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Autore: Ariadne Oliver    23/11/2012    7 recensioni
“Secondo lei cosa dovevo fare? Stare zitta e magari farmi violentare per davvero? Ma lei li legge i giornali? Lo sa quante aggressioni hanno subito i gay solo in quest’ultimo mese?”
Un poliziotto tormentato, una ragazza con le idee fin troppo chiare, un paese che va a rovescio, il coraggio che non è mai quello di cambiare le cose.
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Sub lege Libertas



“Con il cuore nel fango” come cantavano i Matia Bazar: così quella mattina appariva Roma agli occhi assonnati dell’Ispettore Angelo Colasanti. Il lastricato di Piazza del Collegio Romano sembrava il dorso di un rettile: l’acqua sporca ristagnava negli interstizi tra un sampietrino e l’altro con riflessi color petrolio, e il cielo riusciva ad essere ancora più cupo della facciata di Palazzo Doria Pamphilj. Su tutto regnava un silenzio irreale, pesante come l’umidità che era entrata nella stanza dalla finestra spalancata.

Era un finale d’estate insolitamente piovoso e l’Ispettore, che era metereopatico, lottava a fatica contro l’emicrania. Il turno di notte si stava trascinando come una lunga agonia, e nemmeno le frequenti pause che si concedeva con una scusa o con l’altra lo aiutavano a renderlo meno sgradevole: odiava scrivere verbali, odiava lottare con parole che si incastravano tra loro come tessere di puzzle diversi. Come ultima speranza aveva provato ad affidarsi all’aria della notte, ma non era fresca, né leggera, né confortante. Sbuffò. Guardò l’orologio e vide che ancora troppe ore lo separavano dal letto, estrasse dalla tasca dei pantaloni il cellulare e vide che non c’erano messaggi che avrebbero potuto risollevargli l’umore. Niente di niente, lo schermo era insolitamente vuoto.

L’ispettore aggrottò la fronte e con un movimento secco del pollice tirò su lo schermo, liberando la tastiera: era preoccupato, voleva sapere cosa era successo. Provò a scrivere un messaggio, ma anche in quel caso trovare le parole fu un’impresa: cancellò tutto e decise di rimettersi al lavoro.

L’Ispettore Angelo Colasanti si era trasferito a Roma da poco più di un anno e non era affatto uno di quelli che ne aveva subito il fascino. Gli affitti erano talmente elevati che era costretto a vivere in una stanza come un ragazzino al primo anno d’università, e questa condizione gli sembrava ancora più umiliante quando metteva piede in Commissariato, un ex convento con tanto di chiesa sconsacrata annessa. Gli faceva impressione incrociarne la facciata, soprattutto quando smontava da un turno di notte, proprio come sarebbe capitato tra qualche ora. Gli sembrava di essere più il protagonista di una fiction televisiva che un poliziotto vero.

Come ci si potesse vantare di lavorare in un posto del genere Angelo Colasanti non l’avrebbe mai capito: sapeva solo che sedere alla scrivania lo faceva sentire a disagio, aveva come l’impressione che i muri si muovessero per schiacciarlo, come se si volessero vendicare per il torto subito. In quei momenti l’ispettore ripensava a sua nonna e alla sua abitudine di masticare assieme al cibo preghiere in un latino storpiato, una sottospecie di lingua personale. Diceva che aiutavano a proteggere la casa dal malocchio.

Sua nonna era fatta così, si votava a Sant’Anna e agli spiriti con la stessa identica fiducia, come se fossero le due facce di un’unica medaglia. Roma, con la sua bellezza intaccata da sacche di squallore gliela ricordava fin troppo. Forse era per questo che non riusciva ad abbandonarsi a lei e al suo fascino: sua nonna usava spesso il battipanni per punirlo, e per una strana associazione mentale di idee Colasanti si era convinto che prima o poi anche quella città avrebbe finito per trattarlo nella stessa maniera. D’altronde, a dar retta alle sue credenze, già solo il fatto di lavorare in un ex convento era un motivo più che sufficiente per finire all’Inferno. “Fortuna che è morta da dieci anni.”, pensò l’Ispettore con un sospiro di sollievo. Di sicuro non avrebbe approvato quasi niente del suo stile di vita: per lei a trent’anni compiuti un uomo doveva già essere padre di famiglia, mentre Colasanti non ci teneva affatto ad avere figli. Qualcuno accanto sì, ma di sicuro non quel genere di donna che manderebbe in brodo di giuggiole un’anziana contadina abruzzese.

