Late Again [ Forgive Me ]
Il nero.
Ricordava distintamente il nero all'interno di quella
cella. Nessuna variazione cromatica ad interrompere quel gioco di tenebre.
Nessuna feritoia nella porta.
Nessuna lama di luce a strapparla dalla monotonia del
buio.
L'odore era di muffa mista ad insetticida. Nonostante quel continuo permanere là, accucciata in un
angolo a tremare come un topo intirizzito, le visioni la colpivano ancora.
Ed erano sempre più chiare, sempre
più nitide. Vedeva stralci del futuro di ciascuna delle
persone che le orbitavano attorno, o che per lo meno passavano vicine a quella
stanzetta. Piano, col passare degli anni, le sue capacità si erano ampliate,
fino ad espandersi nell'ambiente.
Ormai non riusciva più a capire a chi appartenessero
quei destini, perché non riusciva più a riconoscere le voci che sentiva al loro
interno.
Fu il panico.
Sentirsi così potente e al contempo estremamente
fragile la mise in uno stato di precarietà psicologica a cui mai era andata
incontro. Sbatteva forte la testa contro i muri. Grattava le unghie contro la
porta, se si sentiva abbastanza in forze per
strisciare fino a lì e tornare infine al suo angolo di pace. Mugolava. Cantava.
Implorava perché qualcuno aprisse quella porta e le facesse vedere la luce.
E le dicesse che non era pazza. Che lei era perfettamente normale.
Dieci anni.
Non arrivò mai nessuno.
La
frustrazione infine aveva lasciato spazio ad uno stato di irrequietezza
interiore che Alice non era nemmeno costretta a mostrare. Lo sentiva lì, dentro
di lei. Fondamentalmente era abbastanza. Era abbastanza perché gli altri
credessero che era pazza, e dunque, perché la costringessero a stare rinchiusa
in quel posto.
Probabilmente
la temevano. Temevano i suoi poteri come un tempo si erano
temuti quelli delle streghe.
La
consapevolezza di essere un mostro si faceva avanti nella sua mente da un po'
di tempo, ormai, e la ragazza non sapeva opporle altre ragionevoli opzioni per contrastarla, se non il fatto che lei ricordava
di aver amato, riso, respirato.
Ma in
ultima analisi erano ricordi lontani, quelli.
A lei
rimanevano la sua stanzetta, l'odore del suo respiro,
e il tocco tiepido delle sue stesse mani.
E non
era abbastanza.
Infine,
giunse il giorno in cui quella dannata porta si aprì,
e Alice ebbe modo di verificare se la luce era effettivamente come se la
ricordava.
Scoprì di
sì.
Nei primi
istanti fu affilata, ostile. Poi piano, mentre la ragazza si protendeva verso
la porta con gli occhi incrostati di sporco semi chiusi,
la luce l'accolse in un bagno di calore. Respirò a fondo, le labbra tremanti.
Per un attimo le parve possibile tutto.
- E' lei?
-
- Sì,
signore. -
- Come ti
senti, Alice? -
Non si
sentiva. Aveva smesso da tempo di sentirsi,
anche solo in un qualche misero modo, e aveva cominciato ad evitare le
sensazioni del proprio corpo come la peste. I messaggi che le arrivavano non
erano mai incoraggianti, men che meno positivi. - N-non mi sento,
signore. -
La voce
uscì gracchiante e affilata, ovviamente. Si diede della sciocca per non averci pensato
prima. Si chiarì la voce con un lieve colpo di tosse, anch'esso rauco. - A dire
il vero, avrei bisogno di bere, signore. - azzardò.
Per tutta
risposta, l'uomo rise.
Riscoprire
quel suono fu un'esperienza strana. Alice non ricordava bene che rumore potesse fare una risata, non ricordava bene nemmeno la
propria. Si schiarì di nuovo la voce, in imbarazzo.
- Ma certo Alice, tutto quello che vuoi. -
- Proprio
tutto? -
Si morse
le labbra. Lo scetticismo aveva giustamente deciso di giocare la sua parte. L'uomo
si grattò una guancia. - Beh, no. Non proprio tutto.
-
- Già. -
Ritornò a
sedere nel proprio angolino e si concesse un attimo
per studiarlo. Non era vecchio e non era brutto, nonostante il tono della sua
voce esprimesse una certa potestà che era tipica solo degli anziani.
Aguzzando
la vista, ancora sfocata, riuscì a comprendere parti del suo viso che erano rimaste nascoste. Occhi azzurri, capelli scuri, viso
liscio ed affilato. Pelle bianca. Bianca come la neve.
