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Autore: HerEyesLightMyWay    07/12/2012    1 recensioni
''Hai fallito. Non sei altro che polvere. Porti nel tuo stesso nome il peccato che la Donna commise all'alba dei tempi e che tu non puoi estinguere. Sei una peccatrice, Evah, è nel tuo nome, è nella tua anima. So che aneli la luce... Ma so anche che non puoi fare a meno dell'oscurità.''
Genere: Dark, Fantasy, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Il gelo.
Nella mia nuova vita, la prima cosa che percepii fu il gelo.
La seconda, il buio.
Non riuscivo a respirare. La mia mente era occlusa da un peso opprimente che mi impediva di elaborare qualsiasi pensiero sensato.
Frammenti.
Frammenti di pensieri persi nell’oscurità, serpeggiavano nella mia mente e svanivano nel nulla.
Quando riebbi la concezione di me stessa, non mi accorsi subito che stavo tremando.
Non me ne accorsi perché avevo l’impressione che quel corpo, il mio corpo, non mi appartenesse. Ero come una marionetta alla quale erano stati tagliati i fili: giacevo inerte su un pavimento di marmo gelido, ad occhi spalancati sul vuoto senza realmente vedere alcunché.
Poi, improvvisamente, la consapevolezza.
Fu come ricevere un pugno nello stomaco. E insieme al dolore, i muscoli del mio corpo si contrassero e respirai.
L’aria che inspirai era bollente e gelida al contempo. L’atto di per sé era talmente doloroso che volevo smettere di farlo, smettere di respirare. Ma i muscoli di quel corpo agivano senza che il mio cervello facesse da tramite, e il dolore mi colpiva come stilettate nel petto ad ogni contrazione.
Ero viva.
Non sapevo se essere euforica o depressa.
Ero viva.
Qualsiasi cosa mi fosse successa prima di quel momento, i cui ricordi mi tornavano in mente frammentati, mi aveva ridotta in fin di vita. Avevo perso la speranza, avevo smesso di lottare.
Ed ero ancora viva.
Mi accorsi che stavo tremando. Il mio corpo era scosso da violenti singulti incontrollabili. Tremavo per il freddo, tremavo perché non sapevo come controllare il mio corpo.
E tremavo per la paura.
Troppe domande mi torturavano la mente, nate da chissà dove, riferite a chissà quale vita passata.
E ne avevo paura.
Avevo paura di quelle domande, perché sapevo di non conoscere le risposte.
Chi sono io?
 
Riprendendo conoscenza, per un attimo sperai di trovarmi in un luogo accogliente, tra le lenzuola dal profumo tanto familiare da tranquillizzarmi senza bisogno di parole.
Riavendomi, non mi mancò niente di fisico. Non era il cibo che mi mancava, né l’acqua, né una coperta calda.
Mi mancava un colore.
Mi mancava quel colore.
Il colore dei suoi occhi.
E quando la mia mente, pezzo dopo pezzo riuscì a ricreare la tonalità esatta, tutti i ricordi mi investirono come una valanga.
L’esperimento.
Come presa da un improvviso folle desiderio di alzarmi in piedi, tentai di fare presa sul pavimento e sollevarmi, ma il mio corpo non rispondeva agli impulsi. Ero come intrappolata in un involucro morto, che non mi apparteneva. I miei occhi continuavano ad essere spalancati sul buio e a non riuscire a distinguere nulla. Solo ombre. Ombre che si muovevano.
La terza cosa che percepii nella mia nuova vita fu il dolore.
Insopportabile.
Lancinante.
In tutto il corpo.
Come se tutte le mie ossa fossero state spezzate più volte. Non capivo dove fossi. C’era solo la mia mente, un pavimento gelido e un corpo che non mi apparteneva.
Dopo un tempo che mi sembrò infinito, qualcosa emise un suono. Qualcosa di vicino.
Terrorizzata, tentai di spostarmi, ma di nuovo il corpo a cui ero legata non mi obbedì. di nuovo quel suono. Una sorta di rantolo. Veniva da un punto nell’ombra vicino al mio viso.
Molto vicino al mio viso.
Veniva dal mio viso.
Stavo rantolando.
Riuscivo ad emettere suoni. Percepivo quella voce tanto roca come spaventosamente diversa dalla mia, ma non c’era altra spiegazione.
Tentai di articolare un suono.
Tentai di nuovo.
Non ebbi successo.
Il tempo scorreva, a tratti rapido, a tratti quasi fermo, e dovevo subire il dolore insopportabile che mi trasmetteva un corpo che non potevo controllare.
Poi, dopo quelle che mi parvero ore, ci fu un suono diverso.
Lontano.
All’inizio ovattato, ma poi sempre più distinto e vicino.
Passi.
Ebbi appena il tempo di realizzare che non ero più sola nella stanza, che qualcosa mi fu gettato addosso. Qualcosa di ruvido.
Colto da uno spasmo, il mio corpo intirizzito dal freddo tentò di avvolgervisi.
Anche se non avevo ancora un buon controllo sui miei sensi, capii subito che non era una coperta, come avevo sperato. Era un lenzuolo.
Uno stupido lenzuolo.
Istintivamente alzai lo sguardo.
E lo riconobbi.
Joseph.
Come lo riconobbi, mi accorsi di aver biascicato il suo nome, ma non ebbe alcuna reazione.
Era venuto lì per me. Ma perché mi aveva gettato addosso un lenzuolo?
Riuscii a distinguere la metà non in ombra del suo viso, e mi ritrassi, spaventata.
Nessun sorriso, nessun’espressione vagamente divertita. Le sue labbra erano serrate, il suo volto non tradiva alcuna emozione, e così i suoi occhi.
Quegli occhi.
