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Autore: ihatedenni    20/11/2012    11 recensioni
{The Avengers | Weeping Angels}
Entri nella Cattedrale per un semplice sopralluogo, e non ti viene in mente che potrebbe essere l'ultimo posto che vedrai.
Esplori confessionali e sagrestie, cercando di capire i frammenti di storia delle povere vittime legate a quelle mura, fino a scoprire che è proprio lì che la loro emozionante avventura finisce.
Come puoi difenderti, quando il tuo più grande nemico ti obbliga a guardarlo?
Di tutti i pericoli che avevano passato, questo era il peggiore.
«Okay, ora ci dirigeremo lentamente verso le scale e l’uscita della sagrestia, senza togliere gli occhi di dosso a nessuno» disse Steve, arretrando leggermente.
Tony annuì.
«Mi pare una buona idea» concordò, imitandolo.
Genere: Angst, Sovrannaturale, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Steve Rogers/Captain America, Tony Stark/Iron Man
Note: Cross-over | Avvertimenti: nessuno
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Note pre shot: ed eccomi qua, pronta a proporre qualcosa che mi frulla in testa da mesi.
Voglio avvisare in anticipo che è una sorta di crossover, ma non cliccate già la x rossa in alto pensando di incasinarvi, tutti potranno capire.
Il fandom, ovviamente, è degli Avengers, ma l'antagonista è una vecchia conoscenza che tutti i fan di Doctor Who ricordano alla perfezione (e per di più, sono quelli che mi spaventano ogni volta, le mie paure più grandi, il primo posto di ciò che mi fa scappare sotto le copert– okay, avete capito).
Quando, dopo mesi, ho deciso di iniziare a scriverla, avevo pensato di mettere una descrizione di questi simpatici amici all'inizio della Shot per chi non seguisse il telefilm (perché, ovviamente, gli altri li conoscono già) ma ho cambiato idea: chi vuole troverà su google una bellissima descrizione di quelle creature malefiche, chi, invece, vuole la suspense, inizierà semplicemente a leggere.
Ho una paura matta di questa shot perché è la prima volta che mi metto a trattare un argomento del genere (aggiungendo, poi, il fatto che l'ho scritta dall'una alle cinque e mezzo del mattino - e ciò non aiuta).
Spero che vi piaccia, è un po' lunghetta ma penso sia meglio così: non poteva essere una long.
Beh, che dire: buona lettura e ci vediamo alla fine!
 
 
Ah!
Ovviamente è dedicata alla mia Nina.

Blink

 
 
Marika Noble sedeva composta sulla sedia di pelle nera e dura.
Le gambe incrociate sotto il tavolo e il modo con cui stringeva la povera borsa color prugna mostravano i chiari segni dell’ansia e della stanchezza, conditi con un pizzico di diffidenza.
Per tutti i suoi cinquantacinque anni d’età, non si era mai ritrovata a sporgere una denuncia così bizzarra – in realtà, nemmeno a sporgerne una normale – ma in quel caso era necessario.
Si torturò i capelli neri come l’ebano, acconciati in uno chignon vaporoso e saturo di lacca, per poi rimettere le mani sulla borsa.
Doveva stare calma, o almeno, non far notare agli agenti tutto quel nervosismo.
L’uomo con il completo grigio antracite le si avvicinò cautamente, tenendo in mano il fascicolo pieno zeppo di fogliettini e annotazioni che fuoriuscivano dalla copertina.
Appoggiò le carte sul tavolo lucido, poi si sedette di fronte alla signora Noble.
«Ci scusi per questa chiamata improvvisa» esordì.
Incrociò le mani di fronte a lui, cercando di ricreare un clima abbastanza informale.
L’agente Denver le sorrise, ma Marika non sembrava essere lì per fraternizzare.
«Non capisco perché mi abbiate fatto venire fino a qui per una denuncia che avevo già sporto alla polizia. Io abito a Greenwich Village» replicò, innervosendosi.
Mark Denver le offrì un altro dei suoi sorrisi professionali e calmi, cercando di farle parlare dell’accaduto.
«La polizia ha giudicato questo caso più adatto alle nostre competenze» rispose.
«E quali sarebbero le vostre competenze?» sbottò lei.
L’uomo respirò profondamente.
«Ci potrebbe semplicemente ripetere nei minimi dettagli cos’è successo?» domandò.
Marika fece oscillare la testa e arricciò le labbra secche.
Tanto valeva collaborare.
Appoggiò la borsa spiegazzata e torturata dalle sue stesse mani sul tavolo, si avvicinò con la sedia, trascinandola rumorosamente sul pavimento, e iniziò a raccontare.
«Mia figlia è scomparsa» esordì.
L’agente Denver annuì, serio.
Fin lì, tutto era chiaro.
«Si chiama Sally. Oh, che gioiello di ragazza è!» esclamò, con una punta d’orgoglio nella voce.
Poi si accorse che non era inerente alla discussione, e tornò all’argomento principale.
«E’ scomparsa due settimane fa, senza lasciar traccia. Doveva fare una tesina su una delle Cattedrali di New York, per l’Università. E’ iscritta alla facoltà di architettura, e ha un esame tra pochi giorni. E’ l’ultimo posto in cui è stata, perché la macchina era parcheggiata davanti all’entrata» spiegò.
«Sapete su chi dovete indagare? Quella vecchiaccia che attira passanti sulla centododicesima strada, ad Amsterdam Avenue! L’ha presa lei!»
Mark prese appunti sulla situazione, scritti in una grafia sbrigativa sui fogli della misteriosa cartellina.
«Ma non è questo, vero?» domandò lui.
Poggiò la stilografica e guardò la signora Noble negli occhi.
La povera donna, con le mani tremanti, aprì la borsa e tirò fuori una lettera ingiallita dal tempo.
Era ancora impolverata, usurata in alcuni angoli, ma perfettamente leggibile.
«E’ di Sally. L’ho trovata in soffitta, il giorno delle pulizie. Vado a svuotare gli scatoloni lassù una volta ogni sei mesi, ma non l’avevo ancora vista» spiegò.
Denver aprì la busta, trattenendo uno starnuto.
Per essere della figlia, era parecchio vecchia.
«E cosa ci trova di strano, signora?» domandò, prima ancora di aprirla.
Marika fece un cenno con la testa in direzione del contenuto della busta.
«Legga, signor agente» lo esortò.
Mark alzò un sopracciglio, perplesso.
Non era propriamente il momento per lasciarsi andare a dei ricordi di famiglia, ma la paura nello sguardo della signora Noble lo convinse ad obbedire.
L’uomo aprì la lettera, piegata meticolosamente in tre, e si schiarì la voce.
«Cara madre…» iniziò.
Diede un’altra occhiata alla donna, che non sembrava fermarlo.
«Volevo solo dirti che ho vissuto una vita lunga e felice, e che, nonostante tutto, ho avuto parecchi momenti di incredibile felicità. So che sei preoccupata per me e che ti stai chiedendo dove sia finita, ma ci sono cose a cui non posso dare spiegazioni: semplicemente, non mi crederesti.
Ho visto e partecipato a cose in prima persona che non avrei mai pensato di vivere se non nei libri, come l’avvento di certe tecnologie e…» continuò, poi s’interruppe.
Poggiò la lettera sul tavolo.
«Signora Noble, mi pare chiaro che sua figlia sia semplicemente scappata di casa e che questa sia una nota d’addio» commentò.
Marika si alzò di scatto dalla sedia, indicando con l’indice le parole scritte sul foglio rovinato.
«No, non è una lettera d’addio! Non l’ho trovata nella cassetta della posta, l’ho trovata nella sua vecchia cassa dei giocattoli… e non è stata inviata, non c’è nemmeno il francobollo! Legga, legga!» reiterò, alzando lievemente la voce.
L’agente Denver l’ascoltò e annuì.
Riprese l’oggetto in questione in mano e si decise a terminare la frase che aveva iniziato.
«Ho visto e partecipato a cose in prima persona che non avrei mai pensato di vivere se non nei libri, come l’avvento di certe tecnologie e… lo sbarco dell’uomo sulla luna» lesse.
Mark strabuzzò gli occhi, cercando comunque di darsi un contegno, e proseguì.
«La caduta del muro di Berlino è stata come ce l’hanno sempre descritta, le rivoluzioni del sessantotto hanno stravolto il mio modo di pensare. All’inizio non sapevo come cavarmela senza un computer, mentre ora mi sembra la cosa meno utile del mondo»
Ci fu una lunga pausa, in cui Mark Denver esaminò la carta, la filigrana, le parole e l’effettiva mancanza di un francobollo sulla busta.
La data in fondo alla lettera non poteva essere vera: ventotto aprile 1990.
Sally Noble, secondo i dati all’anagrafe, era nata nel 1992.
Mark Denver guardò Marika negli occhi, e la donna annuì.
«Visto? E’ stata quella donna, la vecchiaccia della Cattedrale! Ha preso la mia Sally e ha iniziato questo sadico gioco!» esclamò, piena di rabbia nella voce.
L’agente richiamò l’assistente sulla porta con un cenno della mano.
«Chiama Fury, subito»
 
