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Autore: Deirbhile    10/12/2012    1 recensioni
Spin-off di "Heal the scars from off my back"
Chiara ha quattordici anni e mezzo e una personalità decisamente fuori dal comune. Le piace disegnare e starsene tranquilla a leggere classici della letteratura inglese, ma i suoi compagni di scuola proprio non riescono ad accettare i suoi modi da "svitata". Dopo vari atti di bullismo subiti, Chiara sarà costretta, nonostante la sua indole profondamente orgogliosa, a chiedere l'aiuto della psicologa del liceo.
Genere: Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Faccio per entrare nella classe del mio liceo di provincia adibita a studio dello psicologo scolastico, ma prima di procedere, guardo il mio orologio rosa fluorescente da polso e mi impongo di fare il riepilogo della situazione

Per chi sta seguendo la mia long originale, “Heal the scars from off my back”, questo è un piccolo spin-off - prequel incentrato sugli atti di bullismo subiti, fra il primo e il secondo anno, da Chiara.

 

 

 

 

Faccio per entrare nella classe del mio liceo di provincia adibita a studio dello psicologo scolastico, ma prima di procedere, guardo il mio orologio rosa fluorescente da polso e mi impongo di fare il riepilogo della situazione. Perché mi trovo dallo psicologo della scuola? Perché uno psicologo vero, uno dignitoso, costerebbe una cifra. Ma, comunque, perché dovrei vedere uno psicologo? Ho quattordici anni e mezzo, sono una ragazzina piuttosto equilibrata, faccio una dieta a base di verdure e carne bianca, studio tutti i giorni per avere voti eccellenti, leggo molto e qualche volta strimpello la mia chitarra. Non sono particolarmente problematica se paragonata ad altri ragazzetti che incrocio qualche volta nei corridoi, che se ne stanno semplicemente lì a ciondolare con un mozzicone di sigaretta fumante in bocca ad aspettare che qualcosa li scuota,né incito a risse o cose simili. Di solito non sono maleducata, forse solo un po’ inopportuna, né con complessi di superiorità come la maggior parte degli adolescenti e non ho mai creato problemi alla fauna del mio liceo. Sono loro che li hanno sempre creati a me. Ecco, a questo punto del mio flusso di coscienza, decido di sedermi su una delle poltroncine blu che probabilmente non vedono uno studente passare di lì da secoli. In quella scuola a malapena ci sono i professori, chi si aspettava che ci fosse persino uno psicologo?

La morbidezza polverosa dei braccioli della poltrona mi induce a ricominciare la mia analisi. Dovrò pur dire qualcosa all’uomo che mi aspetta oltre la porta. Un momento, è una donna. Mi sorprendo a provare un senso di sollievo a leggere il nome decisamente femminile sulla targhetta di ottone scorticato, “Filomena Giunta”. Se fosse stato un uomo, gli avrei solo fatto perdere tempo. A lui e a mia madre che mi ci ha mandato. Insomma, gli uomini sono degli insensibili trogloditi, questo è risaputo, non dovrebbero fare gli psicologi. Perché mai avrei dovuto aprirgli il mio animo decisamente sentimentale? Non che io sia il tipo di ragazza che piange davanti ad un film romantico, sia chiaro. Sentimentale nel senso che sono piena di sentimenti. Sentimenti forse un po’ troppo veementi e poco delicati per avere il volto roseo con cui mi presento a tutti.

Ma sto divagando, me ne accorgo quando mi colgo a fissare un punto imprecisato del pavimento piastrellato. Stavo pensando al motivo per cui mi hanno mandato dalla finta-psicologa della scuola (un dottore vero non lavorerebbe mai in uno stanzino del genere!). Ci sono: non sono io ad essere violenta, a creare problemi e ad avere un comportamento degno del riformatorio. Non ho fatto nulla di male. A meno che essere una vittima di bullismo, verbale e fisico, sia un reato da riformatorio.

Ho un conato di vomito a quella semplice constatazione. Perché negli ultimi tempi, gli insulti sono diventati più pesanti e i dispetti più frequenti. Perché ne porto i segni sulla pelle, quando mi chiudono nei cubicoli del bagno dei maschi del secondo piano ed io, pur di non sentire più quella puzza, sono costretta a sbatterci contro l’avambraccio fino a farmelo diventare verde.