Innaturalmente bianca per una persona che era abituata a
vivere alla luce del sole. Alice immaginò che anche la propria avesse
assunto una sfumatura malaticcia proprio come quella
dell'uomo che le stava davanti. Nonostante ciò, non
sembrava malato. Non nel senso che lei era solita attribuire a quel termine.
Qualcosa
sbatté lievemente sulla sua fronte. - Tieni. -
Il
bicchiere era freddo e consolante, liscio e privo di imperfezioni.
Un po'
come lui. Alice emise un sospiro tremulo, nell'afferrare l'oggetto e portarselo
affannosamente alle labbra. La sua mano, fredda, si posò sulla propria testa. -
Ti hanno trattata come un cane, vero, Alice? -
Si limitò
ad annuire. Non le piaceva ricordare il proprio stato, non se dopo quel breve
scorcio di luce sarebbero tornate le tenebre a tenerle
compagnia.
- Tornerò.
-
E con
quella promessa, si dileguò. Insieme alla luce.
Alice
cercò disperatamente di contare i giorni che l'avrebbero separata dal ritorno
dell'uomo. Ma poiché nella stanza non filtrava alcuna luce, perdersi nel conto
dei secondi e delle ore fu estremamente facile.
Ciononostante, il giochetto rimase, ed Alice continuò a contare.
Quando la
porta si spalancò di nuovo, il numero era diventato enorme, e sebbene l'uomo
non capisse cosa volesse dire, percepì il messaggio dentro a
quel contare, e si sentì colpire dall'angoscia.
- Alice… -
- Sto
contando, signore. Due milioni ottocentonovantamila e ventotto…
-
- Alice,
fermati Alice! Smetti di contare. -
Alice,
miracolosamente, smise. - E anche se smettessi,
signore, cosa ne verrebbe a lei? -
L'uomo
sospirò, sedendosi sul pavimento lurido e segnato dalle unghie. - Mi chiamo George Heartmoan, Alice, e se tu
continui a contare non potrai rispondere alle mie domande. -
Avrebbe
preferito rimanere sulla difensiva, ma di fronte a quegli occhi di ghiaccio le fu impossibile resistere. Serrò le labbra in un moto di
disgusto, e si costrinse ad accettare quella proposta che giungeva a
rischiararle la giornata. Sapeva che come l'altra volta lui sarebbe andato via.
Ma forse, sarebbe anche tornato. Ovviamente non aveva
modo di sincerarsene.
Poteva
essere un dottore venuto a decidere se era pazza. E se
avesse deciso di sì, allora forse sarebbe rimasta rinchiusa in quel posto per
sempre. Bene o male, alla fine si accorse di averci fatto l'abitudine.
- E io devo rispondere, giusto signore? -
- Chiamami
George. -
Alice
ridacchiò. - George, allora. -
Quella
situazione era assurda, e a saperlo erano entrambi. Alice pensò ad un
ricevimento del the, di quelli che erano soliti in casa sua alle cinque, forse
lei sei del pomeriggio. Inclinò la testa, stupita da
quel pensiero.
- Alice,
perché hai iniziato a contare da quando me ne sono
andato? -
- Ma è semplice, George. - sentì le
sue mani muoversi da sole e capì che stavano tenendo stretta una tazzina da the
dipinta nell'aria. Per un attimo ebbe paura di se stessa. - Ho cercato di
contare i giorni che mi separavano da te. -
- E poi? -
- E poi ho scoperto, una scoperta incredibile, che qui non
arriva la luce! - la sua risata era un rantolo, ma esprimeva bene l'idea di
disgusto che aveva cercato di attribuirvi. - Era abbastanza ovvio, ma non ci
avevo pensato. Non ci avevo pensato perché all'improvviso qualcuno ha aperto la porta e mi ha illuso. -
Sputò per
terra e lo fissò negli occhi. - Mi ha illuso che qui dentro potesse
entrare della luce. -
Il
silenzio si era appiccicato loro addosso come del
miele alle mani di un bambino, e per scrollarlo via l'uomo impiegò alcuni
minuti. Quando vi riuscì, il suo tono era
evidentemente contrito. Addolorato.
- Alice,
ascoltami. Capisco che stare qui per te sia tremendo, ma devi pensare che… tu
non mi aiuti, se ti comporti così… se ti comporti da
pazza. -
La ragazza
considerò per un secondo l'ipotesi. Pazza. Probabilmente lo era davvero, e non
solo per le sue visioni. Forse tutto quel buio le aveva annebbiato il cervello,
e l'aveva costretta ad uno stato al di là della
normalità. Deglutì.