La cattedrale di Saint John the Divine in the City and Diocese of New York, per gli amici semplicemente Saint John, era una delle due cattedrali più importanti di tutta la città.
Una volta era un luogo pieno di turisti, che affluivano nelle sue enormi navate per rubare qualche foto delle meravigliose sculture e dei dipinti mozzafiato che abitavano in quelle mura.
Ora, da più di sei mesi, era desolata e abbandonata a se stessa, e nessuno dell’ente turistico dello stato si era mai chiesto il perché di quel repentino cambio.
Alcuni funzionari del ministero si erano messi a scherzarci sopra, dicendo che persino i controllori dalle Belle Arti sparivano pur di non avercene a che fare.
Nonostante tutte quelle storie e voci sulla pericolosità della Saint John, sia Steve Rogers che Bruce Banner si trovarono d’accordo nel dire che era uno dei monumenti più belli che avessero mai visto in vita loro.
Di fronte a quella cattedrale così raffinata e misteriosa, quasi si dimenticarono che non erano lì per divertimento ma per capire, effettivamente, quale fosse il problema con quel luogo.
Lo S.H.I.E.L.D. aveva già provato a mandare altri agenti a fare quel lavoro, ma quasi nessuno si era voluto avvicinare a quel posto lugubre, e chi c’aveva provato non era ancora tornato per fare rapporto.
Giustamente, quando si trattava di rompicapo oltre ogni logica, era più conveniente mandare in campo persone con qualità ben oltre la media.
Dal furgone nero emerse Tony Stark, portandosi appresso la famosa valigetta di Mark V, seguito da Clint Barton.
Anche loro esaminarono la facciata della Cattedrale, sempre più convinti che qualsiasi cosa ci fosse lì dentro, era stata ingigantita pesantemente dalle parole di una vecchia donna preoccupata.
Nonostante ciò, non stavano sottovalutando la situazione.
«Svegliato la domenica mattina da Fury per cosa? Un giro turistico?» domandò sarcastico il miliardario, aggiustandosi le maniche della maglietta.
Il Capitano non rispose nemmeno alla domanda/provocazione dell’uomo, e si concentrò sul dottor Banner, che si era già posizionato all’interno del furgone.
Dentro al veicolo c’era un gomitolo di cavi e spine che avrebbero fatto inciampare anche l’uomo più attento, tutti collegati a computer e rilevatori.
Sul tavolo, accanto al portatile con le telecamere termiche in funzione, c’era il fascicolo del misterioso caso della figlia scomparsa, insieme a degli appunti scritti velocemente da Banner in persona.
Steve esaminò le varie tabelle e le considerazioni, leggendo cifre che non riusciva ad accomunare con nulla: voleva almeno capire in minima parte a cosa stava pensando Bruce, ma andava di gran lunga oltre alle sue competenze.
L’uomo, intento a digitare comandi sulla tastiera di uno dei computer, sospirò pesantemente.
«Qualsiasi cosa ci sia nei paraggi, non è niente di anormale. Non ci sono picchi di radiazioni gamma, né di alterazioni concrete. Forse il luogo in cui la figlia di Marika Noble è sparita non è questo. Forse ha parcheggiato la macchina e si è spostata a piedi» costatò lo scienziato.
Si tolse gli occhiali e guardò Steve.
«Nonostante ciò, il vostro giretto dentro la Cattedrale dovete farlo comunque» aggiunse.
Rogers annuì, serio, con la torcia stretta nella mano destra.
«L’importante è scoprire qualcosa» affermò.
«Già. Spero per voi non ci sia niente»
«Allora siamo d’accordo»
Pronunciate quelle parole, Steve prese gli auricolari che Bruce gli stava porgendo, aggiustandosene già uno nell’orecchio, poi saltò giù dal van.
Raggiunse Stark, con le mani infilate nelle tasche dei pantaloni, ancora intento a fissare quella facciata.
Gli allungò un auricolare, che attirò l’attenzione di Tony.
Abbassò lo sguardo per vedere cos’aveva tra le dita e fece una smorfia.
«Odio quando mi porgono le cose» disse.
Il Capitano lo guardò male e gli prese una mano, poggiandogli il dispositivo sul palmo.
«Siamo seri, va bene?» lo ammonì.
Andò da Clint, dandogli il suo, e Tony arricciò il naso.
«Siamo seri, va bene?» gli fece il verso.
Come se non fossero mai seri.
Con tutto quello che avevano passato, potevano anche farsela una risata ogni tanto.
Occhio di Falco si avvicinò all’entrata, pronto a sorvegliare ogni singolo centimetro nel suo raggio d’azione: avrebbe dovuto controllare tutto, nemmeno una foglia poteva muoversi in sua presenza.
Soprattutto, doveva evitare che qualcuno entrasse nella Cattedrale mentre Stark e Rogers la stavano ispezionando.
«Qua è tutto in funzione» gridò Banner dal van.
La sua testa spuntò fuori dal portellone.
«Riferiteci tutto ciò che vedete. Se succede qualcosa, qualsiasi cosa, verrà registrato nel rilevatore. Non dovrebbe esserci niente, ma siate cauti» li avvisò.
Tony annuì, seguito da Steve.
Tutto sarebbe andato alla perfezione, ogni dispositivo dentro il furgone era di fattura Stark e lui credeva fermamente nelle proprie tecnologie.
Si guardò un attimo in giro, per fissare il viavai di auto che stava passando nella strada parallela alla centododicesima, e venne attirato da un passante ad una decina di metri da loro.
Sembrava un ragazzo, parecchio giovane, con un giubbotto di pelle vecchio stile e un berretto che gli copriva il viso.
Teneva le mani nei jeans e pareva così assorto, in piedi, dall’altra parte della strada.
Gli sembrava familiare, ma effettivamente ne aveva vista di gente in vita sua.
Piuttosto, gli sembrava strano che se ne rimanesse fermo lì, a fissarli.
«Se qualcuno si avvicina e non riesco a impedirglielo – cosa che non succederà – vi avviserò subito» aggiunse Clint, incrociando le braccia.
«Perfetto, Everdeen» rispose Stark, dandogli una pacca sulla spalla.
 
