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Autore: MaTiSsE    29/11/2012    4 recensioni
"Mi voltai di colpo, scombussolata. Qualcosa era tornato a fare male.
Me lo ritrovai faccia a faccia, il fotografo: Andrea detto Zeno detto Genio.
Andrea era un bel nome, perché storpiarlo?
Non lo riconobbi dal viso ma dai suoi tatuaggi: Medea mi occhieggiava con tutte le serpi dalla sua spalla, tra rose, teschi e scritte in lingue sconosciute.
Balbettai qualcosa, i denti stridevano e la lingua non era in grado di articolare una parola. Erano tornati i miei momenti scuri, quel capogiro, la confusione, l'irrazionale sensazione di non saper dove mi trovavo e perché. Ero convinta di essere guarita, quella foto invece mi aveva riportato indietro. Cento passi indietro, tutti gli sforzi dei miei diciotto anni buttati via per una foto."
Un centro sociale, due giovani che non si conoscono e forse si conoscono da sempre: questa è la storia di Meg e Andrea, il Genio.
Genere: Generale, Malinconico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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“Ti hanno fatto male? Picchiato?”
“No.”
“Sicuro?”
“Sì.”
“Mmh... Allora tu che hai combinato? Mica hai sfasciato la testa a qualcuno?”

Andrea ridacchiò.

“Direi di no. E’ stata una manifestazione tranquilla, tutto sommato.”
“Ti hanno arrestato?” replicai non del tutto convinta.
“…”
“Andrea?”
“Margherita? Ma ti pare?”

Zeno frenò davanti a un edificio in mattoncini rossi a tre piani, invitandomi a scendere per prima dalla bicicletta. Mi squadrò perplesso, alzando un sopracciglio. Feci spallucce.

“Magari ti avevano già rilasciato, no? Che ne so io di questa manifestazioni?”
“La smetti?!” scoppiò a ridere e io tirai fuori la lingua. Adoravo prenderlo in giro.

“Fammi capire,” commentai allora, cambiando discorso, “siamo arrivati?”
“Yes! Siamo arrivati.”

“Ancora non ci credo che abbiamo fatto mezza città in bicicletta per venire fin qui.”
“Vedrai, come studierai qui non lo farai più da nessuna parte. È il posto più tranquillo che conosca” rispose Andrea dandomi le spalle, mentre armeggiava per assicurare la bici a un palo.

“Vieni, l’appartamento è al pian terreno” commentò infine, spalancando il portoncino in ferro battuto dell’ingresso. Lo seguii con passo incerto, come facevo sempre per i posti che mi erano sconosciuti.

“Sei sicuro che ci sarà abbastanza silenzio? Ne ho bisogno per studiare decentemente! A casa mia continuo a distrarmi e in biblioteca ancora peggio, con quel tipo delle pulizie che fa un casino pazzesco.”
Gianni – si chiamava così il nuovo signore delle pulizie in biblioteca – aveva più o meno una cinquantina d’anni ed era calvo e molto alto. L’espressione stampata sul suo viso era perennemente scocciata e non faceva altro che lamentarsi del proprio lavoro, anche mentre la suddetta biblioteca era strapiena di studenti in modalità studio matto e disperatissimo e lui avrebbe dovuto rispettare il silenzio come tutti gli altri. Che poi, stava lì a spazzare a passare lo straccio a qualsiasi ora del giorno e siccome questo mi sembrava fuori da ogni contratto lavorativo, avevo il sospetto lo facesse di proposito per il solo gusto di disturbarci.

Nonostante le lamentele continue e i richiami della direzione, infatti, Gianni aveva continuato a parlottare e brontolare tra sé, agitando noncurante lo Swiffer sotto al naso dei numerosi, poveri studenti della biblioteca comunale. Me compresa, s’intende.
Alla fine avevo mollato: non potevo continuare a studiare in quel posto che da biblioteca si era trasformato nella succursale di una qualche casa di cura per psicopatici. Ora, considerando che neppure casa Gherardi era il top sotto questo punto di vista con Ludo che entrava e usciva, papà che urlava per un nonnulla e mamma sempre al telefono, ero sostanzialmente fottuta.
O meglio, lo sarei stata se Andrea non fosse giunto in mio soccorso ancora una volta, proponendo quell’appartamento. Pregai affinché quel posto facesse al caso mio: non ne potevo più di girovagare per il mondo trascinandomi dietro i miei “leggerissimi” libri di testo.


“Allora? Mi dici come abbiamo fatto a sbattere fino all’altro lato della città? Casa di Fabrizio non andava bene?” domandai seguendolo all’interno di un appartamento molto luminoso e accogliente. Si trattava di un monolocale ampio, dotato di un minuscolo piano soppalcato e di due finestre molto grandi, dagli infissi verniciati di bianco, che affacciavano su un piccolo ma grazioso giardinetto.
Il parquet scricchiolò sotto i miei piedi mentre avanzavo lì dentro, guardandomi attorno estasiata.

“Wow…” mormorai.
“Hai perso la lingua? Mi sembri attratta dal luogo” commentò Zeno prendendomi in giro, mentre chiudeva la porta alle proprie spalle. Gli diedi una pacca sul braccio.
“Cretino!”

Ridacchiò.

“Comunque, per rispondere alla tua domanda: no, casa di Fabrizio non andava bene. Soprattutto adesso che è così… frequentata.”

Mi venne da ridere: era vero, ormai era chiaro a tutti che Romina e Fabrizio si frequentavano. Da quando Polska era tornato da Roma non facevano altro che vedersi tutti i giorni e Romina viaggiava a tre metri da terra.
Effettivamente, chiedergli casa per farmi studiare sarebbe stata una pessima idea: dire che li avrei disturbati suonava davvero come un eufemismo.

“Inoltre” continuò Andrea “non è colpa mia se casa di Stefano si trova così lontana dal tuo quartiere. Però, se vuoi, posso esporgli le tue lamentele. ”

Per poco non mi cascò la mascella.

“Non ho capito, questa è casa… di Stena?”

Da quando ai presunti comunisti da centro sociale era concessa la proprietà privata?
Zeno non si scompose ma piuttosto annuì molto tranquillamente, prima di lasciarsi cadere a peso morto su un morbidissimo divano dalle tinte arancioni disposto nel bel mezzo del locale.
Agitò la mano con sufficienza nel rispondermi:

“Gliel’hanno tipo… regalato i suoi genitori? Sì, una cosa del genere.”
“E perché i genitori di Stena dovrebbero avergli regalato un appartamento tutto per lui?”
“Per ingraziarselo e convincerlo a non frequentare più centri sociale e le schifose e puzzolenti zecche comuniste. Magari pure per convincerlo a tagliarsi quei suoi rasta stepposi. Speravano che lo scambio gli facesse gola, ma Stena non c’ha mai messo piede qua dentro. L’ha arredato tutto sua madre, lui a stento sa di che colore sono le pareti. Comunque la signora ha fatto un ottimo lavoro, se consideri che quest’appartamento doveva essere, in origine, un deposito o qualcosa del genere.”