Quegli occhi che tanto mi avevano affascinata, ora mi fissavano, inchiodandomi al pavimento. Cercai di trarre un respiro, ma fu inutile. Ero come immobilizzata.
La sua espressione sprezzante abbatté tutte le mie difese. Mi guardava come se mi odiasse profondamente.
Di nuovo sentii il bisogno irrazionale di alzarmi in piedi, e di nuovo il mio corpo non mi obbedì. Brividi di angoscia e disagio mi correvano lungo la spina dorsale. Riuscii a voltarmi verso di lui, speravo che mi aiutasse a rialzarmi.
Non accadde.
Mi allontanò bruscamente con una gamba, e il dolore alle costole esplose più forte di prima. Gemetti, ma lui non se ne curò.
Piegò la testa da un lato e continuò ad osservare con freddezza chirurgica i miei reiterati, patetici, inutili tentativi di alzarmi.
Poi, quando ritenne di aver visto abbastanza, parlò.
- Alzati.
Per un attimo fissai lo sguardo nei suoi occhi. E poi obbedii, vanificando tutti i miei tentativi precedenti. Come se l’unica cosa in grado di fare in modo che il mio corpo mi obbedisse, fosse che lui glielo ordinasse.
Il lenzuolo che avevo addosso scivolò sulla mia pelle e si raccolse in un mucchietto di stoffa sul pavimento scuro.
Non vagliai nemmeno per un attimo la possibilità di riprenderlo. Lui mi aveva già vista senza vestiti, una volta in più non avrebbe fatto la differenza.
Invece nemmeno passò lo sguardo sul mio corpo, si limitò a voltarsi.
Basita, esitai.
E poi realizzai che non era pudore, il suo. Era disgusto. Era disgustato da me.
Piegai le ginocchia con uno sforzo doloroso e raccolsi il lenzuolo, con cui mi coprii. Solo allora si voltò di nuovo, ma continuava a lanciarmi occhiate di disprezzo.
Un dolore sordo mi attraversava le membra, ma non era niente.
Niente, in confronto a quello che stavo provando.
Chissà come, trovai la forza per mettere insieme delle parole.
- Che cosa mi è successo?- mi spaventai; non avevo riconosciuto la mia voce. Era diversa dal solito, terribilmente roca e più bassa.
Lui scosse lievemente la testa, ostentando un’espressione disgustata.
- Sei morta ­– ringhiò poi tra i denti.
Per un attimo mi mancò in respiro e la mia mente si snebbiò. Ma poi continuò a parlare.
- L’esperimento non è riuscito,- spiegò con voce atona, - sei morta.
Il mio cuore perse un battito.
- Che cosa?- soffiai poi. Lui sorrise, ma non era il suo solito sorriso. Era un sorriso di scherno.
- Tutto quello che rimane di te, Evah, è questo maledetto corpo sfigurato.
Abbassai lo sguardo sul mio corpo, coperto dal lenzuolo. Sentivo uno strano freddo alla schiena, come se per qualche motivo non fosse coperta come il resto del corpo.
Notò la mia esitazione, e quindi fece un passo avanti e mi afferrò per un braccio.
Gemetti per il dolore e la sorpresa, ma non si fece intimidire e mi trascinò in avanti per qualche metro, prima di spingermi davanti ad un muro.
Barcollai ma non caddi. Non era un muro. C’era una ragazza, che mi fissava.
Il suo corpo era coperto da una lunga veste bianca che le arrivava fino ai piedi, e la sua espressione era di puro terrore.
Mi si mozzò il fiato.
Era spaventosa.
Tra i capelli biondi si mescolavano insolite ciocche più scure, e da sotto la frangia due grandi occhi terrorizzati mi fissavano.
Uno di quegli occhi era completamente nero, e cieco.
Spaventata, tentai di fare un passo indietro, ma il mio corpo non mi obbedì. i miei occhi continuarono a percorrere il viso della ragazza.
L’altro occhio era di un intenso blu scuro, un colore così profondo da risultare innaturale.
E fu allora che, seguendo lo sguardo della ragazza, alzai gli occhi.
Sopra la sua schiena c’era qualcosa.
Appena le riconobbi sussultai, e lei sembrò spaventarsi di conseguenza.
Delle ali.
Delle spaventose ali nere le spuntavano dalla schiena, coperte da un folto piumaggio lucido.
Di nuovo guardai la ragazza negli occhi. Ora il suo sguardo tradiva il dolore, un dolore profondo e incontrollabile. Istintivamente, come per aiutarla, allungai un braccio verso di lei.
E il mio braccio sbatté contro una superficie compatta e liscia.
Il mio braccio sbatté contro lo specchio.
Senza riuscire a respirare, le mie gambe cedettero e, senza un appoggio, scivolai in ginocchio. La ragazza dietro lo specchio mi imitò.
Dietro di me, lui rise. E la sua risata era talmente vuota e colma d’odio, odio verso la ragazza nello specchio, che abbatté tutte le mie difese, e crollai a terra, incapace di fermare il corpo che non mi apparteneva più, perché non era il mio. Era il corpo della ragazza nello specchio.
- Sei un mostro,- disse poi lui con il disprezzo che trapelava da ogni parola, - sei stata debole. Non sei riuscita ad affrontare l’esperimento, ed ora sei un mostro. Mi hai delusa, Evah. Sei una delusione.
Di tutte quelle parole, furono le ultime a farmi male. A distruggere tutto quello che debolmente mi si era creato nel petto negli ultimi anni. a distruggere quella che ero.
L’avevo deluso.
Non disse nient’altro. Mi osservò disgustato per un altro paio di secondi, poi se ne andò.
Io e la ragazza nello specchio ci scambiammo uno sguardo vuoto, come a cercare conforto l’una nell’altra.
Ma ero sola nella stanza. 
  
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