L’interno della Cattedrale era uno spettacolo per gli occhi.
Nonostante fosse buio pesto e le finestre fossero state oscurate da enormi panni verde petrolio, la luce delle torce permetteva di ammirare le rifiniture e i dipinti che la caratterizzavano.
La navata, nonostante ostruita dalle panche di cedro poste disordinatamente in giro per l’enorme entrata, dava l’idea di un corridoio luminoso, quasi un ponte per il paradiso.
A parte l’enorme coperta di polvere che caratterizzava quel posto, non c’era ancora niente di particolarmente pericoloso per gli esseri umani.
La cappella era priva di oggetti non identificati, e l’altare era sgombro persino della tovaglia bianca ricamata che solitamente lo copriva.
Non sapevano che cercare, a quel punto.
Il Capitano, però, era sicuro di una cosa: si sentiva fissato.
Forse tutta quell’oscurità lo stava facendo tentennare.
Steve toccò l’organo maestoso posto a raso della parete, senza sfiorare i tasti, e trovò sulle sue dita il grigio dello sporco.
La polvere si alzò dalla superficie del legno, irritandogli le narici.
Sobbalzò quando sentì una nota risuonare nell’intera cattedrale e si chiese se era stato lui a farlo.
La risata di Tony, però, gli suggerì diversamente: era dietro di lui, con un dito sopra il tasto bianco, e pareva divertirsi abbastanza.
«Mi hai fatto preoccupare» borbottò.
«Io userei la parola spaventare» lo corresse Stark.
«Non mi faccio spaventare da così poco»
«La tua reazione ha fatto capire il contrario»
«Potremmo concentrarci sulla missione, piuttosto che sulle tue battutine?» replicò il Capitano.
Tony sorrise, poi lo illuminò in viso con la torcia, abbagliandolo.
Steve si mise una mano sugli occhi, finché la luce non si spostò sulla porta in fondo alla stanza.
«Entrata? Fatto. Altare? Pure. Cappella? Affermativo. Gli unici posti che non abbiamo controllato sono il piano superiore e la sagrestia» disse Tony.
Seguì una lunga pausa, in cui Steve si chiese dove voleva arrivare.
Fu il ghigno di Stark a farglielo intuire.
«E diciamolo, una sagrestia che porta a dei sotterranei è molto più interessante di un semplice piano superiore» aggiunse.
Tony riprese in mano la maniglia della valigetta, per poi dirigersi a passo spedito verso la porta.
«Ma non mi dire» replicò Steve.
Fece per seguirlo, ma si voltò un’ultima volta prima di lasciare la stanza.
Fissò un oggetto alla sua destra, che aveva attirato la sua attenzione pochi secondi prima.
Bella era bella, ma quella statua accanto all’entrata del confessionale era inquietante.
«Rogers, devo venirti a prendere per la manina?» gridò Tony dalla sagrestia.
Il Capitano ritornò in se e seguì la voce dell’uomo, lasciandosi dietro la statua.
Se dentro alla Cattedrale era buio, dentro alla sagrestia si sentivano solo i loro respiri e il rumore di Mark V che andava a sbattere dappertutto – con conseguenti imprecazioni del proprietario.
La luce abbagliava pochi dettagli, che purtroppo non erano indispensabili al loro compito.
Continuarono verso un lungo corridoio stretto senza parlarsi, fino ad arrivare ad una terza stanza, in teoria molto più grande delle altre.
Steve fece roteare la torcia per illuminare una porzione abbastanza ampia, esaminando molto lentamente ogni angolo.
«Non so se è più inquietante questa stanza o la statua di fronte al confessionale» commentò.
Tony sembrò tornare in se.
«Quale statua?» chiese.
«Quella del confessionale, come ho detto. Di fronte all’organo» spiegò.
A Tony servì una breve pausa per ricordare la planimetria dell’entrata, e fece no con la testa, nonostante Rogers non lo stesse vedendo.
«Non c’era nessuna statua» replicò.
Steve sbuffò.
«Certo che c’era, l’ho vista!»
«No che non c’era, ho esaminato tutto perfettamente e, in quella sala, era l’unica cosa che mancava»
«Non puoi semplicemente ammettere che ti sei sbagliato o è troppo difficile per te, dato che sei così orgoglioso?» ribatté Rogers, seccato.
«Ammetterei di aver sbagliato se solo non fossi nella ragione»
Entrambi continuarono ad avanzare, scendendo i gradini della scala che portava ai sotterranei della Cattedrale.
Nonostante fossero impegnati in una missione, non smisero di battibeccare.
Insieme al rumore dei loro passi sulla pietra umida e fredda si sentirono anche le loro repliche pronte e le constatazioni.
«Ti sei sbagliato, è normale. Si vede che sei entrato nel lato sbagliato dei quaranta e hai problemi alla vista» rincarò Steve.
Tony gli rise dietro, sarcastico.
«A parte che i quaranta sono i nuovi trenta, non ho intenzione di sorbirmi la paternale da un settantenne. Settantenne!»
«Ma con la vista di un ventiquattren–»
Rogers si bloccò, una volta arrivati in fondo ai sotterranei.
Tony, notando la reazione, lo superò, spostandolo con una mano sulla spalla, e puntò la torcia nella stessa direzione del Capitano.
Ci volle un attimo per capire che cosa fosse, e Tony si preoccupò seriamente della sua concezione della realtà.
Se tanto gli dava tanto…
«Era la statua… di un angelo?» domandò a Steve.
L’ex soldato annuì energicamente, poi, ricordandosi che non poteva vederlo, rispose affermativamente.
Ci fu un attimo di pausa, in cui Stark squadrò la statua di fronte a loro.
Era un semplice angelo che si stava coprendo il viso con le mani, niente di più.
Un po’ rovinato, certo, ma avrà avuto un sacco di anni sulle spalle.
«Rogers…» iniziò.
Illuminò il viso dell’angelo, nascosto dalle dita di pietra.
«… sono carine, su. Non dirmi che ti fanno paura dei semplici angioletti» lo prese in giro, continuando a camminare.
Superò l’angelo in questione, iniziando a fischiettare, ma Steve rimase lì ancora un attimo, a fissarlo intensamente.
Dava veramente i brividi.
Tony, nel frattempo, era entrato nell’ennesima stanza umida e buia, lasciandolo lì a pensare.
Rogers s’incamminò in fretta, ma dopo aver percorso alcuni metri si fermò di nuovo.
Si girò verso il punto in cui erano arrivati, poi verso la statua.
Pensava di essersi allontanato di più, mentre l’angelo era molto vicino a lui.
Tutto quel buio e quello stress lo stavano facendo veramente impazzire.
«Stark, meglio muoversi!» esclamò, raggiungendo a grandi passi il collega.
 
Bruce stava continuando a registrare i picchi di radiazioni gamma sul suo database… o almeno, era quello che avrebbe voluto fare.
In realtà era appoggiato allo schienale della sedia, braccia dietro al capo, a guardare lo schermo del computer principale.
Niente si muoveva, nemmeno una foglia, e da quanto stava sentendo né Rogers né Stark avevano trovato qualcosa di interessante o inerente alla missione.
Si stava quasi per addormentare lì, di fronte al display, quando sentì Clint parlare con qualcuno.
Non aveva sentito nessuno avvicinarsi e, sinceramente, non si sarebbe interessato molto al passante di turno che chiedeva all’agente Barton come mai non si poteva entrare.
Eppure, in quel momento, era piuttosto sicuro che non fosse una semplice richiesta d’informazioni.
Barton stava alzando la voce, e non era un buon segno.
Con uno scatto, Bruce saltò giù dal furgone, pronto a dare una mano e a soddisfare la sua curiosità.
Non si aspettava di certo una vecchietta a sostenere quella lite con un uomo come Occhio di Falco, ma eccola lì: molto bassa, con i lunghi capelli grigi e pagliosi raccolti in una crocchia fatta male, la testa nascosta da un berretto di lana color porpora.
Era vestita, anzi, imbardata in un cappotto lanuginoso grigio talmente lungo che mostrava solo le scarpe rovinate, insieme ad una sciarpa cremisi spessa e pesante che le copriva quasi metà viso.
Sembrava una semplice senzatetto in cerca di un po’ di carità, sia per l’aspetto che per il comportamento, ma qualcosa in lei diceva il contrario.
«Signora, glielo ripeto cortesemente, se ne vada» scandì Clint.
«No, siete voi quelli che se ne devono andare!» esclamò di rimando, rauca.
Bruce si avvicinò alla donna a grandi passi, sperando che la diplomazia riuscisse ad avere la meglio sul suo fervore.
Le poggiò delicatamente una mano sulla spalla, per attirare la sua attenzione, e le sorrise.
«Buon pomeriggio, sono il dottor Banner. C’è qualche problema?» domandò cortesemente.
La vecchia lo scrutò con gli occhiacci azzurri, così profondi che sembravano due pozzi.
«Sì» sibilò.
«C’è un problema. Anzi, due. Voi. Dovete andarvene subito!» li sgridò.
Quello non se l’era aspettato.
In fondo, era Clint quello che doveva cacciare le persone e fare la guardia, non il contrario.
«Signora, stiamo conducendo un’esaminazione dall’ente del turismo. I nostri addetti…» fece per spiegare, ma venne interrotto bruscamente.
«Addetti? C’è gente lì dentro?» domandò, sconvolta.
Per il poco del suo viso che si poteva vedere, era palese che fosse diventata pallida come la morte: aveva iniziato a tremare e sicuramente stava entrando nel panico.
«Non è vero, non siete del turismo» aggiunse poi, «perché ci sono già stati e non si sono fermati a lungo!»
Clint la osservò, interessato.
«Sembra sapere un sacco di cose» commentò.
«Chi siete? Cosa volete? Perché siete qui? State giocando con il fuoco, vi avverto!» gracchiò.
«Signora, si calmi. E’ un’investigazione privata, e in quanto tale le dobbiamo chiedere di andarsene» replicò Clint, di nuovo calmo.
La senzatetto sembrò colpita da un’illuminazione e guardò l’uomo, spaventata.
Non se l’era decisamente aspettato.
Investigazione! Nessuno era mai venuto per un’investigazione.
In tutti questi anni…
Oh.
«Che giorno è oggi?» domandò la vecchia, cambiando completamente argomento.
Bruce e Clint si guardarono, straniti.
«Diciassette novembre» rispose l’arciere.
Dovevano proprio beccarsi la svitata di turno, giustamente durante una missione.
La donna cominciò a contare sulle dita della mano, assorta nella sua miscela di numeri e mesi, fino a quando non esclamò dalla sorpresa.
«Due settimane! Due settimane dopo!» urlò, con la sua voce acuta e rauca.
Bruce la fece sedere sul muretto di pietra che faceva da recinto alla cattedrale, ma la senzatetto si rifiutò persino di farsi toccare.
«No, no! Sono già scomparsa!» continuò.
Stette quasi per mettersi a piangere, e Bruce non seppe più come convincerla a levare le tende.
Sicuramente, era la famosa vecchiaccia della Cattedrale che Marika Noble stava accusando da giorni.
La guardò negli occhi, poggiandogli le mani sulle spalle, e sospirò.
«Signora, mi spiac–»
«Sono scomparsa due settimane fa. Il tre novembre duemilaedodici. Ecco perché siete qua… mia madre ha denunciato la mia scomparsa»
Bruce aggrottò le sopracciglia.
«Cosa?»
Alla donna tremarono le labbra.
«Sono scomparsa il tre novembre duemilaedodici di fronte alla Cattedrale di Saint John. Il mio nome è Sally Noble»
 
