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Autore: NonViDiroIlMioNome    01/12/2012    0 recensioni
Sin da piccolo, sono sempre stato diverso dagli altri: era come se fossi cieco. Non perché, fisicamente parlando, i miei occhi avessero qualche difetto, anzi, non dovevo neanche portare gli occhiali! Il problema era un altro a quanto pare: guardavo ma non vedevo. Fossi stato solo, non me ne sarei mai reso conto in realtà… Ma il punto era proprio quello: non vedevo. 
Genere: Generale, Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Perché nelle favole sono i cattivi e i disonesti a pagare

 

 

“In un villaggio viveva un pastore che di notte doveva fare la guardia alle pecore. Si divertiva a fare uno scherzo: mentre le altre persone erano a dormire egli cominciava a gridare: «Al lupo, al lupo!» Così tutti si svegliavano e accorrevano per aiutarlo. Ma dopo il pastore burlone rivelava che era stato tutto uno scherzo. Questo scherzo continuò per parecchi giorni, finché una notte il lupo arrivò veramente. Il pastore cominciò a gridare: «Al lupo, al lupo!», ma nessuno venne ad aiutarlo perché tutti pensarono che fosse il solito scherzo. Così il lupo si mangiò tutte le pecore e il pastore.”

Perché nelle favole sono i cattivi e i disonesti a pagare.

 
 

Sin da piccolo, sono sempre stato diverso dagli altri: era come se fossi cieco. Non perché, fisicamente parlando, i miei occhi avessero qualche difetto, anzi, non dovevo neanche portare gli occhiali! Il problema era un altro a quanto pare: guardavo ma non vedevo. Fossi stato solo, non me ne sarei nemmeno mai reso conto in realtà… Ma il punto era proprio quello: non vedevo. Capitava spesso, infatti, che mia madre mi facesse notare delle cose. Non cose concrete, oggetti, ma azioni, sguardi, secondi fini dietro parole gentili… Sembrava che io non riuscissi ad accorgermi di cosa mi stava intorno, al contrario di tutti gli altri.
Si, perché tutti gli altri quelle cose le coglievano subito, mentre io non ci riuscivo.

***

Un giorno, stavo raccontando a mia madre di come, quella mattina, avessi prestato un giocattolo ad un mio compagno di classe. Mio padre me l’aveva appena comprato ed io non avevo resistito alla tentazione di portarlo a scuola per farlo vedere a tutti i miei amici. Il ragazzino, dopo averlo visto ed aver spalancato la bocca dallo stupore, mi aveva detto: «Che bello! Quanto sei fortunato! I miei non mi regalano mai giochi così!». E sembrava così triste mentre lo diceva!
«Se vuoi te lo posso prestare e domani me lo rendi!». Gli avevo detto io, allora, con un sorriso.
Lui aveva subito accettato ringraziandomi tanto. Ero così felice di averlo fatto contento! E così, appena tornato a casa, l’avevo subito raccontato a mia madre.
«Ma non capisci? L’ha detto apposta perché tu glielo dessi! Fidati, non lo rivedrai più quel gioco!» aveva detto lei, dura, alla fine del mio racconto.
Perché mai non avrebbe dovuto rendermelo? Era mio! E poi glielo avevo prestato per farlo contento! Certamente il giorno dopo me l’avrebbe reso e saremmo diventati ancora più amici!
Mia madre però vedeva lontano: riusciva a vedere ciò che i miei occhi ciechi non coglievano.
Non rividi più il mio gioco... Eppure io continuai a non darle retta.
Capitava spesso, ad esempio, che mi dicesse che dovevo stare attento a qualche mio amichetto perché a lei non piaceva.
«È furbo, cosa credi? Non farti fregare!»
Perché doveva sempre vedere il brutto degli altri? Quello era mio amico! Perché avrebbe dovuto fregarmi?
«Sei troppo ingenuo!» mi diceva sempre «Dovresti smetterla di credere a tutto quello che la gente ti dice!»
Io non capivo: non bisognava forse credere negli altri? Non bisognava cercare il buono nel prossimo?
A quel tempo ero solo un bambino delle elementari, eppure mia madre aveva fin da subito cercato di mettermi in guardia dal mondo. Ma io ero testardo o, per meglio dire, ero cieco… E continuai a non darle ascolto, convinto che ci fosse sempre del buono nelle persone perché, per quale motivo qualcuno dovrebbe fare qualcosa di cattivo agli altri? Insomma, a me non sarebbe piaciuto che qualcuno mi facesse del male, quindi, di conseguenza, non lo facevo nemmeno agli altri… Non era ovvio che fosse così?
Ma dare per scontato qualcosa ed abbassare la guardia sono due dei più grandi errori che si possano commettere in guerra... E la vita non lo è, in fondo, una guerra? Ma io ero ancora piccolo, non capivo, ero cieco e non ascoltavo chi, della vita, aveva già colto tutto… E crebbi in questo modo: con le mie stesse mani sugli occhi.
Ormai ero grande, andavo già alle superiori, ma le mie dita erano ancora ben posizionate a premere sulle palpebre serrate.
Non è forse facile notare qualcuno che, pur metaforicamente parlando, va in giro in quel modo? Molti, quelli furbi, quelli che vedevano, se n’erano resi conto al loro primo sguardo rivolto nella mia direzione… Ma come potevo io accorgermene con quelle dieci dita sul viso?

