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Autore: Marguerite Tyreen    05/12/2012    6 recensioni
E' la primavera del '68, quando Robert Plant, semisconosciuto cantante di provincia, si ritrova ospite nella casa sul Tamigi del famoso chitarrista degli ex Yardbirds Jimmy Page, alla ricerca della voce giusta per il suo nuovo gruppo. Così, tra dischi e ispirazioni, sogni e progetti, alchimia e una confidenza che si fa strada pian piano, inizia a tessersi la trama di quella leggenda chiamata Led Zeppelin...
***
-Esprimi quello che senti: seguimi e io seguirò te. - gli soffiò.
Robert arretrò, fino a toccare il muro con le spalle.
-Stai bene, Plant? Scusa, ti ho spaventato?
-Mi sono lasciato suggestionare. È che c'è qualcosa in questa stanza, come una forza strana, qualcosa di elettrico...
La mano di Page si posò delicatamente sulla sua gota: - E' tutto normale: si chiama Ispirazione. E noi l'abbiamo. - sorrise accomodante – E' fatta, ragazzo!
Genere: Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Buonsalve, fandom! *-*
Scartabellando tra le ventordicimila storie che ho scritto, annotato, appuntato e nascosto sui Led, è saltata fuori questa creaturina.
Ed essendo uno dei rari casi in cui il melodramma non la fa da padrone, ho pensato di postarla ^^
Spero che vi piaccia e vi ringrazio per essere passati: un bacio grande,

Marg.


 

A E.
come buon auspicio
per *quel* nostro progetto ♥


 



I`m just looking for an angel
with a broken wing.
(Jimmy Page)



 

Quella Casa a Pangbourne

 

 

 

 

Pangbourne, 1968. Primavera.

Il Tamigi scorreva placido, nel sole del primo pomeriggio, facendo cigolare ritmicamente gli ormeggi arrugginiti delle poche barche attraccate. L'aria portava con sé l'odore dell'estate in arrivo, assieme a quello penetrante dei tigli.
Robert attraversò il ponte, che oscillò appena sotto i suoi passi, eppoi il patio. Respirò profondamente, prima di bussare alla porta. L'indirizzo doveva essere necessariamente quello: quando era arrivato in paese e aveva chiesto di Mr. Page, lo avevano spedito alla casa galleggiante sul fiume, col portico di legno su tre lati, le sedie di vimini di fronte all'ingresso principale e un dondolo in ferro battuto dinnanzi a quello secondario.
Nessun altro posto sarebbe indicato per quel tizio”: i suoi concittadini avevano storto il naso davanti alle informazioni che aveva chiesto e Plant non aveva saputo dire se la causa fosse la pessima reputazione di cui godeva il chitarrista oppure il proprio aspetto inusuale e forestiero.
Ma stava temporeggiando. Bussò una volta, anche se non pareva esserci anima viva.
Bussò una seconda, quando vide un'ombra agitarsi dietro le tende traslucide.
Una terza, con più decisione.
-Arrivo! - gli gridò una voce femminile da dentro - E che diamine, un attimo di pazienza, per il culo della Regina. Salve!
-Sa... salve. - replicò, non sapendo dove posare lo sguardo, se sulla stazza monumentale della sconosciuta, sul viso di età indefinibile ma tutt'altro che adolescenziale, sul sigaro da marinaio che le pendeva all'angolo della bocca o sul sacco nero della spazzatura che reggeva in mano, assieme al manico di scopa.
-Deve aver pazienza, il signor Page è un bravo ragazzo, ma strimpella sempre quell'accidenti di chitarra, che il diavolo se la pigli. Non c'è pace un minuto e naturalmente non si sente nulla quando... Ma lei non sembra quello della volta scorsa.
-Quello della volta scorsa, chi?
-Ma l'idraulico, no? Il rubinetto del lavello perde da due giorni e il signor Page mi sta facendo diventare matta perchè non riesce a concentrarsi. Dico io: ma se non riesce a lavorare, perchè deve sfracassare l'anima a me, che devo lavorare anch'io, perdiana?
Robert non la seguiva più. Ci mancava anche quella tizia che macinava parole su parole, ad aggiungere ansia alla sua ansia. Almeno era sicuro che fosse la casa del signor Page.
-Veramente io... non sarei l'idraulico. Ma ho fatto l'asfaltatore, magari posso comunque dare un'occhiata.
-Ma se non è l'idraulico, perchè è qui? - alzò un sopracciglio con diffidenza.
-Per vedere il signor Page.
-Il signor Page non può essere disturbato, quando compone. È tassativo, giovanotto. Tas-sa-ti-vo.
-Mi creda, signora. - si portò la destra al petto, con aria accorata, cercando le maniere più urbane che avesse imparato – Mi chiamo Robert Plant e sono atteso dal signor Page.
-Non sta aspettando proprio nessuno. - borbottò, caricandosi in spalla il sacco della spazzatura con la grazia di uno scaricatore di porto di Liverpool – E io qui ho finito, per oggi. Quindi, se vuole togliere il suo... - gli scoccò un'occhiata rapida – grazioso fondoschiena dal portico, sarebbe meglio.
-Ma io sono stato invitato qui da Jimmy Page personalmente. - protestò, cominciando a sentirsi stupido e impacciato.
-Aspetti! Come ha detto di chiamarsi? Mi aveva parlato di un certo Pattinson, no... Parker, forse? Nemmeno. Perry, Price. Qualcosa con la P, comunque. Plant! Non si chiama Plant, lei?
-Sì... - ammise con un filo di voce, scrollando i riccioli biondi.
-E non poteva dirlo prima? - gli stritolò la mano nella sua.
-Io l'avevo...
-Vada dentro, su. - commentò cacciandogli qualche vigorosa pacca sulle spalle.
-...detto.
-Signor Page, è arrivato un certo Plant, quello che canta. Perchè lei canta, no?
-Diciamo di sì.
-Ah, bene: anch'io, mentre lavo il pavimento. Migliora l'umore. Salga le scale, terza stanza a sinistra è la sua. Bussi prima di entrare e non si faccia spaventare. È eccentrico, ma non morde.
Gli chiuse l'uscio dietro la schiena.
Deglutì. Era ufficialmente in trappola, si disse, avviandosi per i gradini di legno.

