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Autore: Thumbelina    26/11/2012    3 recensioni
Innanzi tutto, questa storia è un plagio di me stessa, ossia il suo primo capitolo è la copia esatta di quella che era stata una mia shot (L'ultima sera, per l'appunto). Questa è appunto quella che dovrebbe essere l'ultima sera di vita di Lily, diciamo che comincia dalla fine, e poi... e poi basta, se siete curiosi leggete! Non so che dirvi, io la trovo una storia molto romantica, penso che vi potrebbe piacere, tutto qui. Ovviamente, cambierò il nome orrendo del titolo appena me ne verrà in mente uno migliore, e sono aperta ai suggerimenti. Che altro dirvi? Un bacio a tutti. Buona lettura.
Genere: Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Harry Potter, Lily Evans, Mangiamorte, Severus Piton, Voldemort | Coppie: Lily/Severus
Note: What if? | Avvertimenti: Contenuti forti | Contesto: Altro contesto
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Tre individui soli, gli ultimi rimasti.


Affettare, sminuzzare, imbottigliare, catalogare.
Affettare, sminuzzare, imbottigliare, catalogare.
James morto, l’Ordine lontano, Sirius Black ad Azkaban.
Affettare, sminuzzare, imbottigliare, catalogare.
Affettare, sminuzzare, imbottigliare, catalogare.
Affettare, sminuzzare, imbottigliare, catalogare.
Era tutto così assurdo.
Così assurdo essere bloccata lì dentro, così assurdo esser tornata a maneggiare ingredienti da pozione, così assurdo che Harry continuasse tranquillamente a dormire nella sua piccola culla. Assurdo.
La verità è che quella mattina, così come tutte le altre mattine quando Severus usciva a fare i comodi del suo signore e lei rimaneva lì. Ne erano passate solo tre da quando quella storia era cominciata, eppure le pesavano lo stesso. Erano di gran lunga la parte peggiore della giornata, peggiore addirittura della cena, se possibile. È perché la mattina era il momento della giornata in cui tutto ciò che era successo il giorno prima le ritornava alla mente, ed avrebbe di gran lunga gradito trovare un’occupazione per scacciare dalla sua mente tutti quei pensieri molesti, ed invece non c’era nulla da fare.
Affettare, sminuzzare, imbottigliare, catalogare.
Affettare, sminuzzare, imbottigliare, catalogare.
Affettare, sminuzzare, imbottigliare, catalogare.
Quella mattina aveva chiesto a Severus di potergli dare una mano con le pozioni. Se ci fosse stato qualcosa di più interessante in quella stanza, qualcosa come un libro o un buon vinile, probabilmente la cosa non gli sarebbe mai passata in mente. Erano anni che non toccava una pozione. Nei primi tempi, dopo la fine della scuola, s’era riproposta di tenersi in costante allenamento, di non perdere la mano in quello che era sempre stato uno dei suoi più grandi talenti, ma poi… Il fidanzamento, e il lavoro di auror, e poi Harry, e la vita coniugale, e poi… L’esercizio delle pozioni era passato, insomma, in secondo piano. Certo, c’era ancora l’infuso di iris e cardo che preparava a suo marito quando questo aveva il mal di testa, ma era molto più vicino a una tisana che a una pozione vera e propria. Eppure quella mattina, Lily Evans sarebbe stata pronta a tutto pur di non rimanere con le mani in mano, pur di poter allontanare i pensieri dalle notizie che aveva ricevuto quella mattina, e che le avevano infestato gli incubi per tutta la notte.
Ma era così ovattato il suono di quel coltello, così opachi i colori di quei fiori secchi, così silenziosa quella stanza… veniva quasi voglia di urlare.
È che lì dentro, con Harry ancora dormiente, senza Severus a farle compagnia, si sentiva terribilmente, terribilmente sola.
Affettare, sminuzzare, imbottigliare, catalogare.
Affettare, sminuzzare, imbottigliare, catalogare.
James morto, l’Ordine lontano, Sirius Black ad Azkaban.
Affettare, sminuzzare, imbottigliare, catalogare.
Affettare, sminuzzare, imbottigliare, catalogare.
James morto, l’Ordine lontano, Sirius Black ad Azkaban.
