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Autore: Vanderbilt    10/12/2012    12 recensioni
Una scatola azzura. Un negozio. Una proposta con qualcosa che manca.
Bella si ritrova da Tiffany per acquistare il suo anello di fidanzamento, da sola. Never say never. Bella non aveva fatto caso al significato di quelle parole, ma lo scoprirà il giorno di Natale, con una sorpresa inaspettata che sarà in grado di aggiustare un legame spezzato.
"In un rapporto non era mai troppo tardi, si poteva sempre recuperare, cambiare le cose e fare centro. L'amore era fatto di discese e salite, se non si scalavano le salite non ci potevano essere discese. Se si rischiava si otteneva, se si stava fermi si perdeva."
Genere: Romantico, Sentimentale, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Alice Cullen, Edward Cullen, Isabella Swan | Coppie: Bella/Edward
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessun libro/film
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Regali da Tiffany

 

Oh comin’ home
Oh babe
You know I need you
Oh comin’ home

I gotta have you
You know I need you
(Love, love, love, love)

I gotta have you

Baby Please Come Home- Michael Bublé

 

 

Una mattinata come un'altra si era trasformata in un qualcosa di speciale, divenendo la giornata che mi cambiò la vita per sempre.

Quella stessa mattina ero uscita di casa scoraggiata e triste per un valido motivo: mi stavo recando nel negozio dal marchio più famoso del mondo a scegliere un anello di fidanzamento totalmente da sola, perché sì, il mio fidanzato era troppo occupato con la sua posizione da direttore di azienda per impiegare il suo tempo in qualcosa di così “futile”. Quando gli avevo detto quanto era importante per me che lui fosse presente, mi aveva definita una donna superficiale per poi scusarsi subito dopo vedendo la mia faccia impietrita. Non aveva compreso che per me era essenziale trascorrere del tempo con lui, fare qualcosa insieme, e non per quello stupido anello che neanche volevo visto che non era certo la donna a dover andare a scegliere l'anello di fidanzamento, ma l'uomo che faceva una sorpresa alla donna amata. Be', evidentemente quello non era il mio caso, quindi avevo lasciato correre con l'amaro in bocca e avevo chiuso il discorso, sperando fino all'ultimo che lui cambiasse idea. Purtroppo non era successo; mi trovavo davanti al famoso negozio Tiffany, sulla Fifth Avenue ma di lui non c'era traccia.

Ero così demoralizzata e triste che non badai a nulla in quel negozio, mi diressi direttamente verso il reparto anelli. Non avevo problemi ad orientarmi, ero già stata in quello splendido negozio mesi fa per fare un regalo a mia sorella Rosalie. In quel periodo, ovviamente, l'atmosfera era diversa: dicembre era arrivato, così gli addobbi avevano dato al negozio un'atmosfera a dir poco magica, con quel fantastico albero di Natale pieno di pacchetti di Tiffany. Anche le palline appese all'albero recavano il logo del negozio, come pure quei fantastici mini pacchettini che ti veniva voglia di infilare in borsa e portare a casa per appenderli al tuo albero.

Quel color azzurro tanto particolare sapeva come farti incantare. Di certo una volta entrata in quel negozio il tuo umore cambiava radicalmente, esattamente come stava succedendo a me: mi ero fatta trasportare dalla magia denominata Tiffany.

Dio, come mi sarebbe piaciuto essere in quel posto con lui, curiosare tra le vetrinette di cristallo in cerca dell'anello perfetto o delle nostre future fedi, ma nulla di tutto ciò stava succedendo, io ero lì, sola, che guardavo furtivamente anelli su anelli scansando la marea di gente che si trovava a fare acquisti.

Ad un certo punto decisi che era inutile continuare a gironzolare a vuoto e di chiedere ad una commessa. Purtroppo non ero l'unica dell'idea di farsi aiutare nella scelta dell'acquisto, quindi mi misi in fila verso il bancone azzurro. Mi guardai intorno e vidi per la maggior parte persone sole che facevano gli ultimi acquisti di Natale.

Guardai oltre le vetrine di quel primo piano e vidi piccoli fiocchi di neve iniziare a scendere su New York City. Adoravo quella città, sempre piena di vita e persone di tutte le culture, mi affascinava sapere di vivere in un luogo dove potevi utilizzare la parola “diverso” in qualsiasi caso, perché lì eravamo tutti una cosa a sé stante.

Mi dondolai sui tacchi, ero vestita come per andare al lavoro: tacchi a spillo, gonna a tubino e camicetta di seta con giacchetta sotto il cappotto bianco. Quella mattina mi ero presa delle ore di permesso per fare un salto qui e il mio capo non aveva fatto storie, non ce n'era motivo visto che facevo l'attuaria presso l'azienda del mio fidanzato. Era così che ci eravamo conosciuti, al mio primo colloquio di lavoro dopo la mia laurea in Finanza; lui era rimasto colpito dalla mia passione per le statistiche e i calcoli annessi, io ero entusiasta di lavorare per un'azienda tanto illustre. Lì scoppiò il famoso colpo di fulmine, fu una cosa tanto repentina quanto fantastica, nessuno dei due ebbe mai dubbi di essere la metà perfetta dell'altro, ma, purtroppo, come capita spesso, non sempre era tutto rose e fiori, infatti i problemi erano arrivati anche per noi. Dopo tre anni di relazione.