Ecco perché mi hanno mandato dalla finta-psicologa. Ironia della sorte, proprio mentre ho capito il motivo di tutto il tumulto che ha rivoltato casa mia negli ultimi giorni, la pseudo dottoressa apre la porta, scrostata in più punti, e fa capolino con la sua testa bionda. E’ anche bionda! Questo non posso sopportarlo.

- Tu sei Chiara Torri, del liceo classico?- mi domanda con un sorrisetto. Già la odio. Porta un paio di occhiali dalla sottile montatura bluastra sul naso troppo sottile, sorridendo con una bocca troppo sottile e parlando con una voce sottile. Quando apre completamente la porta, mi accorgo che anche il resto del suo corpo è sottile. Ma quanti anni ha?

- Sono io-  rispondo, alzandomi. Ho detto di essere una ragazza educata, no? Se non lo fossi stata le avrei risposto che qui, oltre me, non c’è nessuno e che comunque qui nessuno sarebbe disposto ad entrare nel suo finto studio.

- Entra-

Mi fa entrare per prima ed io mi accorgo che quella che da fuori sembrava una stanzetta, in realtà è grande quanto la mia camera. C’è una scrivania piena di penne. Che poi, a che le servono le penne? A prendere finti appunti? Dietro la scrivania c’è una sedia di pelle marrone, che sembra piuttosto rivestita di cartone da quanto è rigida. A destra, vicino alla finestra,c’è una libreria molto fornita. Ora non mi sembra più così odiosa.

 

Mi siedo sulla mia di sedia e poso lo zainetto verde militare a terra. Lei mi sorride ancora ed io comincio a credere che impazzirò. Sorride troppo per essere una donna sulla quarantina che lavora sbattuta in un liceo di un paese che non c’è manco sulla cartina geografica.

- Allora… Piacere, io mi chiamo Filomena, mi fa piacere fare la tua conoscenza-  comincia e che fa? Sorride.

- Vorrei poter dire lo stesso…-

L’ho detto davvero? Oh, ora mi aspettano guai a casa. Mia madre comincerà a pensare che a furia di tutte le botte che ho preso mi si sia impallato il cervello. Però sono stata coraggiosa, perché avrei voluto dirgli esattamente questo. Il suo sorrisetto si fa ironico. Almeno ha cambiato repertorio!

- Non deve essere proprio un piacere per te vedermi, eh?- chiede retoricamente e io comincio a prepararmi a ciò che verrà dopo. Mi farà disegnare una casetta per vedere se tutto questo ha influito sul mio inconscio o stronzate simili? Di solito non dico nemmeno parolacce, ma mi accorgo che tutto questo lo sto solo pensando e che posso dire quello che voglio.

- No, non lo è, mi dispiace-  sentenzio, alzando la testa per guardarla. Ero rimasta incantata a fissarmi le scarpe. Si muove a disagio sulla sedia di cartone, mentre io adocchio la sua laurea in psicologia e tanti altri diplometti in strane specializzazioni. Sono tentata dal chiederle se siano finti come credo, ma so che sembrerei ridicola.

- Eppure sei qui. Strana la vita, eh? Ora siamo in questa stanza e dobbiamo cercare di risolvere un certo problema- ridacchia, ma ha ora un viso serio. Ha gli occhi azzurri, dietro le lenti, e dei vestiti piuttosto stravaganti. La sua sciarpa a righe multicolore attira la mia vagante attenzione.

- Intende il fatto che sono vittima di bullismo da parte di ogni essere che respira in questo postaccio?- chiedo con calma, raddrizzandomi sulla sedia per darmi un certo contegno. Non voglio che pensi che io sia l’ennesima sfigata di turno di cui le ragazzine snob si prendono gioco perché non indossa l’ultimo abitino alla moda. Io ho una dignità ed ho intenzione di chiarirlo fin da subito. Io non sono presa di mira perché non mi vesto come loro o simili. Io sono la vittima designata perché non la penso come loro e non ho paura di farlo sentire al resto del mondo. Perché io ho una voce e una faccia tosta che nessuno ha ancora spaccato.

- Proprio di quello-

Mi preparo alla tortura che seguirà, perché anche se sono forte tutto questo mi ha scalfito senza fare rumore.

- Da dove comincio?- sospiro, portandomi la mano destra sotto il mento, con fare pensoso. Sono anche parecchio teatrale, a volte. Decido di cominciare dell’inizio, così almeno la tengo occupata.