Affettare, sminuzzare, imbottigliare, catalogare.
Affettare, sminuzzare, imbottigliare, catalogare.
Chi era rimasto? Chi era rimasto ora per lei? Con chi poteva sfogarsi, piangere, parlare, se il suo unico compagno dormiva nella sua culla e Severus Piton stava fuori tutto il giorno?
Non che fosse ingratitudine la sua, assolutamente, gli riconosceva di aver salvato la pelle a tutta la parte ancora in vita della sua famiglia, ma certo non le sarebbe dispiaciuta un po’ più di compagnia. Stare sola tutto il giorno, anche se con qualcosa da fare, era comunque terribile.
Affettare, sminuzzare, imbottigliare, catalogare.
Affettare, sminuzzare, imbottigliare, catalogare.
Affettare, sminuzzare, imbottigliare, catalog…

***


Quando Severus arrivò, quella sera, trovò Lily addormentata sul suo letto. Teneva Harry stretto al petto, con la bocca ancora incollata alla sua mammella, addormentato anch’esso. Il sonno doveva essere sopraggiunto proprio nell’ora della poppata.
Se l’ora della cena non fosse stata prossima, se solo Lord Voldemort avesse potuto accettare un rifiuto, probabilmente non li avrebbe mai svegliati, avrebbe continuato a contemplare la donna della sua vita e suo figlio serenamente addormentati per tutta, tutta la notte. La sua Lily, così sdraiata, dormiente, rilassata, ricordava quasi la dama di un quadro, una madonna con in braccio il bambino, in preda all’estasi di un sonno profondo. Sì, se avesse potuto sarebbe rimasto a guardarla in eterno.
Erano quelli i momenti in cui più si sentiva solo. Non al mattino, quando s’alzava all’alba, facendo silenzio per non svegliare nessuno, non durante il giorno, quando seguiva la sua recita portando a termine missioni per il suo signore, con gli altri mangiamorte o in solitaria, né tanto meno la notte, quando crollava stremato quasi nell’attimo esatto in cui chiudeva gli occhi. Era vedere la sua donna stretta al suo bambino che lo faceva sentire davvero molto, molto solo.
Per quanto drammatica fosse quella situazione, per quanto terribili gli orrori che madre e figlio avevano dovuto attraversare, era come se ci fosse comunque un aspetto positivo nel tutto, ossia il fatto che si possedevano a vicenda. Qualunque cosa accadesse, qualunque cosa fosse accaduta, avrebbero sempre potuto rifugiarsi nella braccia l’uno dell’altra. Lo avevano fatto nei momenti di maggiore pericolo, tristezza, lo aveva potuto vedere lui, dinnanzi ai suoi occhi, il modo in cui quella sera, la sera in cui tutto aveva avuto inizio, la sua Lily si era parata dinnanzi a quella culla, il modo in cui aveva continuato a protestare, a combattere, a supplicare per di salvare suo figlio. Il modo in cui s’era quasi tolta la vira per salvarlo. Ora, anche ora che la felicità, che speranza erano tornate ad albergare nei cuori dei due Potter, eccoli uniti ancora, come prima più di prima, stretti insieme, incatenati da quel cordone ombelicale che sembrava non essersi mai staccato del tutto. Era quasi come se lui fosse ancora parte di lei, che fossero un tutt’uno, ancora, che si nutrissero l’uno dell’altro, così, come nel ventre. E lui, invece, lui che era stato prima fonte di tanta disperazione, lui che rappresentava ora l’unico barlume di speranza che li teneva ancora in vita, lui non poteva entrare a far parte di quel legame esclusivo, a lui un amore simile, una simile comunione sarebbe stata negata per sempre.
Non invidiava al bambino Lily, nella persona esatta che lei rappresentava, ciò che gli invidiava, ciò che invidiava ad entrambi era il nucleo famigliare che ancora rappresentavano, che ancora rappresentavano, una specie d’amore di cui lui non era mai stato reso partecipe.