Ultimamente lo vedevo diverso, non era più l'uomo di cui mi ero innamorata, la sua solarità, il modo in cui teneva a me si prendeva cura del nostro amore non era più lo stesso. Questo mi faceva soffrire, vedevo il nostro rapporto sgretolarsi senza sapere cosa fare per rimediare. Eppure ero io quella che diceva sempre che c'era sempre qualcosa che si poteva fare per salvare un amore, sempre ottimista... non in quel frangente di tempo, non ne avevo la forza e non capivo il problema. Era troppo difficile salvare qualcosa che non poteva essere rimesso insieme, eppure ero lì, in quel negozio a cercare il mio anello di fidanzamento, perché, evidentemente, ci credevo ancora.

Pensarci faceva più male che rassegnarsi, non riuscivo a superare la fase di un rapporto al capolinea, quindi rassegnarmi era fuori discussione.

Non puoi pensare davvero che il vostro amore sia finito, Bella, non sei tu, tu lotti per quello che vuoi, sempre.

Probabilmente ero cambiata. Probabilmente avevo troppa paura di sentirmi dire che non c'era più nulla da fare.

In quel caso non saresti qui. Se per lui fosse finita non vi dovreste sposare.

Forse non sapeva come dirmelo, vocina fastidiosa!

Sbuffai silenziosamente per i miei pensieri contorti ed avanzai nella fila. Una volta dinanzi al bancone aspettai che la commessa si liberasse. Nel frattempo guardai i gioielli al di sotto della placa di vetro su cui ero appoggiata e sorrisi vedendo un bracciale con i dolci appesi: era stupendo.

«Niente male, vero? Secondo lei potrebbe piacere ad una ragazza di venticinque anni?». Una voce alla mia destra mi distrasse dalla mia solitudine interiore. Mi girai e vidi un ragazzo più o meno della mia età, con capelli castani chiari e due occhi azzurri incantevoli. Non gli arrivavo neanche alla mento e questo mi ricordò che ero una nana anche in confronto al mio fidanzato. Ma perché tutti gli uomini mi dovevano far sentire così bassa anche con i tacchi?! Eppure raggiungevo il metro e settantasette con le décolleté che indossavo quel giorno!

Mi riscossi dallo scanner completo che avevo fatto per poi rispondere con un cenno affermativo. «Piace a me che ho ventotto anni, quindi sì, potrebbe piacerle». Sorrisi a quello sconosciuto dall'aria gentile e dannatamente carina.

«Sa», iniziò, «se aspettavo il parere di una commessa uscirei di qui verso le sei di sera e non è la giornata adatta per ritardare al lavoro».

«Non lo dica a me, purtroppo io sono costretta ad aspettare un consiglio, altrimenti mi sarei già fatta impacchettare la mia scelta per poi scappare ai miei stupendi calcoli e statistiche».

«Che lavoro fa?», mi chiese interessato. Girai il viso verso di lui e fissai i suoi occhi celesti sorridendo, era simpatico il suo curioso modo di attaccare bottone.

«L'attuaria», risposi semplicemente.

«Allora le rivelo un segreto», disse avvicinandosi a me come se mi stesse per rivelare la data della fine del mondo. «Anch'io ho spesso a che fare con calcoli e statistiche, anche se un po' diverse dalle sue».

«Per quale motivo?», chiesi interessata.

«Faccio il discografico, calcolare un potenziale successo è la mia fonte di guadagno primaria», mi disse facendomi l'occhiolino.

Risi deliziata dal suo tentativo di flirt, era sottile, non eccessivo, ma molto dolce nel suo modo di fare galante. In due parole mi aveva messo a mio agio ed era difficile per me socializzare con degli sconosciuti, specialmente se di sesso maschile, solitamente mi imbarazzavo molto.

«Oh, be', è un mestiere interessante, non se ne sentono molti in giro, o meglio io non ne ho mai incontrati».

«Fino ad oggi», mi corresse lui. Sorrisi senza ribattere e mi concentrai nuovamente sugli anelli di fronte a me. Non volevo mostrarmi interessata e dargli false speranze, per quanto fosse carino. Anzi carino era troppo poco.

«Visto l'aiuto che mi ha dato mi pare il minimo ricambiare e aiutarla a mia volta. A chi deve fare un regalo?».

«A me stessa», dissi tristemente. Il suo sguardo confuso mi fece capire che dovevo spiegarmi meglio. «Sto cercando il mio anello di fidanzamento». La sua faccia si oscurò per una frazione di secondo, per poi tornare alla sua espressione serena.

«È una qualche nuova usanza di cui non sono a conoscenza?», la buttò sul ridere.

«Ci sarebbe dovuto essere il mio fidanzato con me, ma non è potuto venire», spiegai con l'amaro che si faceva sentire in ogni parola.

«Quindi non stava scherzando... E il tuo ragazzo ti ha lasciata venire da sola invece di spostare il giorno?». Annuii con un'espressione cupa. Il passaggio dal “lei” al “tu” era stato così veloce che quasi non me ne accorsi.

«Ah, gli uomini! Cosa combiniamo, eh?». Apprezzai il suo tentativo di sdrammatizzare l'intera faccenda, di una tristezza infinita.

