinare... c’è qualcosa che non sai fare, John? »
John rise a quella domanda, distogliendo lo sguardo dalle cipolle in agrodolce per spostarlo di nuovo sul vestito verde prato che Mary indossava quella sera.
Non era troppo stretto o provocante, ma valorizzava il suo corpo e John dovette soffocare un gemito quando si scottò le dita, distratto dalla pelle candida e ricoperta di lentiggini della giovane.
« In realtà è stato azzardato da parte mia invitarti in un triste monolocale e prometterti anche una buona cena... Potrai mai perdonarmi? »
Mary si guardò intorno, interessata. « Se sei proprio sicuro che non possa darti una mano in cucina, mi piacerebbe dare un’occhiata al tuo castello! » esclamò, come a voler tacitare l’imbarazzo di John.
« Accomodati, ma attenta a non perderti nel sotterraneo. »
Mary lo gratificò con un sorriso ampio e un bacio sulla guancia, spontaneo e più da bambina che da donna adulta, e poi iniziò a guardarsi intorno, a sbirciare la serie di oggetti che ora formavano la vita di John.
C’erano una poltrona e una piccola televisione sul lato destro della stanza, il più lontano possibile dal cucinotto.  I libri erano ammonticchiati accanto ad essa e nella libreria alle sue spalle.
I soprammobili erano pochi e di poco prezzo.
Nell’angolo in ombra, coperto di polvere stava il suo vecchio bastone, ricordo di anni peggiori. O migliori.
« Accidenti! » esclamò a un certo punto la ragazza, stupita. « È un vero teschio? Sembra proprio vero in effetti... »
No, è una riproduzione di plastica.
Un ricordo di Halloween.
Un ironico tentativo di regalo da parte di Harry.
« È un ricordo... »
Ci fu un momento di silenzio in cui John tentò di dire qualcos’altro, senza che la voce potesse uscire fuori.
« Apparteneva a Sherlock, vero? Santo cielo! Allora deve essere vero per forza! »
John diede un’occhiata all’arrosto nel piccolo forno e strinse i denti, facendo una risatina.
« Piuttosto inquietante, eh? » commentò avvicinandosi alla ragazza, che aveva una mano sollevata nel gesto di toccare il teschio, senza però volerlo davvero fare.
« La vostra doveva essere proprio una strana amicizia, John. Mi sarebbe piaciuto conoscerlo. »
John si avvicinò e le strinse la mano tra le dita, con dolcezza. « Gli saresti piaciuta » mentì.

 

***

 

Il cameriere biondo e pallido porta le ordinazioni al tavolo in cui John e Mary stanno cenando.
Dispensa i piatti passando, non visto, lo sguardo sul volto di entrambi.
Lui: rilassato, sereno, occhi velati, vita sessuale attiva, sonno quasi privo di incubi.
Lei: divertita, tranquilla, a suo agio, vita sessuale attiva, palesemente incinta. Non vede la necessità di flirtare, conosce profondamente l’uomo che le siede di fronte.
Il cameriere fluttua via, praticamente senza essere stato notato, li osserva di nuovo dal vano che porta in cucina mentre si sfila il grembiule.
Lei fa una battuta, John ride.
Il cameriere biondo e pallido chiude gli occhi ed esce dalla porta sul retro del ristorante.
Abbandona la parrucca in un cassonetto e recupera un cappotto scuro poggiato in un angolo.
Si tira su il bavero e si incammina nel vicolo deserto.
È la prima volta che lo vede ridere dopo che si sono separati e non ha alcun senso che faccia così male.
Il telefono trilla, attutito dalla stoffa.
Malvolentieri il giovane infila una mano in tasca e lo estrae.
Un solo messaggio:

Sentimenti?
Davvero non il tuo campo.
MH

Lo sforzo di non lanciare il telefono dall’altra parte della strada è talmente violento da strappargli un gemito.

