Libri > Twilight
Ricorda la storia  |      
Autore: Lady Antares Degona Lienan    19/06/2007    3 recensioni
Alice cercò disperatamente di contare i giorni che l'avrebbero separata dal ritorno dell'uomo. Ma poiché nella stanza non filtrava alcuna luce, perdersi nel conto dei secondi e delle ore fu estremamente facile.
Ciononostante, il giochetto rimase, ed Alice continuò a contare.
Genere: Triste, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Late Again [ Forgive Me ]

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Late Again [ Forgive Me ]

 

 

 

 

 

Il nero.

Ricordava distintamente il nero all'interno di quella cella. Nessuna variazione cromatica ad interrompere quel gioco di tenebre. Nessuna feritoia nella porta.

Nessuna lama di luce a strapparla dalla monotonia del buio.

L'odore era di muffa mista ad insetticida. Nonostante quel continuo permanere là, accucciata in un angolo a tremare come un topo intirizzito, le visioni la colpivano ancora.

Ed erano sempre più chiare, sempre più nitide. Vedeva stralci del futuro di ciascuna delle persone che le orbitavano attorno, o che per lo meno passavano vicine a quella stanzetta. Piano, col passare degli anni, le sue capacità si erano ampliate, fino ad espandersi nell'ambiente.

Ormai non riusciva più a capire a chi appartenessero quei destini, perché non riusciva più a riconoscere le voci che sentiva al loro interno.

Fu il panico.

Sentirsi così potente e al contempo estremamente fragile la mise in uno stato di precarietà psicologica a cui mai era andata incontro. Sbatteva forte la testa contro i muri. Grattava le unghie contro la porta, se si sentiva abbastanza in forze per strisciare fino a lì e tornare infine al suo angolo di pace. Mugolava. Cantava. Implorava perché qualcuno aprisse quella porta e le facesse vedere la luce.

E le dicesse che non era pazza. Che lei era perfettamente normale.

Dieci anni.

Non arrivò mai nessuno.

 

 

La frustrazione infine aveva lasciato spazio ad uno stato di irrequietezza interiore che Alice non era nemmeno costretta a mostrare. Lo sentiva lì, dentro di lei. Fondamentalmente era abbastanza. Era abbastanza perché gli altri credessero che era pazza, e dunque, perché la costringessero a stare rinchiusa in quel posto.

Probabilmente la temevano. Temevano i suoi poteri come un tempo si erano temuti quelli delle streghe.

La consapevolezza di essere un mostro si faceva avanti nella sua mente da un po' di tempo, ormai, e la ragazza non sapeva opporle altre ragionevoli opzioni per contrastarla, se non il fatto che lei ricordava di aver amato, riso, respirato.

Ma in ultima analisi erano ricordi lontani, quelli.

A lei rimanevano la sua stanzetta, l'odore del suo respiro, e il tocco tiepido delle sue stesse mani.

E non era abbastanza.

 

 

Infine, giunse il giorno in cui quella dannata porta si aprì, e Alice ebbe modo di verificare se la luce era effettivamente come se la ricordava.

Scoprì di sì.

Nei primi istanti fu affilata, ostile. Poi piano, mentre la ragazza si protendeva verso la porta con gli occhi incrostati di sporco semi chiusi, la luce l'accolse in un bagno di calore. Respirò a fondo, le labbra tremanti. Per un attimo le parve possibile tutto.

- E' lei? -

- Sì, signore. -

- Come ti senti, Alice? -

Non si sentiva. Aveva smesso da tempo di sentirsi, anche solo in un qualche misero modo, e aveva cominciato ad evitare le sensazioni del proprio corpo come la peste. I messaggi che le arrivavano non erano mai incoraggianti, men che meno positivi. - N-non mi sento, signore. -

La voce uscì gracchiante e affilata, ovviamente. Si diede della sciocca per non averci pensato prima. Si chiarì la voce con un lieve colpo di tosse, anch'esso rauco. - A dire il vero, avrei bisogno di bere, signore. - azzardò.

Per tutta risposta, l'uomo rise.

Riscoprire quel suono fu un'esperienza strana. Alice non ricordava bene che rumore potesse fare una risata, non ricordava bene nemmeno la propria. Si schiarì di nuovo la voce, in imbarazzo.

