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Autore: honda    02/12/2012    3 recensioni
Afferro la seconda vite, poi la terza, la quarta e così via, fino a ricoprire ogni spazio tra le dita di mio fratello. Lui non desiste, continua a gridare, anche quando la voce non c’è più, continua a gridare con il fiato, e le lacrime e la saliva, mio nettare, continuano a scendere. Decido di posizionargli uno specchio davanti, non potrà beneficiare della sua immagine quando dorme, ma almeno può contemplarsi mentre soffre, dovrebbe ringraziarmi, gli sto regalando il suo dolore.
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Reita, Ruki
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Il sonno della ragione genera mostri

 

 

 

Ho una fottuta voglia di urlare fino a lacerare le mie corde vocali, di mozzicarmi la lingua fino a farle perdere la sensibilità del gusto, di piangere fino a vetrificare le mie retine ora lucide e umide. A quel punto cosa rimarrebbe di me? Sarei un essere privo di voce, gusto e vista, da cosa dovrei essere spinto a vivere? Per cosa dovrei  vivere?

 

Il mio  desiderio di distruggere arde in me e da me straripa voglioso, ha sete di pianto. Ma l’ autodistruzione ha in sé dei rischi, che me ne farei di un me distrutto? Da qui il mio piano atto a soddisfare questo mio desiderio, senza però arrecare danno alla mia persona. Basta indirizzare le mie energie verso qualcun altro, così da farlo urlare fino a poter lacerare le sue di corde vocali, così da fargli mozzicare la sua lingua fino a farle perdere la sensibilità del gusto, così da farlo piangere fino a vetrificare le sue retine ora lucide e umide. Già.. i suoi occhi ora sono così lucidi che vedo in essi riflessa la mia figura, se Ryo piangesse potrei andare incontro a morte per affogamento. È bello il mio Ryo con la sua  chioma di bronzo simile ai più maturi tra i chicchi di grano, è bello il mio Ryo con i suoi occhi di miele simile al più dorato tra i caramelli appena fusi. Lo guardo e tremo, mi tormento fino a lacerarmi dentro, perché continuo a chiedermi come quel Dio in cui penso di credere abbia potuto creare un essere che sia manifestazione della bellezza, parola che pare essere stata creata solo per lui, solo per denominare ciò che lui e lui solo riesce pienamente a rappresentare. Se Ryo non esistesse, tanto varrebbe non usare più questo termine, giacché neanche il mare, le montagne o il cielo riuscirebbero a compensare l’ assenza di quest’  uomo, unico artefice e araldo stesso della bellezza. Poi la risposta, che giunge improvvisa come   un’ onda travolgente durante la bassa marea, lui, interamente lui, la sua bellezza, i suoi capelli, i suoi occhi e la bellezza dei suoi capelli e dei suoi occhi sono stati creati per me, per salvarmi. Ryo mi salverà da me stesso, dalla mia autodistruzione, perché io, Takanori, sfogherò il mio desiderio di distruggere su di lui e Dio mi premierà perché avrò scelto di far dono delle mie energie proprio a chi più di tutti fu creato a sua immagine e somiglianza, poiché una simile bellezza ha più del divino che dell’ umano in sé.

 

 