- Lo
sono…? -
L'uomo
scosse il capo. - Io non credo. -
- Signore…
George. - si corresse,
protendendosi verso di lui. - Perché io sono qui,
allora? -
- Te lo
spiegherò la prossima volta. - si alzò in un fruscio di stoffe.
- Hai dei
bei capelli, Alice. Fa che altra gente possa vederli, in futuro. -
Appena fuori dalla porta si voltò per fissarla. - Sono arrivato in
ritardo. Scusami. -
La luce si
ripiegò appena dietro le sue spalle. La ragazza sospirò.
Sebbene
la tentazione di iniziare a contare per contrastare la solitudine continuasse a
gridare all'interno del suo cervello, Alice scoprì che c'erano dei metodi
efficaci per riuscire a contrastarla. Le bastava pensare, per esempio, al volto
affilato di George, che improvvisamente emergeva da
quel mare di tenebre e riusciva ad illuminarle la giornata. Cercò di ricordare
i giorni passati all'aria aperta, i giochi a cui era
solita partecipare, i dettagli dei vestiti che possedeva. Per non sembrare
pazza, ce la mise tutta.
Alla fine,
quando la porta si aprì di nuovo lasciando entrare l'uomo tutto affannato,
Alice sapeva a memoria tutti i propri vestiti, e i
suoi vecchi giochi: ma non aveva ripreso a contare.
- Sono di
nuovo in ritardo. Perdonami. -
- George… -
- Sì,
Alice? -
- Tu
invecchi, George? - il silenzio fu breve ma
abbastanza intenso.
- Come? -
- Ho avuto
una visione del tuo futuro. Eri uguale a come sei
adesso. Non una ruga di più, o una di meno. -
Il dottore
si lasciò andare ad una risata imbarazzata. - Noti i particolari. -
- Amo
essere precisa. - scandì lei in un soffio. Poi attese di avere la sua risposta.
- Diciamo che sono… particolare, e che invecchio più
lentamente delle altre persone. -
- Quanto "più lentamente"? -
- Molto. -
Alice non
sapeva cosa fosse un vampiro, perché fin quando era vissuta all'aria aperta, la
sua età imponeva di non raccontare miti e leggende tanto
spaventosi, e di certo nel buio di quella cella le pareti non
sussurravano storielle.
Scosse il
capo moro. Non ancora, perlomeno.
- E quindi… cosa ci fa, lei, qui? -
- Sto
cercando di salvarti, Alice. Salvarti nell'unico modo che io vedo possibile. - non capì
il senso delle sue parole, e ovviamente l'uomo non fece molto per spiegarsi. -
Gli uomini temono le tue visioni, hanno paura di loro.
-
- E quindi hanno paura di me. -
- Da viva,
non uscirai mai di qui. -
Il peso di
quelle parole riuscì a schiacciarla perentoriamente al pavimento. Boccheggiò,
colpita dalla sorpresa, annaspando alla ricerca d'aria. L'uomo l'afferrò
saldamente con le sue mani fredde e se la schiacciò al petto, dondolandola in
maniera rude ma efficace. - Non importa piccola Alice. -
- Vuole
uccidermi? - sussurrò con voce strozzata. - Mi vuole uccidere? -
- Non nel senso che intendi tu. -
Le posò un
piccolo bacio sui capelli e si alzò. - La prossima volta ti farò uscire di qui, Alice. -
Lei rimase
zitta, attendendo che la porta si chiudesse e
lasciasse fuori la luce.
Si
accucciò nell'angolo e si costrinse a pensare a cosa avrebbe fatto per passare
il tempo fino al suo ritorno.
Dopo due
secondi di buio, una mano a pugno sfondò l'uscio in
ferro, e infine si ritrasse senza nemmeno un graffio, lasciandovi un buco
circolare dal diametro di una quindicina di centimetri. La ragazza scoppiò a
ridere.
Dal buco
passava un sacco di luce. Alice sospirò.
Che
quell'uomo non fosse normale, ormai l'aveva capito da tempo.
Se
all'inizio aveva pensato che le persone di quel luogo sarebbero subito corse a
riparare la porta, Alice fu costretta a ricredersi: il buco rimase lì per tutto
il tempo della sua prigionia, e nessuno si arrischiò anche solo ad affacciarsi.