 

La porta era aperta, diversamente da come aveva immaginato. E lui vi dava le spalle, seduto su una seggiola rivolta alla grande bowindow che affacciava sul fiume. Stava suonando la chitarra acustica, riempiendo la stanza di una melodia imprecisa, improvvisata, dai riflessi antichi.
Bussò allo stipite, piano, temendo di interromperlo. Lui non si voltò e rimase altri cinque minuti buoni a cercare un accordo che non lo soddisfaceva.
-E' terribile, non è vero? - gli chiese, rimanendo a contemplare l'acqua al di sotto.
-Era bellissima. - rispose, non sapendo articolare niente di più originale, da stare sulla soglia.
-Non serve che mi aduli. Ti scritturei comunque.- posò lo strumento e finalmente si alzò, venendo verso di lui.
Nella luce biancastra che avvolgeva la stanza, Page aveva un'aria mistica, magica e allo stesso tempo fragilissima. I capelli neri, lunghissimi, ricadevano sulle spalle incorniciando un viso alabastrino, pieno e delicato, su cui riposavano due occhi assorti e vagamente verdi. Il pallore era sottolineato dal colore violaceo della camicia di seta, che si abbinava disastrosamente ai pantaloni in principe di galles e ai calzini rossi.
-Vieni avanti, Robert. - gli tese la mano, invitandolo ad entrare nella stanza. Plant gli porse la propria, maledicendo immediatamente l'errore di aver fatto finire nel suo palmo le proprie dita, anziché aver replicato con una stretta virile, come avrebbe voluto l'etichetta.
L'altro sembrò non darci peso e non voler nemmeno interrompere quel contatto, con la confidenza di un vecchio amico.
-Hai incontrato Etty, da basso, immagino.
-Sì. - rise appena – E' un personaggio.
-E' una cara e ottima governante. Sì, insomma, non sono in tante ad accettare di cucinare per un musicista pazzo dai capelli troppo lunghi. - si strinse nelle spalle – Fatto buon viaggio?
-No, terribile. L'unico passaggio che ho trovato è stato sul cassone di un pickup.
-Da Birmingham a Londra c'è un treno, se non ricordo male. Non ami i treni? - sorrise, lasciando la presa che stava durando troppo a lungo.
-Sono i treni che non amano i passeggeri senza biglietto. - si vedeva lontano un miglio che Jimmy non aveva mai dovuto farsi troppi conti in tasca, non di recente almeno.
Page si morse la lingua: - Se me l'avessi detto, ti avrei lasciato i soldi necessari.
Plant sorrise, a disagio, davanti a quell'isospettabile elargizione di generosità. Si diceva di lui che fosse di un'avarizia al limite del concepibile.
-Figurati, un po' di avventura fa sempre bene.
-Spirito bohemien?
-No, spirito di adattamento. - sorrise di nuovo, ancora più timidamente, guardandosi le punte dei piedi. Quell'uomo gli metteva soggezione, un po' perchè era un artista affermato e lui non aveva mai incontrato persona più famosa del parroco di Birmingham, un po' perchè era impossibile stabilire di quanti anni fosse più vecchio di lui, per sperare di trattarlo alla pari.
Poi quella casa era piena di oggetti inutili e eccessivamente raffinati, tra cui un telescopio puntato verso il cielo, accanto al davanzale, un divano coperto di una tappezzeria floreale, un tavolino basso da fumo, con le gambe tortili, pieno di riviste e libri e infine un grammofono con la conchiglia d'ottone, sommerso tra i vinili. Uno di quelli che avrebbe sempre voluto acquistare, ma per il quale non aveva mai trovato il denaro sufficiente.
Il suo spirito di adattamento non doveva valere proprio granchè, se adesso si sentiva così fuori luogo.
-Siediti. - gli disse lui, con un cenno lieve, indicandogli il sofà – Oh, cielo, Plant! Non sarai così timido anche sul palco, vero? La sera scorsa non lo sembravi. Non ti sentirai studiato? Non sto facendoti un esame. Voglio solo capire se abbiamo la stessa visione delle cose. Se sì, tanto meglio; se no, penso ne tireremo fuori qualcosa di buono comunque. Prendila come una chiacchierata tra amici.
Si sentiva trattato come un bambino, forse perchè si stava comportando come tale. Si sedette sul bordo del sofà e il gesto non sfuggì a Page, che gli rivolse un sorriso obliquo.
-Lo vuoi un caffè? Una tazza di tè, qualcosa? Sarai affamato, no?
-Un po'. - ammise, dopo parecchio tempo.
-Ecco, così va meglio.