Ed ecco che cade per la prima volta, sotto l’ impulso del primo calcio che colpisce il suo stomaco. Lo sento il suo dolore, dalla sua voce che si spezza, una volta a terra prende fiato e formula la domanda che esprime con affanno  “perché? Takanori perché tutto questo? Perché mi stai picchiando?”. Quesiti come questi mi fanno comprendere che lui  non è ancora pronto per sapere, è inutile fornirgli una risposta, non la capirebbe. Così mi limito a stringere ulteriormente la corda che cinge la sua candida pelle graffiandola e recidendola sottilmente. Potrebbe tranquillamente affondare un pugno ben assestato sul mio viso, lui, alto e forte, potrebbe sconfiggermi e uccidermi con le sue mani in meno di un secondo, se solo queste stesse non fossero legate dietro la sua schiena nuda. Prima di gettarlo a terra tra la neve l’ ho privato interamente dei suoi vestiti, così che la sua pelle si lesionasse per il freddo. Il suo volto impaurito implora pietà, dalle sue labbra livide il respiro esce a fatica ed è accompagnato dal flebile suono affannato dovuto ai polmoni in via di congelamento. Ma non guardarmi con quegli occhi umidi di pianto, non chiedermi tra le lacrime salate che stai ingoiando in abbondanza perché io, proprio io, tuo fratello, ti sto facendo tutto questo. Ryo, mio amato Ryo, è questo mio impellente desiderio di distruggere che mi spinge ad agire contro di te, ma ti farò comprendere che non è contro di te che sto agendo, ma per te, perché ti sto regalando la mia distruzione, ti sto regalando la possibilità di salvarmi, di salvare tuo fratello, sangue del tuo sangue. Poggio la mia mano sulla sua fronte, è calda e avvampa di febbre. Al mio lieve tocco cade a terra privo di sensi, il suo bel corpo ha ceduto al bianco e soffice terreno che, desideroso del suo calore, lo ha prosciugato fino a renderlo suo schiavo. Contemplo la sua figura, ormai interamente cianotica per il freddo, immersa nella neve. Poesia non è ciò che fa tremare il cuore, poesia non è ciò che fa lacrimare la vista, poesia è la bellezza che traspare dal sua corpo ed il sorriso che questa visione mi strappa ad ogni sguardo. Inizia a cadere ora neve gelida e soffice su di me, e così rimango immobile come in un dipinto, neve su neve, neve su di lui, neve su di me. Le sue palpebre tremano, il peso dei cristalli di ghiaccio poggiati sulle sue ciglia è troppo forte da sopportare. Ed ecco che cedono all’ insormontabile mare cristallizzato che scende dalle ciglia, dolce come un rivolo di lava lungo i pendii di un vulcano. È bello il mio Ryo con le guance ora ricoperte da un lieve velo di neve, ama lei accarezzargli il volto, ama lei farlo suo, bloccando la respirazione cellulare del suo epitelio, ama lei la sua bellezza. Afferro i suoi piedi lividi e lo trascino nella baita che ho affittato per passare insieme a lui questi giorni, per essere lontani dal resto del mondo e più vicini a Dio, perché qui in cima a questa montagna i suoi occhi saranno maggiormente rivolti a me, a Ryo e al dono che sto facendo alla sua creatura prediletta. Guarda Dio quanto forte è la distruzione che sfocia dal mio corpo impetuosa come fluttuo marino, guarda Dio come questa mia distruzione si scaglia sulla bellezza, guarda Dio come io mi salvo dal mio stesso dirompente ardore, guarda Dio come il  sangue del mio sangue mi salva da me stesso.         

 

 