Ero sconvolta; guardai Zeno a bocca spalancata prima di sedermi accanto a lui.

“Fammi capire: Stefano ha una casa tutta sua e non ci viene mai?”
“No, non gl’interessa. Dice che se l’accetta poi dovrebbe pure accettare quello che definisce il ricatto di suo padre”
“Ma ha le chiavi, no? Altrimenti, come avrebbe potuto passartele?”
“In realtà, quando gli ho parlato del tuo problema si è offerto lui di prestarmi la casa. Ha rubato le chiavi e me le ha portate a La Piovra. Proprio un bravo ragazzo, vero?”

Non risposi ero a corto di parole.


“Che c’è? Non trovi che Stena sia gentile?” domandò allora Andrea, guardando la mia faccia perplessa.
“No, altroché! Solo che stavo pensando: se dico ai miei che voglio fare qualcosa di veramente brutto, tipo diventare una rapinatrice, per evitarlo potrebbero regalarmi una bella casetta tutta mia, com’è successo per Stena. Dici che funziona?”
 
Zeno mi guardò per qualche istante e poi scoppiò a ridere.
“Ma sei seria? Io dico che sei proprio scema!” esclamò ancora ridendo e attirandomi a lui. Poggiai la testa sulle sue ginocchia e me lo contemplai piena d’amore, carezzandogli il viso.
Era così bello, così sorridente! Così mio, soprattutto.
Ancora stentavo a crederci, a volte.

Andrea era fantastico, intelligente, di talento; aveva un sogno e un ideale per cui combattere e, nonostante tutte le ragazze che gli giravano intorno, lui aveva scelto me come unica persona con la quale condividere i propri giorni e le proprie aspettative, non da adesso, ma già da tanti anni prima. Non riuscivo mai a capire cosa avesse mai trovato in me di tanto speciale per fare una simile scelta e forse, giunta a questo punto, neppure m’interessava più: ero una ragazza così fortunata, perché rovinare la mia felicità con tante domande inutili?


Zeno allora si chinò per lasciarmi un bacio sulle labbra; ricambiai un po’ più emozionata del solito. Davvero, a pensarci sarebbe stato tutto perfetto se …

Se, d’improvviso, non avessi realizzato che eravamo da soli.
Soli in un casa che in pochi avrebbero potuto raggiungere.
Una casa silenziosa.
Nessuno ci avrebbe disturbato, nessuno mi avrebbe telefonato: per tutti ero a studiare in biblioteca.
Soli… Io e Andrea.
Tecnicamente Andrea era il mio ragazzo, quindi…

Vabbè, avrei dovuto sproloquiare ancora molto o si capiva perché m’era venuta un po’ di tachicardia?

“Eeehm, okay! Allora io comincio a studiare!”

Quasi gridai balzando in piedi improvvisamente. Andrea mi guardò perplesso e, ancora più perplesso, guardò alla mia borsa per i libri che, in seguito a un tale scatto, era caduta sul pavimento con gran fracasso.
“Margherita?”
“Eh?” risposi saltellando su una gamba.
“Ma stai bene?”
“Un amore!”

Zeno mi guardò ancora sospettoso, poi rise. Io volevo sprofondare perché pensavo avesse afferrato il motivo del mio imbarazzo.
Da quando ero diventata così pudica?

“Quanti libri ti sei portata dietro?”
“Tutti quelli che mi servono per studiare, ovviamente” risposi un po’ acida, raccogliendo la borsa da terra. Andrea lasciò la sua comoda postazione sul divano per aiutarmi.
Intimidita com’ero in quel momento da un film che si svolgeva solo nella mia testa, avrei preferito non ricevere soccorsi di alcun tipo.

“Va bene, mi sembri un po’ nervosa. Vuoi che ti lasci da sola, Meg? Puoi chiamarmi quando hai finito. Tranquilla che non ti disturberà nessuno, il palazzo è di nuova costruzione e ci abita una sola famiglia, per adesso. Sta al piano di sopra. Ripeterai tutto il programma senza problemi.”
“Ma no! Cioè, s-sì… No! Puoi stare, ci mancherebbe” farfugliai.
“Ah, grazie”
“Che hai tu nello zaino, invece?” domandai, indicando la sua borsa: stavo cercando qualcosa che mi distraesse in maniera convincente dall’immagine mentale di Andrea che si toglieva la maglia di dosso.
Ma come mi venivano in mente certe cose?
E, soprattutto, dove diavolo si era cacciata la mia vocina della coscienza, una volta tanto che avevo bisogno di lei?!

Andrea afferrò lo zaino. Mi sembrava pesante non meno della mia borsa dei libri.

“Beh, tu studi e io che faccio? Dovrò pur passare il tempo, no?”

Così, tirò fuori un blocco di fogli e delle matite (ogni tanto cerco di disegnare anche io, spiegò), appunti e volantini portati via direttamente da La Piovra, e la sua belle macchina fotografica.
Una Reflex, ovviamente.

“Però, mi manca la vecchia Polaroid. Arianna me la distrusse qualche anno fa, inavvertitamente. Se glielo ricordi ancora piange, si mortifica troppo a pensarci.”
“Povera piccola!”
“E già”
“E questa invece?”
“Questa me la sono sudata lavorando come un mulo, mia cara”
“Non ne avrei mai dubitato. Hai fatto foto nuove?”

“Sì” ammise, tornando a sedersi sul divano. Più calma rispetto a pochi istanti prima, afferrai il libro di storia e mi accomodai accanto a lui.

“Un po’ di foto alla manifestazione, pensiamo di inserirle sul sito che Stena sta realizzando per il centro sociale. È molto bravo con questo genere di cose, io invece sono una frana. Bazzico poco sul web”
“Però hai una pagina Facebook che riguarda le tue foto!” commentai indicandolo, come per dire: ti ho beccato!
Rise.
“E’ sempre opera di Stena, dice che sono troppo belle per non mostrarle. Se ne occupa lui e a volte pure Arianna. Poi, insieme a Fabrizio, di tanto in tanto decidono che il Genio de La Piovra deve fare una mostra e così mi faccio conoscere un po’ in giro, quando posso. È una cosa molto stupida, vero?”
“Perché dovrebbe?”
“Perché non sarò mai un fotografo. Non uno serio, almeno”

Lo guardai perplessa e un po’ risentita; conoscevo le capacità di Andrea e avevo visto le sue foto: sapevo quanto valeva.
Era merito di una di quelle immagini se avevo riacquistato un pezzo di noi. Era merito di quella finestra in bianco e nero, della sua tendina di pizzo, del vaso di fiori sul davanzale, di tutte quelle cose che adesso non esistevano più, ma che Andrea aveva catturato in uno scatto, regalandolo poi a me, se avevo imparato a conoscere un pochino la Margherita dei miei quattordici anni.
Di conseguenza, non accettavo neanche lontanamente le autocritiche di Zeno, anche perché sapevo che non era un tipo che si lagnava soltanto per farsi compiacere: credeva davvero di non valere chissà quanto.
Beh, non aveva capito davvero niente.