***

Entrai in classe praticamente correndo, col fiatone. Il professore per fortuna non c’era ancora. Tirai un profondo sospiro di sollievo ma mentre mi dirigevo, con più calma, al mio banco la voce di una mia compagna attirò la mia attenzione.
«Hey! Guarda che il Prof. ti ha messo l’assenza!»
La guardai inorridito. Un’assenza? Cavolo!
Ovviamente in classe ero presente ora, quindi il mio insegnante, che evidentemente era uscito per chissà quale motivo, avrebbe aggiunto una nota che segnalasse il mio ritardo ed avrei dovuto semplicemente giustificare… Niente di ché insomma… Peccato che i ritardi facessero media per il voto di condotta! Com’ero potuto essere così incosciente? Non mi sarei dovuto fermare per strada a parlare con quell’amico di mio fratello!
A riscuotermi dai miei pensieri, facendomi tra l’altro accorgere di essere rimasto immobile, con la bocca spalancata, tra due file di banchi, furono delle risate improvvise… Tante risate improvvise.
«Guarda che stavo scherzando! Non vedi che il Prof. non è ancora arrivato? Certo che credi a tutto!» Disse di nuovo quella mia stessa compagna. E tutti giù a ridere di nuovo.
Facendo finta di niente, abbozzai un sorriso che speravo fosse convincente.
“Sei troppo ingenuo! Dovresti smetterla di credere a tutto quello che la gente ti dice!”
Scacciai con forza il ricordo improvviso di quelle parole fin troppo familiari e mi sedetti al mio posto.