Il cielo è azzurro, non quell’ azzurro acceso e splendente di un pomeriggio d’ estate, ma quello cupo e stridente delle ore che stanno cedendo il posto al tramonto. È qua e là macchiato di rosso, rosso sangue, sangue vivo. È in atto una battaglia: la notte contro il giorno che, sconfitto, si ritira, lasciando il campo insanguinato. Le ombre infuocate che tagliano l’ azzurro sono l’ ultimo barlume di lui, finché la notte non arriverà a strappargli persino tale concessione. Alle mie spalle Ryo tossisce e, respirando affannosamente, tira indietro il bacino poggiando la schiena al muro. Il suo silenzio mi osserva, è tagliente, sento che sta gridando, mi dice che sono un pazzo, che solo un folle potrebbe legare suo fratello e torturarlo. Il povero Ryo non comprende che lui è il mio salvatore, la sua distruzione è infatti la mia salvezza, il suo dolore è la privazione della mia sofferenza. Gli sto regalando la possibilità di salvarmi, di essere un eroe. Avanzo verso di lui contemplando l’ immane bellezza del suo viso pallido e sconvolto, il suo sguardo vuoto e torvo osserva la mia immagine, annebbiata dal rivolo di lacrime che scorrono sulle sue guance fino a raggiungere la morbida pelle del suo collo. Subito vengo inebriato da un’ intensa felicità, il solo fatto che la mia figura, anche se un po’ sfocata, sia riflessa nei suoi occhi è per me motivo di immensa gioia, ora sono impresso nelle sue iridi e lui non può fare nulla per cancellarmi. Ryo è nelle mie mani, l’ unico modo che ha per sconfiggermi sarebbe strapparsi gli occhi, ma le sue mani sono legate, perciò continuo a rimanere dentro di lui, potrei rimanere nei suoi occhi per sempre, mi sento quasi Dio, si, sono il suo Dio, lui è nelle mie mani ed io muovo i fili che lo tengono in vita. Estraggo dalla tasca dei pantaloni la mia lucente lama e con un taglio lento e deciso recido il suo zigomo latteo, è neve, non semplice neve, ma neve di primo inverno, che morbida si poggia sulle strade. E, come la prima neve diventa ghiaccio sotto il peso delle successive nevicate, così la sua pelle si è ormai irrigidita in seguito ai maltrattamenti che io stesso le ho precedentemente inflitto. Così non un grido, non un lamento, non una richiesta disperata di spiegazione segue il mio disteso e audace tagliare, Ryo è diventato ghiaccio ormai e, mentre la neve in superficie è sciolta dal sole, non un raggio di esso riesce a raggiungere il primo strato di quella sabbia bianca, un tempo soffice e tenue. La lama del coltello riflette il suo occhio e la mia immagine che è in esso, vorrei fermare il tempo e cibarmi di questo momento fino a farne indigestione, e poi ricominciare da capo, così all’ infinito, fino a morirne.

 

 

Ryo ha passato tutta la notte seduto a terra, con la schiena poggiata al muro. Ha lasciato che il suo capo ciondolasse in avanti, non pensando che la mattina seguente avrebbe avuto un lancinante dolore al collo. Per fortuna ci sono io, un fratello serve anche a questo, oggi farò in modo che non si renda conto del suo collo sofferente. Mi avvicino a lui silenzioso e delicatamente gli sfilo le scarpe. Un accenno di smorfia acuisce il suo volto, prima completamente rilassato, forse stava sognando. Dopo aver riscaldato delle viti in acqua bollente, ritorno ai piedi di Ryo, che continua a dormire profondamente. Come vorrei che potesse vedersi durante il sonno, provo un profondo dispiacere nel constatare che lui è l’ unico che non può godere di una simile meraviglia. L’ unione delle ciglia chiuse in un amplesso senza tregua, le labbra distese nella loro forma più inespressiva e naturale, le narici che si dilatano e si contraggono, sede di quel respiro di cui potrei anche cibarmi. Avvicino il mio naso al suo viso e faccio danzare il mio respiro al ritmo del suo, ad ogni sua esalazione corrisponde una mia inspirazione, così da  rendere la sua anidride carbonica  ossigeno per me, vorrei continuare finché l’ aria riciclata non diventi irrespirabile per entrambi, a quel punto moriremmo. Ma non è ancora il momento. Mi riposiziono di nuovo accanto ai suoi piedi, sfioro la loro pelle delicatamente, non voglio svegliarlo, vorrei che il suo risveglio sia causato dal dolore. Il suo volto addormentato è così bello,  che nulla ha il diritto di modificare il suo stato, nulla eccetto il dolore. La sofferenza è così nobile che tutto può, la sofferenza è così utile che ha il diritto di interrompere il suo sonno ed insieme ad esso l’ espressione soave di Ryo mentre dorme. Necessito di dolore, ho sete di esso. Afferro la prima vite rovente e con forza la introduco tra l’ alluce e l’ indice del suo piede destro. Un urlo lancinante mi prende all’ improvviso, cado all’ indietro. Ryo si è svegliato e continua a gridare come un forsennato, le sua labbra sono bagnate da secrezione salivare che esce bianca e in abbondanza fino a cadergli sul mento, gli occhi sono iniettati di sangue, il color nocciola delle sue iridi è surclassato dal rosso infuocato della restante parte  dell’ occhio. Mi avvicino al suo viso mentre lui continua ad urlare e a cercare di liberarsi dalla corda che lega le sue mani, poggio la mia bocca sul suo mento e lecco avidamente tutta la saliva che lo ricopre, non c’è nulla di più buono di un frutto nato dal dolore. E così lo assaporo, assaporo il dolore di Ryo fino ad asciugarlo del tutto. Ora sta iniziando a piangere, lecco  anche le sue lacrime, la mia  lingua sta facendo suo ogni poro della  sua pelle, sta stuprando il suo viso. Afferro la seconda vite, poi la terza, la quarta e così via, fino a ricoprire ogni spazio tra le dita di mio fratello. Lui non desiste, continua a gridare, anche quando la voce non c’è più, continua a gridare con il fiato, e le lacrime e la saliva, mio nettare, continuano a scendere. Decido di posizionargli uno specchio davanti, non potrà beneficiare della sua immagine quando dorme, ma almeno può contemplarsi mentre soffre, dovrebbe ringraziarmi, gli sto regalando il suo dolore.  