 

Aveva scaldato il caffè e riempito un vassoio di sandwiches e biscotti. Da quanto ne sapeva, Plant viveva di sigarette e tè al miele, di nottate al microfono e giorni a spargere catrame, tra la casa della sua ragazza e la stanza squallida sopra il pub in cui si esibiva. Non gli sembrava nemmeno così strano che si sentisse in bilico su una corda tesa: quel lavoro gli serviva eccome e non poteva permettersi un passo falso proprio adesso.
Versò il caffè nelle tazze, scrollando la testa.
Povera creatura, così tanti anni che si barcamenava per due penny e si faceva il culo nelle peggiori bettole, cantando per quattro ubriachi, per non ritrovarsi niente tra le mani.
Era ridicolo quel moto di tenerezza che si accorse di star provando. Robert Plant non aveva nulla, né nell'aspetto né nel vissuto, che gli ricordasse la propria adolescenza. E lui non riusciva a spiegarsi cosa ci fosse di tanto commovente in quel ragazzo da riuscire ad ispirarlo, da farlo scattare come una molla, quando lo sentiva cantare, al punto da renderlo inquieto per lunghe ore.
Forse erano gli occhi azzurri, un po' spaesati, che osservavano le cose come se le vedessero per la prima volta, con un'adorabile innocenza. Forse erano le labbra piegate in un broncetto riflessivo oppure in un sorriso talmente splendente da illuminarlo completamente. O forse era la matassa di riccioli dorati, che si agitavano vivaci sotto il suo temperamento a tratti impetuoso. Per il resto era un qualunque adolescente della provincia, infagottato in una camicia bianca di taglio medievale, alla ricerca del suo successo, del suo riscatto e di un sogno musicale che a volte lo illudeva per qualche istante, prima di continuare ad allontanarsi.
Si avviò verso lo studio, al piano di sopra. Lui, ancora seduto sul bordo del divano, teneva le mani tra le ginocchia e guardava con curiosità il telescopio.
-La sera, quando è limpido, si vedono le stelle. - prese a spiegare, mentre scostava dal tavolino i libri e vi posava sopra il vassoio – E la luce della luna si riflette sulla superficie dell'acqua. Spesso porta una buona ispirazione. Se il tempo resta clemente, potrai vederle, questa sera.
Robert annuì con entusiasmo: - Non credo di aver mai usato uno di questi arnesi in vita mia.
Improvvisamente Page capì che era quella spontaneità a intenerirlo. Non aveva mai avuto molti idoli, da che era al mondo, e le poche persone alle quali si era davvero affezionato erano frutto di attese ventennali o di folgorazioni improvvise. Temette che una di quelle folgorazioni improvvise si fosse messa sulla sua strada, avvolta nelle forme sinuose di un ragazzo di Birmingham.
-Avrai parecchie cose da raccontare, quando tornerai a casa, allora.
-Non credo che a casa interesseranno queste cose. - si lasciò sfuggire con amarezza.
-Mangia, su. - gli spinse sotto il naso il piattino dei biscotti – Raccontami un po' di te, dai. Voglio dire, se ti va.
Plant piluccò un biscotto e mandò giù un robusto sorso di caffè: - Sono scappato da casa. - rispose, guardandolo da sopra l'orlo di ceramica della tazza – Mio padre non voleva che facessi il cantante, non a livello professionale, almeno. Finchè era stata una passione di poco conto aveva sopportato. Così un giorno mi ha detto: “se vuoi fare il saltinbanco, sei liberissimo: ma non lo farai col mio appoggio. Quella è la porta”. Lasciai un lavoro sicuro da contabile e me la filai. Per un po' sono stato da un amico, un batterista in gamba, un altro po' dalla mia ragazza. Ho sbarcato il lunario.
-Lo sai, Robert Plant: tu mi piaci. - aggiunse, con gli occhi bassi – Non apprezzo molte persone, ti assicuro. Intendo dire che mi piace questa tua risolutezza. Hai avuto del coraggio a lasciare tutto per un sogno.
-Tu non ne hai avuto?
-No, no. - si rigirò la tazza tra le mani – Ho solo avuto tanta pazienza ad imparare quello che so. Per il resto, mia madre mi ama più di se stessa e ha sempre preparato una tazza di tè caldo per quei quattro sognatori che le invadevano il salotto. E mio padre mi ha concesso parecchia libertà, per i tempi che erano. A volte va così. Ma vedrai che avranno ragione di essere orgogliosi di te, un giorno o l'altro.
Le sue parole sembravano averlo rincuorato: - Che cos'è la musica per te, Jimmy Page?
-Beh, cominci con le domande difficili, ragazzo mio. - Page prese un respiro profondo – Suppongo che non sia questione di tecnica, ma di emozioni. Una specie di contatto tra quello che siamo e il tentativo di esternarlo, dandogli forma. Il più alto di questi contatti, perchè non richiede niente di convenzionale e raccoglie in sé le più profonde energie della Natura. Non trovi?
-Ci avessi capito qualcosa, ti risponderei. - addentò un altro biscotto, con minore discrezione, questa volta – Per me è sempre stato qualcosa che si agita dentro.- si portò la mano al ventre – Qualcosa che emoziona, che si rimescola quando sono sul palco. Come un fuoco: come se passione, amore e dolore si mischiassero insieme in quello che stai cantando. E quando hai dato tutto, attraverso una canzone, ti senti soddisfatto e esausto, come dopo... posso dirlo?
-Ma sì! - rise – Non penserai che sia un puritano!
-Come dopo una bella scopata! - arrossì, nascondendosi dietro la tazza del caffè.
Page rise sonoramente: - Oh, finalmente! E dimmi un po', cos'è che ti fa agitare questo fuoco? Cosa ascolti di solito? - gli indicò la pila dei dischi – Vai e metti quello che ti piace. No, finisci di mangiare, prima.
Robert, ora che aveva preso un poco di confidenza, si era avventato su uno dei sandwiches come se non mangiasse decentemente da giorni. Page sorrise, con una certa tenerezza, sbirciandolo quel poco che l'educazione gli consentiva, mentre armeggiava col giradischi. Le ciglia di seta chiara gli adombravano le gote con una delicatezza che gli era nuova. E il colore dei suoi capelli era talmente luminoso che Jimmy pensava di poterci perdere le ore ad osservare ogni riflesso ramato di quei riccioli.
-Questa ti piace? È l'ultima di Joni Mitchell: non è geniale?
-Scherzi? Questa canzone è... è... - si cacciò in bocca i resti del sandwich, precipitandosi al suo fianco, sul tappeto. Era talmente elettrizzato che gli posò il braccio sulla spalla, per avvicinarsi meglio. Sfogliò i suoi vinili come fossero state relique, con lo sguardo che gli brillava: - Ma hai anche Muddy Waters e Chuck Berry. Io credo di averli consumati i loro dischi, sai. E Babe, I'm gonna leave you della Baez. L'ho amato fino alla nausea. E Hellhound on my Trail, di Johnson: quanto l'ho cercato senza trovarlo. E... e At least: non avevo abbastanza soldi da permettermelo, quando uscì. Page, cavolo, ma tu possiedi una fortuna! Ti rendi conto?
Il chitarrista si strinse nelle spalle: - Beh, ci ho studiato sopra.
-Non essere modesto: è la collezione che ho sempre sognato e non ce n'è uno che non mi piaccia. - sollevò uno dei vinili con le mani che gli tremavano – Oddio, questo è Elvis! Sai che da bambino volevo diventare come lui? Love me è il mio preferito. Posso... posso metterlo?
-E me lo chiedi? - sorrise, guardandolo mentre toglieva il disco precedente con un'attenzione minuziosa per sostituirlo con quello nuovo.
Se glielo avessero raccontato, non ci avrebbe creduto. Gli sembrava impossibile passare un'intera serata con uno sconosciuto cantante di provincia ad ascoltare Elvis, discutere di blues e di rock e tentare di mettergli in testa che no, certi deliri psichedelici non erano proprio necessari all'effetto che voleva ottenere. Era confortante che Plant condividesse con lui una sorta di personale visione della musica. Ma non lo era il fatto che, ora, per la stanchezza del viaggio e la tensione allentatasi, gli sedesse languidamente accanto sul sofà, con la testa che ciondolava pericolosamente vicino alla sua spalla.
-Robert? Robert?
-Eh? - si riscosse.
-Ti stai addormentando?
-No, no. Possiamo continuare.
-Per carità, meglio che tu vada a dormire, prima che cominci a delirare e ad affermare che il tuo idolo è sempre stata Edith Piaf.
Plant rise, seguendolo fino alla camera degli ospiti.
-Lì c'è il bagno. Prenditela comoda, fai come fossi a casa tua. - gli mise in mano una coppia di asciugamani – Se senti suonare abbi pazienza: a volte la Musa viene a farmi visita di notte.
-Credo che dormirò profondamente, sai.
-Lo credo anch'io. Ad ogni modo, qualunque cosa ti serva, la mia stanza è quella. - gli indicò una porta chiusa, prima di sparire di nuovo nello studio.
Rimase in silenzio ad ascoltare l'acqua che scorreva oltre la parete, finendo per avvampare di imbarazzo quando si ritrovò ad indugiare col pensiero sul corpo di Plant. Si passò la mano sul viso. Era decisamente meglio non rifletterci. Gliel'avevano descritto bello come un dio greco e, a conti fatti, non avevano sbagliato. Ma non era Apollo, era Dioniso piuttosto: c'era qualcosa di sensuale in lui, di troppo appassionato e vivo, per non risultare dionisiaco.
Aprì un libro, per darsi un contegno: non era normale quello che stava provando. Che stava provando per un perfetto sconosciuto, per altro. Ma che diavolo gli stava succedendo? Di quel passo, si sarebbe ritrovato a bussare alla porta del bagno per chiedergli se avesse bisogno di qualcosa. Non riusciva a concentrarsi. Rise di sé, mentre faceva il giro della stanza. Inspirò profondamente, prima di tornare ai suoi studi. Cos'è che diceva Crowley, nell'ultimo capitolo che aveva letto? Che il dominio di sé era la cosa più importante, già.


