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Autore: Blusshi    02/12/2012    0 recensioni
La potente stella Deneb e il pianeta Uolo si detestano, è in corso la loro seconda guerra.
Uolo si vendica di Deneb che tempo prima lo rase al suolo e rapisce i civili denebiani, deportandoli come schiavi o trucidandoli in massa.
Zara, una bellissima bambina, assiste alla morte della zia e insieme al cuginetto Peter viene trasferita su Uolo, dove l'aspettano un clima insopportabile, ostilità e duro lavoro.
Toccherà a lei cercare di sopravvivere alla guerra, che perpetra feroce e brutale e alle angherie dei uolesi.
Ma i nemici sono tutti mostri, tutti uguali, o Zara troverà qualcuno disposto a tenderle la mano?
Sarà forse l'antica alleanza tra la regina di Deneb, sua madre, e Uolo che l'aiuterà salvare la sua vita e quella dei suoi cari?
Genere: Fantasy, Introspettivo, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
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Il portellone si spalancò all’improvviso sopra le nostre teste.
Una gelida luce straniera mi ferì gli occhi, violenta.
Avevo freddo.
Avevo fame.
Il tempo, lo spazio, l’ora, avevo perso ogni coordinata. Solo il fatto di essere nello stesso stanzone con altre centinaia di persone mi aveva fatto capire che ero ancora in vita. La mia vita?
Non certo quella di sempre, più che altro un insieme di fatti troppo vicini, ma in realtà lontanissimi. Il viaggio, il terribile mese passato in navicella aveva distorto la mia percezione.
Eravamo tutti bestie cieche: che fine avremmo fatto, dove saremmo arrivati una volta finiti quei lunghissimi giorni non lo sapeva nessuno. Alcuni non ce l’avevano fatta a sopportare ventinove stramaledetti giorni ammassati nella stiva della navicella.
Incatenati. Al buio.
Senza cibo e con poca acqua.
Quando quella che i nostri tormentatori ci avevano messo a disposizione era finita, avevamo dovuto bere la pipì. Se provo a ripensare a me qualche giorno prima, fatico a credere di averlo davvero fatto. Però la mia era stata purtroppo una scelta poco felice: morire lì, in mezzo a quei profughi spaventati dal buio, dalla morte e dalla fame oppure vivere, magari per diventare carne da macello per quei vermi schifosi. Puah, mi danno il voltastomaco.
Nonostante cercassi di incoraggiarmi come potessi, avevo paura. Mi dicevo di tranquillizzarmi, ma non riuscivo a togliermi dalla testa l’ultimo ricordo della zia che cercava di salvarmi.
Per il resto non riflettevo, non pensavo, non ricordavo.
Avevo paura.
Piangevo troppo.
Immersi nel risucchio nero di quella cella mortale, centinaia di bambini, alcuni anche più piccoli di me, mi fissavano con gli occhi stralunati, da pazzi.
Mi facevano una pena…non sarebbero sopravvissuti neppure al viaggio.
E certi adulti erano uguali, i loro occhi erano buchi pieni di un terrore da animale.
È così che non si sopravvive.
Nemmeno io so come feci a mantenere in vita mio cugino Peter.
Mi sentivo quasi in colpa per averlo “salvato”, per avergli permesso di venire catturato come una bestia assieme a me.
Anche se l’avevo aiutato a non morire cercando in ogni modo di trasferirgli un po’ della mia forza vitale–ne avevo fin troppa per le circostanze- mi sentivo un vuoto a perdere.
Una volta una signora mi aveva fissata come per dirmi se ti senti così tu, che non avrai manco dieci anni, pensa a me che di certo ho più responsabilità di te!
Io avrei voluto guardarla male male per dirle che io di responsabilità ne avevo parecchie, ma alla fine avevo desistito; non ha senso combattere in un buco dove non c’è abbastanza spazio per tutti e ottocento.
 