Evidentemente
la paura che avevano di lei superava ogni tentativo di avvicinarsi alla cella,
e di questo Alice non riusciva affatto a dispiacersi.
Fino a che
non passò qualcuno: aveva gli occhi scuri con un fondo di rubino, pelle bronzea
su cui spiccavano evidenti occhiaie, e un sorriso malsano.
Pensò che
dovesse essere non tanto normale quanto George. Eppure il suo sorriso era cattivo, quasi stirato come un
ghigno.
Agitò la
mano per farsi vedere da lei, che istintivamente si ritrasse. Sillabò un
"ciao" senza far uscire un filo di voce, che le si
impresse nella mente come marchiato a fuoco. Deglutì.
Il mostro
- perché lo era, ne era sicura - la salutò un'ultima
volta, e poi richiuse la fenditura. Lasciandola di nuovo al buio.
Affrontare
quel deserto di sensazioni non fu facile come lo era stato
quando l'uomo si era richiuso la porta alle spalle la prima volta. Ormai
Alice si era abituata a tenere gli occhi fissi nella luce, e non aveva pensato
ad un eventuale ritorno delle tenebre.
Dunque
passò i primi minuti senza fiato, e poi iniziò ad urlare, disperatamente.
Urlò fino
a che la sua gola non le sembrò fatta di roccia, fino a
quando la porta non si aprì nuovamente, lasciando passare il dottore.
- Sono in
ritardo di nuovo. -
Lei si
limitò a fissarlo, gli occhi dilatati dal terrore e la bocca tremante.
-
Perdonami, Alice. -
- Dove sei
stato? -
Lui aveva
mille scuse negli occhi, e non riuscì ad attaccarlo con la violenza verbale che
aveva spesso immaginato, la notte. - Stavo cercando un altro modo per salvarti
da qui. Ma non c'è. Vieni Alice,
dovremo fare presto. -
La strinse
forte al petto, ne sentì i tremori - Alice, non aver paura… -
Alice non
aveva paura. Tremare per lei era diventato un riflesso incondizionato, una
semplice risposta al contatto umano. Avrebbe desiderato non
tremare, ma, tant'è, il suo corpo ormai non le
rispondeva.
- Scusami,
piccola, ma non c'è altro modo. Proverai dolore, ma quando ti sveglierai, andrà
tutto meglio. -
Poi tastò col leggerezza il suo collo e vi posò le labbra ghiacciate,
tanto che lei sussultò al contatto. - George… -
- Shh. -
E poi
la morse. Fu un dolore istantaneo, violento, come una lacerazione netta che arriva all'improvviso e ti coglie alla sprovvista. Alice
ribaltò il capo verso l'alto, si contorse nell'abbraccio di pietra dell'uomo e
lanciò un urlo dilaniante. Il dottore lentamente la abbandonò sul pavimento di
pietra della cella, sussurrandole parole piene di dolcezza. Alice vide i suoi
occhi contriti continuare a fissarla fino a che la porta non fu nuovamente
richiusa.
Poi vide
il buio. E le fiamme.
Furono i
tre giorni peggiori che avesse mai passato, perché al
dolore mentale si aggiunse quello fisico, e non era pena da poco. Pareva che su
tutto il suo corpo, partendo dal collo, si fosse diffuso un incendio invisibile
che solo lei poteva sentire. Furono giorni costellati da visioni oniriche, da
sussurri incomprensibili e una brama animale di muoversi, di correre e saltare.
Sentiva il
suo cuore spegnersi parte dopo parte e il suo corpo
raffreddarsi.
Il suo
respiro affannoso, all'alba del terzo giorno, era ormai diventato un ricordo
lontano.
Quando
riaprì gli occhi, le parve di essere nata una seconda volta.
Le sue
percezioni del mondo erano cambiate: vedeva tutto più nitidamente, sentiva
odori che non aveva mai sentito. E
soprattutto, sopra ogni altra cosa, Alice aveva sete.
Quando
l'ispettore di polizia mise piede dentro il manicomio, a colpirlo fu un
persistente odore di morto e di sangue ormai marcio. Strinse il naso dentro un
fazzoletto e si costrinse a respirare lentamente, dalla bocca. Lo spettacolo
era raccapricciante. La domanda d'obbligo che fece gli parve inadeguata, ma la pose
lo stesso. - C'è ancora… qualcuno di vivo, qui dentro? -
Inaspettatamente,
un suo sottoposto confermò che tutti i malati custoditi dentro le celle erano
sani e salvi, tranne uno. I custodi, invece, erano stato
tutti uccisi, senza alcuna eccezione.