Robert si immerse nella schiuma fino al collo. C'era qualcosa di inebriante in tutta quella storia: dall'essere a casa di una famosa rockstar che prometteva guadagni e ideali artistici, fino alla coltellata di profumo di lavanda del suo sapone. Qualcosa che cominciava a fargli girare la testa, senza che riuscisse a trovarne davvero la causa. Se fosse stato l'inizio di una nuova vita, non avrebbe potuto cominciare meglio. Page era arguto e gentile: fin troppo, quasi. O forse era che lui di grandi gentilezze non ne aveva ricevute mai. E aveva un fascino strano, misterioso, fatto della cultura che avrebbe desiderato lui, di ispirazione fulminante e di un'aura sottile di comando. Oltre a un'idea della musica insperabilmente simile alla propria.
Al di là della sconvenienza di pensare a Jimmy Page mentre era nudo nella sua vasca da bagno, l'ora si era fatta tarda. Quando attraversò il corridoio per raggiungere la camera degli ospiti, vide uno spiraglio di luce attraversare la porta semiaperta. Lui era chino su un pesante volume tenuto in bilico sulle ginocchia. Non avrebbe saputo dire cosa stesse leggendo, ma l'espressione assorta sulle sue labbra socchiuse e sulle palpebre abbassate era sufficiente a farlo desistere dal bussare per augurargli la buonanotte. Senza contare che quel gesto, probabilmente, gli sarebbe suonato troppo confidenziale, per non dire fastidioso.
Si infilò tra le lenzuola: pure quelle gli sembravano profumare dello stesso odore di lavanda, come se l'intera casa ne fosse impregnata.
Dall'altra stanza gli parve di sentire una melodia insolita, antica, una sorta di ballata medievale: era il suo dormiveglia, forse, o la sua immaginazione? Non faticò a trovare il sonno, cullato da quelle note piene di una serena e contemplativa malinconia.
Quando si risvegliò, doveva essere mattino inoltrato. Le dieci, le undici, forse. Aveva fatto tutta una dormita, perdendo completamente la cognizione del tempo, per colpa delle imposte chiuse.
Scese le scale, augurandosi che le sue pessime abitudini di sonno e veglia non contrastassero troppo con quelle del suo ospite. Ma lui sedeva a tavola, una tazza di tè tra le mani e l'aria assorta, avvolto nella penombra e in una camicia di seta verde smeraldo. I lunghi capelli neri ricadevano liberi e ben pettinati sulle spalle.
Robert si sentì alquanto in disordine e cercò di ravviarsi i riccioli con una mano, mentre con l'altra si schermava gli occhi dal sole.
-Buongiorno. Dormito bene? - gli riempì una tazza e gliela offerse.
-Benissimo. Ho sentito una specie di melodia medievale, questa notte, cantata in una lingua strana.
-Era provenzale. - sorrise, canticchiando un paio di parole della Calenda Maia, con gli occhi rivolti alla finestra – La “lingua strana”, intendo.
-Conosci il provenzale?
-No, no: solo qualche ballata famosa.
-Sei un uomo sorprendente, Jimmy Page.
-Potrei dire lo stesso. La tua voce è un gemito primordiale.
Posò la tazza sul piattino, meravigliato: - E' cosa?
-Un gemito primordiale. Voleva essere un complimento. Intendevo che potrebbe esprimere qualunque sentimento sia stato provato dall'alba del mondo. C'è qualcosa di ctonio, di atavico nel modo in cui puoi piegarla a ciò che desideri.
-Sei... sei molto gentile.
-Non è gentilezza. È quello che penso, semplicemente. - si alzò e depose i resti della propria colazione nell'acquaio.
-Stai uscendo?
-Sì, ho un paio di commissioni da sbrigare. Sai, vecchie faccende in sospeso, con questo fatto degli Yard.
-Ti posso accompagnare, se vuoi.
-Oh no. No, non disturbarti. Sono questioni noiose. Resta qui, se hai piacere. Sentiti a casa, davvero. Ti lascio i vinili, il grammofono e tutto il resto. Comandi tu per qualche ora.
Sorrise, prima di tirarsi dietro la porta.