- Ma certo Alice, tutto quello che vuoi. -

- Proprio tutto? -

Si morse le labbra. Lo scetticismo aveva giustamente deciso di giocare la sua parte. L'uomo si grattò una guancia. - Beh, no. Non proprio tutto. -

- Già. -

Ritornò a sedere nel proprio angolino e si concesse un attimo per studiarlo. Non era vecchio e non era brutto, nonostante il tono della sua voce esprimesse una certa potestà che era tipica solo degli anziani.

Aguzzando la vista, ancora sfocata, riuscì a comprendere parti del suo viso che erano rimaste nascoste. Occhi azzurri, capelli scuri, viso liscio ed affilato. Pelle bianca. Bianca come la neve. Innaturalmente bianca per una persona che era abituata a vivere alla luce del sole. Alice immaginò che anche la propria avesse assunto una sfumatura malaticcia proprio come quella dell'uomo che le stava davanti. Nonostante ciò, non sembrava malato. Non nel senso che lei era solita attribuire a quel termine.

Qualcosa sbatté lievemente sulla sua fronte. - Tieni. -

Il bicchiere era freddo e consolante, liscio e privo di imperfezioni.

Un po' come lui. Alice emise un sospiro tremulo, nell'afferrare l'oggetto e portarselo affannosamente alle labbra. La sua mano, fredda, si posò sulla propria testa. - Ti hanno trattata come un cane, vero, Alice? -

Si limitò ad annuire. Non le piaceva ricordare il proprio stato, non se dopo quel breve scorcio di luce sarebbero tornate le tenebre a tenerle compagnia.

- Tornerò. -

E con quella promessa, si dileguò. Insieme alla luce.

 

 

Alice cercò disperatamente di contare i giorni che l'avrebbero separata dal ritorno dell'uomo. Ma poiché nella stanza non filtrava alcuna luce, perdersi nel conto dei secondi e delle ore fu estremamente facile. Ciononostante, il giochetto rimase, ed Alice continuò a contare.

Quando la porta si spalancò di nuovo, il numero era diventato enorme, e sebbene l'uomo non capisse cosa volesse dire, percepì il messaggio dentro a quel contare, e si sentì colpire dall'angoscia.

- Alice… -

- Sto contando, signore. Due milioni ottocentonovantamila e ventotto-

- Alice, fermati Alice! Smetti di contare. -

Alice, miracolosamente, smise. - E anche se smettessi, signore, cosa ne verrebbe a lei? -

L'uomo sospirò, sedendosi sul pavimento lurido e segnato dalle unghie. - Mi chiamo George Heartmoan, Alice, e se tu continui a contare non potrai rispondere alle mie domande. -

Avrebbe preferito rimanere sulla difensiva, ma di fronte a quegli occhi di ghiaccio le fu impossibile resistere. Serrò le labbra in un moto di disgusto, e si costrinse ad accettare quella proposta che giungeva a rischiararle la giornata. Sapeva che come l'altra volta lui sarebbe andato via. Ma forse, sarebbe anche tornato. Ovviamente non aveva modo di sincerarsene.

Poteva essere un dottore venuto a decidere se era pazza. E se avesse deciso di sì, allora forse sarebbe rimasta rinchiusa in quel posto per sempre. Bene o male, alla fine si accorse di averci fatto l'abitudine.

- E io devo rispondere, giusto signore? -

- Chiamami George. -

Alice ridacchiò. - George, allora. -

Quella situazione era assurda, e a saperlo erano entrambi. Alice pensò ad un ricevimento del the, di quelli che erano soliti in casa sua alle cinque, forse lei sei del pomeriggio. Inclinò la testa, stupita da quel pensiero.

- Alice, perché hai iniziato a contare da quando me ne sono andato? -

- Ma è semplice, George. - sentì le sue mani muoversi da sole e capì che stavano tenendo stretta una tazzina da the dipinta nell'aria. Per un attimo ebbe paura di se stessa. - Ho cercato di contare i giorni che mi separavano da te. -

- E poi? -

- E poi ho scoperto, una scoperta incredibile, che qui non arriva la luce! - la sua risata era un rantolo, ma esprimeva bene l'idea di disgusto che aveva cercato di attribuirvi. - Era abbastanza ovvio, ma non ci avevo pensato. Non ci avevo pensato perché all'improvviso qualcuno ha aperto la porta e mi ha illuso. -

Sputò per terra e lo fissò negli occhi. - Mi ha illuso che qui dentro potesse entrare della luce. -

Il silenzio si era appiccicato loro addosso come del miele alle mani di un bambino, e per scrollarlo via l'uomo impiegò alcuni minuti. Quando vi riuscì, il suo tono era evidentemente contrito. Addolorato.