Quando il portellone si aprì sentii quella luce che quasi mi accecava, ma mi sembrò una ventata di libertà: era da troppo che senza dignità mi ero costretta a masticare pezzi di vestito, a respirare aria infetta: da più di ottocento che eravamo, infatti, alla fine del viaggio di noi non era rimasta che un’abbondante metà.
Gli altri, morti.
Io avevo preferito cercare di mangiarmi il vestito.
Quella luce spettrale e fortissima mi bruciava la pelle.
Per troppo tempo ero rimasta chiusa nell’oscurità.
Mi sentivo anche debolissima.
Coraggio, ancora un po’…
Lo dissi più a me stessa che a Peter, pompandogli nel corpo tutta l’energia vitale necessaria a farlo alzare in piedi e a camminare.
I vermi gridarono qualcosa nella loro lingua grottesca e incomprensibile, mentre calavano dall’altro una scaletta troppo sottile pericolosamente ricoperta di ruggine umida, dall’odore sanguigno.
Volevano che uscissimo.
Non avevo mai visto Uolo e nemmeno ci tenevo.
Me l’ero sempre immaginato come un posto brullo e devastato, con gli alberi tutti congelati, il cielo rosso cupo, montagne altissime, buio spettrale.
Mi immaginavo le disgustose sanguisughe vivere in tane sotterranee per sfuggire al vento.
Immaginavo un vento freddissimo, tanto freddo da stracciare la pelle.
Ma quando uscii dalla navicella, tenendo il braccio di Peter intorno ai miei fianchi, un’aria rovente e soffocante mi infiammò i polmoni, facendomi tossire violentemente.
Guardai ansimante la distesa di alberi arsi vivi che costeggiava uno strano fiume giallognolo, sotto un cielo violetto.
Un odore tossico di zolfo mi prese lo stomaco.
La luce continuava a pugnalare le mie pupille, mentre mi sentivo gli occhi rossi e gonfi per via dello strano vapore che saliva dal fiume.
Vidi i vermi che ci buttavano dentro quelli che erano morti, uccisi da quel viaggio mostruoso.
In non più di cinque secondi i loro resti si degradarono e sparirono, ribollendo.
Peter sobbalzò, stringendo la presa.
I vermi ci rincatenarono e noi iniziammo la nostra marcia attraverso l’inferno.
Dov’erano i giardini della mia casa?
Dov’era la mamma?
Dov’era l’acqua dove mi buttavo quando avevo troppo caldo?
Iniziai a piangere, senza ritegno.
E non so se fosse colpa dei vapori.
 