 

Non era vero: non aveva delle commissioni da sbrigare. Aveva bisogno di prendere aria, di respirare, di allontanarsi da lui e da quella sua voce che lo scuoteva dentro.
Pangbourne era un rifugio: fatto di pettegolezzi, provincialismo e quotidianità, ma pur sempre un rifugio. C'erano giorni in cui la luce era talmente tersa da riuscire a oltrepassarne l'altera chiusura. Giorni in cui sentiva che quel luogo gli apparteneva, in qualche modo, anche se non era mai riuscito a sentirsi davvero a casa in nessun posto. Giorni in cui la sua predisposizione d'animo o lo scorrere del tempo erano talmente favorevoli da rendere il paese la cassa di risonanza delle emozioni di Jimmy Page. E allora, si smarriva per le sue vie, camminava a lungo, per ore, senza meta, immerso nei suoi pensieri, finchè non si accorgeva che erano svaniti o che valevano così poco davanti alla bellezza nascosta nei dettagli delle cose.
Prese la strada del ritorno, sospirando: si sentiva meglio, in un certo senso. Le Muse gli erano benevole e lo spirito della città pure. Girò la chiave nella toppa.

 

Jimmy aveva seguito le note che provenivano dal piano di sopra, nello studio. Lui, Plant, stava ascoltando Joan Baez, in piedi, accanto al giradischi, sussurrandone impercettibilmente le parole. Ad occhi chiusi, reclinò la testa all'indietro, come se stesse apprezzando un piacere sensuale. A dire il vero, ogni cosa, per quella creatura che si era ritrovato in casa, pareva essere un piacere sensuale, a partire dal miele nel tè, al vento che entrava dai vetri aperti fino alla musica che gli carezzava ugualmente anima e pelle. Ogni cosa, persino quelle che a lui cominciavano a sembrare talmente banali da risultare inesistenti.
La massa ramata di riccioli ondeggiava sulle sue spalle, mentre Robert continuava a seguire le note di Babe I'm gonna leave you con il capo, a palpebre abbassate e labbra socchiuse.
È la cosa più bella che abbia mai visto.
Si chiese se fosse opportuno interromperlo; probabilmente era più opportuno che restare sulla soglia ad osservarlo. Gli posò la mano sul fianco, in un gesto troppo confidenziale, che non era riuscito a reprimere: - Ti piace? - gli chiese sottovoce, per non distrarlo.
-E' bellissima. - si voltò a guardarlo – Non trovi?
-Oh, sì, lo è. - rispose, meravigliandosi che l'altro non fosse sfuggito alla presa. Ma l'estasi della musica sembrava avvolgerlo completamente e continuava a muoversi piano nel suo abbraccio.
-Questo è quello che stai cercando, Page? Portare il folk e il blues nel rock?
-In un certo senso, sì. - rimase ad osservare le labbra di lui, lottando contro la tentazione di passarvi sopra la punta delle dita, voluttuosamente. La matassa di capelli emanava un odore dolciastro, di balsamo, che lo inebriava.
La puntina girò a vuoto sul vinile. Solo allora Plant si riscosse, ritrovando l'imbarazzo nell'essere così allacciato a quello sconosciuto: - Mi... mi dispiace aver messo mano alla tua collezione. Ma non sapevo come impegnare il tempo. - ripose il disco nella custodia con cura.
-Te lo avevo detto io. Ma ti prego, continua. Ti stavi appassionando.
Plant lo guardò con un sorriso indecifrabile.
-Cantami questa canzone, Robert. - lo lasciò andare di malavoglia.
-Ma, così? - rise.
Jimmy raccolse la chitarra: - Ti faccio io da base. Le sai le parole?
Annuì, schiarendosi la voce.
Gli accordi di Jimmy erano pacati e sereni, morbidamente folk, quando cominciò a cantare altrettanto morbidamente. Poi il chitarrista prese ad incalzare il ritmo, riempiendo la stanza di stridii metallici, sofferti, e allora la sua voce si fece un gemito implorante, carico di pathos, penetrante.
Page smise di suonare, per restare a guardarlo, con aria inquieta.
-Qualcosa non... non va, Jimmy? Non ti piace?
-Come? Oh, no, no tutt'altro. Dio mio, c'è qualcosa nella tua voce che mi entra dentro, che mi turba e mi rende nervoso, ma non in senso negativo. Io credo che sia... quello che cercavo, Plant. Il suono che cercavo.
-Dici sul serio?
-Sì, penso che potrei ascoltarti anche mentre leggi l'elenco del telefono. Davvero.
Robert rise, nascondendo il mento contro la spalla.
-No, no: è vero. Sento che faremo grandi cose. - sorrise, stringendo il plettro in pugno con aria trionfante – Immagina. Un sound completamente nuovo, una rivoluzione. Conquisteremo il mondo, persino l'America. Ma te l'immagini l'America, ragazzo?
-Sinceramente no. Non so nemmeno come sia.
-La vedrai. Arte, successo, un po' di sano guadagno, devozione del pubblico, lusso, ragazze.
Plant lo guardava come se stesse snocciolando le parole di una formula magica.
-Sei come uno stregone, tu.
Page agitò le mani a mezz'aria, con espressione solenne sul volto: - Lo sono davvero. - scherzò, spalancando gli occhi - E prevedo per noi un futuro dorato, Robert Plant.