- Alice, ascoltami. Capisco che stare qui per te sia tremendo, ma devi pensare che… tu non mi aiuti, se ti comporti così… se ti comporti da pazza. -

La ragazza considerò per un secondo l'ipotesi. Pazza. Probabilmente lo era davvero, e non solo per le sue visioni. Forse tutto quel buio le aveva annebbiato il cervello, e l'aveva costretta ad uno stato al di là della normalità. Deglutì.

- Lo sono…? -

L'uomo scosse il capo. - Io non credo. -

- Signore… George. - si corresse, protendendosi verso di lui. - Perché io sono qui, allora? -

- Te lo spiegherò la prossima volta. - si alzò in un fruscio di stoffe.

- Hai dei bei capelli, Alice. Fa che altra gente possa vederli, in futuro. -

Appena fuori dalla porta si voltò per fissarla. - Sono arrivato in ritardo. Scusami. -

La luce si ripiegò appena dietro le sue spalle. La ragazza sospirò.

 

 

Sebbene la tentazione di iniziare a contare per contrastare la solitudine continuasse a gridare all'interno del suo cervello, Alice scoprì che c'erano dei metodi efficaci per riuscire a contrastarla. Le bastava pensare, per esempio, al volto affilato di George, che improvvisamente emergeva da quel mare di tenebre e riusciva ad illuminarle la giornata. Cercò di ricordare i giorni passati all'aria aperta, i giochi a cui era solita partecipare, i dettagli dei vestiti che possedeva. Per non sembrare pazza, ce la mise tutta.

Alla fine, quando la porta si aprì di nuovo lasciando entrare l'uomo tutto affannato, Alice sapeva a memoria tutti i propri vestiti, e i suoi vecchi giochi: ma non aveva ripreso a contare.

- Sono di nuovo in ritardo. Perdonami. -

- George… -

- Sì, Alice? -

- Tu invecchi, George? - il silenzio fu breve ma abbastanza intenso.

- Come? -

- Ho avuto una visione del tuo futuro. Eri uguale a come sei adesso. Non una ruga di più, o una di meno. -

Il dottore si lasciò andare ad una risata imbarazzata. - Noti i particolari. -

- Amo essere precisa. - scandì lei in un soffio. Poi attese di avere la sua risposta.

- Diciamo che sono… particolare, e che invecchio più lentamente delle altre persone. -

- Quanto "più lentamente"? -

- Molto. -

Alice non sapeva cosa fosse un vampiro, perché fin quando era vissuta all'aria aperta, la sua età imponeva di non raccontare miti e leggende tanto spaventosi, e di certo nel buio di quella cella le pareti non sussurravano storielle.

Scosse il capo moro. Non ancora, perlomeno.

- E quindi… cosa ci fa, lei, qui? -

- Sto cercando di salvarti, Alice. Salvarti nell'unico modo che io vedo possibile. - non capì il senso delle sue parole, e ovviamente l'uomo non fece molto per spiegarsi. - Gli uomini temono le tue visioni, hanno paura di loro. -

- E quindi hanno paura di me. -

- Da viva, non uscirai mai di qui. -

Il peso di quelle parole riuscì a schiacciarla perentoriamente al pavimento. Boccheggiò, colpita dalla sorpresa, annaspando alla ricerca d'aria. L'uomo l'afferrò saldamente con le sue mani fredde e se la schiacciò al petto, dondolandola in maniera rude ma efficace. - Non importa piccola Alice. -

- Vuole uccidermi? - sussurrò con voce strozzata. - Mi vuole uccidere? -

- Non nel senso che intendi tu. -

Le posò un piccolo bacio sui capelli e si alzò. - La prossima volta ti farò uscire di qui, Alice. -

Lei rimase zitta, attendendo che la porta si chiudesse e lasciasse fuori la luce.

Si accucciò nell'angolo e si costrinse a pensare a cosa avrebbe fatto per passare il tempo fino al suo ritorno.

Dopo due secondi di buio, una mano a pugno sfondò l'uscio in ferro, e infine si ritrasse senza nemmeno un graffio, lasciandovi un buco circolare dal diametro di una quindicina di centimetri. La ragazza scoppiò a ridere.

Dal buco passava un sacco di luce. Alice sospirò.

Che quell'uomo non fosse normale, ormai l'aveva capito da tempo.