“Tu lo sarai, invece.”
“Cosa?”
“Un fotografo. Uno serio, come dici te. Basta impegnarsi”
“Sì. Meg, siamo in Italia”
“E con questo?”
“Non lo sai come funziona, tesoro? Non sono figlio di nessuno e notoriamente il nostro paese non è meritocratico. Non ho studi alle spalle, né esperienza…”
“Sì che ne hai di esperienza, fai delle foto bellissime!”
“Sei di parte, piccola…”

Mi carezzò la guancia. Quasi sicuramente arrossii, ma non m’ importava poi molto di assomigliare a una ragazzina timida.   

“Non sono di parte, sei bravissimo, te lo riconoscono tutti! Devi solo esercitarti un altro po’ e poi sarai pronto per il fare.. che ne so… Il fotografo a New York?”

Sorrise guardando verso la finestra con la sua Reflex tra le mani. Mi avvicinai di più a lui.

“Ehi, dì un po’, non avevi detto che volevi fotografarmi, un giorno di questi?”

Andrea mi rivolse un sorrisetto furbo.

“Mi hai beccato. Era proprio quello che avevo intenzione di fare, magari mentre studiavi ed eri distratta. Pensavo di poterti fregare, invece mi sa che mi è andata male. Non ti si può nascondere nulla!”
“No, no, Andrea Zenovi, non ci siamo proprio” risposi “Se vuoi fotografarmi nell’obiettivo devi rientrarci anche tu. Non ho intenzione di mettermi in posa come una scema, non sono così fotogenica”
“Io dico di sì”
“Io dico che farai le foto con me”
“Beh, si può fare”
“Bene! Cominciamo allora!”
“Ma non dovevi studiare tu?”

Lo guardai divertita

“Magari dopo”

 
 






“No”
“Dai, Meg, non ti sto chiedendo nulla!”
“Mi viene da ridere, ho detto di no!”

Ecco che piega aveva preso il nostro servizio fotografico: che altro ci si poteva mai aspettare, poi, quando c’ero io di mezzo? Romina avrebbe riso davvero tanto della mia performance da presunta modella.

“Margherita?”
“Andrea… NO.”
“E suuu…!”
“No.”
“Ma non devi far niente, guarda verso la finestra e basta! Viene una luce fantastica da là”
“Andre, mi viene da ridere! Te l’ho già detto, non la faccio ‘sta foto seria!”

Mi divincolai mentre Andrea tentava di trascinarmi verso la finestra. Si trattava di una scena decisamente comica; avrei riso di più se non fossi stata io il soggetto dell’intera faccenda, comunque.

“Forza, vieni!”
“Non se ne parla! Avresti dovuto dirmelo che volevi facessi le foto in posa come un pinguino! Non erano questi i patti, altrimenti non te l’avrei mai proposto”
“I patti? Quali patti?”
“Andrea!”
“Scusa, ma come le fai tu le foto, Meg?”
“Naturali? E comunque no, non le faccio mai le foto, non ci sono abituata”
“Ah no?”

Mi afferrò, caricandomi sulla sua spalla. Gridai sconvolta e divertita al tempo stesso: ma quanto dovevo essere minuscola per lui se riusciva a prendermi in braccio così facilmente e senza fatica?

“Mettimi giù, mostro che non sei altro!”
“Adesso sono un mostro?” rise mentre tempestavo la sua schiena di pugni. Ovviamente, non gli stavo facendo altro che solletico.

“Sì, lo sei! E dove mi porti ora?” domandai alzando il capo: mi vedevo sempre più in alto.
“Dove dovrei portarti, gioia? Questa casa non offre grandi vie d’uscita”

Stavamo salendo al piano soppalcato.
Ecco dove stavamo andando.

Una strana sensazione di panico, gemella della precedente, tornò ad impossessarsi di me insieme a uno strano presentimento. Chissà perché sospettavo di conoscere l’evoluzione di quello scherzo.
In ogni caso, per il futuro avrei dovuto ricordarmi che, se volevo studiare per la maturità, farlo con Andrea in giro non era decisamente un colpo di genio.


Quando infine mi ritrovai tra le lenzuola di un letto spuntato dal nulla, persi totalmente la lingua, la voglia di urlare, dimenarmi e fare la tipa tosta.
Poiché credevo di avere gli occhi spalancati per la sorpresa e il momento d’imbarazzo, ringraziai la mia buona stella che Andrea non mi avesse guardata in faccia neppure per un attimo: ero certa di apparire quanto meno ridicola con quell’espressione di smarrimento stampata sulla faccia.

E no, non mi stavo guardando allo specchio, ma conoscevo a sufficienza la mia mimica facciale per considerarmi, al minimo, grottesca.

“Andrea…”

Non ebbi neppure tempo per pronunciare il suo nome che Zeno mi stava già facendo il solletico ovunque.
Io detestavo il solletico, non mi si poteva nemmeno toccare che già cominciavo a ridere fino alle lacrime e dimenarmi: era un supplizio intollerabile per me. Anche stavolta mi comportai allo stesso modo, contorcendomi e cercando di liberarmi, mentre Andrea se la rideva di gusto delle mie disgrazie.

“Questa è per punizione, perché non ti sei prestata a far da modella per la mia foto!”
“Andreaaaaa, lasciami!”
“No, così impari!”

Continuai a dimenarmi; non sapevo se ridevo più per il solletico o perché proprio l’intera situazione era comica. Alla fine, in un estremo atto di sopravvivenza, colpii Zeno alla pancia con una ginocchiata. Di nuovo non gli feci un granché male – per fortuna – ma riuscii quantomeno a fermarlo.
Cadde su di me stremato anche lui, continuando a ridere sulla mia spalla.

“Questa mi è piaciuta!”
“Ah sì? Anche a me…” mormorai.
“Ti sai difendere, tesoro.”
“Meno male” la mia voce, d’improvviso, era un soffio.

Pensavo che Andrea si sarebbe alzato, invece non si mosse. Tuttavia, fece in modo da non pesarmi addosso, come se avesse avuto paura di farmi del male con quel suo essere così più alto e più grande di me.
Percepivo il calore della sua pelle irradiarsi lungo il mio corpo; col caldo che c’era di fuori avrei dovuto sentirmi come in una sauna. In realtà stavo benissimo: pur imbarazzata da un contatto così improvviso e più intimo del solito, confusa e impreparata com’ero, sapevo che sensazione più bella di quella non poteva esserci.

