A mia sorella.
Perché i legami di sangue sono inestinguibili.
L’eterna lotta
Se avesse dovuto decidere da solo cosa considerare giusto e
sbagliato, ‘giusto’ sarebbe stato poter finalmente agire come più gli pareva, ‘sbagliato’
dover necessariamente collaborare con quel nano malefico, caduto per errore
nella candeggina.
Non
riusciva davvero a capire perché fosse costretto a collaborare con quel
pidocchio. Non erano mai riusciti a combinare niente di buono insieme. Lui non
era mai stato capace di mantenere quell’aplomb tipico dell’altro che, pareva,
niente riuscisse a scalfire. Fosse stato per lui, lo avrebbe mandato
sonoramente al diavolo e via!
Quel
pomeriggio era sdraiato sul suo letto, i capelli biondi sparsi sul cuscino e le
braccia incrociate al petto. Fissava il bianco del soffitto senza vederlo,
riflettendo sull’esercizio da portare a termine. Gli mancava qualche indizio
per poter giungere ad una conclusione ragguardevole e sicuramente avrebbe
passato parte della nottata in biblioteca, quando tutti se ne sarebbero andati
nelle loro stanze e lui avrebbe potuto girare tra gli scaffali a piacimento e
occupare tutte le scrivanie che voleva.
Qualcuno bussò alla sua
porta. Un tocco leggero, delicato e a Mello saltarono
già i nervi: era sicuramente lui.
«Near,
vattene!» gli urlò senza muoversi da lì.
«Stiamo perdendo tempo.» rispose
monotono quell’altro.
«Tu mi fai perdere tempo…» disse tra sé a denti stretti.
Il ragazzo dietro la porta andò via,
o almeno così parse a Mello.
Si mise a sedere sul
letto con un colpo di reni, passò una mano nervosa tra le chiome dorate e
decise di rovistare in uno dei suoi cassetti. Se non ricordava male, avrebbe
dovuto avere un piccolo registratore, di quelli portatili. Gli era venuto in
mente che, per praticità, avrebbe potuto registrare parte dei suoi
ragionamenti. Di solito ‘usava’ Matt come mezzo per rivedere le sue
conclusioni, ma l’amico si era rotto una gamba per fare l’idiota dal balcone
del piano di sopra e l’avevano ricoverato in ospedale, il demente!
Mentre
lanciava per aria tutto il contenuto di quel cassetto, gli capitò tra le mani
un vecchio quaderno. Guardando la data scritta in copertina con la grafia di un
adulto, doveva essere stato uno dei suoi primi quaderni all’orfanotrofio. Era
così: sfogliandolo notò la sua scrittura infantile. Risaliva all’inizio della
sua permanenza in quel posto, il periodo in cui lui era il numero uno.
Schioccò la lingua con
disapprovazione. Inutile pensare a quando c’era lui a dare lustro alla baracca,
adesso avevano Mr. Genio Impedito!
Stava per chiudere di scatto il
quaderno e lanciarlo alle spalle come gli altri oggetti trovati, ma l’occhio
azzurro cadde su una parola emblematica all’interno di quello che doveva essere
un suo tema.
Near
Una persecuzione già allora
evidentemente. Cominciò a leggere.
Era
descritto l’arrivo di Near all’istituto. Mello rivide sé stesso bambino e ripensò a quei momenti,
quando ancora non sapeva di cosa era capace quel nanerottolo. Era nano già
allora, quantomeno in confronto a lui, sempre stato alto per la sua età. Pur
essendo piccolo, Near non aveva mostrato di essere
spaventato da questo cambiamento. Il biondino non sapeva che storia avesse alle
spalle e, pensandoci, nemmeno ora sapeva bene da dove venisse. Probabilmente
era vissuto già in un orfanotrofio perché, ricordò, si era adattato facilmente
alle regole, al coprifuoco e alla routine tipica di quei luoghi. Mello aveva fatto molta più fatica, avendo avuto un padre
assente che praticamente lo lasciava allo sbando, libero di fare quello che più
gli pareva, nel bene e nel male.
Quel periodo però Near
girava con una coperta appresso, che gli partiva dalla testa, quasi fosse un fantasmino. Essere albino non lo aiutava a levarsi questa
parvenza di dosso. Sembrava poi che le assistenti dell’istituto si divertissero
a vestirlo con colori pastello, dandogli l’aria di un poppante più di quanto
non fosse.