 

…………………………………………..

 

 

Il sacerdote mi ha costretto a truccare il viso di Takanori. Ha detto che durante il funerale, se avessi voluto lasciare la bara aperta, avrei dovuto nascondere gli ematomi sul suo viso, anche se è stato impossibile far scomparire quel profondo taglio sullo zigomo. Ora mio fratello poggia il suo leggero corpo in una bara color ciliegio, intorno ad essa corone di fiori profumano l’ aria. La messa ancora non è iniziata, ma la Chiesa è già piena di persone. Di tutte queste ne conoscerò a malapena dieci, ma si sa che i funerali non hanno altro scopo che alleggerire l’ animo di tutti coloro che vi si recano. Gli sconosciuti contemplano la sofferenza dei familiari del defunto, i loro cuori sono mossi a compassione dalle lacrime altrui, sebbene essi non siano per nulla turbati. Così il funerale si riduce a nient’ altro che ad un triste tentativo degli esseri umani di vanificare catarticamente i loro problemi, resi futili da un danno assai maggiore come la morte. I funerali che riscuotono più successo sono quelli dei bambini, poi quelli di uomini di mezza età incidentati sul lavoro, seguono le donne morte durante il parto o di cancro al seno, i giovani vittime di incidenti stradali ed infine i suicidati e gli anziani. Il funerale di mio fratello però è un evento che supera di gran lunga tutti quelli appena citati, è l’ occasione perfetta per tutti non solo per alleviare, ma addirittura per eliminare tutte le difficoltà presenti nelle vite di questi sconosciuti. Tutta la città conosce la nostra storia, tutti sanno, sebbene fingano di non sapere, i loro sguardi compassionevoli desiderano toccare la sofferenza che riempie l’ aria, per poi tornare a guardare con aria sognante le loro mogli, i loro mariti ed i loro figli, constatando che la loro realtà monotona, sempre uguale a se stessa, spesso avvertita come prigione soffocante, in fondo è sicura, al riparo da ogni dolore reale. E allora le loro case, dalle quali avrebbero voluto scappare sino a quel momento, divengono l’ unico luogo in cui essere felici e le loro famiglie, dalle quali avrebbero voluto distaccarsi sino ad un attimo prima, si tramutano nella sola ragione di vita. Questa la potenza della morte, la potenza della morte altrui che sa rendere dolce persino la più amara delle realtà. Hai perso il lavoro? Almeno non sei morto. Tua moglie ti ha tradito? Almeno non sei morto. Ti sei venduto a poker la casa? Almeno non sei morto. Non come lui. Almeno non sei morto come lui. Che destino avverso è toccato al povero ragazzo, un misero giovane uomo dalla mente fuorviata che ha gettato la sua anima torbida all’ Inferno. È una famiglia maledetta la sua. Una delle più belle donne che si possano incontrare sposa un uomo di gran lunga più grande di lei, un matrimonio nato dallo sporco connubio delle rispettive famiglie, un matrimonio sterile di ogni minima forma d’ affetto. La donna, un tempo bella e gioiosa, si inaridisce, diventa anch’ essa foglia secca e il marito, già da anni arbusto infruttuoso, la calpesta, giusto per sentire il divertente quanto aberrante suono di quando in autunno schiacci le foglie disidratate lungo un viale costeggiato da alberi spogli. Il destino dei due figli, nati dalla vuota unione di questi corpi, non può che essere tragico. Negata loro la naturale possibilità di essere nati in qualità di frutto d’ amore, rendono la stessa fratellanza limpido idillio amoroso, seppur ai limiti dell’ incesto. Per quanto sporca e spregevole possa risultare una simile unione, è grazie ad essa che i due fratelli riescono a vivere, si dissetano vicendevolmente della rugiada che i loro corpi producono, compensando la mancata trasmissione di linfa che i genitori, aride steppe, hanno perso. Ma non può esserci felicità per persone come loro, per i nati dal pianto la vita stessa non può che essere lacrima. La donna che li ha portati nel suo aspro ventre, incontra con i suoi increduli occhi per la prima volta l’ amore e, non riuscendo a sostenere una simile ingiustizia, si arrende, morendone. Non è per la vista dell’ atto immondo che il suo cuore cede, quanto piuttosto per la triste constatazione di come i suoi figli abbiano trovato Amore, seppur frutto loro stessi dell’ abiura di Amore.