«TONY, STEVE, USCITE IMMEDIATAMENTE!» gridò Banner alla ricetrasmittente.
Sally Noble continuò a dondolarsi sulla sedia di Bruce, pronta a scoppiare a piangere da un momento all’altro.
Clint aspettò una risposta dai due, mentre preparava torcia, arco e frecce.
«Mi hanno portato indietro nel tempo» continuò Sally, cercando di ricordare quel giorno di quarantacinque anni fa… o due settimane prima.
Bruce cercò di localizzare Steve e Tony sullo schermo del suo computer, ma sembravano esserci delle interferenze con l’interno della Cattedrale.
Sulla mappa nera non appariva nulla: nemmeno un pixel che mostrasse la loro presenza.
Clint, intanto che Bruce si scervellava a trovare un contatto, si concentrò sulla preparazione e le domande alla ormai anziana signora Noble.
«Che cosa è successo?» domandò.
Sally scoppiò finalmente a piangere, ricordandosi tutto.
«Mi hanno portato indietro nel tempo. Ero entrata nella cattedrale per fare delle ricerche per la mia tesina, e sono finita nella sagrestia» raccontò, in mezzo a lacrimoni enormi.
«Ricordo di averne visti un paio, e l’attimo dopo mi sono ritrovata a New York, ma nel 1967. Non sapevo cosa fosse successo, ero sconvolta, sapevo solo che non ero più nel 2012» continuò.
Tirò su con il naso, mentre Bruce imprecava alla ricetrasmittente.
«Loro chi?» chiese Clint.
Sally singhiozzò.
«Gli Angeli Piangenti. Sono stati loro. Sono le statue della sagrestia, sono le statue degli angeli» rispose.
Bruce e Clint si guardarono, confusi.
«Sono state… delle statue?» domandarono.
«Non sono statue. Sono creature infernali, sono assassini! Sono statue solo quando le vedi! Ecco perché si coprono il viso!» gorgogliò.
Banner si fiondò di nuovo sulla postazione, schiacciando ripetutamente il tasto per avviare la comunicazione.
Clint impugnò l’arco e la torcia portatile e uscì dal van.
«Andiamo a fissare quei figli di puttana» disse, correndo dentro alla Cattedrale.
Banner riuscì a collegarsi alle ricetrasmittenti e avvisò i due uomini.
«Tony, Steve, USCITE SUBITO!» gridò.
 
«Fammi fare un paio di conti» esordì Stark, calciando dei sassolini sul pavimento e illuminando porzioni di sagrestia a random.
«Hai combattuto nella seconda guerra mondiale, sconfitto un nemico mortale, resistito nel ghiaccio per oltre sessant’anni, ucciso uno stormo di Chitauri… e ti fanno paura delle statue degli angeli» lo stuzzicò.
Steve sbuffò col naso, seccato.
«Ho solo detto che sono inquietanti» borbottò.
«Sì, certo, come ti pare»
Il Capitano fece per ribattere acidamente, quando sentì qualcosa nell’auricolare.
Un disturbo, un ronzio, parole spezzate a metà.
Tony si fermò in contemporanea, ricevendo gli stessi rumori.
Si aggiustò l’auricolare nell’orecchio.
«Bruce? Sei tu?» domandò, ma l’interferenza non sembrava diventare più chiara.
«Non…»
«Bruce, ripeti» ordinò Tony, premendo la cuffia.
«Non… statue…»
«Statue?» ripeté Steve.
«Le statue sono… piangenti… sbattere le palpebre» gorgogliò Bruce.
«Statue piangenti, statue piangenti…» mormorò Tony, pensando a che collegamento poteva esserci con quello che stava dicendo il dottor Banner.
«Non sbattete le palpebre!» esclamò l’uomo, dall’altra parte della ricetrasmittente.
Steve e Tony si guardarono, sempre più confusi.
Che cosa voleva esattamente dire non sbattete le palpebre?
«Statue piangenti? Intende quella?» domandò Steve, illuminandone una dietro al miliardario, a circa otto o nove metri.
Tony si girò verso la luce, guardando l’angelo.
«Sono le tue amichette» replicò sarcastico.
«Ma non capisco cosa significhino, Bruce non si sente bene… ci deve essere qualche problema di segnale» costatò.
«Tony, Steve, uscite subito!» gridò Banner, stavolta chiaro come il sole.
«Sono le statue degli angeli a uccidere» continuò.
«Dovete guardarle altrimenti si muovono. Non sbattete le palpebre. Ripeto: non sbattete le palpebre!» gridò.
Ci volle un attimo per realizzare, e Tony e Steve impallidirono a quell’affermazione.
Era impossibile da credere, come potevano essere creature del genere?
Le statue si muovevano: ecco perché Rogers era convinto di averle già visto, ecco perché sembravano seguirli, ecco perché non avevano ancora trovato niente d’interessante.
Perché la vera minaccia si era celata così bene che non destava alcun sospetto.
Tutto quel giro di pensieri e spiegazioni, però, li portò ad un'unica considerazione: non stavano più guardando l’angelo che avevano illuminato poco fa.
«Cazzo!» gridò Steve, puntando la luce verso Tony.
La statua che due secondi prima era a nove metri da Stark, in quel momento era a meno di trenta centimetri da lui, con lo sguardo scoperto e le braccia in alto, pronte ad arpionarlo.
La bocca dell’angelo era aperta, mostrando i denti aguzzi e pericolosi, ancora di pietra.
Tony sentì il battito cardiaco procedere a mille e la paura scorrergli nelle vene.
Non ebbe il coraggio di girarsi: sentiva la presenza della creatura dietro di lui e cominciò a sudare freddo.
Nonostante ci fosse Steve a guardarlo, e quindi era, per il momento, al sicuro, non ebbe il coraggio di girarsi per vedere in faccia l’Angelo Piangente.
«Quanto vicino» domandò, senza nemmeno marcare l’interrogazione della frase.
Steve deglutì, cercando di rimanere calmo e razionale.
«Circa venticinque, trenta centimetri» rispose.
Tony si umettò le labbra, respirando profondamente.
«Dobbiamo uscire di qui» convenne.
Rogers annuì lentamente, ma il problema era il seguente: come.
«Okay, ora io do un’occhiata in giro, poi procediamo con cautel–» disse Stark, ma si interruppe quando vide una lacrima scivolare lungo la guancia del Capitano.
Cercò di sdrammatizzare la vicenda.
«Amico, usciremo da qui, non devi piangere» cercò di confortarlo.
«Non sto piangendo perché ho paura, Tony» replicò, calmo.
«Sto lacrimando perché non riesco più ad evitare di sbattere le palpebre» rivelò.
La bocca di Tony si aprì in una piccola o.
Non ci aveva pensato.
Sbattere le palpebre era un bisogno fisiologico, persino per i soldati immortali come il Capitano.
«Okay, mi giro verso la statua, ti do’ il tempo per riprenderti» avvisò Tony.
Steve annuì.
Stark si voltò lentamente e si ritrovò di fronte a quella minaccia così apparentemente innocua.
La fissò senza sbattere le palpebre nemmeno una volta.
Tony sentì Steve sfregarsi le lacrime via dagli occhi rossi, in attesa del segnale.
Quella statua era veramente inquietante.
«Non ce n’è una sola, vero?» domandò Iron Man, in quel momento solo di nome e non di fatto.
Se avesse perso tempo a indossare l’armatura portatile, avrebbe distolto lo sguardo dagli Angeli.
Steve ci pensò un attimo.
«A meno che non sia sempre quella del confessionale, dell’entrata della sagrestia e dei sotterranei… penso siamo in ottima compagnia» rispose.
«Se è così e tutti e due stiamo fissando una statua sola, le altre…» iniziò a dire, ma entrambi capirono dove voleva arrivare prima ancora che concludesse la frase.
«Stark, girati!» gridò Rogers.
Fu più per fortuna che per giudizio che Stark illuminò, giusto in tempo, un’altra statua all’entrata della stanza.
«Merda» ringhiò Tony, fissandola intensamente.
Di tutti i pericoli che avevano passato, questo era di gran lunga il peggiore.
«Okay, ora ci dirigeremo lentamente verso le scale e l’uscita della sagrestia, senza togliere gli occhi di dosso a nessuno» disse Steve, arretrando leggermente.
Tony annuì.
«Mi pare una buona idea» concordò, imitandolo.
Superarono la statua all’entrata e si distanziarono da quella che stava per prendere Tony.
Molto lentamente, entrambi continuarono a fissare ciò che stava dietro all’altro.
Dovevano solo ringraziare il cielo che lì ce ne fossero solamente due, altrimenti sarebbero già morti da un bel pezzo.
Una volta arrivati alle scale, Tony si richiuse la porta alle spalle, lasciando così a Steve tempo per sbattere le palpebre.
Continuarono a salire, puntando le torce di fronte a loro e aumentando considerevolmente il passo.
«Da oggi odio le domeniche» affermò il miliardario.
Corsero come maratoneti fino all’inizio della scalinata e arrivarono in sagrestia.
Chiusero la seconda porta che portava ai sotterranei e fecero per tornare alla sala dell’altare, ma avevano ancora due stanze da superare e non sembrava facile.
Tony dovette abbandonare controvoglia la valigetta di Mark V, che gli stava facendo perdere forze e tempo a causa del suo peso.
Nonostante per lui fosse incredibilmente preziosa, la sua vita valeva molto di più.
Arrivarono all’ultima sala, quando Tony illuminò una statua giusto di fronte a Steve.
«Non…» fece per dire, ma le parole gli morirono in gola.
Era solo uno, quindi potevano aggirarlo, giusto?
«Okay, io continuo a fissarlo, tu vattene» ordinò Stark, ma un piccolo particolare cambiò i loro piani.
La torcia stava avendo degli sbalzi di luminosità.
L’energia si stava affievolendo, la lampadina aveva dei problemi.
Brutto momento per avere problemi di quel genere, sempre che non fossero proprio i loro amici a tirar quel brutto scherzo.
«Sta saltando, merda!» imprecò.
«Corriamo via, ora!» ordinò Steve, superando l’altra statua che Tony stava ancora fissando.
Arrivò fino alla porta dell’altare, ma a quel punto si rese conto che ce n’era un quarto che stava aspettando lì da più tempo.
Uno a testa.
Questo non se l’erano aspettato.
Steve guardò quello di fronte a lui, Tony quello che aveva ostruito la strada prima.
Capitan America e Iron Man erano schiena contro schiena, e stavano fissando i loro nemici più mortali negli occhi.
«Bruce, abbiamo bisogno di una mano. Siamo bloccati tra due Angeli» spiegò Tony, con la voce incrinata dalla paura.
Sì, doveva ammetterlo, non faceva più il gradasso: era arrivato il momento di ammettere che era spaventato fino al midollo.
Avrebbe veramente desiderato sentire la voce di Banner provenire dall’altro capo della radiolina, ma ciò non accadde.
Le linee si erano interrotte definitivamente.
La torcia di Tony continuò a saltare per brevi momenti, senza però togliere la luce.
Sapeva benissimo che sarebbe arrivato il punto in cui si sarebbe spenta definitivamente.
Steve deglutì.
Fortunatamente, la sua stava ancora funzionando.
Rimasero in silenzio per un minuto o due, contemplando quegli Angeli così mortali.
Sbattevano le palpebre a turni, prima quella destra e poi quella sinistra, e pareva che stesse funzionando dato che erano ancora vivi e vegeti.
«Non pensavo di morire per mano di una statua» mormorò Tony, rompendo il silenzio.
La sua voce era spezzata: stava cercando di rimanere calmo e impassibile, ma la traccia di paura nelle sue parole si poteva chiaramente intuire.
«E continuerai a non pensarlo» lo rassicurò Steve, altrettanto spaventato.
L’uomo rise.
«Siamo ottimisti fino alla fine, eh?» domandò.
Poi, senza aspettare una risposta, continuò a parlare.
«Tra poco la mia torcia si spegnerà, mi pare fin troppo evidente. Ma non ho rimpianti. Ho vissuto una bella vita, piena di soddisfazioni» disse, amaro.
Rogers volle abbassare il capo, ma si ricordò che doveva fissare l’Angelo.
Non si era mai sentito così vicino a Stark quanto in quel momento.
Avrebbe voluto ripetergli che sarebbe andato tutto bene, ma avrebbe promesso cose che non poteva e non era sicuro di mantenere.
«Chi sto prendendo in giro» aggiunse.
«Ho un sacco di rimpianti»
«Stark…»
«Avrei voluto avere dei figli, forse. In futuro. Non ci ho mai riflettuto perché pensavo che avere un futuro fosse scontato, e invece eccomi qua… a fare la lista delle cose che mi perderò in meno di mezz’ora» rise.
Sì, era meglio ridere che piangere.
«Non so se li voglio, ma forse li vorrò»
«Tony, ci penserai una volta usciti da qui» replicò Steve.
Non ce la faceva a incoraggiare nessuno in quel momento, perché stava avendo più paura di Iron Man, poco ma sicuro.
Sentiva l’uomo appoggiato alla sua schiena, all’opposto, a guardare l’Angelo.
Pregavano per un miracolo.
La luce della torcia di Stark ricominciò a saltare e ad ogni colpo si affievoliva sempre di più.
Ad un certo punto, si spense per un nanosecondo.
Questo bastò all’Angelo per avvicinarsi di trenta centimetri.
Un misero nanosecondo aveva fatto guadagnare due passi al suo assassino.
Tony capì che per lui rimaneva poco tempo.
«Rogers, si è avvicinato» mormorò.
«Dì a Pepper che…»
Ingoiò il groppo di saliva che gli si era formato in gola.
«Oh, penso lo sappia già, no?» sorrise.
La torcia saltò di nuovo per pochissimo, e l’Angelo si avvicinò di altri due passi.
Steve vide con la coda dell’occhio la luce che era scomparsa per un attimo.
«Bruce e Clint arriveranno presto» disse, tenendo ferma la torcia con l’altra mano, per fermare il tremolio che lo aveva preso.
Ed era così, ne era certo.
Il mondo non avrebbe perso un uomo brillante come Tony Stark.
Nonostante il suo passato, aveva regalato nuove scoperte e invenzioni al genere umano.
Aveva gettato le basi per l’energia auto riciclabile, aveva donato un sacco di soldi a varie ricerche di sperimentazione e sviluppo.
Aveva creato Iron Man e si era battuto per salvare New York e il mondo intero.
L’umanità non poteva perdere una mente geniale come quella di Tony Stark.
Sarebbe stato un colpo troppo grande da sopportare.
La luminosità della torcia si abbassò del settanta per cento: mancava un gradino alla fine della discesa di quel grande, egocentrico uomo.
«Oh beh… ci tenevo a dirti che non sei l’idiota che ho sempre pensato che fossi. Sei un grande uomo e un eccellente leader. Farai grande cose in futuro» ammise Tony.
Steve non riuscì a replicare.
Avrebbe guardato la sua torcia, se non fosse stato occupato con l’Angelo.
«Un grande uomo e un eccellente leader» ripeté, a bassa voce.
La torcia di Tony saltò di nuovo, facendo avvicinare la statua.
Iron Man aveva molto da perdere in questo mondo, in questa vita.
Sentirono dei passi provenire dall’altare, ma questo non diede loro speranza.
Perché la luce di Tony si stava affievolendo per l’ultima volta.
Era il momento.
«Un grande uomo e un eccellente leader… sa compiere delle scelte giuste» disse Steve.
«E sa cos’è meglio per tutti» aggiunse.
Tony non seppe cosa dire, non aveva la minima idea di come rispondergli.
Cosa intendeva dire?
Steve allungò il braccio all’indietro, per prendere la mano del collega e aprirla.
Respirò profondamente, come al rallentatore, con gli occhi umidi dallo sforzo.
«E’ questo il meglio» affermò.
E nell’esatto momento in cui la torcia di Tony si spense, Steve la sostituì con la sua poggiandogliela sulla mano aperta.
«No!» gridò Stark.
E fu questione di un attimo.