Arrivò la commessa a cui chiesi degli anelli che corrispondessero alla mia idea di partenza: semplice, sottile e con qualche brillantino intorno alla fedina. Non ero il tipo da solitario, ero già troppo sola per i miei gusti.

Nel frattempo il ragazzo senza nome si fece impacchettare il bracciale con i dolci appesi. Non appena ebbe finito si voltò verso di me con un sorriso enorme: « Quindi non c'è la minima possibilità di prendere un caffè insieme?».

Scossi la testa. «Mi dispiace».

«Forse dovevo arrivare dopo, o prima, dipende da come si guarda la situazione. Sei brava con i calcoli, secondo te?». Il significato era chiaro: un fidanzato che non si presentava era sinonimo di menefegrismo e ciò voleva dire l'avvicinarsi di una rottura. Non poteva essere così, non doveva accorgersene anche un perfetto sconosciuto!

«Non credo che un dopo ti sarà mai d'aiuto». Quello che intendevo era palese: amavo il mio uomo, anche con le sue pecche e speravo di non vedere mai avverarsi il mio incubo peggiore.

«Never say never, i The Fray non sbagliano un colpo», detto ciò se ne andò e io rimasi impalata a guardare la sua figura allontanarsi e ripensando alla sua citazione: mai dire mai.

 

 

Alla fine uscii dal negozio senza il famoso anello, non me la sentivo proprio di acquistarlo da sola e, sinceramente, non sapevo neanche se ce ne fosse ancora bisogno. Non era inutile comprare qualcosa che tanto non indosserai mai? Qualcosa che quando lo guarderai ti ricorderà solo il triste evento di quel giorno in cui da sola avevi acquistato il pegno di un amore finito, un amore in cui credevi con tutta te stessa?

Faceva male ricordare, ma era ancora peggio dimenticare. Non avrei scordato nulla di lui, dei bei momenti passati assieme, eppure covavo rancore, in quel momento. Addossavo a lui la colpa per ciò che ci stava capitando, anche se non si può mai attribuire solo a una persona, in una coppia si è in due.

Mi voltai a osservare l'insegna luminosa Tiffany, dopodiché mi rivoltai per andarmene, ma sbattei contro un petto solido. Alzai il viso, riconoscendo già quel cappotto nero, e infatti mi trovai faccia a faccia con il mio fidanzato.

«Edward», esclamai sorpresa. «Che... che ci fai qui? È successo qualcosa?», mi agitai subito.

Edward mi prese per le spalle per immobilizzarmi e parlò con voce tranquilla: «No, non è capitato nulla a nessuno... Forse a noi due sì, però». Abbassai lo sguardo colpita dalla verità delle sue parole. Non volevo discuterne in mezzo alla strada e lui sembrò del mio stesso parere. «Andiamo a casa».

In silenzio entrai nella sua auto e per tutto il viaggio venne mantenuto il borbottio della radio che trasmetteva le news del giorno. Era così strano per noi stare in quel silenzio imbarazzante, non ero abituata. Fin dagli inizi della nostra relazione l'imbarazzo era l'unica cosa che tra noi non c'era mai stata, eravamo così in sintonia che quel sentimento era superfluo; c'era sempre qualcosa di cui parlare, benché anche i nostri silenzi esistessero, comunicavano sempre qualcosa.

Attraversammo due viali, dopodiché ci ritrovammo davanti al grattacielo dove abitavamo. Non si scomodò a scendere nel parcheggio sotterraneo, cosa che solitamente faceva vista la paura folle che qualcuno gli graffiasse l'auto. Scesi dalla macchina e salii subito sul marciapiede, aspettando che chiudesse per entrare nel palazzo.

Salutammo il portiere, Peter, ed entrammo in ascensore, stranamente vuoto.

«Non ce la faccio più», sbottai per prima. La pazienza non era una mia virtù, solitamente neanche di Edward, ma a quanto sembrava questa volta stava resistendo.

«Ancora quindici piani», suggerì Edward.

«E ti sembrano pochi?!», domandai retorica.

«No, ora sono infiniti», sillabò.

«Non cambia nulla aspettare 'sti dannati tredici piani», strillai mentre salivamo. Non riuscivo più a trattenermi, il nervosismo per quella dannata situazione aveva preso il sopravvento.

«Forse no, ormai che siamo in ballo...».

«... Potresti iniziare a spiegarmi cosa ti succede!», lo interruppi.

Mi voltai verso di lui, dando le spalle alla porta di acciaio in modo da ritrovarmi di fronte la sua figura. Appoggiò le spalle alla parete fredda e mi guardò senza rispondere.

«Stai forse aspettando un'illuminazione divina?».

«Aspetto di essere in casa e non dare spettacolo ai sorveglianti che ci stanno osservando», mi rispose sogghignando indicandomi la telecamera di sicurezza alla mia sinistra.

In altre circostanze mi sarei vergognata per la scenata che stavo facendo, ma non quel giorno, non dopo che il mio fidanzato mi aveva lasciata da sola in quel benedetto negozio, non dopo che era chiaro il suo intento di chiudere la nostra relazione.