 

 

Ricordo quel giorno perfettamente. Fu in quel giorno, in quell’ attimo che persi Takanori. Persi anche una madre è vero, ma una donna può definirsi madre solo per il semplice fatto di averti partorito? Quindi ripeto: fu in quel giorno, in quell’ attimo che persi Takanori. Un futile, ma fatale errore fece prima stridere e poi cadere in frantumi il nostro castello di vetro. A mio fratello piaceva definire in questo modo il sentimento che ci legava “Ryo il nostro è un castello. Non un castello in mura e cemento, ma fatto di vetro. Noi non abbiamo bisogno di uscire, possiamo tranquillamente starvi dentro e, allo stesso tempo, conoscere il mondo. Delle pareti trasparenti permettono di guardare oltre di esse senza doverci necessariamente allontanare l’ uno dall’ altro. Perciò non abbandonarmi Ryo, non avere paura di Dio, la sua grandezza saprà comprendere e perdonare la grandezza del nostro amore, tanto da dimenticare la nostra fratellanza”. Il mio piccolo fratello è sempre stato un timorato di Dio, lui amava il suo Signore, lo amava anche per me che, invece, negavo con freddezza e cinismo la sua esistenza persino davanti agli occhi di Takanori, quando in lacrime mi chiedeva di pregare accanto a lui. Forse è per questo, forse è per aver messo in dubbio Dio e la Bibbia, anzi che dico, per aver nettamente rifiutato di credere in un Signore e in libro sacro che forse sono stato punito. Lui che ogni sera mi ripeteva la storia del castello di vetro, proprio lui che mi implorava di non abbandonarlo, lui che mi parlava del suo Dio assicurandomi che persino questo avrebbe accettato il nostro amore, ecco….lui, alla fine, se ne andato. Quel giorno il nostro castello di vetro cadde, lasciando a terra e conficcate nella mia carne peccatrice schegge di vetro di un amore ormai andato in frantumi. Nostra madre ci sorprese quella notte, proprio quando più ci stavamo amando e, in preda al delirio, il suo cuore non resse. Ancora mi maledico per non aver chiuso quella notte, per quell’ unica volta, la porta della mia stanza. Inutile fu spiegare a Takanori che non era colpa nostra, che amarsi non era affatto un peccato, che quella era una donna ormai morta da tempo, morta dentro. Io sapevo bene cosa era accaduto, nostra madre non aveva mai conosciuto l’ amore, né con nostro padre, né con i suoi figli, nati ormai troppo tardi per far fronte al suo avanzato inaridimento. Perciò la consapevolezza che proprio noi, rifiuto della felicità, fossimo riusciti a provare amore al contrario suo, gli strinse le viscere così forte da far scoppiare tutti i suoi organi interni. Non la odio per non averci nutrito d’ affetto, è stata la vita a volerle del male e, in fin dei conti, mi ha donato amore indirettamente, generando Takanori.