E nemmeno, a dirla tutta, una discreta fetta di poliziotti presenti in quell’edificio.

Il telefono cellulare prese a vibrare nella tasca, illuminando con un riflesso bluastro la stoffa dei jeans e interrompendo la sfilata di pensieri lugubri che si era appena affacciata alla mente dell’Ispettore. Si trattava del messaggio che stava aspettando: nulla di particolarmente eclatante, solo una rassicurazione e un augurio di buona notte, ma più che sufficienti per farlo rilassare un po’, facendogli abbozzare perfino un sorriso.

No, sua nonna decisamente non avrebbe approvato, ma era importante curarsi dell’opinione di chi è cibo per i vermi già da dieci anni? E aveva senso farsi suggestionare da fantasmi vecchi di quattrocento anni?

Colasanti alzò gli occhi verso la parete di fronte: c’erano calendari meticolosamente ordinati, crest, targhe e diplomi vari, c’era una storia nuova che cercava in tutti i modi di soffocare quella vecchia.

“Sub lege libertas”: non era questo, in fondo, il motto della polizia? Nella legge e al di sotto della legge, nella storia e al di sopra della storia.

Un cuneo conficcato nella sua vita come un chiodo al centro di un cuscino di piume.

Il cellulare vibrò una seconda volta con maggiore insistenza: una telefonata.


“Sì?”

“Non hai risposto al messaggio. Mi hai rotto tanto le palle perché te lo mandassi appena rientrato e poi non rispondi. Stronzo.”

“Hai ragione, scusa.”


Colasanti prese a giocherellare con l’angolo di un foglio, tormentando con l’unghia la graffetta che lo teneva fermo.


“Come è andata la festa?”

“Meglio di quanto credessi. E tu?”

“Non vedo l’ora di staccare.”, si lasciò sfuggire. “Mi manchi.”

“Vieni da me quando hai fatto, potremmo fare colazione insieme.”


L’Ispettore fece una smorfia.


“No, dai, non mi va di disturbarti. Vediamoci domani sera, avrò un aspetto migliore.”

“Domani sera? In teoria avrei da fare.”

“E in pratica?”


Dalla cornetta giunse una risata.


“In pratica facciamo che mi dici a che ora hai intenzione di presentarti.”


Colasanti fece finta di prendere tempo per pensarci.


“Facciamo per le sette?”

“E sette siano.”

“Vai a dormire, adesso.”

“E tu non stancarti troppo.”


L’Ispettore alzò gli occhi al cielo, ma in realtà stava sorridendo. Per quanto odiasse ammetterlo adorava quelle piccole attenzioni, quella preoccupazione sincera che mai una persona estranea aveva mai mostrato prima per lui.


“Buonanotte, Stefano. Vedi di fare bei sogni, tu che puoi.”


L’altro schioccò le labbra rispondendo con un bacio.

L’Ispettore spense il telefono, lo gettò di malagrazia sul tavolo e poi si afferrò la testa con entrambe le mani.

Si sentiva un verme.

Era entrato in polizia a diciannove anni per avere una scusa per andare via di casa senza pesare sul bilancio familiare, e col tempo si era ritrovato a dire di essere felice di avere delle responsabilità, un posto del mondo che non fosse soltanto anonima routine. Una felicità che, però, pretendeva enormi sacrifici. Per anni infatti Angelo aveva provato a ignorare i segnali, a far finta che la mente non avesse fantasie e il corpo pulsioni. Aveva ammesso tardi con se stesso di essere omosessuale, e quando finalmente lo aveva fatto si era raccontato un’altra bugia, cioè che in fondo non sarebbe stato difficile gestire questo suo lato nascosto. Sarebbe bastato non creare legami profondi.

Con i colleghi, innanzitutto, in modo da passare inosservato il più possibile, evitando inviti a cena e conseguenti domande sulla sua situazione familiare e sentimentale.

In secondo luogo con gli amanti. Niente relazioni, solo battute notturne di caccia nei locali.

Il trasferimento a Roma, da questo punto di vista, gli era sembrata una specie di manna, ma in quell’ultimo anno anziché spassarsela aveva dovuto fare i conti con una solitudine sempre più opprimente, dovuta al cambiamento di sezione e alle ulteriori difficoltà che questo comportava.

Nacque così la sua storia con Stefano.

Era di poco più piccolo di lui, capelli neri e un pizzetto che lo faceva somigliare a un nobile d’altri tempi, ed era il proprietario del bar dove andava a fare colazione tutte le mattine.