Avrei voluto davvero essere altrove in quel momento?
No, era questa in realtà la risposta.
Potevo anche smetterla di farmi tanti film e problemi: stavo bene, contava solo quello.


“Non è vero che non ti piace farti fotografare” sussurrò d’improvviso Andrea sulla mia spalla “Ne facevamo sempre un sacco insieme di foto, anni fa.”

Di nuovo il momento dei ricordi.

“N-non è solo quella Polaroid che mi hai mostrato?”
“No, tante altre. Tantissime”




“Vieni qui, vicino a me”
“Dove?”
“Poggiati sulla mia spalla”

Il tempo lontano, un raggio di sole.
Un parco giochi con le altalene rotte e le mie ballerine sporche di fango sulla punta.

“Manco ci arrivo alla tua spalla”
“No? Ti prendo in braccio?”
“E dopo come la fai la foto?”

La mia risata, una voce da ragazzina.

“Chiedo a qualcuno! Signore? Signore, per favore, può scattarci una foto?”





Per un attimo percepii il mio cuore fermarsi, per lo stesso tempo che durò quel mio ricordo, l’ennesimo con Andrea. Rivedevo la nostra antica immagine, ritrovavo lo stesso legame di oggi, forse solo più infantile.
Più spensierato.
Perché potevo saperlo anche senza ricordare null’altro che avevamo una montagna di problemi alle spalle, di limiti e dubbi, qualcosa che ci aveva frenati in un tempo lontano e che Andrea, adesso, non voleva rivelarmi. Ma tutta quella montagna l’avremmo scavalcata, lo stavamo già facendo; lo sapevo io e lo sapeva lui che ciò che ci univa era più forte di qualsiasi cosa avesse mai potuto separarci, altrimenti la vita non ci avrebbe fatti incontrare di nuovo nel locale sporco e umido di un centro sociale.


“Sai che avresti dovuto studiare?”

Andrea sollevò appena la testa, poggiandosi sui gomiti per guardarmi.
Non gli risposi.

“Mi dispiace”
“Non è importante.”


Che vuoi me ne importi adesso della maturità, Zeno?


“Ti ricordi di quando ti ho detto che non potevo amarti ancora perché era presto?” domandò allora con quella sua voce dolcissima. Io annuii emozionata.

“Non so se mi sono sbagliato allora o mi sbaglio adesso, ma credo che sia qualcosa di molto più… forte? Non è amore, è unione. Non puoi saperlo, ma hai cambiato un casino di cose dentro di me che non andavano, hai cambiato la mia visione del mondo. Non potrei mai vederti con occhi diversi e non ho bisogno di secoli per capirlo. Questo è molto più che amore, sì”
Arrossii. Forse.
Di certo, se il momento fosse stato diverso, più leggero e scanzonato, Andrea mi avrebbe preso in giro dicendomi che lo stavo guardando con quegli occhi da Bambi che piacevano a lui.
Bambi… Che cosa buffa! E comunque sì, probabilmente era proprio così che lo stavo guardando: ero troppo emozionata per contemplarlo in modo diverso.

Era estate e c’era il sole, vero?
Però, avrebbe potuto essere anche inverno e piovere a dirotto, la gente avrebbe potuto indossare giacche e impermeabili e lamentarsi del parcheggio che non c’è mai. Forse lo stava già facendo e a me che importava?
Dentro di me avevo il sole, non fuori da quella finestra.

Incredibile come le sensazioni possano alternarsi tanto velocemente, nell’animo di una persona. D’improvviso non conoscevo più panico o paura, né l’imbarazzo o la confusione di poco prima.
C’era il sole.
La maturità era lontana.
C’era il sole.
Persino l’ospedale, Florinda, Emiliano che lottava per la vita e la puzza del disinfettante erano immagini sfumate. Avrei provato il rimorso, poi, di averli dimenticati per un istante, ma in quel momento non contava. Non c’erano, non esistevo per nessuno se non per Andrea.

C’era il sole, eravamo assieme.
C’era il sole e le sue labbra erano sulle mie.
C’era il sole e la sua mano stringeva la mia mano.
C’era il sole e c’era quel letto,  la maglia di Andrea all’improvviso era scomparsa e anche la mia.

Pancia e pancia, pelle e pelle.
Non avevo più tredici anni, non ne avevo più quattordici né quindici.

Ne avevo diciannove e in quel giorno di giugno, prima del mio esame di maturità, ero con Zeno in un letto dalle lenzuola profumate.

Non era più questione di memoria, era questione di attimi, era questione dell’adesso che ora c’è e fra un secondo non più.
E in quell’adesso che era di Zeno e Meg, oltre che degli Andrea e Margherita che eravamo stati, io stavo sorridendo.



Davvero avevi avuto paura?
E di cosa, Meg?






***
 




Ovviamente non avevo considerato il mio destino avverso.
Sarebbe stato tutto davvero perfetto e romantico, sentimentale e dolcissimo persino nella luce bianca del sole che irrompeva in quella casa, se qualcuno non ci avesse… disturbati?
Disturbati era un eufemismo, davvero.

Sentivo le labbra di Andra premere sulla mia mascella e poi sul collo e mentre lo faceva continuavo a tenerlo stretto a me, quand’ecco che percepii perfettamente il rumore della porta d’ingresso mentre veniva aperta e richiusa subito dopo.

“Andrea?”

Qualcuno chiamò Zeno dal basso; Andrea neppure se ne rese conto.
Dopodiché, quel qualcuno cominciò a salire le scale rumorosamente.

“Andrea!” continuava a chiamare

Io scivolai dalla sua presa e scattai a sedere nel letto.

“Andre, aspetta… C’è qualcuno.”

Afferrai velocemente la mia maglia. Andrea mi guardò perplesso e sbatté le palpebre un paio di volte prima di realizzare ciò che gli stavo dicendo; il brusco passaggio dal perfetto momento di sentimento alla triste realtà non era difficile solo per lui.
Ero certa di guardarlo anche io con occhi spalancati e sconvolta e non sapevo se più per l’imbarazzo dell’intera faccenda o per la sadica rapidità in cui tutto stava cambiando.

“Zeno, ma chi…”
“Lo so io chi!” scattò seriamente infuriato. Io stavo già rotolando dal letto quando i rasta di Stena sbucarono dalla rampa di scale.

“Ah, Andrè, stai qui! Ti cercavo perché… Ops!”

“Stefano, ma che cazzo!”

“Scusa, scusa, scusa!” gridò allora mortificato, portando le mani avanti. Dall’espressione che aveva mi sembrava temere che Andrea lo prendesse a schiaffi, e anche io avrei avuto la stessa paura al suo posto.