 

 

Mi donò mio fratello e me lo portò via nel modo più amaro possibile. Il troppo dolore per la morte della madre che, seppur non-madre, lui, da anima pura e buona qual’ era, amava, il troppo senso di colpa per la sua morte, per Dio, per questo amore, profondo amore, ma perverso e sbagliato profondo amore, tutto questo lo portò alla pazzia. È lei, la pazzia che me lo strappò via definitivamente, senza lasciarmi neanche un briciolo di quel piccolo uomo che amavo e che amo profondamente. Avrei voluto fargli dono di tutta la mia forza, quella forza che un fratello maggiore possiede e con cui farebbe di tutto per proteggere il suo fratello minore. Ma la follia era un nemico troppo forte da abbattere, perciò lasciai che Takanori soccombesse sotto di essa ed io con lui. Di giorno in giorno vedevo la malattia prendersi una piccola parte di lui, come se fosse uno spadaccino alla conquista del mondo, alla conquista del mio mondo. Ed io lì inerme, stavo a guardare, mentre questa grande pietra cadeva a poco a poco su di lui, soffocandolo. Persino la mia grande forza, quella del fratello maggiore, nulla poteva di fronte a quella pesante roccia. Le schegge del castello avevano attraversato gli strati del mio epitelio ed erano ormai confluiti nel mio circolo sanguigno. La persona che amavo era impazzita. Tutto ciò che c’ era di buono in lui si era tramutato in malvagità, sembrava alimentarsi di odio e rabbia, voleva autodistruggersi, punirsi per espiare le sue colpe. Sulla sua coscienza pesava la morte di nostra madre, causata dal nostro amore proibito, causata da me. Uccidere me sarebbe stato troppo persino per la sua mente malata, che seppur folle, manteneva intatto un profondo riserbo per la mia persona. Il suo cuore continuava ad amarmi e più questo amava, più il senso di colpa cresceva e la mente impazziva. Si autoinfliggeva ferite allo scopo di punire se stesso, almeno così credevo.

 

 