All’inizio aveva pensato che le attenzioni che gli riservava, i sorrisi, gli sguardi maliziosi e i vari “offre la ditta” facessero parte di quel repertorio che i baristi usano per fidelizzare i clienti, ma ben presto si era reso conto che nascondevano ben altre intenzioni.

Non ricordava con precisione come fossero andate le cose, era stato Stefano a condurre il gioco e lui quasi si vergognava di avergli ceduto con tanta facilità.

Quasi, perché in fondo si sentiva sollevato che per una volta fosse qualcun altro a prendere decisioni anche per lui.

Tutto ciò che riguardava Stefano sapeva di buono, dall’atmosfera del bar frequentato per lo più da operai insonnoliti all’odore di caffè di cui pareva impregnata la pelle. Stefano amava la sua vita, che in passato non era stata facile per via della morte di una sorella, e Colasanti amava la sua forza di volontà, la serenità con cui affrontava i piccoli scogli quotidiani, lui che era riuscito a superarne di così grandi.

Lo ammirava, e gli faceva male doverne tradire costantemente la fiducia e le aspettative.

Stefano infatti gli aveva già chiesto varie volte di trasferirsi da lui, o al più di prendere una casa assieme, ma Angelo si era sempre opposto per via del lavoro e di ciò che una convivenza del genere avrebbe comportato.

Stefano ribatteva facendogli notare quanto il lavoro gli stesse rovinando la salute, che se era per i soldi non c’era problema, che in fondo anche lui avrebbe preferito dedicarsi a qualcosa di più tranquillo perché lo schifo a volte era troppo e lo stomaco non reggeva.

Il passaggio alla Terza Sezione si era rivelato, infatti, un autentico disastro.

Gli omicidi erano una cosa difficile da digerire.

Non era tanto il ritrovamento di un cadavere in sé a sconvolgere, quanto il contatto coi parenti: vedere una moglie urlare, un padre strapparsi i capelli, vedere due fratelli stringersi uno contro l’altro era uno spettacolo straziante.

Non era l’orrore della morte a lasciare segni indelebili, ma l’immedesimazione col dolore altrui.

E l’immedesimazione aveva portato con sé quella solitudine che per la prima volta gli aveva fatto desiderare di avere qualcuno accanto.

Qualcuno che non sarebbe piaciuto alle monache del convento delle malmaritate, a sua nonna, ai suoi colleghi e in generale allo Stato di cui era dipendente, e solo per via del sesso di appartenenza.

Assurdo.

Mentre Colasanti faceva partire mentalmente un’arringa in difesa di Stefano e dell’amore che provava per lui qualcuno bussò alla porta dell’ufficio.

L’Ispettore rispose in maniera distratta, fintamente assorto nella lettura di una circolare ministeriale, credendo che fosse il collega Martini, uscito in pausa e sparito nel nulla.

Invece era un giovane agente dai ricci un po’ troppo lunghi e la voce bassa e sottile.


“Buonasera. Avrei bisogno di parlare con l’Ispettore Colasanti.”

“Sono io.”

“Sono l’Agente Miele, vengo dall’ufficio denunce…”

“Che è successo?”


Ormai era talmente abituato a questo tipo di emergenze che l’Ispettore era già in piedi che si infilava la giacca.


“Una ragazza. Si tratta di aggressione.”

“Hanno tentato di violentarla?”

“Non proprio… è complicato.”

“Allora vengo subito.”


Il giovane agente indugiò un secondo nell’ufficio, perso a osservare le pareti sovraccariche.

Colasanti lo richiamò bruscamente all’ordine. Scesero le scale in silenzio, ciascuno intento a riordinare le idee per prepararsi a fronteggiare la situazione.


“È ferita? C’è bisogno di accompagnarla al Pronto Soccorso?”

“No, in realtà no.”

“Va bene, allora ce la portiamo lo stesso. Ma che ti dice il cervello?”

“Ispettore, guardi, le cose non stanno esattamente come pensa lei.”

“Va bene, va bene, questa l’ho già sentita. Cerchiamo di sbrigarci.”


Non sapeva bene perché ma una strana rabbia stava invadendo l’Ispettore Colasanti.

Una rabbia ingiustificata, priva di obiettivo, una rabbia cosmica resa più aspra dalla privazione del sonno.

Forse un presentimento.

Quando la porta si aprì la prima cosa che notò fu una cascata disordinata di capelli biondi tinti male che cadevano su un giacchetto fucsia.

La seconda cosa che notò fu che il giacchetto rosa aveva dei piccoli teschi che sembravano in realtà piccoli fiori bianchi.