***

Quella ragazza doveva davvero essersi sentita fiera dell’aver fatto ridere tutti i nostri compagni con quel suo scherzo perché continuò a riproporlo ancora e ancora nel corso dei mesi successivi. In fondo, si sa: chi vuole attirare l’attenzione su di se e sentirsi apprezzato, non appena fa qualcosa che scopre avere effetto, continua a farla e a farla esasperatamente finché non perde la sua efficacia. E così lei continuava a cercare, riuscendoci per altro, di far ridere gli altri “scherzando giocosamente” con me.
Ormai il mio punto debole era fin troppo chiaro: la scuola. Era inutile, ci tenevo maledettamente a prendere buoni voti e ad avere una media alta tanto che, se accadeva qualcosa che compromettesse i miei sforzi, l’agitazione saliva a mille. Lo scherzo più semplice da mettere in pratica era quello che riguardava la condotta, proprio come quando aveva iniziato ad apprezzare questo suo bel gioco. Odiavo fare tardi in classe, sia che fosse all’entrata, sia che fosse dopo la ricreazione, ma capitava, si voglia per una mia disattenzione, si voglia perché qualcuno mi tratteneva, che a volte accadesse comunque nonostante fosse l’ultima cosa che volessi. E non appena arrivavo in classe, scusandomi trafelato col professore per il ritardo, lei frecciava subito dicendomi che l’insegnante mi aveva messo la nota… Ed ogni volta, come da copione, io mi agitavo all’improvviso e chiedevo quasi disperato al professore se fosse così. E tutti giù a ridere.
Una variante dello scherzo era poi quella di dirmi che aveva incontrato un insegnante che avremmo avuto l’indomani e le aveva chiesto di avvertire la classe del fatto che, il giorno dopo, avremmo avuto compito. Anche lì, ovviamente, ci cascavo, magari preoccupato perché per quella data avevo già fissata un’altra interrogazione, fino a quando qualche altro mio compagno non faceva «E tu ci credi anche?» e voltandomi verso di lei avevo infatti la conferma di ciò che mi era appena stato detto in quel sorrisino compiaciuto.
Dopo l’ennesimo scherzetto del cavolo che, per lo meno, stava iniziando a perdere pubblico, due pensieri mi sovvennero in mente. Uno di questi era ovviamente la voce di mia madre che, ormai, sentivo dopo ogni giochetto di quel genere. L’altro invece era nuovo, ma anch’esso un ricordo legato alla stessa donna ed a quel suo messaggio.
Mia madre, per cercare di convincermi a darle retta, aveva iniziato a raccontarmi la fiaba di “Al lupo! Al lupo!”, a sostegno della sua tesi “apri gli occhi, non ti fidare” contro cui avevo sempre lottato. C’erano voluti anni ed anni, tanto che, ormai, mia madre si era quasi arresa, ma finalmente avevo compreso: dovevo fare come gli abitanti del villaggio e non credere più negli altri o, per lo meno, in quella ragazza. Sì, era questo che dovevo fare! Così, alla fine, sarebbe stata lei a rimanere sola col lupo e non io a rimanere in balia di quel suo sorriso compiaciuto.

***

Una mattina la mia sveglia non suonò (o forse fui io a spegnerla e a riaddormentarmi… Non sono mai  riuscito a capirlo) e dovetti entrare alla seconda ora di lezione. Arrivai in classe che il professore della prima ora era già andato via mentre il successivo non era ancora arrivato. Poggiai il mio zaino sul banco per poi andare a prendere il registro e farmi ammettere a lezione. Mentre cercavo la giustificazione, quella ragazza mi si avvicinò.
«La professoressa, prima di andare via, ha detto che domani fa compito sulle cose che ha spiegato la scorsa settimana.»
Un angolo del mio cervello prese subito nota di scriverlo nel diario per ricordarmi di studiare quella sera ma, una forte voce nella mia testa iniziò subito ad urlare.
"Ricordati di Al lupo! Al lupo!"
Mi girai a guardarla con aria annoiata e le dissi «Si, certo! Come no!» e continuai a cercare la giustificazione nella borsa.
«Guarda che dico la verità!» insistette lei.
«Si, si. Come vuoi.» risposi senza degnarla di uno sguardo.
Allora lei, inviperita per la poca attenzione che le riservavo , disse alzando la voce: «Ragazzi! Vero che la Prof. ha detto che fa compito domani?»
Un coro di sì si alzò  dai banchi.
Bene! Questa volta aveva coinvolto gli altri non solamente come spettatori, eh? Continuai a frugare nello zaino trovando finalmente la giustificazione senza degnarla di risposta.
«Bene! Ti ho avvertito solo perché ce l’ha chiesto la Prof. ed io sono rappresentante! Fai come vuoi!» e se ne andò impettita  verso il suo banco.
Credeva davvero che me la sarei bevuta anche stavolta? Un giochetto del genere l’aveva già fatto tempo prima, dopo che avevo già preso la decisione di non ascoltarla più. La situazione era molto simile ed io, come già concordato col mio cervello, non le diedi retta. Solo che lei aveva continuato ad insistere ed insistere, tanto che, ad un certo punto, se n’era anche uscita dicendo «Guardami negli occhi: ti pare che io stia mentendo?»
Facevo schifo a capire le persone in generale, figuriamoci a capirle dagli occhi!
«Va beh! Come ti pare!» aveva poi continuato lei.
 Un dubbio si insinuò nella mia testa.
“Se insiste così tanto forse è perché è sincera, no? E poi adesso, a quanto pare, non gliene frega più niente no?”
E così c’ero cascato di nuovo, per poi, ovviamente, scoprire che era l’ennesima presa per i fondelli.
La tattica che aveva usato questa volta era praticamente la stessa: insistere per poi fingere di prestare poca attenzione alla mia reazione. Ma c’era una differenza sostanziale rispetto alla volta precedente, constatai prendendo il registro ed uscendo dall’aula: stavolta non mi sarei fatto fregare. Ed allora fui io a sorridere compiaciuto al nulla.