Appena aprii bocca per rispondere sentii il plin dell'ascensore, segno che eravamo giunti al nostro appartamento. Inserimmo il codice e accedemmo all'attico. Buttai borsa e cappotto in un angolo, scalciai le scarpe e mi volsi subito verso Edward.

«Ora non hai più scuse, rispondimi una buona volta! Non ce la faccio più, Edward!», sbottai per la seconda volta in mezzora.

« Ho... ho visto il test, Bella». Ci misi qualche secondo a collegare le sue parole, il suo viso preoccupato e cupo, con la parola test.

«Il... test di gravidanza?», chiesi esitante.

«Sì», rispose conciso.

«Non capisco. Era questo il problema? Anzi, è questo?».

«Sì», disse ancora.

Rimasi in silenzio, non sapevo cosa dirgli, né come l'avrebbe presa. Non avevamo mai affrontato il tema figli, era come una specie di tabù fra noi, perché fin da subito mi aveva parlato del disastroso rapporto con suo padre e, quindi, avevo evitato qualsiasi cosa potesse farlo soffrire e ricordarglielo dopo la sua morte.

«Edward, smettila con i tuoi monosillabi!».

«Ho avuto paura, okay? Un fottuto terrore all'idea di mettere al mondo un figlio!».

«Tecnicamente quello spetterebbe a me...», ironizzai. Mi fulminò ed io alzai le mani per scusarmi della pessima battuta. «Era negativo, qual è il problema, ora?».

«Il problema è...», si bloccò prima ancora che quelle paroline potessero uscire dalla sua bocca.

«Tu non vuoi creare una famiglia con me», esplicai al suo posto in un sussurro fissando il pavimento di marmo scuro.

I suoi piedi spuntarono nel mio campo visivo e subito le sue mani fredde, a causa della temperatura gelida di NY, alzarono il mio viso alla sua altezza. Non riuscii a fissarlo negli occhi, troppo verdi, troppo intensi; avevo paura di scoppiare in lacrime tanto era il dolore che mi affliggeva in quell'istante. Edward non voleva una famiglia, ecco il perché del suo terrore a parlare del test, del rifiuto ad accompagnarmi a prendere l'anello di fidanzamento. Lui non voleva questo, gli bastava che la nostra relazione funzionasse e andasse avanti come avevamo fatto fino a quel momento: solo noi due, senza impegni duraturi o qualcuno che ci legasse ancora di più.

Mi scostai allontanando le sue mani e mi appoggiai allo schienale della poltrona per sostenermi.

«Non sei tu, Bella, il problema, non sei mai stata tu».

«Ma il problema c'è». Le parole mi uscirono prima che potessi fermarle, ero un fiume in piena. «Non lo sapevo, non ne avevo idea! Avevo sempre creduto che avremmo costruito una famiglia, insieme. Avremmo avuto dei figli; un matrimonio o una convivenza, questo non faceva la differenza, per me. Ma non così, non questo, non voglio questo!», sottolineai allargando le braccia.

«Non è così, Bella! Non fraintendere le mie parole!».

«Come faccio a farlo se non mi parli?! Se non ti apri?! Ma una cosa è chiara: tu, non vuoi legami! Non li hai mai voluti e sono stata io la scema a crederci, da sempre!», strillai tra le lacrime che iniziavano a scendere sulle mie guance.

«NO!», urlò anche lui. «Ti ho chiesto di sposarmi perché il pensiero di passare una vita con te non mi spaventa!».

«Non è stata una cosa premeditata, Edward!».

«È vero, ammetto di non averci mai pensato con la dovuta calma, ma in quel momento era la cosa giusta, lo sentivo».

«Stai parlando al passato, sai?», precisai ironicamente.

«Vale anche adesso».

«Be', non per me», dissi asciugandomi le lacrime e alzandomi in piedi. Mi diressi verso la nostra camera da letto, dove sul piumone stava raggomitolato Mine, il nostro gattino di nove mesi. Gli diedi una carezza tirando fuori dall'armadio un borsone di medie dimensioni.

Edward mi seguì, vidi di sfuggita il suo sguardo spaventato, ma non me ne curai.

Appena comprese cosa stavo facendo corse a bloccarmi le mani. «Bella, no! Non andartene, ti prego!», mi pregò con occhi lucidi.

Scacciai le sue mani senza guardare il suo viso addolorato. In quel caso sapevo mi sarei fermata, lo amavo troppo per vederlo soffrire. Amare era tutto questo e ben altro. Ogni sentimento conosciuto all'uomo faceva parte di quel sentimento più grande che era in grado di cambiare le persone, migliorarle, distruggerle...

«Devo farlo, Edward. Per me e per te. Per permetterci di avere quello che vogliamo da un rapporto senza rimpianti, evitando un domani di rinfacciarci qualcosa che ci è mancato o che abbiamo voluto, ma di cui portiamo il peso sulle spalle». Era stato così difficile troncare una volta per tutte il rapporto, ogni parola era come un ago che punzecchiava il mio cuore già gocciolante di dolore. Ero altruista cercando di dare anche a lui l'amore che meritava senza doversi addossare i miei desideri, i quali assolutamente non combaciavano con i suoi? No, non lo ero mai stata e non lo stavo diventando in quel momento. Ciò che gli stavo donando era la libertà di cui aveva bisogno, lo avevo appena liberato dall'amore che lo opprimeva, ma che non aveva il coraggio di recidere.