Mello ricordò che in un primo tempo si era
sentito in dovere di proteggere quel moccioso. Non ricordava chi lo avesse
preso di mira, fatto sta che lo aveva difeso dall’essere menato con la testa
nel cesso e di essere chiuso fuori mentre diluviava. Bambini intelligenti sì,
ma pur sempre bambini, con un abbandono nel passato e una sofferenza latente. In
risposta gli era arrivato un ‘grazie’ sussurrato appena, quasi che il piccolo
non fosse abituato a parlare.
Poi avvenne il disastro.
Umiliato, umiliato da un poppante. Ok, la prima volta poteva essere stato un
caso, si era distratto, certo. La prossima volta sarebbe andata meglio.
Illuso. Iniziò la guerra tra loro.
No, non è esatto. Mello sapeva benissimo che quello
ad avere problemi era lui con Near, ma l’altro pareva
totalmente indifferente a quella che effettivamente era una gara a chi fosse il
più bravo.
Mello viveva nella fossa dei leoni, sempre
a guardarsi le spalle, a valutare la pericolosità degli altri concorrenti, a
capire come farli diventare innocui. Near passava il
tempo in eterno relax. Aveva la calma dalla sua, quella che non gli faceva
perdere di vista l’obiettivo e, come una piccola formichina, metteva da parte
le briciole che avrebbero formato la soluzione finale dei problemi che
affrontava.
L’autostima di uno e il
complesso di inferiorità dell’altro si davano battaglia nella mente di Mello e non era sicuro di riuscire a sopravvivere. A volte
si era chiesto chi fosse questo ideale a cui sperava di ascendere. L o Near? Si sforzava di pensare che fosse L, ma una vocina
piccola piccola gli diceva che non era così, era Near il suo problema.
Essere cosciente di questo suo
complesso non lo aiutava a liberarsene e peggiorava pesantemente il suo
rapporto con gli altri, cosa di cui Roger, il loro tutore, si lamentava ogni
giorno. Aveva iniziato a vessare chiunque che, secondo lui, lo stesse puntando
o infastidendo. La sua arroganza arrivò a sfondare il soffitto e, quando un
semplice elenco affisso in una bacheca lo faceva sprofondare al secondo posto,
avrebbe decisamente ucciso il primo cretino che avrebbe aperto bocca
sull’accaduto.
Mello si riscosse da ricordi e conclusioni
ridicole. L’autocritica che a volte emergeva, veniva seppellita sotto una dose
di arroganza che lo aiutava a sopravvivere.
Quella notte portò avanti
il suo piano di studiare in biblioteca e solo verso l’alba decise che qualche
ora di sonno poteva concedersela.
Tornò
in camera sua, chiuse la porta e sprofondò in un sonno agitato. La sua mente
vagò tra le mille informazioni, numeri, termini, indizi, parole, frasi,
conclusioni fino a che un forte calore non lo avvolse. Aprì gli occhi
liberandosi del piumone che lo stava soffocando. Si ritrovò sul pavimento di
una stanza buia, una porta sulla parete di fondo. Forse era aveva avuto un
attacco di sonnambulismo, cosa che si era verificata già altre volte, quando
era più inquieto del solito. Si alzò e si diresse da quella parte e provò a
girare la maniglia, ma era chiusa a chiave. Si guardò intorno: non c’erano
mobili, a parte una sedia. Sbuffò per essere in una situazione antipatica. Ad
un tratto sentì qualcuno piangere … un bambino … provò a capire da dove
provenisse: poteva chiamarlo e farsi aprire, poi però fece un salto: la sua
coperta si muoveva ed era da lì che proveniva quel pianto!
Gli si rizzarono i capelli in testa. Gli
occhi erano dilatati in un’espressione di puro terrore. Non era possibile, lì
c’era stato lui fino a qualche secondo fa. La coperta si mosse ancora, poi una
manina bianca strisciò tra le coltri, lenta, e si tese nella sua direzione.
Mello si appiattì contro la porta. Non era
un fifone, però, in questo caso pensò che poteva fare un’eccezione.
«Mello»
sentì provenire il suo nome soffocato dall’ammasso di stoffa e di piume d’oca.
Poi la coperta ‘si alzò’ e avanzò
verso di lui come se avesse le ruote, pareva galleggiare a mezz’aria.
«Mello»
un’altra volta la voce del bambino pronunciò il suo nome.
«Chi sei? Che vuoi?» disse il
biondino, la voce più ferma possibile.
