Anime & Manga > TSUBASA RESERVoir CHRoNiCLE / xxxHOLiC
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Autore: Wren    12/06/2007    8 recensioni
Il bambino è prigioniero, vittima di un'insensata crudeltà, ma non è per sè stesso che lotta, non è per sè che conserva la speranza. (Spoilerissimo capitolo 155)
Genere: Triste, Malinconico, Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altro Personaggio, Fay D. Flourite
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
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Fanfic scritta per la community Daisuki (10_clamp)

1(#24). I pull you from your tower, I take away your pain.




Sta guardando in alto, mentre fa quel che deve fare.
I suoi occhi sono fissi verso la meta che vuole raggiungere e, anche se non riesce ancora a vederla, l’immagine della persona a cui vuole arrivare non potrebbe cancellarsi dalla sua mente nemmeno dopo un milione di anni rinchiuso in quella valle.
E’ arrivato abbastanza in alto stavolta, molto di più rispetto al precedente tentativo. Si aggrappa alla parete rovinata della torre e comincia a strisciare, cercando il punto in cui la pietra è più irregolare ed issandosi piano, perché la sua forza di volontà non basta, perché le leggi della fisica non concedono sconti, nemmeno ad un bambino, nemmeno se disperato.
Si issa di qualche metro e subito viene trascinato giù, perché c’è un destino capriccioso ed ingombrante aggrappato alle sue gambe, lo guarda coi suoi occhiacci maligni e gli ricorda che lui lassù non ci potrà mai arrivare.
Questo non gli sta bene, il bambino artiglia il muro fino a massacrarsi le dita, oppone cieca resistenza e non gli interessa del dolore, se gli servisse a salire ancora un po’ gli starebbe bene di consumarsi le mani fino a ridurle a moncherini sanguinanti. Il male c’è ma non lo sente, non è reale. Le sue mani ricordano fin troppo bene e cacciano via la sofferenza. E’ rimasto, sotto la pelle, il calore di quell’altra mano, quella che stringeva nel tentativo di dare forza e di riceverne in cambio. E’ una sensazione ancora viva, la pressione dolce ed affranta delle piccole dite, piccole come le proprie, che si avvinghiavano a lui.
E quella è l’unica realtà che conta.
Lui deve salire fino alla cima della torre, fino alla finestra ancora così lontana che quasi non riesce a distinguerla. Deve arrivare dall’altro, afferrargli la mano ancora, come tutte le volte che il mondo voltava loro le spalle. Perché erano uno il conforto dell’altro, l’unico in cui potessero sperare. Se non arrivava a quella finestra, a loro non restava niente davvero.
Ancora un metro e poi un altro, lentamente si avvicina e quando sarà lassù tutta la fatica sparirà d’incanto. Vedrà il volto dell’altro attraverso le sbarre, il volto che non può dimenticare perché è anche il proprio. Ed è un bene che quello sia un volto che non potrà mai cancellare dalla mente, perché gli ricorderà sempre chi è lui e lo terrà legato a sé stesso, non importa sotto quanta follia finisca per essere seppellito.
Avrebbe fissato il proprio riflesso sul volto dell’altro, come uno specchio vivente, e il sorriso con cui l’avrebbe accolto lui, sarebbe diventato anche il suo sorriso e la speranza che avrebbe mostrato nei suoi occhi, sarebbe guizzata anche nello sguardo dell’altro.
Ancora un metro e poi giù di nuovo, sente le unghie che si spezzano graffiando la pietra e la pelle che si scortica, stringe i denti e cerca di trattenere la caduta, ma ancora una volta è il peso beffardo dell’inevitabile ad averla vinta, e con un ghigno soddisfatto sulle labbra lo scaglia verso il basso, lontano da dove lui vorrebbe andare.
L’impatto è violento, il contraccolpo gli mozza il respiro e lo tramortisce per un istante, ma uno soltanto, perché non è la terra ad accoglierlo dal suo volo di Icaro, ma un’orgia scomposta di cadaveri.
E’ una fossa comune quella in cui l’hanno relegato per non si sa quale perversa manifestazione di Buon Governo. C’è un braccio che emerge, sembra chiedere un aiuto che non gli servirà comunque. Il bambino lo afferra e trascina il corpo verso la macabra scalinata che si è costruito, bassa, ancora troppo bassa. Issa il cadavere più in alto che può, poi scende e ne raccoglie un altro e un altro ancora e un altro e un altro... Guarda in alto mentre ammassa i corpi come scalini, preferisce fissare la meta che deve raggiungere piuttosto che il mezzo che è costretto ad usare per avvicinarsi. Non teme la vista della morte, non dopo aver avuto quegli stessi cadaveri come letto per non ricorda più quanto tempo, ma il loro sguardo spalancato e vacuo lo innervosisce e lo mette faccia a faccia con la consapevolezza che, se in loro ci fosse ancora vita, non si farebbe comunque scrupoli a calpestarli pur di arrivare alla finestra lassù, ancora lontana. Sempre troppo lontana.
E contro la luce pungente del cielo e il fischio assordante del vento, lo vede e lo sente ancora, come l’ultima volta.
“Vorrei che non mi amassi tanto. Se non mi amassi affatto, non avresti problemi ad uccidermi e saresti libero.”
“Non è lo stesso per te?”
“No, perché se io non ti amassi, non esisterei nemmeno. Se invece potessi morire per liberarti, lo farei. Ma tu non dovresti amarmi, Yuui, perché altrimenti ne soffriresti troppo.”

Allora il bambino grida fino a bruciarsi la gola, spera che per una volta quel vento ostile che gli sferza gli occhi voglia giocare a suo favore e spingere in alto la sua voce. Vuole dirglielo, che lui è ancora vivo là sotto, vuole rassicurarlo, dargli speranza, ricordargli che lui non ha intenzione di abbandonarlo, e grida, e raggiunge il limite, e grida ancora più forte, perché la persona che deve sentire le sue parole è per lui come l’altra metà di sé stesso, la parte che ha un bisogno disperato di credere ancora in qualcosa.
“Ce ne andremo di qui! Ce ne andremo insieme, Fay!”
In alto, nel buio spezzato dalle fessure della finestra, l’altro bambino ascolta con la fronte appoggiata alle sbarre. Lascia che il vento si insinui nella cella e che le parole di quella voce familiare turbinino attorno a lui. Potrebbe afferrarle e tenerle strette come una coperta quando la notte e la paura gli ghiacciano il sangue, ma preferisce lasciarle andare, lasciare rifluire fuori dalla finestra e di nuovo giù, un eco per suo fratello, perché la sua voce e quella che l’ha raggiunto sono identiche e le parole che trasporta sono le stesse che vorrebbe rivolgergli in risposta. Lascia che sia il vento a sospingerle indietro, in modo che Yuui sappia.
Che lui è ancora vivo lassù, che vuole rassicurarlo, dargli speranza e ricordargli che nemmeno lui non ha intenzione di abbandonarlo.
Yuui e Fay... noi due siamo uno e non importa cosa accada.
Lo saremo sempre.




Owari





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