- Non so esattamente quando sia cominciato tutto, sa? Tipo, forse prima del liceo. Forse già all’asilo- dico, solenne. Sto raccontando il mio calvario, dopotutto. La vedo che annuisce, dondolando il suo taglio a casco di banane. Mi osserva attentamente, sembra quasi che non respiri.

- Prima di tutto, però, ci tengo a precisare una cosa. Io non sono il solito tipo di vittima di bullismo a cui uno psicologo medio è abituato, okay?- metto in chiaro le cose,con tono concitato.

- Ed io non sono il solito tipo di psicologo a cui i ragazzi sono abituati- mi risponde a tono, come se fosse una clausola fondamentale della nostra seduta. Comincia ad essermi stranamente simpatica per essere una che mi tiene chiusa in una stanza a parlare delle mie paturnie.

- Il mio problema non è la paura, l’insicurezza o roba simile. Io non ho problemi a prendermi gli insulti e le calunniate dei miei compagni di classe se è per esprimere le mie idee. Capisce cosa intendo?-

Ho paura che stia faticando a seguirmi, forse nel finto corso di psicologia che ha frequentato non si parlava di come affrontare tipi come me.

-Capisco perfettamente. Sei molto coraggiosa- mi dice e sembra che lo pensi davvero, da come sono concentrati i suoi occhi su di me. – Tuttavia… Ciò non vuol dire che tu sia fatta di ferro. Il bullismo è una cosa seria-

Una cosa seria? Il bullismo è una cosa seria? Insegnano solo cose ovvie al corso che ha frequentato?

- Oh, me ne ero accorta dai segni violacei che mi sono trovata sul polso sinistro l’altra mattina mentre facevo la doccia- la rimbecco, ironica. Se è all’ironia che vuole giocare, non poteva sperare di trovare avversaria migliore di me.

- Come te li sei procurati?- mi domanda e il suo interesse è testimoniato dal fatto che si è sporta verso di me.

- Ho provato a reagire ad una frecciatina di uno scimmione della banda. Mi ha stretto il polso e non sono riuscita a suonare il pianoforte per un giorno intero- ringhio quasi. Rabbia, ecco il mio sentimento preferito.

- Ti sei mai chiesta perché si comportano così proprio con te?-

- Immagino che sia perché sono l’unica diversa, nel raggio di almeno cinque chilometri-

- Diversa in che senso?-

- Nel senso che mi vesto come voglio, che dico quello che voglio e che faccio ciò che faccio perché sono io a volerlo. Cioè, non sono proprio l’unica fuori dal comune, ma sono l’unica che lo mostra apertamente, non so se intende…-

Si certo… ma loro, la banda, che fanno?-

- … -  esito un attimo. E se lei fosse stata una del genere durante gli anni del liceo? Di certo non sarebbe felice se le propinassi tutti gli improperi che riservo alla banda.

- Loro sono tutti uguali e fanno le cose perché le fanno gli altri-

La mia risposta mi sembra così infantile, ora che ci rifletto. Lei corruga la fronte e poi ricomincia a farmi domande.

- Ce l’hanno con te solo perché sei… te stessa?-

Cos’è, non ci crede? In che mondo vive? Forse viene direttamente dagli anni 60, almeno così si direbbe dai suoi abiti.

- Esattamente. Hanno cominciato a darmi addosso fin dal primo giorno. Sono solita portare un libro con me in classe, da leggere durante le ore libere e così…-

- E così?-

- Gli ho detto che erano dei cretini rimbecilliti perché mi avevano gettato la copia di “Cime Tempestose”nel cestino - bofonchio. In realtà gli ho detto ben altro, ma non vorrei sembrare scurrile.

- Anche io adoro quel libro!-

Quasi saltella sulla sedia e io mi sento a disagio. Però ha dei bei gusti letterari.

- Siamo qui per parlare dei miei problemi, no? Da lì in poi anche le ragazze hanno cominciato a prendermi in giro e cose simili, come quella Vanessa Monteverde. Ma non ero il loro unico bersaglio! A tutte le persone che cercavano di aiutarmi riservavano il mio stesso trattamento e così non ho molti amici qui. Io però ho continuato a portare i libri e credo lo abbiano considerato come un affronto. Stufa, un giorno ho dato un pugno al più grosso, che fra l’altro non era nemmeno della mia stessa classe,  e il suo naso non la smetteva di sanguinare! Così hanno chiamato l’ambulanza e lui per la vergogna ha detto che era andato a sbattere contro la porta del bagno!-  rido, a questo punto.