 

***

 

John diede un paio di scampanellate alla porta della casa di Mary ben sapendo che con il volume della musica così alto difficilmente la ragazza avrebbe potuto sentire.
Il fatto che lei avesse insistito per dargli una copia delle chiavi era da imputarsi al fatto che, vivendo da sola, per qualsiasi emergenza l’unico a cui avrebbe potuto rivolgersi era John.
Dopotutto la sua gravidanza aveva ormai raggiunto uno stato abbastanza avanzato da mettere John stesso in ansia.
Pochi giorni prima lei gli aveva fatto posare l’orecchio sulla pelle calda e tesa del suo ventre e John aveva potuto sentire scalciare il piccolo che dormiva là dentro.
Mentre saliva le scale del complesso di appartamenti John ripensò alla domanda che sua sorella gli aveva rivolto di recente.
« Non capisco perché hai tanta fretta di accollarti una responsabilità che non è tua. Cristo, John, la conosci solo da... quanto? Sei mesi- »
« Sette veramente » l’aveva corretta John.
« È uguale! » aveva proseguito Harriet imperterrita. « Mi piace Mary, dico davvero... ma non pensi che stiate correndo un po’ troppo? »
Da allora John rifletteva su quel particolare: era davvero disposto a prendersi cura per il resto della propria esistenza di un bambino che non era il suo e di una donna che conosceva da nemmeno un anno?
C’erano momenti in cui dubitava di se stesso, in cui la scelta che aveva fatto di legarsi a Mary gli sembrava precipitosa e pericolosa.
John non era mai stato un uomo impulsivo, dopotutto...
Con Sherlock ci sono volute quattro ore per decidere di andare a vivere con lui, gli ricordò una voce da qualche parte nella sua testa.
Ma era diverso. Diverso in infiniti modi: non c’era un altro essere vivente in gioco, non c’erano sentimenti, in gioco.
No, niente sentimenti, almeno non dopo sole quattro ore, non è vero?
John iniziò ad odiare in modo violento il suo subconscio che continuava a fare stupidi paragoni tra Sherlock e Mary. Che diavolo avevano in comune Sherlock e Mary!?
Credo che sia proprio questo il punto, John, vecchio mio.
Scosse la testa, incapace di trovare una logica in quelle inutili elucubrazioni che più che il cervello stavano mettendo alla prova il suo cuore e così infilò la chiave nella toppa ed entrò in casa della sua ragazza.

Il pavimento era tappezzato di vecchi fogli di giornale attentamente posti gli uni accanto agli altri e incollati insieme con metri di nastro adesivo di carta.
Il divano era stato spostato in un angolo dell’ingresso e il tavolino occupava tutta la porta della cucina.
Là dove John sapeva esserci un tappeto di poco prezzo adesso si trovava una culla in legno vecchio stampo, di quelle che dondolano su due perni appena si osa sfiorarle. In poche parole del tipo che era molto facile incontrare in un film ambientato negli anni cinquanta.
Mary era seduta a terra e scartavetrava alacremente la parte inferiore della culla.
La finestra era aperta per evitare di respirare l’odore pungente del fissante per il legno, per questo motivo l’intera discografia dei Pink Floyd stava disturbando tutto il quartiere.
La ragazza gli dava le spalle e non si rese conto che John era appena entrato.
Lui rimase immobile, con le chiavi in mano e le dita ancora strette sulla maniglia della porta.
Mary aveva stretto i capelli in un foulard azzurro, ma qualche ciocca rossa era sfuggita alla presa; la porzione di pelle che John riusciva a vedere della sua guancia era macchiata di marrone. Le sue dita si muovevano agili ed era palese che stesse canticchiando a mezza voce.
Era una delle cose più belle che avesse mai visto e per niente al mondo vi avrebbe rinunciato.
Mary era ciò che John aveva sempre voluto nella vita: una casa dove tornare, un abbraccio in cui perdersi, un sorriso con cui consolarsi, lacrime da asciugare e risate da far nascere.
Era il porto sicuro, era la normalità.
Per quanto la loro relazione potesse essere sorta in modo strano, anomalo e confuso, adesso John non era capace di rinunciarvi.
Dopotutto sembrava che fosse ormai una routine: tutte le relazioni importanti della sua vita avevano qualche cosa di strano.
Mary si accorse di lui e sussultò portandosi una mano al cuore e poi sorridendo, sorpresa.
« Mi hai spaventato! Potevi cercare di fare un po’ più di rumore invece di farmi prendere un infarto! »
Si alzò, portandosi inconsciamente una mano sporca di trucioli di legno e vernice alla pancia prominente, e corse incontro a John.
Si sporse per dargli un bacio, ma lui la prese per le spalle, fissò le sue lentiggini, i suoi occhi limpidi e sinceri, la macchia marrone sulla sua guancia e le labbra che ormai conosceva perfettamente.
« Andiamo a vivere insieme » disse.
Una vita tutta nuova, una vita normale.
Senza esperimenti scientifici in cucina, senza parti di cadaveri nel frigorifero, senza corse folli in mezzo alla città nel cuore della notte, senza pistole puntate alla testa, senza il suono dolce del violino, senza una sintonia – una sinfonia – ormai perduta.
Senza Sherlock.