All’onorificenza funebre di Steve Rogers, tutti gli agenti dello S.H.I.EL.D. avevano partecipato.
«Un grande uomo e un eccellente leader» lo aveva classificato Nick Fury, durante il suo discorso.
La sala era rimasta silente per tutto il tempo e, nonostante più di una persona stesse piangendo, nessuno aveva il coraggio di interrompere quel momento con degli stupidi singhiozzi.
La coccarda al centro della sala era stata costellata con tutte le sue medaglie, dalla seconda guerra mondiale in poi, e la foto in bianco e nero risiedeva in mezzo al cerchio decorato.
Erano tutti presenti: Natasha Romanoff e Clint Barton, Bruce Banner e Pepper Potts.
La storia di come Steve Rogers fosse caduto per difendere il popolo di New York aveva suscitato ancora più ammirazione e orgoglio.
L’unica persona che era mancata e che al momento era alla Stark Tower, era il suo proprietario.
Di fronte ad un bicchiere di scotch, il quarto per la precisione, con la barba sfatta e gli occhi rossi, Tony stava ripensando a tutto ciò che era successo.
Una volta usciti dalla Cattedrale, dopo che Clint lo aveva salvato appena in tempo dall’attacco dell’Angelo, gli avevano spiegato tutto.
Sally Noble era risultata essere positiva al test del dna.
Era lei in carne ed ossa, la vera figlia di Marika Noble, con dieci anni in più della madre.
Era un tre novembre quando si era recata alla Cattedrale ed era stata toccata da un Angelo Piangente.
Per loro erano passate due settimane, per lei quarantacinque anni.
Spedita nel 1967 in un battito di ciglia.
Lei continuava a dire che gli Angeli Piangenti uccidevano le persone rispedendole dietro nel tempo, ma non avendo mai avuto a che fare con quelle creature, lo S.H.I.E.L.D. pensò che lei fosse sopravvissuta per pura fortuna.
In fondo, degli altri non si era mai saputo nulla.
Quindi avevano catalogato Steve Rogers come morto, mentre Tony sperava e sperava che gli fosse successo ciò che era capitato a Sally Noble, che in quel momento non aveva il coraggio di rivedere sua madre per paura di essere respinta.
Non potendo distruggere gli Angeli, la Cattedrale di Saint John fu chiusa, probabilmente per sempre: speravano solo che nessuno ci entrasse, nemmeno per scommessa.
Tony appoggiò il bicchiere gelato alla fronte, sospirando.
Sally Noble aveva aspettato quarantacinque anni per tornare al giorno in cui era scomparsa.
Era una ragazza intelligente: la Sally del 1967, dopo aver atteso tutti quegli anni, non aveva interferito con la Sally del 2012 per non creare un paradosso temporale.
Avrebbe potuto agire egoisticamente e dire alla Sally del 2012 di non entrare, ma non lo fece.
Un essere umano così ragionevole e brillante con un destino così crudele.
Però Sally aveva detto di aver scritto quella lettera a sua madre ventidue anni prima, ma che era riuscita a metterla via solo poco tempo fa, intrufolandosi a casa.
Tony alzò lo sguardo dal bicchiere di scotch.
Forse Steve era tornato indietro nel tempo.
Lo S.H.I.E.L.D. lo aveva classificato come morto, ma chi aveva più ragione?
Loro, o Sally Noble, che aveva testato sulla sua pelle quello che era successo?
Se Steve non fosse morto… forse avrebbe avuto la stessa idea della donna.
E Steve Rogers aveva avuto collegamenti con suo padre settant’anni fa, quindi sapeva dove poterlo contattare, all’epoca… e, se lo Steve rispedito indietro nel tempo era a conoscenza della sua condizione, forse aveva seguito le orme di Howard anche dopo il congelamento.
Quella era la parte più difficile: Steve aveva vissuto dal 1920 fino al 2012, ciò significava che se fosse finito in mezzo a quegli anni, circa dai ’30 in poi, lui avrebbe visto il “primo” se stesso.
Tutto, però, stava filando liscio.
Se Steve del 2012 avesse interagito con Steve del 1944, si sarebbe creato un paradosso e probabilmente ci sarebbe stato un effetto collaterale così grande da spazzare via tutti.
Le soluzioni erano due: o Steve era morto quando era stato toccato dall’Angelo, o Steve era stato rispedito indietro nel tempo ma aveva avuto il buon gusto di non farsi vedere da lui stesso.
Tony sperava più nella seconda.
Si alzò dalla poltrona e cominciò a fare un elenco di tutte le case in cui era vissuto da bambino.
Cercò di ricordarsi gli indirizzi, i luoghi esatti, e una volta riportato tutto su carta si preparò.
Aveva un paio di viaggi da fare.
 