Era stata una famiglia diversa la sua, fin dai tempi in cui riusciva a ricordare, con un padre freddo, distante, ed una madre succube di lui che faticava a fargli una carezza. Ed eccolo, davanti a lui, forzato al suo sguardo l’immagine di un bambino che poteva bere del nettare di tutto quell’amore, di tutto quell’affetto fino a scoppiare, nessuno ad allontanargli in muso dalla coppa (o dalla mammella), un bambino che, in qualche modo anche grazie a lui, poteva bearsi di tutta quella gioia che a lui era sempre stata negata. A stringere quel bambino fortunato fra le sue braccia, a donarle tutto l’amore di cui era in possesso, proprio la donna che Severus aveva amato per tutta la sua vita.
Sì, aveva un piano, un piano sconosciuto a Voldemort tanto quanto a Silente, un piano nascosto a Lily, un piano che aveva avuto il coraggio di confessare solo a se stesso, ed era in quegli istanti che lo vedeva fallire.
Per quanto cattivo fosse, per quanto buono si sforzasse di essere, la somma di tutti i suoi errori, il premio di tutte le sue vittorie, era sempre e comunque un uomo solo.
Doveva svegliare Lily. Doveva rompere quell’idillio che l’uccideva dentro, che lo faceva sentire abbandonato a se stesso come sempre era stato, doveva staccare dalla sua mamma quel bambino che poteva gioire di tutto ciò che a lui era sempre stato negato, e allontanare lei dalla persona che amava di più al mondo per ricominciare a fingere d’amare lui. Mentre riscuoteva la donna amata dal suo sonno, Severus tentò di convincersi in tutti i modi che quel gesto non fosse dettato dall’invidia, dalla gelosia, dal dolore, ma solo da un fatto di obiettiva imminenza: incombeva la cena.

***


La signora Peckins non avrebbe dovuto mettersi in mezzo. No, non avrebbe dovuto. Con tutte quelle noie su come lui fosse un inquilino moroso, o le lamentele circa le condizioni in cui tornava a casa a notte inoltrata certe volte, ei i suoi commenti sui suoi amici strani, e quei velati riferimenti volti a saziare il suo sospetto che l’uomo tenesse in casa un animale, cosa severamente proibita. Le aveva sopportate troppo a lungo, le sue lamentele, la sua persona, era quasi un anno che andava avanti a sopportare, era sempre stato quello il suo forte. Sopportava fin da quando era bambino. Aveva sopportato il dolore, all’inizio, e la paura, e poi le notti passate da solo ed il suoi aspetto, e poi, con la scuola, aveva imparato a sopportare le occhiate nei corridoi, e le voci, e i terribili sospetti da parte di alcuni, e l’odiata pietà negli occhi di altri. Aveva imparato a sopportare il sapore amaro della sua medicina fin da fine quinto anno, e l’ansia che s’impossessava di lui alla vista di quelle enormi rampe di scale… Anche i vari scherzi, le varie battute dei suoi amici a cui sorrideva senza esitare, aveva imparato a sopportarle pian piano. E poi, uscito da Hogwarts, aveva imparato a sopportare le porte che gli si erano chiuse dinnanzi, e la signora Peckins, e la tanto odiata carità. Ogni cosa era stato in grado di sopportare in questi anni, ogni cosa, ma non quella sera.
Ora non ricordava neppure come fossero andate le cose, tanto era ancora fuso dall’alcol, diciamo solo che è molto probabile che la signora Peckins lo avesse fermato sul pianerottolo o sulle scale minacciando di tagliargli anche l’acqua calda, e rimproverandolo sull’ora. Ok, forse aveva ragione sul fatto che le cinque di mattina non fossero l’ora più idonea per tornare a casa in un condominio, ed anche che erano già ben dieci giorni che evadeva il pagamento della retta, ma questo non toglieva comunque il fatto che la signora Peckins se la fosse andata a cercare.
Diamine, pensò l’uomo rimurginando sull’accaduto con le tempie ancora pulsanti per l’alcol, non si era accorta che era ubriaco? Non s’era accorta che non stava camminando, ma barcollando, arrancando, che doveva reggersi forte al corrimano per non perdere l’equilibrio, per non cadere? Non s’era accorta del puzzo di vodka e rum e brandy, e di qualunque altro liquore il tizio tarchiato dietro al bancone aveva avuto il cuore di versargli nel bicchiere il cui nome adesso non riusciva a ricordare? Non s’era accorta che probabilmente non la stava neppure guardando negli occhi, dato che vedeva ben tre sagome sfocate di lei dinnanzi a se, o che non riusciva neppure a parlare tanto aveva la bocca impastata dall’alcol? Che non aveva capito una sola parola di quel che aveva detto, che al suono d’ogni minima sillaba si sentiva scoppiare la testa?