 

La vedevo stringere i suoi vestiti tra le mani per poi ripiegarli e metterli nel borsone. Aveva fretta e questo mi faceva ancora più male: voleva allontanarsi subito da me.

Non riuscivo a guardarla fare i bagagli, ero impietrito senza sapere come agire per fermarla. Un uomo di trent'anni, direttore di un'azienda, che non sa neanche come fermare la donna che ama più della sua stessa vita, colei che gli aveva mostrato calore e amore, la donna che gli aveva fatto conoscere il significato di famiglia e di tutte quelle cose che messe insieme ti davano la pace e la serenità per andare avanti ed affrontare ogni cosa. Insieme a lei sentivo come se il mondo che mi circondava non fosse nulla; solo lei contava, solo il suo amore, solo la sua felicità.

Ed ora mi stava scivolando tra le mani come cenere portata via dal vento.

La amavo, sì, ma comunque non ero riuscito ad aprirmi e dirgli cosa mi affliggeva, qual era il mio terrore assiduo da quando avevo visto quel test tre giorni prima. Sapevo perché non me lo aveva detto ed ero certo che se fosse stato positivo sarei stato il primo ad essere informato.

«Amore, ti prego, fermati un secondo e ascoltami», tornai davanti a lei, prendendo il borsone chiuso dalle sue mani e posandolo sul letto.

Avvolsi il suo tenero viso dalla pelle di porcellana tra le mie mani e restammo a fissarci negli occhi.

«Resta qui. Con me. Non mi abbandonare, non puoi, tu...». Non sapevo neanche cosa dire, ero solo un patetico uomo la cui sua più grande paura si stava avverando.

«Non posso, ti scongiuro, comprendimi», mi pregò anche lei.

«Come posso lasciare andare la donna della mia vita? Non ne ho la forza, amore, non ci riesco. So che sono un egoista, lo so, eppure avrei rimpianti per sempre se ti lasciassi uscire da quella porta», sillabai come un condannato che cercava il perdono.

«Stai rendendo le cose più difficili», sussurrò tra le lacrime. Odiavo vederla in quello stato. Fin dagli inizi della nostra relazione il mio obiettivo era stato farla stare bene, cercando di non far comparire mai quell'espressione di agonia che aveva ora sul viso perfetto. Quegli occhi scuri erano diventati troppo limpidi e chiari, segno delle lacrime che ancora cercava di trattenere.

Non so cosa vidi in quello sguardo, non so cosa comprese il mio cuore e la mia mente, fatto sta che tre secondi dopo le mie mani erano a penzoloni lungo i miei fianchi.

«Ti amerò sempre, di quell'amore malato e troppo forte per poter essere compreso. Però abbiamo bisogno di un amore sano, che ci doni ciò che vogliamo senza farci mancare nulla». Le sue parole erano false, lei stessa cercava di convincersi che potevamo stare meglio separati. Stava dando qualcosa ad entrambi a cui appigliarci anche se non funzionava.

«Ed io so che l'amore sano è debole, calpestabile. Il nostro amore sarà anche malato, ma è ciò che di più vero e passionale esista. Tu hai bisogno di questo tanto quanto me», mi sforzai di convincerla per l'ultima volta con voce roca, spezzata dal groppo che sentivo in gola.

Scosse la testa: «Ci stiamo trascinando, non stiamo vivendo. Siamo fermi allo stesso punto da tre anni». Detto ciò entrò nell'ascensore che aveva chiamato poco prima, scomparendo dalla mia vista prima che potessi fare qualcosa. Mi attaccai all'ascensore, cercando di fermare la sua discesa, ma non ci fu nulla da fare, i numerini sopra la porta d'acciaio segnalavano il continuo allontanamento di Bella. Sapevo che anche scendendo per le scale antincendio non l'avrei mai raggiunta. L'avevo persa? No, mai, era la mia metà perfetta e l'avrei riavuta.
 

Per il resto della giornata non andai in ufficio, mi rinchiusi in camera tra il suo odore impregnato nelle lenzuola, con il nostro gatto che mi faceva compagnia e mugolava per i grattini sulla testa. Anche lui sembrava depresso, sentiva la mancanza di Bella e delle sue continue attenzioni, proprio come me.

Continuai a chiamarla, sperando di sentirla almeno per telefono. Non sapevo dove sarebbe andata, quindi era inutile cercarla per tutta NYC.

Rifiutò tutte le mie chiamate, non rispose neanche ad un messaggio e alle nove di sera stavo ormai impazzendo senza di lei. Non sapevo dov'era, con chi, se stava bene, se aveva trovato una sistemazione e la mia ansia saliva sempre più. Se le fosse successo qualcosa non sapevo cosa avrei fatto.

Alle dieci, dopo altre mie quindici chiamate a Bella, tutte rifiutate, e altrettanti messaggi, mia sorella Alice mi inviò un messaggio dove diceva che Bella era da lei e di finirla di chiamarla continuamente.

Chiamai subito Alice, che mi rispose al primo squillo.

«Sta bene? Perché non risponde? Passamela, devo...».

«Fratello, frena! Non è un buon momento, lasciale qualche giorno per calmarsi e liberare la mente».