- E poi?-

Sembra si stia appassionando, la finta-psicologa.

- E poi hanno cominciato a chiudermi nei bagni dopo le lezioni e una volta mi hanno persino gettato una lattina di coca-cola addosso bagnandomi la mia maglietta preferita degli ACDC! Da lì ho perso il conto dei lividi che mi sono procurata reagendo-  concludo. I miei occhi si fanno un po’ tristi, ora. Non mi piace ricordare.

- Perché non hai chiesto aiuto?-

- Cosa potevo fare? Se l’avessi detto ai miei genitori mi avrebbero fatto studiare a casa tanto sono protettivi. Se l’avessi detto agli insegnanti non se ne sarebbero comunque fregati. E poi io non sarei mai scappata-

Ora mi guarda come se mi credesse una pazza e un’eroina insieme. Lo sono? Pazza di sicuro, per parlare con tanta confidenza ad una donna più pazza di me che pretende di entrare nella mia testa. C’è gente che cerca di farlo da ben più tempo e che non c’è ancora riuscita. A parte mia madre, che è un caso perso, c’è quel ragazzo tutto fuso della prima bi che più di una volta mi è sembrato molto interessato ai moti circolari delle idee nel mio cervello, da come cerca di costruire una conversazione con me ogni volta che mi incrocia sulle scale. Com’è che si chiama? Tommaso, quello del gruppo di teatro moderno che si veste sempre con polo di colori improponibili. Di nuovo, come spesso accade, divago, mentre davanti a me la dottoressa aspetta che io continui a parlare. Devo essermi di nuovo dimenticata di chiudere la bocca, dannazione!

- E’ tutto?-  chiedo con cautela, perché il fatto che aveva smesso di parlare mi aveva dato la vaga ma ardita speranza che la seduta fosse finita. Ma no, lei scuote la testa con convinzione e si prepara a ricaricare il suo arsenale di parole.

- Non ti va di fare due chiacchiere? Cosa ti aspetta a casa?- mi domanda. Ha davvero toccato il fondo, ma mi è ancora un po’ simpatica, quindi non le faccio notare quanto sia patetico il suo tentativo di invogliarmi a parlare.

- Compiti, libri da leggere, tè caldi da bere. Il mio mondo-  affermo con orgoglio, senza accorgermi di aver lievemente alzato il mento.

- Hai interessi particolari oltre le attività formative? Mi sono informata e so che sei la studentessa con la media più alta del corso-

Mi riempie di fierezza sentirmelo dire, così lei guadagna punti rendendomi più malleabile.

- Ovvio, io ce l’ho una vita a differenza di quello che pensa la gente. Mi piace suonare la chitarra e disegnare, più di tutto. –

- Qual è il tuo colore preferito?-

Ridacchio, nessuno me lo chiede da quando avevo circa cinque anni e a malapena conoscevo i quattro colori fondamentali.

- Il verde smeraldo, tipo… Ha presente le foglie dei sempreverde? Ecco, una cosa del genere-

- E poi, oltre a questo?-

- Mi piace giocare ai videogiochi e andare al cinema. Non sono un’aliena, dopotutto-

Comincio a toccarmi convulsamente la perlina blu conficcata nella parte superiore del mio lobo sinistro e sento che comincia a bruciarmi la ferita, visto che ho fatto il buco solo qualche settimana fa. Quando non so cosa dire o cosa fare di solito faccio cose stupide.

- Hai un ragazzo?-

- Ma chi è lei, mia madre!?- esalo imbarazzata, ma non ho più intenzione di offenderla. Lo dico scherzosamente, mentre le gote mi vanno a fuoco. Addio dignità. Non deve essersela presa perché sta sorridendo anche lei, ma qualcosa mi dice che dovrei rispondere.

- In realtà no, con l’ultimo è finita male… sa, l’hanno preso in giro a morte per tre mesi, così alla fine gli ho voluto risparmiare l’umiliazione e l’ho piantato. Tanto comunque non me lo sarei trascinato all’altare- borbotto a bassa voce. Alessio era prima di tutto mio amico e la scelta di lasciarlo andare, oltre ad essere giustificata dal mio ormai scarso interesse nei suoi confronti, è stata ripagata ampiamente col fatto che ora lui è libero di camminare per il liceo senza che qualcuno lo apostrofi con appellativi alquanto singolari.