Risero entrambi, guardandosi di sottecchi, per pudore, eppoi ritornando a ridere più rumorosamente. Dio, quanto era adorabile, quel ragazzo. La sua voce gli dava i brividi, quanto la limpidezza cristallina dei suoi occhi azzurri. C'era qualcosa di perfetto, in lui, qualcosa che aveva bussato alla sua porta per un colpo di fortuna, un gioco del destino o semplicemente un'ottima congiunzione astrale. Qualcosa che non poteva permettersi di perdere, comunque.
-Uno stregone con la chitarra... è buffo! - si sedette a fianco a lui, sul tappeto, tra le riviste e il telescopio, carezzando le corde dello strumento con la punta delle dita, con trattenuta curiosità.
-Tieni. - gliela offrì con naturalezza – Vuoi provarla?
-Io... io non so suonare. - si schermì – Pensa che mi sarebbe sempre piaciuto, sarebbe anche utile quando compongo, ma proprio non sono mai riuscito a imparare.
-Forse non ti hanno insegnato bene.
-Forse ognuno ha il suo mestiere. Ma... - esitò.
-Dimmi.
-Mi insegneresti qualche accordo?
-Sicuro. - si mise la chitarra sulle ginocchia, senza sapere come destreggiarsi – Aspetta, come facciamo?
-Oh, non lo chiedere a me.
La cosa più logica sarebbe stato prendere due chitarre e mostrargli la posizione delle dita, si disse Page, ritrovandosi schiacciato tra il muro alle proprie spalle e la schiena di Plant. Molto più logico che averlo così vicino a inebriarlo del profumo dei suoi capelli. Allargò le gambe per farlo sedere più comodamente, senza soffermarsi troppo sulla sconvenienza di quella posizione.
-Qui, metti la mano qui. Non spingere troppo su quelle corde, altrimenti ti massacrerai i polpastrelli. Basta che le tieni premute per fare l'accordo. Ok, adesso – gli prese la destra nella propria – Con il plettro sgrana le corde una ad una. Devi essere sicuro che suonino tutte quelle che ti servono, altrimenti avrai un suono sbagliato. Un disastro, insomma. Prova.
La chitarra emise uno stridio sgraziato: -Non ci siamo, eh?
-Ehm, no. Aspetta, hai troppa fretta. Prendi confidenza con le corde. Una ad una, senti? Lasciati guidare dalla mia mano. Rilassa il polso, sei troppo teso. - si sporse in avanti, quasi posando il mento sulla sua spalla, per osservare l'errore. Potè affondare il naso tra i suoi riccioli: avevano un odore buono, dolciastro, caldo e rassicurante. Fin troppo per qualcuno che conosceva appena.
-Sto prendendo lezioni di chitarra da Jimmy Page degli Yardbirds, che diamine!
-Ma va'. Hai capito qual è il movimento? Prova tu.
Il suono uscì delicato e perfetto.
-Ci sono riuscito! Ehi, Jimmy, ci sono riuscito! Se fossi una ragazza, ti abbraccerei.
-Per un accordo di Mi? Ragazzo mio, contieni l'entusiasmo, perchè non voglio pensare a come potresti ringraziarmi quando passeremo a suonare un intero pezzo.
Plant rise di cuore, agitando la chioma riccia.
-Ehi, ehi, rischi di soffocarmi con questo cespuglio. - finse di sputacchiare qualche capello.
-Non ti avrei detto una persona di spirito.
-Si fanno tutti un'idea sbagliata su mio conto. Probabilmente perchè io tendo a sembrare ciò che le persone pensano di me.
-E te ne dispiace?
-No, alla fine non me ne importa. La gente di qui pensa che sia strano e forse hanno ragione. Ma non c'è alcun altro modo in cui Jimmy Page potrebbe esistere se non questo.
-A me non pare che tu sia così strano. Voglio dire, un artista deve esserlo. Almeno un po'. Non lo era anche quell'italiano? Quello del violino?
-Paganini? Certo, era strano forte. Dicono che ci fosse qualcosa di demoniaco in lui e nella bellezza della sua musica. - si chiese perchè accidenti dovessero continuare a fare conversazione a quel modo, con Plant che teneva sulle ginocchia la sua chitarra e lui che teneva tra le braccia Plant.
-Ma è vero quello che dicono? - si voltò a guardarlo e gli rimise in grembo la chitarra.
Meno male!
-Quello che dicono su di te, che hai fatto un patto col diavolo per essere come Paganini?
-E questo chi lo dice? - rise.
-Boh, in giro. E' vero? - aveva gli occhi grandi e innocenti.
-E' la storia più stupida che abbia mai sentito: se avessi davvero dovuto ipotecarmi l'anima, avrei almeno chiesto in cambio di essere il condottiero che conquisterà il mondo o di sopravvivere all'Apocalisse, non mi sarei svenduto per imparare a suonare con l'archetto. - scherzò – Ma perchè, hai paura di me?
Rimase a scrutare in quegli occhi limpidi una scintilla, una vibrazione che gli dicesse che sì, Robert aveva paura, come aveva paura la maggior parte della gente di Pangbourne, ma l'unica cosa che riuscì a scorgere fu il broncio che si distese in un sorriso.
-No, certo che no. - scrollò la testa – Ma mi piacerebbe sentirti suonare con l'archetto.
Non aveva paura e alimentava il suo ego, chiedendogli di suonare. Sono fottuto. Ma almeno forniva una buona ragione per alzarsi da terra, recuperare la chitarra elettrica e allontanarsi da quella distanza troppo ravvicinata.