 

***

 

C’è un fiocco azzurro alla porta di quella casa dall’affitto troppo alto perché il solo stipendio di John possa mantenerla.
L’alba è sorta da poco, ma Londra sembra ancora immersa nella notte tanto la nebbia si è fatta fitta in quelle poche ore di luce.
Il pianto di un bambino fuoriesce dalle finestre aperte del secondo piano della casa.
La voce di un uomo e il canto di una donna cercano di calmarlo.
Lo spazzino dalla barba incolta si sofferma sotto le finestre.
Lei cercherà un lavoro nei prossimi giorni... Mycroft potrebbe fare qualche pressione perché venga assunta in un buon posto.
Lo spazzino stringe il manico della propria scopa continuando il lavoro, togliendo cartacce, foglie, mozziconi di sigaretta dal marciapiede.
All’improvviso il portone con il fiocco azzurro si apre e John esce quasi di corsa.
« Ricordati i pannolini! » gli grida Mary dalla finestra aperta, sovrastando il pianto del bambino.
Lo spazzino guarda correre l’uomo al di là della strada, nel piccolo market aperto ventiquattrore su ventiquattro.
Occhiaie scure, colorito pallido, capelli flosci, ma un inconscio e ampio sorriso sulle labbra.
Stanco, sfinito, ma felice.
« Problemi col marmocchio, capo? » chiede lo spazzino chinandosi in avanti – la nebbia nasconderà i suoi lineamenti –  quando John ritorna a passo di marcia verso la casa con in mano un sacchetto voluminoso.
Il neo-padre non lo degna quasi di uno sguardo: tutta la sua attenzione è rivolta alla finestra da cui la sua compagna lo sta osservando.
« Le normali coliche, niente di serio. »
Poi rientra in casa prima che l’altro abbia potuto anche solo augurargli una buona giornata.

Ha fatto delle ricerche su Mary Morstan, chiaramente.
Non si è nemmeno soffermato a chiedersi perché lo stesse facendo: lo ha fatto e basta.
Ormai ha smesso di chiedersi perché, nelle cose che riguardano John.
E lei è decisamente il tipo adatto a John.
Non è la solita ragazza che si portava a casa in una serie apparentemente compatta di tipi: questa ha bisogno di lui. E John ha l’evidente bisogno di qualcuno di cui farsi carico.
Sindrome da crocerossina?
Non ha mai dato peso alla psicologia: troppi psichiatri hanno cercato di applicare le loro inutili conoscenze anche al suo cervello e adesso lui non deve cercare di analizzare John.
Mary Morstan non nasconde niente nel suo passato.
Sua madre è stata infermiera fino a che non aveva smesso di lavorare e adesso si barcamena tra la vita e la morte in una clinica privata per le cui cure sta spendendo tutti i soldi della propria pensione. Suo padre è morto in guerra, quando Mary aveva sei anni. Non ha parenti stretti in vita. Fedina penale intonsa. Una storia seria con un compagno di college durata cinque anni e finita perché lui aveva un’altra donna. Laureata in letteratura, ha un master in giornalismo che per adesso le ha fruttato solo un lavoro part-time in un negozio di abbigliamento in centro.
L’unico grave errore della sua vita l’ha compiuto nove mesi prima, imbarcandosi in un rapporto sessuale non protetto con un certo Alexander Killman, di professione imprenditore e solo di passaggio a Londra per quella particolare serata di svago.
Lei non sa niente di lui. Lui ha una famiglia che vive in Scozia e probabilmente non ricorda nemmeno la faccia di Mary Morstan.
Di certo non può immaginare che lei ha partorito suo figlio e che adesso John Watson si è ritrovato a recitare il ruolo di padre.
Decisamente, dovrà far presente a Mycroft la necessità di trovare alla ragazza un lavoro ben retribuito.
Lo spazzino si allontana per la via che adesso sta iniziando ad animarsi. Arrivato al primo vicolo getta via la scopa e si strappa la barba finta dal volto senza smettere di camminare.