Scappò di casa durante la notte e venne ritrovato giorni dopo in una baita non lontana da qui. Lo spettacolo che i poliziotti si trovarono di fronte credo tormenterà le loro notti per molto. Takanori era steso a terra, il volto era sfigurato da un profondo taglio sullo zigomo sinistro, altre parti del viso erano gonfie e livide, la maglia stracciata terminava con maniche che cingevano i suoi polsi graffiati dall’ evidente ruvidezza della corda che li legava. Era senza pantaloni, la pelle delle gambe, resa violacea dal mancato flusso di sangue, preparava il campo alla spiacevole visione dei piedi. Tra un dito e l’ altro vi erano conficcati dei chiodi. I poliziotti dissero anche che di fronte al cadavere era stato posizionato uno specchio. Affermarono con sicurezza che non si era trattato di omicidio, bensì di suicidio. Le impronte rinvenute sugli attrezzi usati per la tortura appartenevano a Takanori, non c’ era traccia di altra presenza umana in quella baita, inoltre, essendo ben noti a tutti i suoi disagi mentali, si convenne che l’ ipotesi del suicidio doveva per forza essere l’ unica spiegazione. Me lo comunicarono con visi tristi, ma velatamente sollevati per aver chiuso senza problemi e in così poco tempo il caso di quel ragazzo che aveva fatto crudelmente scempio del suo corpo. Mi dissero che il corpo, essendo fatto di carne, sicuramente aveva sofferto, ma attraverso la sua visione distorta quello non doveva essere dolore, le sue labbra infatti erano chiuse in un sorriso. Tra sangue, ematomi e viti, Takanori era morto sorridendo.

 

 

Tutti, in piedi, ascoltano l’ omelia. Avverto le loro anime alleggerirsi, le sento sempre più felici, sempre più pronte a ritornare alle loro realtà alienate. Loro, venduti, sono oggi così fortunati ad assistere non ad un semplice funerale, bensì al funerale di un ragazzo, non un semplice ragazzo, ma un ragazzo mentalmente instabile, un ragazzo omosessuale, un ragazzo macchiato dall’ infamia dell’ incesto, un ragazzo suicida. Quale occasione migliore per ritornare allegramente alla propria realtà? Ma nel bel mezzo di questi pensieri mi rendo conto. Improvvisamente tutto mi è chiaro, lo specchio, il suo sorriso… come ho fatto a non capire? Credevo che la malattia lo avesse completamente divorato, invece il nostro amore ha continuato a vivere, il castello di vetro si è frantumato, ma le sue schegge, sono entrate nel mio corpo, sono dentro di me, ancora. Il suo autolesionismo non era autolesionismo, lui, nella sua testa, stava ferendo me. Me, il suo fratello maggiore, il suo amante, il suo complice nell’ attentato alla madre, il colpevole, insieme a lui, agli occhi di Dio. È per questo che mi ha portato nella baita, mi ha torturato e mi ha ucciso. Ma il nostro amore continuava a vivere, le schegge del castello erano ancora in me, lui non mi avrebbe mai ucciso, io ero troppo bello, troppo forte e troppo amato da lui. Takanori voleva riversare con violenza la sua rabbia e la sua colpa contro di me, ma io ero Ryo, il suo Ryo, non avrebbe mai potuto, così ha riversato rabbia e colpa contro di lui e lo ha fatto ancora più violentemente. Nella sua mente ero io, nella sua mente mi ha torturato e ucciso, ma nella realtà era lui, si è torturato, si è ucciso. Si è spento sorridendo, guardando la mia/sua dolce morte, chiedendo perdono a Dio per il mio/suo omicidio/suicidio.

 

 

Il funerale termina, mi risparmio le sommesse condoglianze dei presenti ed esco dalla chiesa. Nevica. Spero che continui a nevicare. Mi incammino verso la baita, spero non sia chiusa. Spero di trovare una corda, un coltello e dei chiodi. Spero che ci sia anche uno specchio. Spero che Dio, se esiste, mi perdoni. Spero che Takanori mi stia aspettando nel nostro castello di vetro.

   

 

 

 

 

 

Non importa se non ha senso, se è complicata. Deve essere proprio tutto questo. Un ringraziamento speciale va alla neve. Un altro ringraziamento, meno importante, ma sempre rilevante, va ai miei studi che, seppur talvolta alterino la mia già instabile psiche, stanno forgiando la mia mente e il mio comportamento. Infine vorrei esprimere il mio profondo odio per il formato html che ogni volta mi fa impazzire, come ora che ha fatto andare a capo molte parole, anche se precedute da articolo apostrofato. Per questo mi scuso.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

      

 

 

 

 

  
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