 

L'archetto strisciava sulle corde con un suono sporco, impreciso, tremante, eppure di un'espressività viva e vibrante che lo lasciava a bocca aperta.
Lo accompagnò con un vocalizzo quasi istintivo.
-Vai, vai, continua. - lo incitò Page.
Un accordo, un vocalizzo. Un grido della chitarra e il tentativo della sua voce di imitarlo. Continuarono a lungo a dialogare, a duellare, a chiamarsi, dapprima timidamente eppoi assumendo sempre maggiore sicurezza, perdendo ogni formalità nella danza estatica della musica.
Plant si portò una mano al petto: - Tregua, ti prego. - rise, ansimando.
-Qualcosa non va?
-No, no. È che quando suoni così... quando suoni così, è come se la tua musica mi trapassasse da parte a parte. È una stretta qui, allo stomaco. Potrei perdere ogni freno.
-Perdili, allora. È quello che voglio. Il nostro rock deve perdere ogni limite dettato dalla morale, dalle regole, dallo stile. Non sei d'accordo con me?
-Anche a costo di lasciarsi andare a gemiti ogni volta che sfiori quelle corde?
-Anche. - la bordata spettrale dell'archetto riempì la stanza – Lasciati andare, Plant. Lasciati andare. - avanzò di qualche passo, nella sua direzione, finchè Robert non lo ritrovò troppo vicino al proprio viso, trattenendo il respiro e smarrendosi in quello sguardo che sembrava assorbire la luce – Esprimi quello che senti, attraverso la tua voce. Seguimi e io seguirò te. - gli soffiò sulle labbra, avvicinando una mano al suo viso, per raggiungere i suoi capelli.
Robert arretrò, fino a toccare il muro con le spalle.
-Stai bene, Plant? - forse temette di aver esagerato, perchè si scostò immediatamente facendolo tornare a respirare con regolarità – Scusa, ti ho spaventato?
-Mi sono lasciato suggestionare. È che c'è qualcosa in questa stanza, come una forza strana, qualcosa di elettrico...
La mano di Page si posò delicatamente sulla sua gota: - E' tutto normale: si chiama Ispirazione. E noi l'abbiamo. - sorrise accomodante – E' fatta, ragazzo.