La terza cosa che notò fu uno sguardo tagliente, nero e cerchiato di nero, uno sguardo che sembrava un AK-47 per potenza di fuoco e resistenza.

A differenza di molti colleghi Angelo Colasanti non amava dare soprannomi, ma in quel momento gli venne automatico definire la ragazza “Lady Kalashnikov”.


“Buonasera, Signorina. Sono l’Ispettore Angelo Colasanti della Squadra Mobile. Mi hanno riferito che lei è venuta qui per denunciare un’aggressione.”


La ragazza lo squadrò con un sopracciglio alzato.


“Veramente è il suo collega a voler denunciare me.”


Colasanti le indicò col dito l’agente Miele, che in segno di difesa alzò le mani come a dire che lui non c’entrava niente.


“No, non è lui, il poliziotto che ce l’ha con me è un altro.”


Colasanti avrebbe voluto chiedere lumi sulla faccenda quando bussò alla porta Martini.


“Oh, Angelo, ti hanno mandato a chiamare.”

“Si può sapere dov’eri finito?”

“Niente,” –Colasanti odiava la pessima abitudine di Martini di iniziare le risposte con parole che non c’entravano per niente con le domande- “Volevo portarti il caffè quando Miele è uscito per cercare qualcuno della Mobile e a quel punto sono rimasto a sentire che era successo.”

“Eh, appunto, che è successo? Posso saperlo anch’io? Qua Miele m’ha detto che la Signorina … a proposito, come ha detto che si chiama?”


Lady Kalashnikov non sarebbe suonato credibile nel verbale, e sarebbe stato decisamente fuori luogo in quella conversazione.


“Arianna. Arianna Savelli.”


La ragazza sembrava aver addolcito i modi, e questo permise a Colasanti di notare altri dettagli di lei: l’estrema minutezza, ad esempio. Arianna non era solo magra, aveva proprio la costituzione aggraziata di una bambola di porcellana: polsi sottili, mani piccole e affusolate, gambe nervose. Il contrasto col carattere deciso era stridente e forse chissà, era per attenuarlo che la ragazza si nascondeva in vestiti tanto vistosi.


“Dicevo: Miele mi ha riferito che la Signorina Savelli ha subito un’aggressione.”

“Beh, un tentativo di aggressione”, ribatté lei, drizzando la schiena.

“Un tentativo di aggressione è sempre di nostra competenza”, puntualizzò Colasanti, sorridendo benevolo come un patriarca.

“Un tentativo di aggressione che si sarebbe potuto evitare benissimo se la signorina qui presente avesse evitato di aizzare il tizio che la stava insultando.”


Colasanti sbatté le palpebre disorientato.


“Secondo lei cosa dovevo fare? Stare zitta e magari farmi violentare per davvero? Ma lei li legge i giornali? Lo sa quante aggressioni hanno subito i gay solo in quest’ultimo mese?”


Prima che Martini potesse ribattere alla sua maniera Colasanti si intromise, cercando di mantenere una parvenza d’ordine.


“Signorina, la prego, non usi questo tono col mio collega, o sicuramente finirà per essere accusata di oltraggio a pubblico ufficiale. E non è per questo che è qui, giusto?”

“No, non è per questo. Ho subito un tentativo di aggressione, fuori un locale di Via San Giovanni in Laterano."


Se col primo riferimento provò a fare finta di nulla a quelle parole Colasanti non poté fare a meno di sbiancare.

Via San Giovanni in Laterano è la Gay Street romana.


“Lei è una frequentatrice abituale di quel locale?”

“Sì, ci lavora la mia ragazza.”

“È omosessuale, quindi? È per questo che l’hanno aggredita?”


Colasanti non aveva bisogno di fare tutte quelle domande né, tanto meno, di attendere le risposte. Sapeva già che era tutto vero, era lo stesso motivo per cui si preoccupava ogni volta che Stefano non lo avvisava di un qualche suo rientro notturno, come nel caso di questa notte.


“Sì.”


Anche in quel momento, con la voce che tremava, gli occhi di Lady Kalashnikov non avevano perso un grammo di intensità.


“Angelo, fatti però spiegare come sono andate le cose, sennò qui sembra che la signorina Savella …”

“Savelli, prego.”


Martini la fulminò con lo sguardò.

Era un uomo alto e corpulento, sulla cinquantina, di orgogliosa origine campana. Avrebbe potuto schiacciarla col solo palmo della mano, se solo avesse voluto.


“Signorina, la prego, lasci perdere il mio collega e mi spieghi brevemente cosa le è successo.”