 

 

Se all'inizio aveva pensato che le persone di quel luogo sarebbero subito corse a riparare la porta, Alice fu costretta a ricredersi: il buco rimase lì per tutto il tempo della sua prigionia, e nessuno si arrischiò anche solo ad affacciarsi.

Evidentemente la paura che avevano di lei superava ogni tentativo di avvicinarsi alla cella, e di questo Alice non riusciva affatto a dispiacersi.

Fino a che non passò qualcuno: aveva gli occhi scuri con un fondo di rubino, pelle bronzea su cui spiccavano evidenti occhiaie, e un sorriso malsano.

Pensò che dovesse essere non tanto normale quanto George. Eppure il suo sorriso era cattivo, quasi stirato come un ghigno.

Agitò la mano per farsi vedere da lei, che istintivamente si ritrasse. Sillabò un "ciao" senza far uscire un filo di voce, che le si impresse nella mente come marchiato a fuoco. Deglutì.

Il mostro - perché lo era, ne era sicura - la salutò un'ultima volta, e poi richiuse la fenditura. Lasciandola di nuovo al buio.

Affrontare quel deserto di sensazioni non fu facile come lo era stato quando l'uomo si era richiuso la porta alle spalle la prima volta. Ormai Alice si era abituata a tenere gli occhi fissi nella luce, e non aveva pensato ad un eventuale ritorno delle tenebre.

Dunque passò i primi minuti senza fiato, e poi iniziò ad urlare, disperatamente.

Urlò fino a che la sua gola non le sembrò fatta di roccia, fino a quando la porta non si aprì nuovamente, lasciando passare il dottore.

- Sono in ritardo di nuovo. -

Lei si limitò a fissarlo, gli occhi dilatati dal terrore e la bocca tremante.

- Perdonami, Alice. -

- Dove sei stato? -

Lui aveva mille scuse negli occhi, e non riuscì ad attaccarlo con la violenza verbale che aveva spesso immaginato, la notte. - Stavo cercando un altro modo per salvarti da qui. Ma non c'è. Vieni Alice, dovremo fare presto. -

La strinse forte al petto, ne sentì i tremori - Alice, non aver paura… -

Alice non aveva paura. Tremare per lei era diventato un riflesso incondizionato, una semplice risposta al contatto umano. Avrebbe desiderato non tremare, ma, tant'è, il suo corpo ormai non le rispondeva.

- Scusami, piccola, ma non c'è altro modo. Proverai dolore, ma quando ti sveglierai, andrà tutto meglio. -

Poi tastò col leggerezza il suo collo e vi posò le labbra ghiacciate, tanto che lei sussultò al contatto. - George… -

- Shh. -

E poi la morse. Fu un dolore istantaneo, violento, come una lacerazione netta che arriva all'improvviso e ti coglie alla sprovvista. Alice ribaltò il capo verso l'alto, si contorse nell'abbraccio di pietra dell'uomo e lanciò un urlo dilaniante. Il dottore lentamente la abbandonò sul pavimento di pietra della cella, sussurrandole parole piene di dolcezza. Alice vide i suoi occhi contriti continuare a fissarla fino a che la porta non fu nuovamente richiusa.

Poi vide il buio. E le fiamme.

 

 

Furono i tre giorni peggiori che avesse mai passato, perché al dolore mentale si aggiunse quello fisico, e non era pena da poco. Pareva che su tutto il suo corpo, partendo dal collo, si fosse diffuso un incendio invisibile che solo lei poteva sentire. Furono giorni costellati da visioni oniriche, da sussurri incomprensibili e una brama animale di muoversi, di correre e saltare.

Sentiva il suo cuore spegnersi parte dopo parte e il suo corpo raffreddarsi.

Il suo respiro affannoso, all'alba del terzo giorno, era ormai diventato un ricordo lontano.

Quando riaprì gli occhi, le parve di essere nata una seconda volta.

Le sue percezioni del mondo erano cambiate: vedeva tutto più nitidamente, sentiva odori che non aveva mai sentito. E soprattutto, sopra ogni altra cosa, Alice aveva sete.

 

 

Quando l'ispettore di polizia mise piede dentro il manicomio, a colpirlo fu un persistente odore di morto e di sangue ormai marcio. Strinse il naso dentro un fazzoletto e si costrinse a respirare lentamente, dalla bocca. Lo spettacolo era raccapricciante. La domanda d'obbligo che fece gli parve inadeguata, ma la pose lo stesso. - C'è ancora… qualcuno di vivo, qui dentro? -

Inaspettatamente, un suo sottoposto confermò che tutti i malati custoditi dentro le celle erano sani e salvi, tranne uno. I custodi, invece, erano stato tutti uccisi, senza alcuna eccezione.