 

-Guarda, quello è il Grande Carro. - Jimmy gli porse il telescopio.
-Lo so. E sono più belle a Birmingham, le stelle. - obiettò, con una punta d'orgoglio – Le si riesce a vedere anche solo stando stesi sull'erba.
-Non comincerai a rimpiangere già adesso i verdi prati di Birmingham?
-Quelli li rimpiangerò sempre. Peccato non poter dire lo stesso di chi mi aspetta a casa. - si rimproverò di star scadendo nel patetismo.
-Si aggiusterà anche quello. Il tempo che capiscano ciò che vali.
-Tu credi?
-Lo credo. Guarda in alto: ora riesci a vedere le stelle, perchè il cielo è sereno. Quando ci sono le nubi, non le vedi, nemmeno le più luminose. Eppure loro ci sono sempre, basta solo che le nuvole si si diradino e tornano a brillare. Mi capisci, vero?
Annuì con un sorriso. Possibile che quell'uomo avesse sempre le parole giuste per tutto? E che facesse scivolare i pensieri sempre attraverso le metafore? E, soprattutto, che le cose viste attraverso i suoi occhi assumessero una prospettiva diversa, a modo loro, poetica.
-E' così lontano il cielo, così immobile. - sospirò Robert, scostandosi dal telescopio e posando le braccia conserte sul davanzale della finestra – Pensi che davvero gli interessi ciò che facciamo noi mortali, la musica che componiamo?
-Temo di no.
-E allora perchè lo fai, Jimmy?
-Perchè è tutto quello che so fare. E tu?
-Perchè mi piace farlo. È un motivo poco onorevole?
-Tutt'altro. Sarebbe meno onorevole reprimerlo. Sorridi, Robert: se tutto andrà bene, potrai farlo a vita.
-Non ho niente da perdere – si strinse nelle spalle – Dovesse andare male, tornerò a spargere catrame sulle strade, cantando la sera. Alla fine è quello di cui mi importa.
Gli battè una mano sulla spalla: - Sei un bravo ragazzo.
-Vado a dormire, Page. Domani mi aspetta un viaggio lungo.
-Sapessi guidare, ti accompagnerei.
-Hai già fatto tanto.
-Mai quanto hai fatto tu.
-E che avrei fatto io?
-Mi hai dato l'idea che tornare a formare un gruppo sia possibile. E che sia possibile anche tentare quella strada nuova che mi perseguitava da tempo. Sei sicuro di non voler restare un altro paio di giorni?
-Sicuro.
-Beh, non terrei mai lontano un giovanotto dalla propria fidanzata per troppo tempo. E, del resto, quello che dovevamo capire l'abbiamo capito, no? Non si tratta che di mere faccende contrattuali, adesso. E di trovare un buon batterista.
-Forse ho una mezza idea, sai. Per questo voglio tornare a Birmingham, anche.
-Certo. Vai a letto, su.
-Tu resti a suonare qualcosa?
-No, ho lasciato un paio di libri in sospeso. Buonanotte, Robert.
-Buonanotte, Jimmy.

 

Non riusciva a prendere sonno. Forse era quella maledetta umidità che il fiume rilasciava la notte e che gli entrava nelle ossa, torturandolo. O forse era quella melodia che aveva in testa e che non riusciva a mettere decentemente sul pentagramma. L'ultima cosa a cui voleva attribuire la colpa della propria inquietudine era la partenza di Plant la mattina successiva. Non aveva senso.
Non ha del tutto senso. Si gettò la vestaglia sulle spalle, scendendo dal letto. Il materasso, se avesse avuto le spine, non sarebbe stato altrettanto scomodo.
Spinse piano la porta della stanza in cui riposava Robert. Nel silenzio della casa, poteva avvertire il suo respiro lieve, regolare. Dalle imposte socchiuse filtrava un raggio di luna, che si era posato sul suo corpo disteso.
Attese che i propri occhi si fossero abituati alla penombra, prima di sedersi sul bordo del letto e perdersi ad ammirare i contorni del suo viso. Gli passò le dita tra i capelli, con delicatezza, temendo di svegliarlo, eppoi finalmente sulle labbra, quelle labbra morbide, dischiuse.
Plant si mosse nel sonno, cercando istintivamente il contatto con la sua mano, in modo così dolce che Jimmy si prese un lungo momento per continuare ad accarezzarlo finchè Robert non gli afferrò le dita, trattenendole accanto alla guancia. Non seppe dire per quanto tempo rimasero così vicini, ma forse il cantante doveva aver udito il rumore dei suoi pensieri, perchè si svegliò, improvvisamente, sussultando per l'imbarazzo.
-Page! Co... cosa stai facendo, qui?
Jimmy avvampò, abbassando lo sguardo: - Mi dispiace, è solo che... - deglutì con disagio - Oh, accidenti, è che mi dispiace che tu te ne vada, domani. Non c'è mai nessuno, qui. E tu mi hai portato così tante ispirazioni.
-Ispirazioni?- lasciò la presa, mettendosi a sedere.
-Naturalmente. E credo possa uscirne qualcosa di buono.
-Vuoi che resti, allora?
-No, no. - si schermì – Ho bisogno di solitudine per comporre. Eppoi ci ritroveremo presto. Molto presto. Vedrai, siamo su un'ottima strada, lo sento. I venti ci sono favorevoli: il nostro viaggio sta iniziando e sarà straordinario.
-Lo penso anch'io, Jimmy. Mi fido di te.
-Sei uno dei pochi. - sorrise, alzandosi e facendo per uscire.
-Jimmy, stavi vegliando su di me: perchè non dovrei fidarmi?
Si tormentò le mani per non cedere all'impulso di abbracciarlo di slancio: - Fai buon viaggio, domani. E abbi cura di te, nei prossimi giorni. Ti chiamerò quanto prima.
Plant annuì con convinzione: - Buonanotte, Jimmy.
-Buonanotte, Robert.



 

Fine

   
 
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