***

“Il destino ama burlarsi di me tanto quanto gli altri.”
Questa fu la brillante constatazione che mi sovvenne alla mente mentre la professoressa di chimica mi piazzava davanti una scheda piena di domande alle quali avrei dovuto rispondere entro sessanta minuti.
La morale di quella famosa favola era “chi mente sempre non è più creduto quando dice la verità”. Chiunque legga questa frase ad alto contenuto morale, conoscendo la storia, concorderà e sarà portato ad aggiungere “e ne paga le conseguenze”... Ma, nel mio caso, non era così dato che la mia personale versione della fiaba era molto diversa: il lupo leccava dolcemente la mano dell’ingannatrice, correva verso il centro del villaggio, entrava nelle case e finiva con l’attaccare me, l'abitante credulone che si era stufato di credere, punendolo proprio per aver perso la sua ingenuità.
Questi pensieri fecero scaturire dalle mie labbra un risolino isterico ed anche abbastanza inquietante.
Misi a fuoco le parole scritte sul foglio dal quale le mie elucubrazioni mentali avevano distolto la mia attenzione. Presi la penna ed inizia a rispondere alle domande. Non sembrava poi così difficile: in fondo, quelle erano tutte cose spiegate in classe che avevo ascoltato e capito.

***

La campanella suonò, consegnai il compito all’insegnante e mi risedetti al mio posto.
Fidarsi degli altri non andava bene perché finivo sempre con l’essere ingannato, sfruttato e/o ridicolizzato da tutti.
Non fidarsi degli altri mi aveva solo portato a fare l’arrogante sentendomi superiore per non essere caduto in un ipotetico tranello con conseguenze che sarebbero potute essere devastanti in altre circostanze.
Quindi… Fidarsi o non fidarsi?
Fidarsi, ma non troppo: col tempo avrei imparato a farlo, bastava iniziare a spostare pian piano le mani dal viso.

***

Perché nelle favole sono i cattivi e i disonesti a pagare ma, nella realtà, sei tu a dover stare attento a non essere punito al posto loro.
 
 


NOTE: La fiaba citata all’inizio della storia è “Al lupo! Al lupo!” di Esopo. Il testo e la frase “chi mente sempre non è più creduto quando dice la verità”, che spiega la morale della favola, sono presi da qui: 
http://it.wikipedia.org/wiki/Al_lupo!_Al_lupo!

So che può sembrare un po' forzato e fin troppo fortuito il fatto che, nonostante non abbia studiato, il protagonista riesca comunque a cavarsela con la storia del compito, ma:
1) Come spero di aver fatto trasparire, quello che volevo descrivere è il tipico ragazzo quasi ossessionato dalla scuola, che studia forse anche più del necessario, che sta sempre attento in classe e, quando si ascoltano le lezioni con così tanto interesse, è più che normale, poi, ricordare ciò che è stato detto, soprattutto se lo si è capito;
2) Non è certo il fatto che lui sia realmente andato bene... La storia si conclude con la consegna della verifica, quindi potrebbe aver preso un voto alto, come uno basso o anche una semplice sufficienza;
3) Suvvia! Dopo tutte le elucubrazioni che s'è fatto quel poveretto, non potete davvero volergli così male da negargli un briciolo di fortuna, no? ^^

 

  
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