 
Avevo sempre pensato di essere una brava bambina che non si comportava mai da bambina.
Beh, insomma, quasi mai…
Ma forse mentre attraversavo l’inferno, incalzata dai vermi e dagli altri disperati, mi resi davvero conto di quanto fossi ancora piccola: di punto in bianco scoppiai a piangere, chiamando la mamma.
Peter –ero il suo punto di riferimento- mi seguì a ruota.
Non riuscivo a respirare perché ogni volta che aprivo la bocca, tra un singhiozzo e l’altro continuavo a fare entrare altra aria, che mi bruciava la gola.
E allora piangevo ancora più forte perché oltre che avere paura e volere la mamma mi sentivo immersa nel fuoco.
No, non ce la potevo fare.
Sapevo che alcuni di noi erano durati pochissimo per via di quell’atmosfera tossica e irrespirabile.
Allora mi venne una grande idea.
Io ero capace di alzare tutto quello che volevo. Non so come mai.
Ognuno ha pregi e difetti; i miei difetti erano essere capricciosa, esagerata, un po’ troppo competitiva e decisamente troppo esuberante, ridere da fuori di testa, andare in visibilio per ogni cosa luccicante che vedevo e mangiare solo quello che volevo.
Però in compenso sapevo essere mite e ragionevole (quando ne avevo voglia), altruista, gentile, molto allegra, sapevo saltare molto alto, muovermi velocissima, stare molto tempo sott’acqua e per l’appunto avevo un po’ di forza.
Quando ero ancora a casa della zia e i vermi ci avevano attaccati, ero riuscita a scappare con Peter e ci eravamo nascosti nel buco di un albero.
Poi il verme ci aveva scoperti : gli avevo letto in faccia che intendeva tirarci fuori e ucciderci con la sua scure.
E io mi ero arrabbiata, tanto.
Senza nemmeno pensarci avevo puntato un dito, dritto verso il centro del suo corpo, e non so come e neanche perché ma un fascio sottile e luminoso, aveva trapassato il verme, da parte a parte, così come la casa della zia che gli stava dietro. Mi ero sentita fortissima.
Ecco, se mio padre fosse stato lì sarebbe stato orgoglioso di me, anche se io di solito non faccio come lui che si crede il padrone dell’universo, uccide e distrugge tutto ciò che non gli piace o forse gli piace troppo.
Peter aveva iniziato a piangere e mi aveva abbracciata; ero potentissima e potevo salvare tutti, così mi ero sentita.
Fatto sta che non ero mai più riuscita a rifarlo; e così eravamo stati presi.
L’idea che mi venne in mente era di provare a resistere il più a lungo possibile senza respirare.
Feci due più due e pensai che se riuscivo ad apparire vicino alle persone senza che queste sapessero quando ero arrivata, allora restare in apnea per un po’ era assolutamente alla mia portata.
Scoprii così che i miei polmoni non soffrirono subito per la mancanza d’aria e dopo un buon quarto d’ora ero ancora riuscita a non respirare senza stancarmi. Purtroppo non potevo fare niente per Peter: lui non aveva le mie stesse possibilità, di questo ne ero fin troppo certa.
Mi misi a sperare con tutte le mie forze, anche fisiche, di non dover vedere mio cugino cadere a terra morto, come avevano fatto molti dei sopravvissuti al viaggio.
Dopo un tempo che mi sembrò infinito, la nostra marcia si arrestò di fronte a una specie di casa grande che sembrava fatta di ossa di dinosauro.
Ci ordinarono di entrare.
“Zara…aiutami…”
Sentii il braccio di Peter che scivolava via dal mio vestito.
No! Non adesso! Tieni duro!
Lo imploravo di resistere, di non morire.
Avanti, avanti!
Gli schiaffeggiai la faccia, ma niente da fare, era svenuto.
Non osavo nemmeno pensare che fosse già morto.
Ma una volta dentro la casa grande, mio cugino prese a tossire e a respirare grande boccate d’aria.
Come lui fecero anche tutti gli altri.
Allora provai anch’io a respirare per vedere cosa succedeva.
L’aria che inspirai era piacevole, fresca e non sapeva di niente.
Mi sentii sollevata: la fortuna ci aveva aiutati, appena in tempo.
Senza lasciarci nemmeno un minuto, i vermi si presero ciò che restava di noi, dividendo adulti e bambini. Alcuni non fecero una piega, distrutti da tutto quello che avevano passato, altri presero a urlare e a piangere da far pietà, guardando la mamma, il papà, il figlio, la figlia o l’amico del cuore sparire dalla loro vita.
Ringraziai il fatto che Peter e io fossimo entrambi bambini, io quasi sette anni e lui otto, e quindi non potevano dividerci.
Sapevo che senza di me Peter non sarebbe vissuto un minuto e io senza di lui avrei perso la mia unica certezza e forse sarei diventata scema.
Noi bambini venimmo portati via da un gruppo di vermi.
Gli adulti non li rividi mai più.
Eravamo pochi, si e no, trenta, gli altri erano morti.
Sentendo i vermi parlare, una gran paura mi invase: io non capivo il uolese, non l’avevo mai capito, nemmeno sui cartelli che vedevo a casa.
E se mi avessero ammazzata perché non capivo quello che dicevano e quindi non obbedivo? Ma poi mi riscossi e sfiorai il mio cerchietto: io non dovevo obbedire e inoltre me l’ero sempre cavata.
Cercavo di non dimenticare che, volente o non, ero stata io a uccidere quel uolese che voleva ammazzarci.
Non dovevo avere paura di loro.
Avevo una dignità da difendere e loro erano vermi schifosi, senza nemmeno le gambe, bianchicci, che si muovevano strisciando per terra.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Per prima cosa ci lavarono tutti.
Poi ci misero in fila con i vestiti tutti fradici ancora addosso.
 Poi iniziarono a rasarci i capelli.
Sapevo perché lo stavano facendo: nel ventesimo secolo sulla Terra c’era stata una grande guerra e in questa guerra prendevano un certo tipo di terrestri e gli facevano esattamente quello che i vermi avevano fatto a noi; e li rasavano così almeno non si riempivano di insetti parassiti.
Quando arrivarono a me, uno dei vermi disse in denebiano: “Però questo lo prendo io…”
Fece per togliermi il cerchietto d’oro, il mio cerchietto.
“GIU’ LE MANI!” strillai.
Gli altri bambini mi guardarono spaventati, Peter si sporse incautamente e urlò: “Guarda che Zara è forte. Lasciala stare o ti farà a pezzi”.
Glielo sentii sussurrare, ma in quel momento non ero più così sicura delle mie risorse.
Il verme sorrise maligno e fermò quello che stava per rasarmi: “Lei no! Sono così belli…”
Poi indietreggiò e passò oltre.
Avrei forse dovuto ringraziarlo per non avermi toccato i capelli?
Avrei avuto tutto il tempo del mondo per accorgermi che era una crudeltà.
 