«Non posso! Non voglio perderla e...».

«In questo momento potresti fare più danni che il resto».

Sospirai esausto. «Domani verrà al lavoro?».

«È mai mancata un giorno?», mi chiese retoricamente Alice. Bella non si era mai approfittata della nostra relazione per saltare il lavoro, anzi si era impegnata più di tutti gli altri dipendenti per far vedere che quel lavoro se lo meritava a priori che fosse o meno la mia fidanzata.

«Okay».

«Edward, no», mi ammonì.

«Cosa?», chiesi confuso.

«Non puoi placcarla al lavoro!».

«Ogni momento è buono! La amo, non posso semplicemente lasciarmela sfuggire perché sono un dannato idiota!», quasi urlai ogni singola lettera attraverso il telefono.

«È la vigilia di Natale, domani, vuoi rovinarle una festa a cui lei tiene così tanto?», mi guardai intorno, nel salotto addobbato. Ogni angolo recava qualcosa in tema natalizio.

«No», ammisi.

 

Il giorno dopo non si presentò al lavoro. Alice non aveva azzeccato la scelta di Bella, anzi alle due di pomeriggio mi ritrovai con il morale sotto le scarpe e subito dopo furioso per ben due motivi: Bella non rispondeva a nessuna delle mie chiamate e avevo appena ricevuto la sua lettera di dimissioni.

Mandai un messaggio ad Alice, visto che lavorava, chiedendole se ne sapeva qualcosa e dove si trovava Bella in quel momento. Avevo assoluto bisogno di parlare con lei, vederla e chiarire le cose. Mi rispose nel giro di qualche minuto, ma non sapeva né della lettera, né dove fosse, non di certo in casa, aveva specificato.

Uscii dall'ufficio dopo aver combinato solo pasticci. Non ero concentrato e tutti continuavano a chiedermi della strana assenza di Bella. Detestavo dare spiegazioni sulla mia vita privata, ma essendo lei una loro collega dissi solo che era malata; se per caso avevano intuito la menzogna problemi loro.

Arrivai a casa agitato, ansioso e con un dolore che mi bloccava il petto. Cos'era la mia vita senza Bella? Nulla, io non ero nessuno. Non ero un uomo. Non ero un fidanzato. Non avevo l'amore. E, nella vita, cosa si faceva senza il sentimento supremo?

Stavo impazzendo, letteralmente, mi sembrava di sentire le porte dell'ascensore aprirsi, i suoi passi risuonare lungo il pavimento di marmo, ma era solo frutto della mia immaginazione. La mente faceva davvero brutti scherzi quando il dolore sopraffaceva tutto il resto.

Mi chiusi nella mia bolla, pensai ai nostri tre anni insieme, ai momenti felici, alla nostra prima volta e a tutte le seguenti. La passione non era mai mancata tra noi, anzi, i weekend in cui ci rintanavamo in casa passando intere giornate a letto non era contabili.

Ad un tratto tra i miei pensieri spuntò il viso di mio padre, l'uomo che era morto due anni prima e per cui non avevo sentito quasi nulla. Mi ero sempre sentito in colpa quando alla sua morta sentii come se avessi perso un lontano zio e non mio padre, colui che mi aveva dato una vita. Non eravamo mai stati uniti, il nostro rapporto era sempre stato freddo e distaccato, e le cose erano peggiorate alla morte di mia madre, quando io ed Alice avevamo solo tredici anni. Era lei che ci accudiva e ci donava l'amore di cui avevamo bisogno, non di certo il padre che pensava solo a dare i soldi in casa per farci avere una vita più che dignitosa, ma che poi per il resto era assente. Alla morte di nostra madre ci aveva affidato alle tate, che ci avevano cresciuto nel migliore dei modi, ma senza l'amore familiare di cui avevamo bisogno. Per questo crebbi imparando ad essere distaccato con le persone che mi circondavano, fino a quando non incrociai sul mio cammino Bella. Lei aveva cambiato tutte le mie convinzioni, abbattuto ogni barriera. Era per questo che l'amavo sempre di più. Ogni giorno ricordavo di quanto era riuscita ad andare oltre la corazza iniziale, scoprendo al mondo il vero me stesso, di cui ero ignaro anch'io.

Mi addormentai verso le tre di notte ed ormai era il 25 dicembre. Dormii fino alle tre di pomeriggio, recuperando le ore di sonno perse il giorno precedente. Era Natale, la festa preferita del mio amore. Non volevo rovinargli quel giorno così magico per lei, ma la notte mi aveva sicuramente portato consiglio. Sapevo cosa fare.

Feci qualche telefonata per farmi aprire il negozio più famoso al mondo: Tiffany. Grazie a degli agganci il direttore mi fece aprire il locale da una sua guardia e un dipendente mi servì. Comprai l'anello perfetto, quello che sapevo le sarebbe piaciuto a prima vista e scappai a casa ad attendere. L'attesa non era il massimo, ma tutto faceva parte di un piano, ovvero sorprendere Bella mentre veniva a prendersi delle cose che le servivano. Alice mi aveva avvisato mentre ero da Tiffany:

 

Eddie, sei a casa? Bella ha bisogno di prendere alcune cose dal vostro appartamento.