La prima casa in cui aveva abitato era ancora in piedi, sempre di sua proprietà.
Suo padre non aveva mai avuto il coraggio di venderla, tantomeno di affittarla, quindi era rimasta così per decine e decine di anni.
Tony scese dalla macchina, controllando che non ci fosse nessuno, e aprì il cancelletto di ferro battuto, che emise un cigolio poco amichevole.
La porta di legno era sbeccata e di un colore poco luminoso, rovinato dal sole e dalla pioggia.
Infilò le chiavi nella toppa e cominciò a pregare.
Qualsiasi lettera arrivata in quella casa sarebbe stata sul pavimento di fronte all’entrata.
Se avesse aperto quella porta e non avesse trovato delle buste a terra, cadute dalla fessura d’ottone, sarebbe sicuramente impazzito.
Steve Rogers era sempre stato intelligente, per quanto non gliel’avesse mai detto, e se fosse stato ancora vivo… beh, gli avrebbe scritto.
Respirò profondamente e aprì la porta, con gli occhi chiusi.
Li riaprì una manciata di secondi dopo e sorrise, quasi pianse dalla felicità: ecco cinque buste, affrancate e spedite.
Le prese in mano e controllò che la scrittura fosse la sua, e combaciava in ogni dettaglio.
Guardò la data di affrancatura: Steve aveva fatto quello che Tony aveva predetto.
Aveva spedito tutte le lettere due mesi dopo il trasferimento della famiglia Stark alla casa successiva.
Sarebbe stato un trauma per un piccolo Anthony di cinque anni ricevere una lettera dal famoso Capitan America… che oltre a parlare di cose impossibili, di anni futuri e avventure mai avvenute, era in teoria morto in volo anni prima.
La tentazione di leggerle subito lo attraversò, ma la curiosità e il bisogno fisico di sapere se ce ne fossero altre ebbero la meglio.
Richiuse la porta, tornò in macchina e spuntò dalla lista la sua prima casa.
Dopo un altro giorno di viaggio, arrivò alla seconda, che però non aveva mai avuto una cassetta della posta tutta sua.
Dovette recarsi alle poste della città, e dopo aver litigato per quaranta minuti con l’impiegata dello sportello quattro, ebbe le sue sei lettere.
«Sono vecchie di trentacinque anni, il servizio era intestato a suo padre, come pensa che…»
E continuava a parlare, a parlare, a parlare.
Guidò per altri due giorni, fino ad arrivare alla terza e ultima casa prima della sua a Malibu e a New York.
Ce n’erano solamente tre.
Si fermò ad una tavola calda sulla 66, prima di ripartire per la volta delle due ultime e attuali case.
Era giunto il momento di iniziare a leggerle.
Le dispose in ordine cronologico, mentre una donna dai capelli rossi gli versava del caffè nero appena riscaldato.
Rimase a fissarle per una manciata di minuti, con le mani incrociate sotto il mento.
Non sbatteva nemmeno le palpebre.
Ammirò i diversi tipi di carta da lettera e busta, tutti ingialliti a seconda del tempo.
I francobolli cambiavano di decennio in decennio, da ogni luogo.
Aveva persino viaggiato.
L’unica paura che aveva l’avrebbe confermata o eliminata leggendo quelle lettere.
E se rispedendolo indietro nel tempo gli Angeli lo avessero privato della sua peculiarità?
E se fosse morto come ogni essere umano?
Non conoscevano quelle creature, tutto era possibile.
Iniziò con la prima.
Era datata il primo maggio 1935.
Cercò di ignorare il groppo alla gola e il groviglio allo stomaco, e proseguì.
Una volta letti i saluti, la parte più importante iniziò.
«Sono passati tre anni prima che mi venisse in mente di contattarti in questo modo. Sono arrivato nel 1932, per la precisione a giugno. So che ti sembra strano, ma non sono morto. Anzi, se stai leggendo, lo sai già. Dovevo solo sperare che scopriste che gli Angeli non ti uccidono, ma ti rispediscono indietro nel tempo»
Steve non lo sapeva, ma nella Cattedrale Bruce non aveva avuto tempo di avvisarli che non ti uccidevano in quel senso.
L’aveva capito da solo.
«Penso di essere stato fortunato, perché io sono nato nel 1920 e adattarmi a quest’epoca è una passeggiata. Un po’ mi mancava ai tuoi tempi, se devo essere sincero. Sa di casa. A proposito di casa, ho visto me stesso l’altro giorno. Ho pensato non fosse cauto avvicinarmi o parlargli, sai… creerebbe un paradosso non da poco. E’ veramente strano vedermi così giovane, avevo solo diciannove anni. Nonostante ciò, non ho provato la tentazione di dirmi cosa mi aspettava in soli cinque anni»
La prima lettera finì quasi subito, così passò alla seconda, divorandola velocemente.
«Sedici aprile 1943. Ho visto Peggy l’altro giorno, poche settimane prima che ci incontrassimo. Non me la ricordavo così bella. Avrei voluto tanto salutarla, ma ho pensato fosse un compito dello Steve attuale. Sai, ero (o sono?) così magrolino prima della mia mutazione… neanche mi rimembravo di essere così pelle e ossa. Eppure eccomi lì, che cerco di arruolarmi nell’esercito in nove città diverse. Ero piccolo, ma tenace»
«Quattro luglio 1944. E’ il mio compleanno, faccio ventiquattro anni… e il mio desiderio più grande è quello di andare da Peggy. Il problema è che io sono morto in volo per salvare la città di New York, poco tempo fa. Ora tutti mi stanno piangendo e ci sono manifesti e poster con la mia foto sopra dappertutto. Non sapevo di aver lasciato un così grande impatto. Ho quasi incontrato il mio vecchio Generale, per poco non mi vedeva in faccia. Se fosse successo, penso gli sarebbe venuto un infarto. Tuo padre sta bene, però è scosso. In compenso, sta cominciando a inventare ciò che ha fatto della tua industria un punto di riferimento da generazioni. E’ così strano vedere gradualmente come cambiano le cose. Al momento non so dove farti recapitare tutte queste lettere, ma intanto le scrivo. Tra una ventina d’anni o poco più dovresti nascere e penso di fartele spedire nella tua nuova vecchia casa»
«Dieci febbraio 1954. Sono passati dieci anni dall’ultima lettera che ti ho scritto, ma ne sono successe di cose. Ho trovato inutile continuare perché non avevo ancora trovato un modo per mandartele. Dovresti vedere gli anni ’50! Le prime televisioni stanno entrando nelle case, sono un avvento incredibile… persino per me. Non mi sono mai goduto il loro arrivo, quando mi sono risvegliato ho trovato tutta quella tecnologia in un colpo solo. Oh, la musica è fantastica, tra l’altro. Tuo padre si sta costruendo il suo impero passo a passo, ma non è mai riuscito a replicare il siero che mi ha reso un super soldato. Penso che non ci abbia voluto nemmeno provare. Domani vado ad una delle sue Expo, sembrano essere interessanti, e poi, finalmente, ci capirò qualcosa anche io. Ah, prima che mi dimentichi: sto convivendo. Lei si chiama Nicole Phinnegan e l’ho conosciuta tre anni fa. Ha ventinove anni, però sembra più giovane di me, e lavora in uno studio dentistico. Stiamo bene insieme. Abbiamo una vita normale, ed è quello che ho sempre desiderato: certo, non è ancora la casa con lo steccato bianco, ma ci arriveremo presto»
«Sei dicembre 1960. La mia storia con Nicole è finita a causa di divergenze sul futuro e una possibile famiglia. Nonostante ciò, ci siamo lasciati abbastanza serenamente e posso affermare che è stata una donna molto importante nella mia vita. Tra nove anni ci sarà lo sbarco dell’uomo sulla luna, come ho letto nei libri di storia, e non vedo l’ora di assistervi. Deve essere così emozionante viverlo di persona! Piuttosto, sono alquanto ottimista circa il futuro di tutte queste lettere. Tra sette anni dovresti nascere e avrò finalmente un posto dove recapitartele tutte, sperando che tu abbia voglia di leggerle nel lontano 2012. A volte ripenso alla Cattedrale e vengo assalito dai ricordi, più che altro sottoforma di incubi. A te capita? Ho paura che tu ti senta abbastanza in colpa per non avermi salvato, perché lo so che sotto quel pesante strato di oro e titanio hai anche tu dei sentimenti e delle responsabilità. Avrei dovuto scrivertelo qualche lettera fa, ma non devi sentirti male: è stata una mia decisione e penso tuttora, dopo ventotto lunghi anni, che sia stata la migliore che abbia fatto in vita mia. Ovviamente, dopo quella di precipitare con un aereo per salvare la patria»
«Sei gennaio 1968. Non mi soffermerò molto su questa lettera. Peggy è morta un mese fa a soli cinquantadue anni. Penso di aver pianto tutte le mie lacrime. In tutti questi anni pensavo di essermi abituato a non rivederla più, com’è successo la prima volta. C’era sempre quella punta di tristezza, ma sapevo che era necessario. Eppure, quando ho saputo della sua dipartita, non ho potuto fare a meno di arrabbiarmi con me stesso. Sarebbe stato egoista, ma sarei potuto rimanere con lei. Tanto l’altro me era morto, sepolto nel ghiaccio, non avrei mai incontrato me stesso. Avrei potuto dirle la verità, in modo che mantenesse il mio segreto, e saremmo potuti andare via, insieme fino al suo ultimo giorno. Ma non è così che vanno le cose»
«Dodici dicembre 1969. Ho visto lo sbarco sulla luna. Incredibile, sono rimasto senza parole. Siamo andati così avanti, il progresso non si è mai fermato in questi anni. Sono stupefatto e ripetitivo, lo so. Sai, ora hai due anni. Tra poco ti trasferirai e finalmente ti potrò consegnare queste lettere. Le ho tenute con me per tanto tempo, alcune devo averle perse, quindi ci saranno salti temporali non indifferenti. Tutto è cambiato, mi sembra strano fare un paragone con gli anni venti. Ah, non indovinerai mai chi ho incontrato al Diner di Roxy Payton. Non l’avrei mai riconosciuta se non per il nome. Ha appena vent’anni ed è appena arrivata: seduta a poche sedie da me, Sally Noble si stava godendo la sua prima zuppa di pomodoro della New York degli anni sessanta. Avrei voluto parlarle, ma non pensavo fosse una buona idea. Magari combinavo qualche guaio persino peggiore di quello che è successo già. Penso che le darò una mano indirettamente per farla orientare, altrimenti potrebbe avere un crollo nervoso, viste le circostanze»
«Ventidue marzo 1975. Ho deciso che ti spedirò le altre sei lettere tra due mesi, quando ti trasferirai nella nuova casa, così da non creare confusione. Ti immagini un piccolo Tony di sette anni che riceve le lettere di un uomo morto? Traumatizzato a vita. Ho sentito tuo padre che diceva che avreste cambiato casa in maggio, così mi sono organizzato e ho catalogato tutto. Parlando di cose più serie: Sally Noble è diventata una giornalista. E’ estremamente brava, devo dire, e devo ammettere che ne ha fatta di strada da quando è arrivata. Ora ha ventotto anni, convive con il suo compagno e ha un buon stipendio. Purtroppo non mi sembra ancora serena e tranquilla: nel quartiere girano voci che stia avendo un esaurimento nervoso, ma tendo a non crederci. E’ una donna forte che è sopravvissuta ad un gap temporale di decenni, ce la deve fare. Ah, in tv passa la pubblicità dell’Expo con tuo padre. Posso vantarmi di aver visto tutti i prodotti Stark prima di te, forse diventerò un esperto anch’io. PS. Ho conosciuto una donna e penso di uscirci insieme. Che sia la volta buona? E’ divorziata, quindi la cosa mi spaventa un po’»
«Trenta agosto 1983. Sai, ora che ci stiamo avvicinando al nuovo millennio, sto tenendo conto delle vostre nascite. Siete già tutti venuti al mondo, ed è strano pensare che io, invece, sono così vecchio al confronto. L’altro giorno sono andato ad un concerto di Madonna, è fenomenale. Ora capisco perché è ancora così famosa ai vostri tempi, anche se vederla più giovane ed energica è un’esperienza per pochi. L’unica pecca è che alcune delle mie canzoni preferite sono degli anni novanta, e lei non le ha ancora cantate. Ma non si può avere tutto, giusto? Ti ho visto, l’altro giorno. Sei un sedicenne alquanto brillante… tra un anno costruirai Dummy, chissà quanto sarai felice al riguardo. Scommetto che è lo stesso che hai in laboratorio»
«Sette settembre 1989. Il muro di Berlino è caduto, e più passa il tempo più mi sento vecchio, com’è giusto che sia. Ora hai ventidue anni, e sei passato a capo delle Stark Industries solamente dodici mesi fa. Mi raccomando, confido nel tuo lavoro»
«Diciotto luglio 1992. Questo sì che è un anno intenso. Sally Noble nasce, e nello stesso tempo compie quarantacinque anni. Ora non convive più e non lavora come giornalista. Le voci, dopo anni e anni, si sono rivelate vere. Pensare al fatto che era appena nata l’ha distrutta. Ha pensato a sua madre, alla sua vita, ai suoi amici e ai suoi studi prima di essere rispedita nel 1967. Ora la vedo tutti i giorni di fronte alla Cattedrale, in attesa che gli Angeli la popolino. Sa che passeranno ancora vent’anni, ma ho sentito la sua vicina dire che andare là le fa bene e che è l’unico modo per non imbottirla di antidepressivi. Mi dispiace tantissimo che non abbia retto il colpo. Ah, e c’è un ultimo problema. Questa sarà la mia ultima lettera. Sono desolato, ma non posso fare altrimenti. Purtroppo anch’io ho delle restrizioni, e presto capirai il perché. E’ stato bello scriverti in questi ultimi sessant’anni. Ho avuto una lunga e intensa vita e non me ne pento. Poteva andarmi molto peggio. Grazie di tutto, Tony Stark, e non torturarti troppo: il mondo ha bisogno di una mente brillante come la tua.
Addio, Steve Rogers. PS. E’ uscita finalmente la mia canzone preferita di Madonna!»
Tony rilesse le ultime righe dell’ultima lettera e strabuzzò gli occhi.
Voleva ridere per il post scrittum, ma ciò che aveva appena appreso glielo impediva.
No, non potevano essere finite, era impossibile.
Erano troppo poche per lui, aveva bisogno di sapere di più.
Si era sposato, alla fine?
Com’era andata con la donna divorziata? C’era uscito?
Ma soprattutto, Steve era morto a ottantaquattro anni?
Purtroppo, dopo aver riletto quelle lettere due o tre volte, si rese conto che non poteva essere altrimenti.
L’età delle donne con cui usciva incrementava d’anno in anno, supponeva fossero sue coetanee.
Per non parlare di frasi come “mi sento vecchio, com’è giusto che sia” o “ho avuto una lunga e intensa vita”.
Steve Rogers, molto probabilmente, era morto nel 1992, l’anno in cui Sally Noble nacque e lo stesso in cui perse la testa.
Tony si mise la testa fra le mani, scompigliandosi i capelli, e sbuffò, dando un calcio al tavolo.
Il caffè nero si versò sulla superficie, bagnando alcune lettere.
«No, no, no, no!» esclamò, togliendole dal liquido scuro come l’inchiostro.
Era un fallito, non riusciva nemmeno a salvare l’unico testamento di quell’uomo così importante.
Nelle sue memorie, Steve aveva scritto che non doveva torturarsi per com’erano andate le cose, era stata una sua scelta.
Nonostante ciò, si sentiva sempre peggio.
Appoggiò la fronte sul tavolo, pensando.
Era il momento di tornare a casa.
 