Lentamente il poliziotto si fece largo tra le pile di cadaveri ammassati senz'ordine ai lati dei corridoi, e riuscì ad immettersi in quello principale. Proprio sul fondo, scorse la porta di una cella aperta. - E' quella? -

- Sì. -

I gemiti che l'accompagnarono lungo la passeggiata gli fecero drizzare i capelli sulla testa: evidentemente quelle persone dovevano aver sentito tutto, ma capito niente. E d'altra parte, chiusi in quella celle, come avrebbero potuto?

- Questo posto è orrendo. -

- Confermo, signore. La stanza è quella. -

Si affacciò solo con la testa, pronto a ritrarsi se lo spettacolo fosse stato oltre il limite delle sue possibilità: invece il quadro che gli si dipinse sugli occhi aveva ben poco di scabroso, e molto di malinconico. La ragazza stava semi sdraiata sul pavimento, la schiena mollemente poggiata sulla parete di fronte a lui, e i capelli le ricadevano in onde arruffate su tutto il corpo, atti a coprire parte del viso. Sul collo si vedeva chiaramente la cascata di sangue che le aveva sottratto la vita.

- Sono morti tutti così? -

- Sì, dissanguati, praticamente come morsi da vampiri. - confermò l'altro, che continuava a lanciare occhiate convulse verso l'entrata del manicomio.

- Vampiri… - ripeté l'ispettore in un sussurro flebile. - Chi era? -

- Alice Mary Brandon, signore. Supposta folle visionaria. -

- Bah. - disse. - Coprite il corpo e portatelo fuori, in cortile. Provvederanno a seppellirla, suppongo. -

- Certamente. -

I due uomini diedero le spalle alla cella e si allontanarono, dileguandosi per ricostruire gli eventi. Dal buio più profondo, Alice sorrise.

 

 

 

Si sentiva vagamente in colpa, ma addentare tutti quegli uomini che l'avevano costretta alla solitudine per così tanto tempo non le era nemmeno costato così tanto. Forse, se la visione di lei all'aperto mentre chiamava George non l'avesse colpita in quel momento, appena dopo il risveglio, sarebbe stata capace di trattenersi. Ma aveva percepito chiaramente il profumo dell'erba e il delicato aroma dei fiori intrufolarsi dentro il suo naso, e non aveva potuto farne a meno. L'idea di uscire all'aria aperta era come un sogno irrealizzabile appena diventato realtà, come un miraggio fatto di mattoni. E Alice non aveva avuto motivo di resistere a quel richiamo.

Per uscire non aveva dovuto fare altro che fingersi morta all'arrivo dell'ispettore, e, prima di quello, attirare la sua attenzione verso la propria cella. Problema che, in fin dei conti, si era rivelato più facile del previsto: si era accorta del fatto che il suo cuore non batteva e i suoi polmoni non necessitavano d'ossigeno. Le era bastato dipingersi con un po' di sangue preso in prestito da una vittima, e il gioco era stato realizzato.

Avrebbe dovuto sentirsi un mostro - o meglio, un vampiro - ma proprio non ci riusciva. Con la mente annebbiata da tutte quelle nuove percezioni si fece trascinare fuori dalla propria cella avvolta in un lenzuolo scuro, tenuta per mani e piedi da poliziotti sconosciuti, il cui aroma non era così invitante da indurla in tentazione. Fu lasciata nel retro della grande costruzione, in un piccolo giardino, ammassata insieme agli uomini che aveva volontariamente ucciso, e il cui ricordo continuava a lampeggiare furioso dentro la mente.

Il loro odore persistente era come un acaro.

Cercò di concentrarsi su altro, di spostare la mente su pensieri meno violenti, ma le immagini di quello che aveva fatto erano fresche nella sua memoria, e impossibili da cancellare.

Senza che riuscisse a capire come mai, una lacrima le scivolò lungo la guancia.

I mostri piangono?

Non perse tempo in simili fantasticherie. Si limitò ad asciugarsi la lacrima con una certa fretta, e infine si incamminò nella foresta, dove, secondo la sua visione, avrebbe ritrovato George.

E avrebbe potuto finalmente dirgli grazie.

 

 

- George? -

Niente. Vagava nella foresta da qualche ora, ormai, ma i suoi sensi ancora non ben affinati non riuscivano a seguire una pista precisa, e spesso la sviavano lungo percorsi morti. - George, dove sei? -

La mortificazione dilagava.