Alice

 

Ed ecco che Alice mi aveva servito la mia chance su un piatto d'argento.

 

A che ora?

Edward

 

Stasera, prima di cena.

Alice

 

Avevo detto ad Alice che non ci sarei stato, invece ero lì, in trepidante attesa, ad aspettare Bella. Avevo ricreato un'atmosfera particolare, ovvero quella del nostro primo appuntamento: una cena a lume di candela al mio vecchio appartamento. Qui era un po' diverso, avevo messo qualche candela qua e là, cucinato qualche suo piatto preferito ed acquistato un dolce particolare, ero troppo negato come pasticcere e non volevo rischiare di avvelenarla proprio il giorno di Natale, che avrebbe segnato per noi un nuovo inizio.

Tutto il pavimento della casa era ricoperto di petali di rose rosse e blu. Il camino acceso e la musica bassa risuonava per la casa. Le vetrate ampie offrivano un panorama suggestivo, perfetto per quella serata.

Sapevo che avrei fatto centro così, ma non era solo quello il mio obiettivo.

Dovevo farle capire che desideravamo le stesse cose, bastava solo vivessimo il nostro amore, solo così avrei trovato la forza per fare quei grandi passi che mi spaventavano.

Perso nelle mie fantasie proiettate sul futuro sobbalzai al suono del plin dell'ascensore. Ero così agitato che mi sudavano le mani e tremavo in maniera assurda. Era Bella, accidenti, non una donna qualunque!

Sentii i suoi tacchi risuonare nel corridoio per poi fermarsi, sicuramente sorpresa dai petali di rose. A quel punto feci la mia entrata in scena presentandomi davanti a lei in jeans e camicia blu con tanto di cravattino. Mi ero preparato con cura quella sera.

I suoi occhi sgranati mi fecero sorridere, feci dei passi avanti con calma, afferrando la sua mano gelata tra le mie che bruciavano. L'avvicinai a me stringendo il suo piccolo corpo e saggiando le sue curve schiacciate contro di me. Mi strinse anche lei, segno che le ero mancato. Non volevo più staccarmi, tanta era la paura che scappasse via da me per la seconda volta.

La mia mano sulla sua schiena la spinse ancora di più verso di me e poi, senza staccarci, la trascinai verso la vetrata, dove il panorama dietro di lei creava quell'alone di magia che unita al Natale era come una dolce sinfonia d'amore.

Lei rimase zitta tutto il tempo, si fece portare nel salone senza emettere una parola. Mi preoccupai e pensai subito: se non era abbastanza? Se dovevo fare di più? Dopotutto lei, ora, è ferita.

Scacciai quelle ansie prima che mi sommergessero facendomi perdere la mia ritrovata calma e concentrazione.

Uno di fronte all'altro, occhi negli occhi, iniziai ad aprirmi: «Amore, l'altro ieri ho commesso un terribile sbaglio, sono stato muto quando dovevo urlare e spiegarti cosa mi frenava.

«Vedi, il problema non era se tu avessi o meno una creatura che ti cresceva in pancia. Il problema ero io, sono sempre stato io e forse lo sarò sempre. Appena ho visto il test, sai qual è stato il mio primo pensiero?». Scosse la testa e continuai affondando in quelle pozze scure. «E se fossi stato un pessimo padre? Come avrei potuto crescere mio figlio visto che non ho la più pallida idea del ruolo di un padre nella vita di un bambino? Non ho mai avuto un esempio da seguire e ricordare tutti quegli anni in cui soffrivo per la mancanza di una figura maschile, mi ha fatto capire che non avrei mai voluto che succedesse lo stesso a mio figlio». Cercò di interrompermi, ma la fermai giusto in tempo posando un dito sulle sue labbra. «Vorrei poter prevedere il futuro e dire che sarò un ottimo padre, saprò amare mio figlio e darti la famiglia che hai sempre desiderato, ma non posso e non credo di essere in grado di farti simili promesse. Eppure sono qui, a dirti che ti amo, amore, che non desidero nessuno nella mia vita se non te, che non vorrei mai nessuno. Voglio una vita insieme a te, voglio tu sia mia moglie...», mi interruppi alla sua faccia sconvolta. «Sì, Bella, voglio che tu mi sposa. Però voglio che tu sappia che non posso prometterti nulla, non so se sarò mai un buon padre, penso di volerci provare se tu sarai al mio fianco, ma ho il terrore di fallire sia con te che con un futuro bambino. Questa è la mia paura, quindi, ora posso chiederti: vuoi sposarmi, amore? Nonostante i miei difetti, le mie paura e la quasi certezza che non sarò mai un padre che dei bambini meritano, desideri ancora sposarmi?». Mi inginocchiai come di rito ed estrassi dalla tasca posteriore la scatolina azzurra, aprendola davanti ai suoi occhi.

Si portò le mani alla bocca, facendo crollare la borsa dalla sua spalla al pavimento, e scivolò a terra, inginocchiata di fronte a me. Altre lacrime scesero dai suoi occhi già arrossati e iniziarono a tremarmi le mani pensando ad un suo possibile rifiuto, che fino a quel momento non avevo messo in conto.

Passarono secondi, poi minuti, sempre immobili nella stessa posizione, pietrificati l'uno di fronte all'altra, inginocchiati sul pavimento.