Aveva provato a ignorarla, a scansarla, ad andare, ma la donna continuava a stargli davanti, a trattenerlo, a bloccargli la strada. Seguitava a ciarlare, a parlare a vanvera, perché non aveva il buon senso di togliersi di mezzo? Perché non lo lasciava vomitare?
- Togliti di mezzo, donna! – aveva gridato spingendo via una delle tre sagome di lei che al momento s’era visto dinnanzi, e mentre la vedeva cadere dinnanzi a se aveva ripreso con enorme fatica la scalata delle scale, per i cinque spossanti scalini che separavano ormai dal suo pianerottolo.
Sì, pensò chiudendo a chiave dietro di sé la porta del suo piccolo, disordinato appartamento, la signora Peckins se l’era andata a cercare.

Vomitò sul pavimento appena sigillata la porta, e senza curarsi di pulire o di sciacquarsi la bocca barcollò fino in camera sua. Probabilmente si tolse la giacca, facendola cadere da qualche parte, nel caos.
Avevano provato a tenerglielo nascosto, avevano osato non avvertirlo appena la notizia era arrivata, gli avevano mentito, loro avevano…
Lì avrebbe uccisi tutti, decise lasciandosi cadere sul suo letto spoglio, non appena il mal di testa fosse finito li avrebbe uccisi tutti. Tutti, uno per uno, uno per uno. Perché non lo avevano avvertito? Perché non lui, non per primo, non appena la notizia era venuta alla luce, perché tutti avevano provato a tenerglielo nascosto? Cos’era stata? Pena? Compassione? Pena e compassione, ancora, quelle che aveva odiato per tutta una vita! O forse no, o forse peggio, forse non s’erano fidati di lui, forse avevano temuto una reazione distruttrice e distruttiva, come quella. Avevano avuto il coraggio di dirgli che l’avevano fatto per proteggerlo. Proteggerlo da cosa? DA CHE COSA? Dalla furia omicida di quello strambo destino, dalla realtà, da se stesso? Ed ora gli davano la notizia così, non per giustizia, ma per proteggerlo ancora da un nuovo mostro a cui non avrebbe dovuto aprire la porta.
Il riso sardonico di alcune figure in una foto sulla sua scrivania gli fece bruciare gli occhi e la testa. Rimase accasciato. Tutto quello, quella realtà, quegli eventi, tutto era ancora vago nella sua mente, nitido solo in alcuni punti, ad illuminare certi dettagli, proprio le cose che avrebbe preferito non sapere. Faceva caldo. La finestra era troppo lontana per venire aperta da uno che non riusciva a neppure a reggersi in piedi, contando soprattutto il fatto che non riusciva neppure a distinguerla nel caos di figure senza contorno che vedeva dinnanzi a se, e così preferì sfilar via la camicia, operazione che gli richiese un grande impiego di tempo ed energia, colpa di quei sette dannatissimi bottoni e della loro brillante idea di conficcarsi nelle asole. S’era drizzato a sedere un momento per sfilarla del tutto, ed stato allora che foto era tornata a brillare in tutto il suo orrore dinnanzi ai suoi occhi. Era posta in una bella cornice in ciliegio, gliela aveva regalata la sua migliore amica appena tre mesi fa. Sentiva un enorme senso di vertigine, gli girava la testa, si sdraiò di nuovo. Continuava a sudare. Aveva i brividi. Gli veniva ancora da vomitare. Visti gli eventi che erano andati a succedersi in quei giorni, vista la sua vita in generale, viste le sue attuali condizioni, l’uomo pensò che se solo la Peckins non glielo avesse tagliato una settimana prima, probabilmente si sarebbe ucciso con il gas. Ogni altra prospettiva di suicidio si mostrava in quel momento ai suoi occhi come estremamente stressante, e troppo complicata da attuarsi. Per impiccarsi gli