Fino a che, improvvisamente, non vide una piccola luce risplendere proprio al centro del bosco, e una zaffata di profumo familiare le toccò il naso. - George! - urlò.

Si mise a correre come una folle, rischiando di colpire qualche albero nella foga, evitando animali all'improvviso. Poi arrivò nella radura, e si sentì morire. Di nuovo.

La piccola luce non era altro che una fiamma dentro cui bruciava, quasi inerme, il corpo dell'uomo che l'aveva salvata. Non riuscì a muoversi, nemmeno quando lui proruppe in un singhiozzo disperato che suonò troppo come "Alice" per non esserlo. Non si mosse nemmeno quando dietro di lei comparve qualcuno che l'afferrò saldamente per la gola, poggiandovi le labbra fredde.

- George. - sussurrò lei.

- Piccola Alice, mia preda… - il sussurro era fatto di ghiaccio, e nonostante non avesse pelle calda da far congelare, la ragazza rabbrividì egualmente. - Sei stata portata via da me. -

Alice rivide quegli occhi scuri contornati da un alone rubino e capì che anche lui era un vampiro, un mostro senz'anima che giocava con gli esseri umani, divertendosi a ucciderli con studiata calma.

- Alice… -

Ma George non lo era. George non meritava quella fine, non sarebbe dovuto morire lì, in quel boschetto, da solo. E lei non avrebbe dovuto rimanere così, ferma, a guardarlo agonizzare in mezzo a quelle fiamme.

- George… - peccato che non riuscisse a muoversi, imprigionata da quella braccia fatte di granito.

- Lui ti ha sottratto a me. Non è stato divertente. -

- George! -

Il suo viso era diventato dolce e soffice come in un sogno, distorto dalle fiamme. - Alice… sono di nuovo in ritardo, vero? -

- No, George, no… - se era un mostro, perché continuava a piangere senza potersi fermare? Perché sentiva il suo cuore morto sbriciolarsi lentamente, una volta di più, e ancora, ancora…?

- Perdonami. -

Morire fu come volare via nel vento, incenerirsi in un istante e disperdere attimi d'eternità nel niente.

- Eri la mia preda, e adesso ti vorrei vedere inerme. -

Il vampiro alle sue spalle aveva la voce carica di desiderio, di inespressa lussuria. - Mia piccola Alice, ci ritroveremo. -

Il dolore che la colpì alla base del collo fu improvviso quanto violento. Non fece nemmeno in tempo a lanciare un grido che già le sue ginocchia si stavano accasciando al suolo, e il suo corpo con loro.

- Buonanotte. Ti riporterò dove ti ho incontrata per la prima volta. E sarà così romantico… -

 

 

La vampira si svegliò tra le tenebre, e vi si trovò bene. Annusò l'odore di sangue ormai vecchio e pensò che aveva sete. La scritta sulla porta chiusa era praticamente illeggibile a causa del buio, ma vi riconobbe il nome Alice, e pensò che dovesse essere il suo.

Il collo le doleva, la testa anche. Chi era lei?

Cosa ci faceva, lì?

Poi giunse la visione.

 

 

 

 

 

Owari.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Dio mio, questa fanticion è stato un parto. Doveva essere un'innocente cosina di due, massimo tre pagine. Come avrete capito, ho cercato di rappresentare Alice prima del suo arrivo presso i Cullen. Giustificare il tutto è stato complicato - e in fondo la fine non è così chiara e lineare come avrei voluto che fosse.

Con gran cordoglio di Miyu - che ringrazio per l'idea di base - non ho cercato di inserire Jasper. Perché? Perché non centrava niente. Comunque, magari ci lavorerò su.

 

Perché partire da Alice, come mi è stato suggerito? Perché è noto che io e la romance conviviamo bene quanto un carciofo e la nutella.

Il che dovrebbe darvi un'idea approssimativa su quanto sia brava nel descrivere cose romantiche. Ma ci sto lavorando. Lo giuro.

 

 

 

 

P.S. Héra, scusami ç_ç Ho tradito il nostro credo. Beh, poco male.

 

Note: ovviamente non ho ancora spiegato alla Meyer che Ed e Jasper, insieme con fratelli e fidanzate, sono tutti miei. È un progetto a lungo termine.

 

 

Ja ne!

RoSs

   
 
Leggi le 3 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Libri > Twilight / Vai alla pagina dell'autore: Lady Antares Degona Lienan