Lentamente
il poliziotto si fece largo tra le pile di cadaveri ammassati senz'ordine ai
lati dei corridoi, e riuscì ad immettersi in quello
principale. Proprio sul fondo, scorse la porta di una cella aperta. - E'
quella? -
- Sì. -
I gemiti
che l'accompagnarono lungo la passeggiata gli fecero
drizzare i capelli sulla testa: evidentemente quelle persone dovevano aver
sentito tutto, ma capito niente. E d'altra parte, chiusi in
quella celle, come avrebbero potuto?
- Questo
posto è orrendo. -
-
Confermo, signore. La stanza è quella. -
Si affacciò
solo con la testa, pronto a ritrarsi se lo spettacolo fosse stato oltre il
limite delle sue possibilità: invece il quadro che gli si dipinse sugli occhi
aveva ben poco di scabroso, e molto di malinconico. La ragazza stava semi sdraiata sul pavimento, la schiena mollemente
poggiata sulla parete di fronte a lui, e i capelli le ricadevano in onde
arruffate su tutto il corpo, atti a coprire parte del viso. Sul collo si vedeva
chiaramente la cascata di sangue che le aveva sottratto
la vita.
- Sono
morti tutti così? -
- Sì,
dissanguati, praticamente come morsi da vampiri. -
confermò l'altro, che continuava a lanciare occhiate convulse verso l'entrata
del manicomio.
- Vampiri…
- ripeté l'ispettore in un sussurro flebile. - Chi era? -
- Alice
Mary Brandon, signore. Supposta folle visionaria. -
- Bah. -
disse. - Coprite il corpo e portatelo fuori, in cortile. Provvederanno
a seppellirla, suppongo. -
-
Certamente. -
I due
uomini diedero le spalle alla cella e si allontanarono, dileguandosi per
ricostruire gli eventi. Dal buio più profondo, Alice sorrise.
Si sentiva
vagamente in colpa, ma addentare tutti quegli uomini che l'avevano costretta
alla solitudine per così tanto tempo non le era
nemmeno costato così tanto. Forse, se la visione di lei
all'aperto mentre chiamava George non l'avesse
colpita in quel momento, appena dopo il risveglio, sarebbe stata capace di
trattenersi. Ma aveva percepito chiaramente il profumo
dell'erba e il delicato aroma dei fiori intrufolarsi dentro il suo naso, e non
aveva potuto farne a meno. L'idea di uscire all'aria aperta era come un sogno
irrealizzabile appena diventato realtà, come un
miraggio fatto di mattoni. E Alice non aveva avuto
motivo di resistere a quel richiamo.
Per uscire
non aveva dovuto fare altro che fingersi morta all'arrivo dell'ispettore, e,
prima di quello, attirare la sua attenzione verso la propria cella. Problema
che, in fin dei conti, si era rivelato più facile del previsto: si era accorta
del fatto che il suo cuore non batteva e i suoi polmoni non necessitavano
d'ossigeno. Le era bastato dipingersi con un po' di sangue preso in prestito da
una vittima, e il gioco era stato realizzato.
Avrebbe
dovuto sentirsi un mostro - o meglio, un vampiro - ma proprio non ci riusciva. Con la mente annebbiata da tutte quelle nuove
percezioni si fece trascinare fuori dalla propria
cella avvolta in un lenzuolo scuro, tenuta per mani e piedi da poliziotti
sconosciuti, il cui aroma non era così invitante da indurla in tentazione. Fu
lasciata nel retro della grande costruzione, in un piccolo
giardino, ammassata insieme agli uomini che aveva volontariamente ucciso, e il
cui ricordo continuava a lampeggiare furioso dentro la mente.
Il loro
odore persistente era come un acaro.
Cercò di
concentrarsi su altro, di spostare la mente su pensieri meno violenti, ma le
immagini di quello che aveva fatto erano fresche nella sua memoria, e
impossibili da cancellare.
Senza che
riuscisse a capire come mai, una lacrima le scivolò lungo la guancia.
I mostri piangono?
Non perse
tempo in simili fantasticherie. Si limitò ad asciugarsi la lacrima con una
certa fretta, e infine si incamminò nella foresta,
dove, secondo la sua visione, avrebbe ritrovato George.
E
avrebbe potuto finalmente dirgli grazie.
- George? -
Niente.