Quando l’ascensore si aprì, la prima voce ad accoglierlo fu quella di J.A.R.V.I.S..
Pepper non era nei paraggi e sembrava che nessuno gli avesse lasciato messaggi in segreteria negli ultimi sette giorni.
Rispettavano davvero il suo dolore o, semplicemente, volevano evitare delle rispostacce?
Non fece nemmeno in tempo a lanciare il giubbotto sulla sedia che J.A.R.V.I.S. lo avvisò di una nuova mail nella casella di posta.
«Non è il momento» ribatté Tony, intento ad andare a farsi una doccia.
Non sapeva se l’avevano distrutto più il viaggio o più le lettere.
«Ma è importante, signore» replicò J.A.R.V.I.S., continuando a far lampeggiare il monitor.
«Aspetterà»
«E’ veramente importante» continuò.
Tony smise di ribattere, stanco.
Se controllare quella stupida mail l’avrebbe zittito, allora sotto a chi tocca.
Si sedette sulla scrivania lucida e accese il desktop del computer, collegandosi alla casella con un solo comando vocale.
Non poteva credere di aver ceduto agli ordini di J.A.R.V.I.S..
In teoria, doveva essere il contrario.
Il mittente era sconosciuto, e questo lo seccò più del dovuto.
«Chi diamine sarà» borbottò.
Aprì il messaggio, ma le prime righe erano bianche, così dovette andare in giù con lo scroll.
Finalmente, vide delle frasi di senso compiuto.
«E’ impossibile pensare che per te siano passati solo dieci giorni dalla Cattedrale» recitava l’inizio.
Tony ridusse gli occhi a due fessure, incuriosito dall’inizio del messaggio.
«Per me è passato molto di più: talmente tanto tempo che mi sono dimenticato l’esatto giorno in cui ci sarebbe stata la spedizione alla Cattedrale. Non potevo rischiare di mandarti questa mail prima, per questo ho dovuto seguirti per un paio di settimane»
Tony continuò a leggere, cominciando a capire, sperando di capire.
«Nel 1992 ho dovuto smettere di inviarti lettere perché sapevo che ti saresti trasferito a Malibu e, in seguito, a New York. Sarebbero arrivate a te direttamente e questo avrebbe creato un po’ di caos… ma giusto un po’. Purtroppo, era arrivato anche il momento in cui non pensavo di farcela. Più il tempo passava, più la mia pazienza diminuiva e, in un certo senso, non vedevo l’ora che il 2012 arrivasse. Cominciai a seguire le vostre orme dopo la battaglia con i Chitauri, perché sapevo che non sarebbe di certo passata inosservata e avrei ricordato subito, all’incirca, quanti mesi dopo si sarebbe tenuta la missione alla Cattedrale. Da quaranta giorni a questa parte, sono andato alla Saint John ogni giorno per sei ore, dalle due del pomeriggio alle otto di sera, sperando di trovarvi. Venti giorni fa, vidi finalmente Sally Noble entrare alla Saint John per poi non uscirne mai più. Avendola conosciuta di persona, seppur indirettamente, mi ha fatto stare male. Avrei voluto fermarla, dire di non entrare, ma non potevo. E’ un peso che non riuscirò mai a togliermi di dosso: sapere di poter cambiare le cose, ma non farlo per paura di peggiorare ciò che è ormai incrinato. Il giorno della spedizione, rimasi di fronte alla Cattedrale finché tu e me non siete entrati, poi me ne sono andato. Sono tornato tre ore dopo, e ti ho visto uscire con Clint, distrutto. Ti sei gettato a terra, in ginocchio, di fronte all’enorme entrata e non riuscivi a fartene una ragione. Vederti così mi ha fatto veramente capire che, forse, teniamo alla nostra collaborazione più di quanto non pensiamo. Forse potremmo essere addirittura amici. Sono stato anche alla mia onorificenza funebre, più che altro per curiosità, ma tu non c’eri. In compenso, ho visto gli altri. Come dopo la seconda guerra mondiale, quando pensavano fossi morto in volo, anche qua molta gente mi stava piangendo e ricordando come un eroe. Penso che onori come questi li ricevi una volta nella vita, ma io ho avuto la fortuna di assistervi due volte. Una settimana fa venni a conoscenza del tuo viaggio per motivi personali, e sperai vivamente che fosse per le lettere che ti ho scritto durante gli anni: come ho già detto, sei brillante e sapevo che avresti capito tutto. Ho aspettato altri quattro giorni prima di inviarti questa mail, perché non sapevo quando saresti tornato. Essendo una situazione molto aleatoria, ho pensato che arrivare in anticipo non mi avrebbe fatto male. Sai, devo dire che questa esperienza non mi ha fatto poi così male. Ora che ho visto tutto gradualmente, capisco come si usano le nuove tecnologie. E il cellulare! E so anche cos’è Galaga, ora»
Tony si fermò un attimo, cercando di ragionare sul contenuto della mail.
Era vivo, non era morto a ottantaquattro anni.
Aveva semplicemente smesso di mandargli delle lettere a causa della sua residenza.
Capitan America respirava ancora, camminava, mangiava, dormiva, sognava, insomma… era lì, in carne ed ossa.
Era lui il ragazzo familiare che li stava fissando di fronte alla Cattedrale quel giorno, che se ne rimaneva lì, impalato, con le mani in tasca, ad aspettare qualcosa.
Aveva visto negli occhi il futuro di Steve Rogers e non lo sapeva.
Ragionò un attimo sull’ultima frase che aveva letto: ho pensato che arrivare in anticipo non mi avrebbe fatto male.
«Confido nel fatto che tu legga questa mail non appena torni a casa, sperando che un tuo attacco di rabbia non ti faccia procrastinare. Fuori fa freddo – quindi vestiti»
Fuori fa freddo, quindi vestiti?
«Perché ti aspetto giù, all’entrata della Stark Tower, e nel caso tu non fossi ancora tornato, sappi che verrò ogni giorno dalle due alle otto, fino a che non ti degni di farti vedere»
Tony si alzò di colpo dalla sedia, sbalzandola all’indietro, e coprendosi il viso con la faccia.
No, non era possibile.
Corse all’entrata e prese il cappotto che aveva lanciato al suo arrivo, lo stesso che si era portato dietro durante il suo viaggio per i luoghi della sua infanzia.
L’ascensore stava tardando ad arrivare e lui non riusciva più ad aspettare: a costo di farsi cinquanta piani a piedi, avrebbe corso fino a che i polmoni non gli fossero ceduti.
Controllò l’orologio: tre e quaranta, era lì.
Superò l’entrata della hall e corse per tutta la sala, attirando l’attenzione dei suoi dipendenti, fino ad arrivare alle enormi porte di vetro che portavano all’uscita.
Si fermò proprio lì davanti, con il fiatone, guardando l’uomo di spalle di fronte a lui, in quel giubbotto di pelle vecchio stile e il berretto che gli copriva il viso.
Si girò.
Steve Rogers lo stava guardando, in quel momento, dopo dieci giorni e qualche decennio.
Sorrise.
«Ottant’anni… e non sei invecchiato di un giorno».