sarebbe servito come minimo un po’ d’equilibrio, e poi avrebbe dovuto trovare una cravatta, una corda, qualcosa, legarla da qualche parte, e prendere una sedia, e poi fare un cappio, e dare un calcio alla sedia, troppa, troppa fatica, troppe cose da fare nelle sue condizioni. Non poteva neppure tagliarsi le vene, in primis perché con la vista annebbiata e confusa che si ritrovava al momento probabilmente non sarebbe neppure stato in grado di focalizzare le sue stesse braccia, e poi perché i coltelli erano in cucina, e trascinarsi verso la cucina avrebbe richiesto uno sforzo maggiore di quello che si trovava al momento in condizione di sostenere. Neppure un salto nel vuoto si prospettava come un’idea così brillante, abitando lui solo al terzo piano. La possibilità di autoeliminarsi con un incantesimo era anche quella fuori discussione, innanzi tutto perché non sapeva se le cose potessero funzionare in quel modo, e poi perché non aveva idea di dove avesse cacciato la sua bacchetta. Forse era rimasta in una tasca della giacca… Anche il veleno era fuori discussione, insomma, ci avesse pensato prima magari ne avrebbe comprato un po’ prima di ubriacarsi, ma ora, pur avendo qualche filtro in casa, qualche pianta particolare, non riusciva davvero a ricordare quale di queste potesse nuocergli, né dove potessero trovarsi. Altri sistemi di suicidio al momento non gli venivano. Era un vero peccato che la signora Peckins gli avesse tagliato il gas.
Mentre vorticava gli occhi qua e in là per la stanza, cercando un modo per distrarsi da quel mal di testa maledetto che non gli permetteva di dormire, il suo sguardo tornò a posarsi per l’ennesima volta su quella foto. Prenderla era fuori discussione: situata sulla scrivania, troppo lontana, eppure continuava a fissarla, a bramarla, come se non esistesse altro oggetto in quella stanza ad eccezione di quella. Il resto degli elementi roteava vorticosamente, non accennando a fermarsi. Provò a mettere a fuoco altri elementi. Dapprima lo specchio, fosse riuscito a vedere la sua immagine riflessa sarebbe stato un gran buon risultato, magari sarebbe morto di paura per le condizioni in cui si trovava, e non ci sarebbe neppure stato bisogno del gas. Nulla, nello specchio riusciva a vedere solo l’alternarsi di colori che sfumavano l’uno nell’altro, di forme strane, senza contorni, distingueva una macchia color sabbia (doveva essere il colore della sua camicia, se ben ricordava), e poi ceruleo, tanto ceruleo, questo doveva essere il colore delle lenzuola, e poi altre macchie vivaci qui e là. Doveva esserci una sedia, da qualche parte, la sedia su cui appoggiava di solito i suoi vestiti, doveva essere da qualche parte, attaccata al muro, magari sarebbe riuscito a distinguerla, eccola, era lì, alla fine della stanza, nella Terra di Mezzo fra la scrivania e la porta, non riusciva a distinguerla bene, ma vedeva come alcune parallele nere che facevano da riquadro ad alcune macchie ancora meno chiare. Sì, doveva essere per forza una sedia. E l’armadio? Dov’era il suo armadio? C’era un’enorme macchia marrone vicino a lui, una macchia uniforme, indefinita, senza contorno, era forse quello? Eri lì che era situato, ne era sicuro? Era lì che era sempre stato? Per quanto provasse a sforzarsi, a concentrarsi, tutti i suoi tentativi d’identificazione risultavano vani. Con un ché di magnetico i suoi occhi continuavano a voltarsi verso la foto, come obbedendo al canto di una sirena, come se quella fosse l’unica immagine nitida in una stanza di contorni sfocati.