“Ma non sai avvisare prima di precipitarti a casa…”

Zeno non concluse la frase; avrebbe voluto dire “a casa degli altri”, ma, tecnicamente, il proprietario del monolocale era Stefano.
“Ma c’ho provato, te lo giuro! Ho chiamato al cellulare, era spento!”
“E’ scarico!”
“E che cazzo posso saperne io!”
“Ho capito, ma ti si può accendere la lucina che forse non è il caso di rompere?”
“Che ne posso sapere?! Tu mi avevi chiesto le chiavi di casa per dare a Meg un posto tranquillo dove studiare, mica per…”

Andrea alzò gli occhi al cielo, esasperato.

“Stefano, basta. Non dire nient’altro.”

Mi scappò da ridere, ma mi trattenni. Avrei trovato l’intera faccenda molto più comica se, in primis, Stena non avesse appena rovinato un momento d’oro, soprattutto considerando che, finalmente, avevo superato tutti i miei presunti attacchi di panico da “cavolo, anche io e Andrea potremo fare del sesso!” e se, in secondo luogo,non mi fossi vergognata da morire di farmi beccare così, anche se da un tipo tranquillo come lui.

 
Solite fortune, Meg!


Andrea riprese a parlare:

“Stena, hai ancora una possibilità di vita, comunque: dimmi perché sei qui e cerca di darmi un motivo valido, se non vuoi che ti sbrani.” commentò ancora mentre indossava di nuovo la sua maglia. Io mi defilai imbarazzata verso la finestra, agitando la mano sinistra per salutare Stena con poca convinzione e usando l’altra per ravviare la folta massa dei miei capelli.

Come avrei dovuto fare per sprofondare chilometri sotto terra?

“Sì, ecco… Abbiamo una data per l’occupazione del Rodhiaceta: il primo luglio”

Amen.

“Chi te l’ha detto?”
“Ci sono quelli del collettivo a La Piovra, per questo sono qua. Fabrizio è già sul posto, manchi solo tu.”
“Devo venirci proprio adesso?”
Andrea spalancò le braccia; a me si spalancò il cuore.
Lo vedevo: stava mettendo da parte quella vita da antagonista che tanto amava soltanto per stare con me. Venivo prima degli impegni politici, del suo centro sociale, anche della fotografia.
Io venivo prima.

Sorrisi inebetita.

“Genio, mi spiace, sul serio. Ti giuro che dopo non ti romperemo più le scatole, ma adesso vieni con me. Ci siamo tutti quanti e non puoi mancare.”

Sbuffò, lanciandomi un’occhiata desolata. Io sorrisi ancora, per dimostrargli che, nonostante l’imprevisto, era tutto okay.
Che poi, tecnicamente, io avrei dovuto studiare quel pomeriggio e non avevo ancora concluso un bel nulla.

“Meg, mi spiace… Avrei voluto aiutarti, ehm… con storia.”

“Seh, con storia!” commentò Stena ridacchiando. Zeno lo fulminò con lo sguardo e non rise più.

“No, Andre, vai tranquillo. Studio da sola, non c’è problema.”

Mi sorrise dolcissimo.

“D’accordo, allora. Stena, come siamo messi? Ti hanno accompagnato in auto?”
“No, sono in motorino con Luna”

Sobbalzai e mi affrettai a guardar giù, verso la strada: Luna era seduta, in attesa, sulla sua Vespa arancione. Per puro caso alzò lo sguardo nello stesso momento e mi riservò un’occhiata tutt’altro che amichevole.
Non la vedevo da un bel po’ di tempo e, francamente, ne avrei fatto volentieri a meno ancora per molto. Tuttavia non mi lasciai intimorire e sostenni il suo sguardo minaccioso finché non fu lei a desistere.
Mi sentivo soddisfatta: se proprio doveva andarsene col mio fidanzato, almeno mi ero tolta lo sfizio di farle capire che non mi faceva paura!

“D’accordo. Allora devo prendere per forza la bici per venire con voi, visto che siete in Vespa. Meg, chiamami quando hai finito, torno a prenderti.”
“Ma non ce n’è bisogno, dimmi quale autobus prendere e torno da sola”
“Puoi prendere il 184 o l’R3!” rispose in fretta Stena, ma Zeno intervenne:

“Non se ne parla proprio. Vengo io più tardi, fammi uno squillo quando hai finito che faccio il prima possibile.”

Stefano si avviò allora lungo le scale e prima di andarsene sillabò piano un “mi spiace Meg!”.
Andrea mi abbracciò forte.

“Scusami. Giuro che se faccio in fretta, ti aiuto a ripassare prima di tornare a casa, uhm?”
“Ripassare?”
“Okay, okay, come non detto” rise con me e mi lasciò un bacio sulle labbra.

Mi rifiutai di vederlo salutare Luna e parlare con lei mentre andava via e no, non era per gelosia. Era questione di principio, magari anche di orgoglio.

Okay, era gelosia.

Affondai di nuovo tra le lenzuola, a quel punto, e decisi di godermi il silenzio e schiarirmi le idee.

Ero da sola in una casa che non mi apparteneva eppure non era questo a preoccuparmi né a impensierirmi.
Sospirai; ero agitata e avevo la tachicardia. Mi tornarono alla mente le immagini di poco prima: la mano di Andrea sul mio collo, sulla mia spalla, sulla mia pancia. Le sue braccia nude, il modo in cui mi aveva stretta, il bacio lasciato all’angolo della bocca mentre eravamo abbracciati in quello stesso letto.
Stavolta sì che arrossii.
Perché cavolo mi facevo tutti questi problemi? Non era la prima volta che avevo un ragazzo e avrei dovuto calcolare che, prima o poi, avremmo avuto un momento del genere.
Certo, era giunto un po’ improvviso e inaspettato, ma davvero potevo prenderla con tanta emozione?
Forse perché si trattava di Andrea, perché l’idea di avere alle spalle un nostro passato che ricordavo a tratti rendeva tutto amplificato, più strano, intenso e per questo imbarazzante? La consapevolezza che mi avesse conosciuta praticamente da bambina mi inibiva?
Eppure non avrei cambiato neppure una virgola di quel che era successo, nonostante il panico e lo smarrimento iniziale.
A dirla tutta, forse era anche arrivato il momento che smettessimo di fare la coppietta solecuoreamore da fiaba romantica: le relazioni sentimentali erano fatte anche di altro, Romina e Fabrizio l’avevano capito molto più facilmente di me e Andrea.
O forse no? Magari mi stavo sbagliando, stavo ragionando in maniera troppo materiale?

Ero ancora confusa, poco ma sicuro.

Nel tentativo maldestro di darmi un tono, tornai giù barcollante, alla ricerca del libro di storia e del volume di letteratura italiana. Non mi ero esercitata neppure un po’ con il classico, né con le traduzioni di greco per la seconda prova. Ignoravo quali argomenti ripetere per geografia astronomica e mancava ormai una settimana all’inizio dello scritto.

“Sono nella merda” pensai molto realisticamente, quando sentii squillare il mio cellulare.