Ancora quel pianto.
Ok, la situazione era ridicola, il
panico lo stava divorando e le ginocchia cominciavano a tremare.
Decise che per il suo bene era il
caso di farsi forza. Deglutì a fatica e si staccò lentamente dalla porta. Era
uno di quei momenti rari nella vita che si pentiva di essere scalzo. Avanzò con
circospezione verso la coperta e tese la mano ad afferrare il piumone.
Lo strappò via con forza, temendo
cosa avrebbe trovato lì sotto.
«Near?!» la
voce gli morì in gola e subito dopo si fece spazio la voglia di prenderlo a
pugni «Tu devi essere veramente idiota, razza di impedito e nano!»
Near aveva addosso il suo pigiama bianco,
un classico, e i capelli arruffati. Gli occhi non erano lucidi e il volto non
era rigato di lacrime come aveva immaginato Mello.
Era sicuro di aver sentito qualcuno piangere.
«E sei anche un piagnone!»
«Io non stavo piangendo. Ho sentito
piangere te.»
Mello sollevò un sopracciglio.
«Io?! Ma sei scemo?»
«No.» disse secco quello «Eri proprio
tu.» aggiunse monotono.
Mello fece un respiro profondo. Aveva
voglia di mettergli le mani al collo, ma non era il caso di lasciarsi alle
spalle dei cadaveri.
«Non ho tempo di discutere con te,
nanerottolo. Non voglio nemmeno sapere come diavolo facevi ad essere lì sotto. Abbiamo
un problema, siamo chiusi a chiave qui dentro.»
Near si guardò
intorno e gli sfuggì dalle labbra un ‘oh’ di sorpresa. Con la faccia di uno che
constata che ha finito tutte le caramelle, si risedette per terra.
C’erano momenti in cui Mello pensava che quel coso fosse pure autistico.
«C’è una sedia.» constatò lo gnomo.
«Bravo, sai contare.» rispose il
biondino seccato. Roteò gli occhi al cielo, vedi che cosa gli doveva capitare:
prima un infarto, poi sopportare questo demente. Gli venne in mente una cosa.
Se quella fosse una stanza dell’istituto, allora doveva esserci una chiave di
riserva nascosta in alto, sull’architrave della porta.
Prese la sedia e l'avvicinò ad essa
quanto potette. Montò su con un balzo felino e si stiracchiò il più possibile.
Niente, non riusciva a raggiungere, anzi, nemmeno a sfiorare la cornice
sporgente. Forse saltando …
Ci provò, ma l’atterraggio fu un
disastro. Ricadde in un punto diverso della sedia che capitombolò all’indietro
e lo scaraventò con violenza sul pavimento.
Mello batté la testa parecchio forte,
tanto che il tonfo fu perfettamente udibile per chiunque si fosse trovato nei
paraggi.
«Ti sei fatto male?» chiese Near.
«No, mi sono fatto bene!» urlò
l’altro, ormai con la rabbia che gli faceva fumare le orecchie, un mal di testa
che gli faceva vedere le stelle e un pressante istinto omicida.
«Posso dare un suggerimento?» non
attese risposta «Se mi prendi sulle spalle e saliamo sulla sedia, dovremmo
riuscirci.»
Massaggiandosi ancora la testa, Mello convenne che andava bene tutto per non restare ancora
solo nella stanza con quello.
«Va bene, ma sbrigati.» accettò il
biondino.
Con una certa fatica Near riuscì a montargli sulle spalle. Per fortuna era
leggero e Mello non fece fatica a salire sulla sedia,
pur se l’equilibrio ebbe bisogno del suo tempo.
La manina bianca di Near si stese e perlustrò l’architrave con meticolosità.
«Trovata.» e una chiave argentata
luccicò tra le sue mani.
Scesi, fu Mello
a strappargli di mano l’oggetto.
«Se aspettiamo che centri il buco,
facciamo l’alba!» e la porta si aprì.
Un tonfo provenente dal
giardino fece svegliare di soprassalto Mello. Era nel
suo letto, nella sua stanza, al calduccio. Niente Near
in giro. Era stato solo un sogno. Un mezzo incubo, convenne, dopo un attimo di
riflessione. Ritrovarselo anche nell’inconscio era allucinante. Si sdraiò
nuovamente e ripensò agli avvenimenti onirici. Si erano aiutati a vicenda. Ecco,
poteva essere giusto un sogno!