Si drizzò a sedere, nuovamente, ingoiando il sapore amaro del vomito che gli era appena salito alla bocca, concentrò sulle sue gambe deboli tutta la forza che pensava gli fosse rimasta e sì alzò in piedi, e poi si trascinò fino alla scrivania di legno, tenendo una mano aggrappata alla cornice della finestra e l’altra protesa in avanti per mantenersi in equilibrio. Dovette chiudere e riaprire il pugno in aria per ben tre volte, prima di riuscire, al quarto tentativo, ad afferrare la cornice, che aveva preso a muoversi anch’essa. I volti giovani gli sorridevano ancora in un modo accattivante, e lui mandò in frantumi il vetro della cornice con un pugno che gli fece sanguinare la mano di dolore, e poi liberò dalla morsa del ciliegio la carta ingiallita della foto. Dopo averla sollevata con estrema fatica ed aver mosso qualche passo sghembo all’indietro, si lasciò cadere a sedere sul letto. Quegli sciocchi continuavano a ridere.
L’ubriaco focalizzò il suo sguardo sul primo dei volti. Un ragazzino paffuto con dei capelli di paglia e di rame stava in quel momento sorridendo, non guardava in camera, non dava attenzione alla foto, troppo impegnato che era a guardare il ragazzo che gli stava vicino, a idolatrarlo quasi. Aveva un ché di brillante negli occhi, una qualche scintilla che li illuminava facendoli brillare di un colore che non gli era proprio, conferendogli una parvenza ancora più marcata di bimbo. Serrando ancora una volta le sue labbra al vomito, l’uomo infilzò le unghie due volte sul volto del ragazzo, percorrendo il suo volto di una croce, e poi ingoiò, ed andò avanti. Stava accanto a questo, alto in modo da occupare con il suo corpo scolpito tutta la lunghezza della foto, un secondo ragazzo con dei folti capelli corvini, il suo sorriso intenso, malizioso, spavaldo, colorava il suo viso di una bianca quasi come la camicia portata senza cravatta. Al contrario del suo compagno, il suo sguardo puntava dritto in macchina, quasi sfidando l’obiettivo. L’uomo ubriaco uccise anche lui, tracciando con le unghie una croce anche sul volto di lui, mentre lasciava che il proprio viso si rigasse di lacrime al sapore di rum. Il terzo ragazzo gli stava accanto e con un braccio andava a cingere la schiena dell’amico, come ad abbracciarlo, i due si equivalevano quasi in altezza. Aveva dei lunghi capelli castano scuro che gli coprivano le orecchie, e si poteva notare che aveva annodato la prima ciocca in un qualcosa che assomigliava ad una treccina come all’antenato di un rasta. Portava la cravatta, lui, ma era allacciata male, come se, non riuscendo a fare un nodo, avesse deciso di allacciarla così, come veniva, come fosse una sciarpa, o la stringa di una scarpa. Sorrideva a sua volta guardando l’obiettivo, ma non c’era alcuna malizia nel suo sguardo, sulle sue labbra, nessun senso di spavalderia, né di ammirazione. Sembrava che fosse felice, felice e basta. Stringendo forte i denti al punto da farli quasi spezzare l’uomo infilò l’intero dito sul viso del ragazzo, bucando la foto lì dove era stato il volto di lui in maniera netta, irreversibile. L’uomo ubriaco avrebbe volentieri proceduto alla decapitazione di un quarto personaggio, ma in quel momento una seconda ondata di vertigini andò a sorprenderlo con la forza di un enorme giramento di testa che lo fece crollare di nuovo supino sul letto, svenuto, mentre la foto, sfuggita alle sue mani, andava a posarsi sul pavimento. E così ne restò solo uno.



Ciao! Innanzitutto volevo scusarmi con tutti voi per l'enorme ritardo, e poi dirvi che sì, come avrete notato, il titolo della storia è cambiato, e che fra un po' anche il mio nickname cambierà divenendo TheScarlettLetter. Ok, passiamo al capitolo. Lugubre, non vi pare? Triste, più che altro, mi ci sono impegnata davvero. La parte che più spero vi abbia compiaciuto è quella riguardante il "personaggio misterioso" (che immagino abbiate indovinato tutti, direi che questa volta era scontato, ma vi aspettano personaggi-enigma più difficili, prometto!), che diciamo è una new entry nella mia storia. Ho in mente grandi cose per lui, soprattutto un incontro/scontro importante, nonchè un piccolo sorriso nell'epilogo e nella battaglia finale. Spero di non avervi delusi. Baci. Giulia.
   
 
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