«Bella? Am...», la chiamai, ma non finii la frase, che mi saltò addosso stringendo le sue braccia attorno al mio collo e facendomi cadere la scatolina dalle mani. Appoggiò le sue labbra sulle mie e dopo due giorni di assenza di contatti fu come se i cori degli angeli risuonassero nella mia testa.

Subito un fuoco interiore si accese in entrambi e ci baciammo voracemente. Mossi le mie labbra in sincronia alle sue, la mia lingua sfiorò le sue labbra socchiuse ed entrò in contatto con la sua. Le nostre mani vagavano sui corpi dell'altro, toccando e tastando come se per mesi non ci fossimo visti.

Ci staccammo ansanti e i nostri sguardi si accalappiarono nuovamente. La mia schiena appoggiata ai piedi del divani e lei a calvalcioni su di me. I nostro corpi che ancora si sfioravano, le nostre mani intrecciate. C'era un modo più bello di passare un Natale?

«Questo era un sì?», le chiesi conferma.

«C'è davvero bisogno di specificarlo?», mi domandò a sua volta.

«Non credo».

«Ti amo, Edward, come non pensavo fosse possibile amare qualcuno. E so che sarai un ottimo padre. Come potresti non esserlo visto l'amore che provi per la sottoscritta, il modo in cui ti sei sempre preso cura di me... Sarebbe impossibile».

«Non ne sono così certo». Feci uscire la debolezza che stava in me. Un uomo non mostrava mai questo suo lato se non con la donna che capiva e amava anche le insicurezze della sua anima gemella.

«Insieme, ti dimostrerò che ti sbagli e che la tua paura non ha fondamenta».

«Mi piace come suona», sussurrai sulle sue labbra. «E per la cronaca, ti amo anch'io, Bella, più di tutto quello che ho mai avuto».

Le misi l'anello al dito, una semplice fedina con tre brillantini al centro, a suggellare il nostro amore.

In un rapporto non era mai troppo tardi, si poteva sempre recuperare, cambiare le cose e fare centro. L'amore era fatto di discese e salite, se non si scalavano le salite non ci potevano essere discese. Se si rischiava si otteneva, se si stava fermi si perdeva.

 

Buonasera, ragazze :3 Sì, dovevo aggiornare "Scusa...", che è quasi terminata, e invece eccomi qui con una nuova os. Non ne ho mai scritte in tema natalizio o di qualsiasi altra festa, ma la trama di questa storia l'avevo scritta un anno fa e rileggendola ho pensato di inserirla in questo periodo, così in due giorni ecco che è uscita 'sta cosetta. La trama è totalmente diversa da come l'avevo ideata, ma dopo aver scritto le prime tre pagine sono stata assalita dai dubbi, cercando di fare sondaggi per la scelta 1 o 2, ahah. Sì, sono diventata matta, facendo impazzire con me altrettante ragazze xD Annie e Tea mi hanno dato un aiuto a decidermi, quindi le ringrazio e la dedico a loro <3 Poooi, che dire, mmh... Ah, sì, Lu, hai visto? Non devi più invasarmi il gruppo di canzoni alla Pulcino Pio LOL Grazie anche a te, bella ;)

Per quanto riguarda la trama, invece, dico due cosine e poi mi levo dai piedi, so che le mie note sono sempre lunghissime, scusatemi :'( Mi sono concentrata più su Edward e Bella (stavo per scrivere Rob e Kris, andiamo bene, ahahah), visto che è una os non volevo perdermi. E sì, mi direte voi: ma tu sei quella che fa aggiustare sempre le cose? Evidentemente sì, sono troppo sognatrice, credo troppo nel vero amore e penso che se davvero due persone sono destinate a stare insieme nulla li può separare, prima o poi torneranno sempre a legarsi l'uno all'altra. Quindi anche in questa storia l'amore trionfa sempre. Alcune cose non saranno molto chiare, forse, ho tralasciato parecchio in fatto di descrizioni concentrandomi solo sui loro pensieri e azioni. Forse riterrete il comportamento di Bella esagerato, andarsene così... ma credo sia normale dopo che l'uomo con cui vuoi costruire il tuo futuro ti fa capire che non vuole nulla oltre ciò che già possiede. Edward si è fatto perdonare, non con chissà quale gesto eclatante, eppure per me lo è stato comunque: abbastanza semplice ma dritto al punto. Il tema di Natale è abbastanza marginale, me ne sono resa conto rileggendo la os. Ultima cosa: sì, altra cosa che trovate sempre nelle mie storie è la presenza di animali, non posso farne a meno, mi viene istintivo, li adoro con tutta me stessa, molto più che le persone ad essere sincera xD Penso di aver detto tutto, se avete dubbi o altro sono qui ;)

So che la os non è qualcosa di eclatante, è venuta così, comprendetemi sono in fase: tutto ciò che si rompe si aggiusta, l'amore nelle storie trionfa sempre, nella vita reale fa tutto abbastanza pena LOL

Dopo delle note più lunghe del capitolo mi eclisso. Spero di sentire i vostri pareri <3

A presto!

Jess

Ps aggiornerò Scusa prima di Natale, promesso!

PPs gruppo Fb per chi fosse interessato

   
 
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