“Mamma” diceva il display. Risposi in fretta e cercai di parlare il più piano possibile, per farle credere di essere in biblioteca per davvero.

“Margherita, dove sei?”
“A studiare mamma, te l’ho detto già”
“Sì, ma perché non torni?”
“Perché dovrei? Ho un sacco di cose da fare e a casa non mi concentro!”

Neanche fuori casa, in realtà. Soprattutto se c’è Andrea in giro.

“Stanno per dimettere Florinda, io e tuo padre andiamo a prenderla adesso. Sarebbe carino se ti facessi trovare a casa insieme a Ludovico, per darle il benvenuto”

Mi cascò la mascella.

“Non ho capito: Flora viene a stare da noi? E perché?”
“Perché tuo zio… Non ha molto tempo per starle dietro come dovrebbe con quella gamba inferma che si ritrova. Lo sai, lavora come un mulo. Mi occuperò io di lei fino a quando non sarà guarita. Forza, sbrigati: ti aspetto a casa entro mezz’ora”

Staccò la conversazione prima che potessi replicare: non mi avrebbe ascoltata in ogni caso.
Restai lì, a fissare il cellulare a bocca spalancata per cinque minuti buoni. In realtà, capivo molto più di quanto mia madre non desiderasse: zio Aurelio non sopportava di vedersi girare Florinda per casa. Era ancora arrabbiato con lei per tutta la faccenda di Emiliano, della droga e di tutto il resto e preferiva non trovarsela intorno per evitare di sbottare proprio adesso che la sua salute era più precaria. Inoltre non avrebbe potuto di certo contare sull’aiuto di Katiuscia mentre era fuori casa, cosicché la via più facile era stata quella di scaricarla a noi, soprattutto considerando il fatto che i nonni erano ormai anziani e non potevano occuparsi loro di un’inferma.
Casa nostra era la soluzione più comoda e ovvia.

Alla fine sospirai: mia madre mi aveva ordinato di tornare a casa e non perché la temessi, ma solo perché ero conscia del fatto che mi avrebbe tartassato per convincermi a rientrare, mi decisi ad assecondarla.
Raccolsi libri e quaderni, tristemente consapevole di non aver studiato proprio un bel niente, e poi feci mente locale per ricordarmi quali autobus mi avrebbero permesso di tornare in centro; per fortuna Stena aveva fatto in tempo a suggerirmeli.


Ero già in pullman quando inviai un messaggio a Zeno; se l’avessi fatto prima sarebbe corso da La Piovra a tempi di record pur di non farmi tornare a casa con i mezzi pubblici, preoccupato di chissà cosa. Di certo non mi sarei persa e non mi andava di disturbarlo nei suoi momenti d’impegno con le mie richieste stupide.

“Sto tornando a casa”gli scrissi allora.

Un minuto di attesa che riempii ascoltando la voce di Amy Winehouse mentre cantava Rehab.
“Ti avevo detto che ti ci avrei portata io”
“Non fare il tipo arrabbiato. Un’emergenza, dovevo tornare subito”
“E’ successo qualcosa?”

Sapevo cosa intendevo: si stava preoccupando per Emiliano.

“No, ho solo un’ospite a casa e penso che ci starà per il prossimo mese: mia cugina Flora”

Due minuti di attesa.

“Auguri”
“Ti ringrazio. Se ti fa piacere potresti dividerla con me”
“Sarò così magnanimo da lasciarla tutta per te”
“D’accordo, però non lamentarti se poi scappo di casa per l’esaurimento e non mi faccio trovare mai più”


Un altro istante di attesa.
Bip bip.
Sorrisi, piena di soddisfazione stavolta:

“Tranquilla, non mi scapperai: ti vengo a cercare ovunque vai”


Davanti a certe parole perdevo sempre un po’ di lucidità.
Non sapevo chi mi avesse mandato indietro Andrea, se Dio, il destino o chissà cos’altro, ma non avrei mai potuto ringraziarlo a sufficienza: i giorni felici che ci erano stati regalati non sembravano mai abbastanza reali, tanto erano belli.
Speravo solo che sarebbero duranti quanto più tempo possibile.
 




***



 
“Ah, ce l’hai fatta a tornare?”

Così mi accolse mia madre mentre ancora cercavo di chiudere la porta d’ingresso, dopo un’ora e mezza d’inferno in mezzo a gente esaurita che sbraitava per rientrare a casa in orari decenti.
Ero sudata, esausta e affamata. Bell’affare, vero?

“Scusa eh, c’era traffico e l’autobus ha ritardato. Dovremmo cambiare questa serratura, comunque, è difettosa.”
“Dai qua, ci penso io a chiudere” mamma si avvicinò per aiutarmi “Scusa, che ci facevi su un autobus? Alla biblioteca ci arrivi pure a piedi!”
“Aehm…” tossicchiai: come avevo potuto essere così distratta e farmi scappare una frase del genere?
“Sì, certo… Però poi sono andata al parco pubblico, a via Belmonte. Si stava più tranquilli, in biblioteca c’è quello delle pulizie che fa casino…”

Povero Gianni, stavolta non c’entrava proprio niente!
Mamma mia guardò sospettosa, comunque, ma non aggiunse altro.

“D’accordo. Florinda è già di sopra, vai a salutarla”
“Okay. Ludovico?”
“Ludovico è da tuo zio Aurelio con papà. Dopo tornano in fabbrica. Su, coraggio, va’ in camera tua. Vuoi lasciare Flora da sola ancora per molto?”

Per poco non soffocai, quando la saliva mi andò di traverso.

“Non ho capito bene: dov’è Florinda?” domandi tra un colpo di tosse e l’altro.
“In camera tua, dove vuoi che stia? Così, se la notte ha bisogno di qualcosa può chiamare te, poveretta. Non deve stare da sola neanche per un minuto!”

Florinda.
In. Camera. Mia.
MIA.
Che bella notizia! Proprio il modo migliore per rovinarmi i momenti di felicità di appena qualche ora prima!

Lo sguardo che lanciai a mia madre fu più di rabbia che di stupore; grugnii afferrando la borsa e trascinandola verso le scale. Continuai a strascicarla lungo ogni gradino, per niente interessata a mettermela a tracolla per evitare tutto quel fracasso: avrei fatto qualsiasi cosa pur di non sentire la sua voce stridula mentre mi richiamava all’ordine.

Quale parte del “ho un esame di maturità, devo studiare, non fate casino per favore” non era ancora chiara in casa Gherardi?

Aprii la porta della mia stanza con uno scatto. Rimbalzò sulla parete e provocò un tonfo sordo. Flora, che stava leggendo comodamente distesa su un letto comparso dal nulla accanto al mio, mi guardò da sotto la lunga frangia che le nascondeva a tratti gli occhi.