Vagava nella foresta da qualche ora, ormai, ma i suoi sensi ancora non ben
affinati non riuscivano a seguire una pista precisa, e spesso la sviavano lungo
percorsi morti. - George, dove sei? -
La
mortificazione dilagava.
Fino a
che, improvvisamente, non vide una piccola luce risplendere proprio al centro
del bosco, e una zaffata di profumo familiare le toccò il naso. - George! - urlò.
Si mise a
correre come una folle, rischiando di colpire qualche albero nella foga,
evitando animali all'improvviso. Poi arrivò nella radura, e si sentì morire. Di
nuovo.
La piccola
luce non era altro che una fiamma dentro cui bruciava,
quasi inerme, il corpo dell'uomo che l'aveva salvata. Non riuscì a muoversi, nemmeno quando lui proruppe in un singhiozzo disperato che
suonò troppo come "Alice" per non esserlo. Non si mosse nemmeno quando dietro di lei comparve qualcuno che l'afferrò
saldamente per la gola, poggiandovi le labbra fredde.
- George. - sussurrò lei.
- Piccola
Alice, mia preda… - il sussurro era fatto di ghiaccio, e nonostante non avesse
pelle calda da far congelare, la ragazza rabbrividì egualmente. - Sei stata
portata via da me. -
Alice
rivide quegli occhi scuri contornati da un alone rubino e capì che anche lui
era un vampiro, un mostro senz'anima che giocava con gli esseri umani,
divertendosi a ucciderli con studiata calma.
- Alice… -
Ma George non lo era. George non meritava quella fine, non sarebbe dovuto morire lì, in quel
boschetto, da solo. E lei non avrebbe dovuto rimanere
così, ferma, a guardarlo agonizzare in mezzo a quelle fiamme.
- George… - peccato che non riuscisse a muoversi,
imprigionata da quella braccia fatte di granito.
- Lui ti ha sottratto a me. Non è stato divertente. -
- George! -
Il suo
viso era diventato dolce e soffice come in un sogno, distorto dalle fiamme. -
Alice… sono di nuovo in ritardo, vero? -
- No, George, no… - se era un mostro, perché continuava a
piangere senza potersi fermare? Perché sentiva il suo
cuore morto sbriciolarsi lentamente, una volta di più, e ancora, ancora…?
-
Perdonami. -
Morire fu
come volare via nel vento, incenerirsi in un istante e disperdere attimi
d'eternità nel niente.
- Eri la
mia preda, e adesso ti vorrei vedere inerme. -
Il vampiro
alle sue spalle aveva la voce carica di desiderio, di inespressa
lussuria. - Mia piccola Alice, ci ritroveremo. -
Il dolore
che la colpì alla base del collo fu improvviso quanto
violento. Non fece nemmeno in tempo a lanciare un grido che già le sue
ginocchia si stavano accasciando al suolo, e il suo corpo con loro.
-
Buonanotte. Ti riporterò dove ti ho incontrata per la
prima volta. E sarà così romantico… -
La vampira
si svegliò tra le tenebre, e vi si trovò bene. Annusò l'odore di sangue ormai
vecchio e pensò che aveva sete. La scritta sulla porta
chiusa era praticamente illeggibile a causa del buio,
ma vi riconobbe il nome Alice, e pensò che dovesse essere il suo.
Il collo
le doleva, la testa anche. Chi era lei?
Cosa
ci faceva, lì?
Poi giunse
la visione.
Owari.
Dio mio,
questa fanticion è stato un parto. Doveva essere
un'innocente cosina di due, massimo tre pagine. Come avrete capito, ho cercato
di rappresentare Alice prima del suo arrivo presso i Cullen.
Giustificare il tutto è stato complicato - e in fondo la fine non è così chiara
e lineare come avrei voluto che fosse.
Con gran
cordoglio di Miyu
- che ringrazio per l'idea di base - non ho cercato di inserire Jasper. Perché? Perché
non centrava niente. Comunque, magari ci
lavorerò su.
Perché
partire da Alice, come mi è stato suggerito? Perché è noto che io e la romance conviviamo bene quanto un carciofo e la nutella.
Il che dovrebbe darvi un'idea approssimativa su quanto sia brava nel
descrivere cose romantiche. Ma ci sto lavorando. Lo giuro.
P.S. Héra, scusami ç_ç
Ho tradito il nostro credo. Beh, poco male.
Note:
ovviamente non ho ancora spiegato alla Meyer che Ed e
Jasper, insieme con fratelli e fidanzate, sono tutti
miei. È un progetto a lungo termine.
Ja ne!
RoSs