 
 
 
Qualsiasi cosa fosse il piatto di brodaglia nerastra che mi avevano messo in mano, non mi azzardai a toccarlo, tanto di fame non ne avevo nemmeno un po’.
Mi facevano pena gli altri bambini che invece si ingozzavano, si sbrodolavano, facevano rumore.
Diedi il mio piatto a Peter, che ci tuffò mani e faccia con beata soddisfazione.
Beh, di una cosa potevo stare tranquilla: non era nei loro piani farci morire di fame.
Restai nel limbo fatto di quella stanza e di sbobba per forse una settimana.
Mi sentivo terribilmente sporca, spaurita, senza speranza; forse anche io avevo gli occhi da matta.
Eravamo nel buio più completo e Peter e gli altri mi sembravano tanti topi di fogna.
C’era una bambina, la più piccola, che stava morendo.
Riuscii a salvarla cercando di passarle la mia energia e dandole il mio cibo, come avevo fatto con Peter; in compenso io mi nutrivo di lacrime e nostalgia.
Dopo molti giorni ci divisero in gruppi da dieci: spiegarono in denebiano che al gruppo dove c’eravamo Peter e io toccava andare a tessere tappeti.
Ma sì, avevo letto anche questo: gli adulti alle fonderie e all’industria pesante, noi che eravamo piccoli ai lavori di precisione oppure nelle case.
Ero tranquilla perché Peter era ancora con me; magari andare in una casa per lui sarebbe stato meno faticoso, ma chi lo sapeva cosa gli avrebbero fatto fare?
Il verme spiegò che il nostro lavoro era tessere i tappeti e che saremmo stati ricompensati ogni giorno; la ricompensa consisteva in un cucchiaio di sciroppo, uno sciroppo molto speciale che serviva a non morire intossicati da quell’aria infernale.
Io ne avrei fatto a meno e avrei usato la mia dose per chi all’occorrenza ne aveva più bisogno, decisi.
 
Ci portarono a lavorare il giorno stesso.
A me e agli altri bambini grandi diedero un volantino; c’era scritto che non potevamo uscire dalla stanza per nessuna ragione, che non potevamo alzarci per nessuna ragione, che non potevamo lamentarci per nessuna ragione.
Non si poteva andare in bagno, a dormire o a mangiare: si faceva tutto nello stesso posto dove si lavorava, uno spazio minuscolo fra un telaio e l’altro.
Mi misi a piangere.
Il verme mi tirò uno schiaffo e urlò che pianti e lacrime non erano tollerati.
Poi ordinò a una ragazzina più grande di spiegare tutto ai più piccoli che non avevano letto il volantino.
Non sembravano tanto sconvolti, i piccoli, ma forse non sapevano nemmeno quello che stava succedendo.
 
 
Man mano che i giorni passavano senza potermi permettere di restare pulita, mi accorsi di quanto fosse pesante la punizione che mi avevano inflitto per non aver obbedito, per non aver ceduto loro il mio cerchietto d’oro.
Era terribile lavorare lì; le dita sanguinavano a forza di manipolare i fili spessi e di strisciare sulle corde del telaio, il caldo, la puzza, le scudisciate.
Già, come se tutto questo non fosse sufficiente fui costretta a iniziare una guerra contro gli insetti che mi si appiccicavano in testa: ogni volta che mi toccavo i capelli mi toccava strappare via una di quelle orrende bestiacce.
Faceva male, malissimo.
Tutta la testa era piena di ferite, ormai non riuscivo neanche più a passarci le dita per pettinarmi.
Max, un ragazzino al telaio dietro di me, mi aveva spiegato che erano zecche che succhiavano il sangue.
“Zara, ma pensi che ti succhieranno anche il cervello?” mi aveva chiesto Peter una volta, tutto spaventato.
“Quale cervello? Mai avuto uno…”
Io cercavo sempre di buttarla sul ridere, anche se temevo di essere stata contagiata dal dubbio.
Allora ero corsa tutta preoccupata da Max e gli avevo chiesto se sul serio tutte quelle zecche avrebbero finito per succhiarmi via il cervello.
Max si era messo a ridere dicendomi che solo gli zombie dei film terrestri succhiano il cervello.
Quella notte avevo dormito più tranquilla.
 
 
 
 
 
 
Sempre Max mi aveva spiegato che ogni tanto i vermi facevano ispezioni sanitarie: prendevano qualcuno e se lo portavano via dicendo che volevano visitarlo.
Solo che nessuno era mai tornato da quelle ispezioni per raccontare come fosse andata.
 