- Lui come l’ha presa?-

- Non ne ho idea, non ci ho più parlato, ma forse è stato una specie di sollievo, non era proprio il tipo da sfidare le masse per una come me-

- E tu?-

- Io cosa? Come l’ho presa? Credo bene… Nell’amore non ci credo mica-

Annuisce pensierosa, ora con gli occhi bassi. Guardo l’orologio e mi accorgo di essere lì da almeno un’ora, senza essermene neanche accorta. Tossisco un po’ perché la voce mi è diventata roca.

- Perché mi fa domande così banali e senza apparenti collegamenti con il nucleo della questione?- le chiedo, di soppiatto. Non se lo aspettava questo, ne sono certa. I suoi occhi azzurrini si allargano in un grottesco tentativo di dissimulare la sorpresa.

- Perché sto cercando di capire la tua essenza. Così sarà più facile trovare il modo più adatto a te per risolvere la questione-

Ora sono sul serio convinta che questa donna sia una svitata. O è così o la sua laurea l’ha comprata su e-bay.

- E cosa ha capito fino ad ora?- la sfido, alzando la testa spavaldamente.

- Che ti senti incompresa, in questo posto. E’ così? Ti senti come se qui non ci fosse nulla che ti lega al resto del mondo, perciò cerchi questi legami nelle parole dei libri o nelle immagini dei tuoi schizzi. Qualcosa a cui aggrapparti, o anche qualcuno- snocciola tutto velocemente, come a rispondere alla mia provocazione. – E’ così?- ripete poi impaziente dopo qualche minuto, visto che io mi limito a fissare le penne sulla sua scrivania. Sto riflettendo e ogni secondo che passa mi rendo conto che è esattamente quello che sento. Ma questo lo sapevo già o almeno ne avevo un vago sentore.

- Mi dica lei a cosa aggrapparmi in questo posto- sibilo a denti stretti, mutando all’istante animo. Le sue parole hanno colpito la mia carne scoperta e ora la stanno bruciando a poco a poco. Anche il mio corpo si ribella, il mio stomaco si contrae come se stessi saltando nel vuoto e la pelle comincia ad incresparsi di brividi di freddo nonostante sia quasi maggio. La mia testa si riempie di ricordi. Non mi importa ora di continuare la conversazione con questa semi-sconosciuta. Non mi importa più di nulla. Sento solo le mie grida soffocate dalla porta del bagno dei maschi, le mie lacrime che scendono giù per il legno pungente, i colpi prodotti dai miei pugni. Sento gli insulti che saltando da una parete all’altra della mia mente.

Disadattata sociale. Racchia da biblioteca. Pazza fuori dal mondo. Svitata. Sgualdrina rabbiosa.

Fa male sentirmi le mani così strette, riesco a vedermi persino le vene blu che si snodano lungo il dorso sotto la mia pelle chiarissima. Le orecchie non percepiscono nulla che non sia nella mia testa. Osservo me stessa mentre entro in classe e vedo il mio banco imbrattato di inchiostro rosso sangue.

Attenzione! Qui siede la svitata!” ed altri improperi che impedisco alla mia mente di rivivere.

- Stai piangendo- mi avvisa qualche minuto, o qualche ora dopo, la psicologa, ma io non le do ascolto.

- Sto perdendo la testa…- l’ho davvero sussurrato? Mi trema ogni parte visibile del mio corpo e il mio mascara deve essersi sciolto.

- No, stai solo reagendo come una qualsiasi quattordicenne. Era ora- mormora la donna in tono serio e, alzando la testa, vedo che ha gli occhi quasi sbarrati. Mi scappa un singhiozzo e mi alzo di scatto.

- Senta io devo andare… Dubito che ci rivedremo- gracchio ed esco velocemente sbattendo la porta. Mi accascio sullo stipite, con gli occhi gonfi e la gola in fiamme dagli spasmi, e prima di perdere del tutto i sensi, ripeto a me stessa il mio motto nella speranza di non addormentarmi.

Un giorno vivrai in una grande città. Ci sarà qualcuno che ti apprezzerà e che ti amerà per come sei. Esprimerai le tue idee e non avrai paura. Ce la farai da sola. Non può esserci niente di peggio del presente.

 

 

 

  
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