Note finali: ed eccomi qua.
Ora che avete finito di leggere potete scegliere tra infinite opzioni.
Prima di tutto, potreste insultarmi perché vi ha fatto schifo, o odiarmi perché forse vi è piaciuta ma sono stata carogna con morti e cavoli vari.
Potete anche compatirmi, perché ero convinta di aver scritto una bella shot (forse una delle migliori del mio repertorio, eheheheheh) e invece ho fatto acqua da tutte le parti.
Comunque sia, c’ho sudato sopra come un muratore all’ora di punta, non avete idea della fatica che ho fatto e dell’entusiasmo che ci ho messo, quindi vi chiedo, per favore, di farmi sapere (anche poco poco) che cosa ne pensate, perché sono in ansia già da ora.
Molto in ansia.
Vorrei ringraziare Nina, ovviamente, a cui è pure dedicata questa Shot, il mio migliore amico Alessandro, che, nonostante non segua il fandom, ha ascoltato tutta la storia prima ancora che la scrivessi e la considera “geniale” (oibò, così mi fa arrossire!), a Pan, che probabilmente la leggerà anche se non è interessato agli Avengers, a Enni perché ci sarà sempre per le mie stronzate e a Roberto, a cui ho rotto così tanto le palle con quest’idea su Whatsapp che, se potesse, mi bloccherebbe subito.
Ah, e grazie a voi che vi siete messi a leggere e siete arrivati fino alla fine (alla fine! Cioè, vi rendete conto che vi siete letti diciassette pagine in Calibri 11? Dovrebbero premiarvi!).

Out and about~
1. Il nome Sally Noble è un tributo vivente.
2. So che senza Natasha, all’inizio, è sembrata una crociera gay, ma non me la sentivo di aggiungere anche lei e Thor se poi il loro ruolo sarebbe stato inutile quanto un pettine per i bruchi.
3. Per i Whovian: nella storia i protagonisti non capiscono esattamente quali siano i poteri dei Weeping Angels, tantomeno lo S.H.I.E.L.D., perché in questo caso non c’è nessun Dottore o chi per lui a spiegare come si comportino. Tutto ciò che i Vendicatori, Sally Noble e lo S.H.I.E.L.D. sanno è grazie ai puri collegamenti che hanno fatto con gli indizi trovati.
4. Se avessi dovuto scrivere intere lettere per ogni anno, allora avrei finito nel 2013. Considerateli spezzoni, come sono in realtà.
5. Nicole Phinnegan è un altro tributo, ma solo pochi eletti capiranno (per sfortuna).
6. Non so se Steve sia un fan di Madonna, ma volevo sdrammatizzare un po’!
7. Per chi non è abituato a questi mindfuck assurdi su linee temporali varie, ricordatevi che per Tony sono passati dieci giorni da quando ha visto Steve per l’ultima volta… mentre per Steve stesso sono passati ottanta lunghi anni. The man who waited, insomma.
8. Meet the angels.
9. La cattedrale di Saint John the Divine in the City and Diocese of New York (per gli amici semplicemente Saint John) esiste veramente, ma non penso abbia Weeping Angels al suo interno.
Credo.
   
 
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