Saranno state tre settimane che ormai ero su Uolo.
Ogni tanto pensavo ai miei genitori: perché non erano ancora venuti a prendermi?
Mi sentivo sola e abbandonata e mi arrabbiavo: non mi volevano bene, non mi cercavano neanche perché tanto io ero la più piccola, avevo tre fratelli più grandi che potevano rimpiazzarmi.
Poi mi ricordavo che però c’era di mezzo la guerra e allora mi vergognavo tantissimo per aver pensato male di loro.
Cercavo di considerarmi fortunata.
Pensa a Peter, che ha perso la mamma e la sorella…
Un giorno il padrone della fabbrica di tappeti ci fece uscire tutti dalla stanza.
Ormai anche gli altri sopportavano l’aria, lo sciroppo li aveva salvati.
Fuori c’era un altro verme con il quale il nostro carceriere si mise a discutere.
Mi sforzai di aguzzare le orecchie e di cogliere qualche parola di uolese per cercare di mettere a fuoco il discorso.
Niente. Ma uffa!
Poi ci divisero.
Mi allarmai: io da una parte, Peter dall’altra.
No, non separateci!
Cominciarono a incamminarsi con mio cugino e il suo gruppetto.
Poi il padrone della fabbrica prese me e gli altri e si avviò: “Vi piacciono gli animali, bestie strane?” disse.
Io ringhiai.
Ci portarono in una specie di arena tutta piena di sabbia, battuta dal vento.
Una strana sensazione si impadronì di me: non sapevo cos’era, ma ero sicura che a infonderla fosse il rombo sordo che sentivo vibrare sotto il terreno.
La vibrazione penetrò nelle mie gambe e da lì mi risalì tutto il corpo, fino a farmi battere il cuore a velocità doppia.
Percepii qualcosa, una presenza, un’ombra, sotto i nostri piedi.
E allora seppi cos’era.
Significava pericolo.
“Zara perché hai paura? Cosa succede?”
Cavoli Peter non senti qualcosa sotto terra? Miseria, lo si sente da in cima a una montagna, come fai, come fate voi tutti a non accorgervi di nulla?!
Avevo preparato all’attacco ogni muscolo del mio corpo, Peter aveva avvertito il mio disagio e mi ricordai che probabilmente solo io ero in grado di percepire l’energia altrui.
Peter, corri via…CORRETE TUTTI!
Tutt’ad un tratto uno dei vermi tirò una leva che aprì una voragine al centro dell’arena, lontana da me, troppo vicina a Peter.
Di nuovo quella vibrazione ovattata.
Peter…fai in fretta!
All’improvviso mi parve di correre con gli occhi della mente, superando la distanza fra me e il buco per terra, di scendere lì dentro a velocità folle, fino ad arrivare sul fondo, dove gli occhi di un mostro mandavano bagliori.
Riuscii a distinguere un suono, un ruggito.
Quella specie di visione mi abbandonò appena in tempo, proprio mentre il verme –come a rallentatore- metteva in fila Peter e gli altri sul bordo della voragine, preparando il fucile.
Non seppi come successe, ma avvertii la mia energia latente risvegliarsi dal suo stato di quiescenza. Mi sentii come percorsa da scariche elettriche, la rabbia salì tutta in una volta insieme al raggio perforante: velocissima tesi il braccio e puntai il dito contro il verme, sbriciolandogli la testa.
Gli altri guardarono terrorizzati.
“Figlia dell’inferno!”
Un altro dei vermi si allontanò da me e tirato fuori un fischietto, emise un sibilo acuto e lungo.
Tutti i miei compagni scapparono, mentre un terremoto ruggente scuoteva l’arena.
Finalmente eccolo, l’immenso leviatano: emerse dalla sabbia, enorme, mentre io quasi non riuscivo a muovermi.
Ero io sola, sulla sua traiettoria.
Era uno scorpione, gigantesco e affamato; lo vidi puntarmi contro un pungiglione affilatissimo, lungo almeno il doppio di me.
Sei morta: se ti becca SEI MORTA!
Presi a correre così veloce che mi sembrava di volare, mentre sentivo il mostro inseguirmi.
Non pensai più a Peter, né all’orrore di Uolo, né alla mamma, né a me stessa, quando sentii il fuoco più bruciante dell’universo trapassarmi una gamba.
   
 
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