 

***

 

John si svegliò nel cuore della notte intontito, realizzando di stare per intraprendere un’altra sessione di papà-ti-distruggerò-i-timpani-con-le-mie-grida-prive-di-senso-logico.
Evviva.
« John, ti prego, vai tu... domani ho una riunione importante... » bisbigliò Mary da qualche parte alla sua destra.
Ebbene, lui aveva dei pazienti da visitare l’indomani, c’erano in gioco delle vite.
C’era in gioco la sua nottata di sonno.
Un grido più violento degli altri lo destò del tutto e lo fece scivolare fuori dal letto con gli occhi abbottonati e il passo pesante di chi preferirebbe fare di tutto tranne andare a cullare il proprio insonne figlio.
Si diresse verso la camera del bambino a pochi passi dalla loro stanza e, procedendo a tentoni per non spaventarlo accendendo la luce, raggiunse la culla.
Piangeva disperatamente, quasi che gli stessero tagliando un arto.
« Che succede, adesso? » domandò John sussurrando senza che il bambino mostrasse di averlo udito.
Lo prese in braccio e le urla si quietarono per qualche attimo, per poi ricominciare a un centimetro dal suo orecchio.
John saltellò per la stanza buia, incontrando lo spigolo di un comodino e imprecando tra sé.
Il piccolo non smetteva di piangere, ma adesso il volume delle urla era un po’ attutito.
« Adesso io e te faremo una visita alla cucina, poi al bagno, poi al salotto, poi andremo nel letto della mamma per farle una sorpr- » la voce di John fu interrotta da un grido acuto e penetrante che lo costrinse a battere le palpebre e barcollare. « Ok, d’accordo, niente visita alla mamma. »
Con un sospiro e senza mai smettere di cullarlo, John lo condusse in cucina. Insieme ruotarono attorno al tavolo, l’uomo controllò il pannolino e con sollievo si accorse che era ancora asciutto.
« Santo Dio, si può sapere perché stai piangendo?! » gli chiese disperato.
Gli occhi del piccolo lo fissarono con sgomento quando se lo portò davanti al volto, nella penombra della stanza.
« Fidati, i tuoi incubi non potranno mai essere peggiori dei miei. E non lo dico per- »
Per la seconda volta John si interruppe, ma in quel caso non fu il pianto di suo figlio a bloccargli le parole sulla lingua.
Con la coda dell’occhio aveva visto lo schermo del proprio computer illuminato nel salotto.
Senza smettere di dondolare il bambino avanti e indietro si diresse verso il basso tavolino dove era quasi certo di aver lasciato il portatile la sera prima. Chiuso e spento.
Sbattendo le palpebre per la luce bianca dello schermo si avvicinò cautamente con le sopracciglia inarcate.
La pagina internet era aperta su YouTube.
Nella stringa di ricerca c’erano le parole “Bach violino”.
John trattenne il respiro e con l’indice tremante diede play a “Sonata N°2 in LA minore” di Bach, abbassando contemporaneamente il volume fino a un suono accettabile per le tre di notte.
Dopo sole quattro note il pianto del bambino si era acquietato e nel giro di due minuti, finalmente, dormiva.
Il cuore di John si era fermato qualche attimo prima e ancora non era ripartito.
Posò suo figlio sul divano, assicurandosi che i cuscini gli impedissero di cadere, e si incamminò piano alla finestra, il suono del violino in sottofondo, il pensiero di Sherlock in sottofondo.
Spalancò le imposte e guardò fuori.
Alla luce dei lampioni non vide niente e nessuno.

« Ti sei alzata e hai acceso il computer? »
« Mmhm... »
Silenzio lungo, inquietante, e le note del violino a gridargli nelle orecchie una speranza che doveva essere morta e sepolta.
« Buonanotte, Mary ».

 

 

 

 

Note finali:
Non so in che modo esprimere quanto io sia affezionata a questa storia, e quindi non lo farò.
In totale sono sei capitoli, tutti già scritti, che pubblicherò ogni martedì a partire da oggi.
Sono mesi e mesi che non pubblico più niente e quindi bho, sono particolarmente emozionata. Ecco.
Buona lettura a chi passa di qui, e grazie.

  
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