“Sembra che stiate giocando al poliziotto buono e a quello cattivo.”

“Senta, non è il caso.”


Vedendo che anche quello strano Ispettore che era dalla sua parte stava perdendo le staffe Arianna si decise a parlare.


“Ero andata a prendere la mia ragazza al lavoro e ci stavamo salutando…”

Baciando, ad essere esatti.”


Colasanti alzò gli occhi al cielo, invocando tutti i santi che gli erano venuti in mente.


“Va bene, va bene, la stavo baciando, ok? Stavo baciando la mia ragazza fuori il locale dove lavora, quando un tizio ci vede e prende a insultarci. Io gli ho risposto per le rime e questo ci ha seguite fino alla macchina e ci ha messo le mani addosso.”


Nella stanza cadde un silenzio pesante.

Colasanti era progressivamente impallidito e Martini, che non riusciva ad interpretare le reazioni del collega lo stava fissando con aria interrogativa.

L’agente Miele sedeva in un angolo, bene attento a restare il più inosservato possibile.


“Le ha fatto del male?”


L’Ispettore fece fatica a nascondere l’incertezza della voce.


“Mi ha allungato uno schiaffo.”

“E la sua ragazza?”

“La mia ragazza sta bene, per fortuna.”

“Non l’ha accompagnata?”

“Sì, ma ho preferito che rimanesse fuori. Lo sapevo che tanto non mi avreste creduta.”


Martini tirò fuori una risata che sembrava un grugnito.


“Ecco, la povera vittima! A parte che quello che ha fatto lei, cioè baciarsi con un’altra ragazza, è immorale, ma poi vogliamo parlare del calcio in mezzo alle gambe che ha tirato al povero tizio?

“Si trattava di legittima difesa.”

“Se, se, in attesa di testimoni si fa presto a dire che era legittima difesa.”

“Ora basta, tutti e due!”


Colasanti, esasperato, batté un pugno sul tavolo.


“Martini, finché non sfocia negli atti osceni in luogo pubblico la Signorina Savelli può baciare chi vuole ovunque lei voglia.”

“Forse nella strada loro, dove nessuno li disturba.”

“No, ho detto ovunque e basta.”

“Angelo, ma niente niente sarai mica omosessuale anche tu?”


Dal tono di voce si capiva che Martini si era trattenuto a fatica dall’usare la parola “frocio”.

Per Colasanti quello fu uno degli istanti più tremendi della sua vita. Stava per prendere una decisione di cui si sarebbe pentito amaramente. Gli sarebbe piaciuto avere negli occhi la determinazione di Lady Kalashnikov, la sua stessa adamantina volontà di difendere i propri diritti ma la sua situazione era diversa. Lui indossava una divisa, non era proprio un militare ma il senso dello Stato era lo stesso, e lo Stato non si può tradire, per quanto ingiusto e sbagliato.


“No, non sono omosessuale.”


Non bastò il seguito della risposta, negli anni a venire, a placargli del tutto il senso di colpa.


“Ma questo non significa che non abbiano dei diritti che noi abbiamo il dovere di difendere. A te piacerebbe che qualcuno aggredisse tua figlia così, di punto in bianco?”


Martini reagì con una smorfia.


“Angelo, io non lo so che t’ha preso stanotte e non lo voglio sapere, ma vediamo di sbrigarci con questa denuncia e poi ognuno per la sua strada. Per come la vedo io la signorina avrebbe dovuto stare zitta ed evitare di istigare ulteriormente il suo aggressore, e quantomeno meriterebbe di essere accusata di resistenza a pubblico ufficiale.

“Ma piantala! Signorina, venga con me e l’agente Miele al piano di sopra, così possiamo firmare il verbale e far partire le indagini per identificare l’uomo che l’ha aggredita.”


Arianna, o Lady Kalashnikov parevano aver compreso ciò che Colasanti aveva tentato di nascondere.

Forse era solo suggestione, una delle tante che caratterizzano quell’ex convento sconsacrato a forza, ma ad Angelo sembrò che Arianna avesse respinto la mano che voleva aiutarla ad alzarsi.

D’altronde, pensandoci bene, non era certo lei ad averne bisogno.

***

Questo racconto è stato scritto all'incirca un anno fa, per un progetto che poi non è andato in porto. L'ho ripreso in mano ieri e mi sono detta che pubblicarlo era comunque più utile di tenerlo a muffire in una cartella. Anche perché c'è un gran bisogno di parlare di omofobia.






   
 
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