“Buongiorno anche a te.” commentò.
“Stai bene?” domandai acida.


Le diedi le spalle, riponendo i libri sulla scrivania.
Io e mia cugina non eravamo amiche del cuore né lo saremmo mai state, per quanto avessimo potuto chiarirci nella nostra vita. Oltretutto, giusto per facilitare ancora di più la convivenza, alla naturale antipatia si era sommato anche un notevole imbarazzo da parte mia, poiché adesso conoscevo le motivazioni che spingevano Flora a detestarmi.
Con queste premesse, come avrei potuto dividere la mia stanza con lei? Più tempo saremmo state costrette a trascorrere assieme, più le probabilità di accapigliarci sarebbero cresciute.
Mia madre e le sue idee geniali!


“Senti, Margherita…”
“Uhm?” mi voltai appena.
“Immagino che dividere la tua camera con me non ti renda troppo felice. Indovina? È lo stesso per me. Ho cercato di convincere tua madre, ma non ha voluto sentire ragioni”
“Non stento a crederci.”
“Comunque cercherò di non darti fastidio. Non sono il tipo che chiede aiuto, dubito di cominciare a rendermi dipendente proprio con te. Quindi studia, fa’ quel che devi fare e fingi che io non ci sia neanche.”

Mi voltai per guardarla; provai quasi tenerezza nel vederla così fragile, con quella sua gamba rotta e i graffi sul viso, mentre ancora cercava di sembrare la forte della situazione. Mi pentii di aver reagito così male.

“Non importa Flora” risposi allora, con un gesto della mano “Tanto non è per sempre”
“No” confermò riprendendo in mano il libro che stava leggendo “Non sarà per sempre, stai tranquilla”

Ritornò alla sua lettura e chiuse ogni possibilità di un ulteriore conversazione. Avrei voluto chiederle di Emiliano, ma mi trattenni.


Sapevo che non ne avrebbe parlato.
Non c’era niente di cui parlare.
 
 
 


***
 


 
“Amante della ricerca erudita e del labor limae, ovvero la curata elaborazione formale, Callimaco influenzò la poesia ellenistica e quella romana. Egli si distinse tra i contemporanei per l'efficace brevità e concisione dei suoi carmi nonché per la levigatezza formale…1
Ripetevo letteratura greca a voce bassissima, nascosta sotto un lenzuolo e munita di torcia, per non disturbare mia cugina che dormiva nel letto accanto al mio accendendo la luce centrale.
Di certo, quelle non erano le condizioni migliori per studiare.

Diedi un’occhiata all’orologio: le tre del mattino.
Avevo decisamente tirato tardi, ma per tutto il giorno avevo concluso ben poco e quella nottataccia mi aspettava almeno per sollevarmi dal rimorso di non essermi impegnata affatto fino a quel momento.

Il display del cellulare si illuminò: un messaggio.
Andrea.

“Sei sveglia?”
“Sì, studio. Anche tu però… Sei a La Piovra? Guarda che domattina lavori!”
“Sono a casa ad ascoltare un po’ di musica, mamma. Comincio a lavorare alle dieci, vai tranquilla. Oggi non t’ho fatto studiare molto, vero?”
Arrossii.
“No, non mi hai fatto studiare per niente”
“Ti è dispiaciuto?”

Quando mi diceva certe cose mi veniva di prenderlo a schiaffi: immaginavo la sua faccia compiaciuta mentre mi scriveva un messaggio del genere!

“No, non mi è dispiaciuto. Contento?”
“Contentissimo.”

Sbuffai, ridacchiando, e poi cercai di cambiar discorso.

“Tutto okay per l’occupazione?”
“Tutto okay, ci siamo organizzati. Tua cugina morde?”
“Meno del solito.”

Inviai il messaggio e poi cercai di far quanto meno rumore possibile, perché avevo sentito Florinda rigirarsi nel letto.

Tesi l’orecchio: no, non si stava semplicemente muovendo.

Un singhiozzo trattenuto, due.
Tre.

Florinda stava piangendo.

Il display del cellulare tornò a illuminarsi, ma lo ignorai per il momento: ero troppo dibattuta tra il farmi i fatti miei (per buona pace di tutti) o l’avvicinarmi a Flora per chiederle cosa le prendesse.
Al quarto singhiozzo mi decisi, scostai il lenzuolo e mi avvicinai al suo letto.

“Flora?” la chiamai piano. Sobbalzò.

“Ti ho svegliata?”
“N-non dormivo. Stavo studiando.”
“Ah… Capisco.”
“E’ tutto okay, Flora?”


C’era da dire che, in quanto a domande originali, ero proprio la maestra.


“Tutto benissimo”
“Senti dolore?”
“Sì”

Non aggiunse altro, ma qualcosa mi spinse a credere che avrebbe voluto dirmi “sì, ho male al cuore”.

“Posso fare qualcosa per te?” domandai accendendo la lampada sul nostro comodino comune. Flora si voltò lentamente nella mia direzione: aveva gli occhi gonfi e un ematoma ancora evidente al di sotto della frangia. La cicatrice sulla guancia stentava a sparire, ma non credo che piangesse né per quello né per la gamba ingessata.

“E’ tutto a posto”
“D’accordo” alzai la mano “Non insisterò, anche se so che non mi stai dicendo la verità. Dopotutto è comprensibile, dubito che si possa mai essere amiche io e te. Le amiche sono altra cosa”
“Non lo so neppure se ho un’amica io, da qualche parte.”
“Hai tanta gente che ti ronza intorno”
“Ho anche un cognome importante e tanti soldi”

Annuii comprensiva.

“Non come te che hai una bella vita, un’amica che ti adora…” si asciugò le lacrime.
“Credo che attualmente adori di più il suo ragazzo…”
“…E un fidanzatino very alternative. È quello con la cresta viola che stava fuori al centro sociale, vero? Come si chiama? Emiliano mi diceva di conoscerlo, ma non mi ha mai detto il suo nome.”
“…”
“Non avrei mai pensato che ti saresti messa con un tipo del genere. Certo, hai sempre avuto queste idee rivoluzionarie con cui hai sempre rotto le scatole a tutti, non lo nego. Tuo padre l’hai fatto quasi impazzire all’epoca, credeva che te ne saresti andata a fare la comunista dei poveri in Russia, un giorno.”
“Flora, stavamo parlando di te o sbaglio? Vuoi un bicchiere d’acqua?”

Cominciavo a innervosirmi: che c’entrava tutto quello sproloquio?

“Hai proprio la faccia innamorata, sai? Tra le nuvole. Non che normalmente fossi più sveglia, però…”
“Un bicchiere di latte?”
“Scommetto che non stai neanche studiando. Eppure hai la maturità...”
“Flora, se stai cercando di cambiare discorso guarda che non ce n’è bisogno, non ti farò più domande…”
“Allora, come si chiama il tuo ragazzo?”

Cercò di mettersi a sedere nel letto, ma quella gamba pesante come un macigno che si portava dietro era difficile da gestire.
Sbuffai, aiutandola ad accomodarsi meglio sul cuscino.

“Lo dirai a mio padre? Si chiama Andrea. Per favore, non fare la spia. Dovresti sapere come la prenderebbero.”
“Andrea, hai detto?”
“Sì.”
“Andrea come?”

Mi guardò perplessa, quasi sorpresa.
Ma che avevo detto di male? Andrea era un nome così comune!

“Senti, non ti dirò il nome per intero di Andrea solo per farmi…”
“Non voglio fregarti.”

Ricambiai il suo sguardo con un’occhiata titubante.

“Okay. Si chiama Andrea Zenovi ed è un fotografo”
“Andrea Zenovi…”
“Flora, ma che c’è? Conosci Andrea?”
“Lui mi conosce?”
“Come mia cugina sì.”
“Come tua cugina…”
“C’è qualcosa che non so?”
“Assolutamente no.”
“Sicura?”
“Sì.”
“Bene, allora me ne torno a letto. E stavolta dormo per davvero. Ciao Flora, buonanotte”
 
Le diedi le spalle un po’ risentita: che aveva da nascondermi? Perché era proprio questa l’impressione che avevo avuto.
 
“Margherita!”
“Eh? Che c’è?”
“Non lo direi a tuo padre. Non sono così crudele.”
“Grazie tante”
“E comunque no, non sto molto bene.”

Inclinai la testa di lato e la guardai curiosa, tornando a sedermi sul bordo del letto.
Aveva improvvisamente voglia di confidarsi con me, forse?


“Allora senti dolore? E’ per via della gamba?”
“No, non è per questo. Lo sai di Emiliano?”
“Cosa dovrei sapere? Mica si è svegliato?”

Un piccola speranza si fece largo nel mio cuore. Sparì subito, com’era venuta.

“No.”
“E allora?”
“L’hanno spostato in una stanza tutta sua.”
“Ah, pensa. Potere dei soldi, eh? Il fatto che sia in coma e che la sua famiglia sia ricca lo salverà anche dalla polizia, considerando l’erba e la vodka che hanno trovato in macchina?”

Flora mi guardò con un’espressione afflitta: si sentiva colpevole. Emiliano non era l’unico ad aver fatto uso di quella roba.
 
“Senti, Margherita…”
“Che c’è?”
“Devo chiederti una cosa. Eviterei di farlo, credimi, perché non mi va di rompere le scatole a terzi e, soprattutto, di chiederlo a te…”

E certo, io sono una specie di appestata.

“Però sei l’unica che può capirmi, soprattutto con la faccenda di Andrea e tutto il resto…”

Quale resto?

“Flora, in breve?” domandai nervosa.
Mi guardò qualche istante più del dovuto e trasse un respiro lungo e profondo: mi sembrava avesse quasi paura di parlare. Non l’avevo mai vista così fragile; ero abituata a una Flora sempre sul piede di guerra, pronta a scagliare battute al vetriolo e deridermi alla prima occasione propizia. E invece adesso, davanti ai miei occhi, scoprivo una ragazza comune e decisamente impaurita, condannata  dalla propria famiglia e dalla vita stessa. Una ragazza che aveva un unico motivo per continuare a combattere e sperare e quel motivo, adesso, giaceva inerme in un letto d’ospedale.
Portava il nome di Emiliano, il suo capelli scuri e un po’ riccioluti sulle punte, le sue mani dalle dita lunghe e affusolate, quelle labbra che non sorridevano più sfrontate.

Perché cavolo mi veniva sempre da piangere a pensare a quei due?
Perché mi tormentavo per loro?

Perché, nonostante tutto, lo trovavo ingiusto?
Perché pensavo che, al posto di Flora, avrei sofferto come un cane e non doveva essere così?
Non lo sapevo.


Flora mi guardò ancora. Per parlare c’impiegò – lo contai – più di tre minuti.


“Devi farmi un favore. Devi farmelo”
“D’accordo, parla”
“Poi mi sdebiterò, te lo assicuro. Se vuoi, ti aiuterò a studiare per l’esame”
“Non ce n’è bisogno. Basta che non parli di Andrea qui”

Scosse la testa.

“Non lo farò”
“Bene. Allora?”

Silenzio, ancora.
Sospirò, prima di parlare.


“Accompagnami da Emiliano. Nessun’altro mi ci porterà se glielo chiedo, mio padre mi riempirà la faccia di schiaffi e mi manderà in qualche collegio in Svizzera, piuttosto, e da sola non posso andarci. Portami tu, aiutami. Forse è la prima volta che ti chiedo un favore, non puoi negarmelo. Mi ci porterai, Margherita? Io ho bisogno di vederlo, ho bisogno di lui”

Ho bisogno di vederlo.
Ho bisogno di lui.


Forse era Florinda quella che avrebbe dovuto piangere a dire certe cose. Allora perché piangevo io?

C’impiegai giusto una frazione di secondo per risponderle: non avevo tutto questo bisogno di pensare, cosicché preferii non farla stare troppo sulle spine.

“Tranquilla Flora” le dissi con un tono di voce così sicuro che quasi stentai a riconoscermi “Tranquilla. Ti ci porto io”
 
 
Mi sorrise.
La vidi sorridermi, per la prima volta, sincera, dopo anni di battaglie e litigi tra noi.

Mi si alleggerì il cuore: forse non tutte le speranze di avere di nuovo una cugina erano andate perse per me.

















In ritardo come al solito, lo so. E' stato un periodo complicatuccio e stentavo a riprendere la scrittura, soprattutto di Piovre, non so perché.
Comunque, rieccoci qui! Bentornati :)
Di questo capitolo una cosa in particolare mi ha fatto penare: il titolo! XD
Proprio dieci minuti fa mi sono lamentata su Fb perché non riuscivo a trovarne uno adatto... Alla fine ho scelto "C'era il sole", riadattandolo dalla frase più ripetuta nel capitolo, perché penso si adatti non solo a Meg e Andrea, ma anche a Meg e Flora che cominciano, finalmente, a essere più vicine.
:)
Il capitolo, in ogni caso, non m'è piaciuto un granché. Spero sia piaciuto di più a voi, anche se la mia teoria che Piovre comincia ad annoiarvi è ancora valida xD
Un ringraziamento particolare alla mia Erica per aver betato 31 pagine di sproloquio! :-p
<3

Vi ricordo il link al mio gruppo, In the Sky with diamonds, se volete avere spoiler e verificare con mano quante scemenze sono in grado di sparare nell'arco di una giornata :-p

https://www.facebook.com/groups/265306233568958/
Sarete le benvenute!

Ora vi lascio. Buon pomeriggio a tutte e grazie per essere arrivate fin qui.
Un bacino
Mati.




   
 
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