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Autore: secretdiary    12/12/2012    1 recensioni
One Shot vincitrice del contest Blood indetto dal forum FanFictionist Portal.
La passione di Asmita, figlia di un ricco uomo di Jaipur è il pianoforte. Ella sa che il suo destino si consumerà tra i tasti di quello strumento e non al fianco del ricco cugino, più grande di lei, come invece vorrebbe la sua famiglia.
La sua ribellione sarà cicatrici sul suo giovane corpo, sino a condurla ad un'ultima, disperata, scelta.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Violenza
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Piccola annotazione prima di iniziare:
Cari lettori, innanzitutto vi ringrazio per aver aperto questa storia e per aver scelto di spendere un po' del vostro tempo per leggerla.
Vi rubo solo un paio di righe prima di lasciarvi al racconto: è finalmente uscito il mio primo romanzo.
Ora, finalmente, sono un'autrice pubblicata.
Se amate le storie fantasy, nel campo destinato al mio profilo, trovate tutte le informazioni relative al romanzo.

Grazie per l'attenzione ;)
Buona lettura!!
Bisous *-*

Ricordi cremisi

Un urlo risuonò tra le pareti dell'Imārata di Jaipur; l'eco cozzava contro le mura di arenaria rossa ed il riverbero amplificò l'angoscia di quella voce femminile.

L'Imārata era un immenso palazzo, costruito secoli addietro dal capostipite della famiglia Nagaraj che si diceva fosse prediletto da Shiva.

Un fossato basso abbracciava l'edificio rosso, tra la cinta esterna e quella intera, un solo ponte levatoio garantiva l'accesso in quella dimora, che somigliava maggiormente ad una fortezza.

La struttura era compatta e solida e nemmeno le facciate decorate con motivi geometrici riuscivano a ripulirla da quel senso di imponenza ed oppressione.

L'Imārata era impreziosito da rampe scolpite dalle migliori mani indiane, che conducevano in giardini lussureggianti e verdi, talmente rigogliosi come a voler farsi beffa della siccità che attanagliava le classi misere di Jaipur.

Imponenti padiglioni dai soffitti d'oro, come gli stucchi levigati che li adornavano, erano protetti da colonne di pietra dura che come guardie osservavano e controllavano chiunque vi entrasse.

Dalle vie della città, alzando lo sguardo, si incontravano sempre le torri rosse che svettavano dalla fortezza, senza finestre.

La luce, all'interno, era ricreata grazie ad un sapiente gioco di specchi che rifletteva i flebili raggi solari che si insinuavano tra le decorazioni delle facciate che somigliavano ad arazzi tessuti piuttosto che a pareti ricavate dalla pietra.

Dall'esterno, vivere in quel palazzo era come un sogno sfarzoso e lussuoso.

Per Asmita era un incubo.

La sua voce calda come il monsone che lambiva quella terra per diversi mesi all'anno cercava libertà, ma nemmeno il suo grido era riuscito a fuggire dall'abbraccio soffocante dell'Imārata.

Gli occhi d'ossidiana di Asmita erano fissi su un intaglio arzigogolato, come un ricamo nella parete oltre la quale si estendeva la piazza del mercato.

Era mattina presto, l'alba stava per giungere ed il cielo era ancora di quella sfumatura lilla, ma Asmita sapeva che i mercanti stavano già disponendo le loro merci sui tappeti lavorati dalle mogli.

Il corpo acerbo di Asmita Nagaraj era immobilizzato da tre guardie di suo padre che brutalmente tastavano le sue forme ancora da fanciulla, strattonandola poi violentemente, come a volerla punire per i suoi inutili tentativi di fuga.

Quei contatti umilianti generavano brividi di paura che come ragni percorrevano la sua pelle d'ambra.

Un sibilo agghiacciante fece comprendere ad Asmita che il momento era giunto.

Ella chiuse gli occhi e l'oscurità calò sulle sue iridi nere.

Una mano nerboruta si posò con malagrazia sulla sua schiena, lasciata nuda dal sari magenta che si era strappato durante la sua ribellione.

Quel palmo era freddo e con energia spinse tra le sue scapole, costringendo Asmita a piegarsi in avanti e ad inginocchiarsi per evitare di cadere.

Le sue ginocchia sbatterono contro il freddo marmo e l'urto le fece lacrimare gli occhi.

Quelle lacrime, simili a gocce di rugiada, vennero intrappolate dalle sue lunghe ciglia corvine, rimanendo quindi sospese.

Altre mani palparono il suo braccio esile, strappando la sua manica e lasciando l'arto nudo.

I suoi peli neri erano dritti, eretti dalla sua paura.

Il suo polso venne appoggiato su un pouf damascato, lo stesso che Asmita usava quando peccava, quando disubbidiva al volere di suo padre e non lo onorava.

Il cuore cominciò a pulsarle nelle orecchie, impazzito si scontrava contro le sue costole.

Le doleva il petto.

Lo scampolo che a forza le era stato imposto tra le labbra color del tramonto, piene e tornite, stava infastidendo la sua lingua, impedendole di deglutire quel poco di saliva che la sua agitazione le aveva concesso di produrre.

Asmita era certa che sarebbe soffocata quando cominciò a tossire e il suo fragile corpo da fanciulla divenne preda di singulti e conati.

Il rullare forsennato del suo cuore non le impedì di udire le risa di scherno delle tre guardie, subito tacitate dalla voce di Umrao Nagaraj, suo padre.

Il silenzio calò nella Sēla, la stanza che Umrao, anni addietro, aveva preposto ad uso personale di sua figlia.

Il tempo parve fermarsi ed Asmita trovò il coraggio di aprire nuovamente i suoi grandi occhi colmi di dolore.

Innanzi a lei troneggiava suo padre, le gambe divaricate e le mani sui fianchi.

Indossava il tipico abito da cerimonia indiano, bianco con i risvolti decorati con ricami dorati.

Il suo fisico era ancora attraente e tonico, nonostante avesse superato le cinquanta primavere e la sua vita fosse stata messa a dura prova molte volte, tra tutte, la prematura scomparsa di Shanti, sua moglie, deceduta di parto portando con sé l'unico figlio maschio della famiglia Nagaraj.

Il volto imbrunito di Umrao era di pietra, glaciale, così come i suoi occhi di tenebra.

Era completamente svanito il calore e l'amore che aveva riservato ad Asmita fino a quando aveva scoperto il suo segreto, il suo peccato ed il suo disonore.

In quel momento la figlia prediletta era divenuta la sciagura abbattutasi sulla famiglia.

La forte mano destra di Umrao stringeva una sciabola e a quella vista Asmita riprese a tremare, rammentando il sibilo di pochi minuti prima.

«Papà» avrebbe voluto implorarlo, «Perdonami», ma il bavaglio le impediva di parlare.

Umrao si chinò per sfiorare la mano destra di sua figlia, protesa sul pouf, dopodiché, una volta tornato in piedi, caricò il colpo.

Asmita gemette, pianse, voleva gridare, ma la sua libertà non le apparteneva più, era costretta a subire il suo castigo.

La lama si avventò sulla sua carne, penetrandola.

Quando raggiunse l'osso, Umrao grugnì, aumentando la forza impressa e cominciando a segare.

Inizialmente Asmita non udì nulla, poi, all'improvviso, il dolore esplose.

Bruciava, prudeva, ella voleva scappare.

La sua vista venne invasa da un'infinità di puntini rossi, rossi come gli schizzi di sangue che ora dipingevano le pareti bianche e il pavimento.

Lo stridere della sciabola sull'osso giungeva ovattato alle orecchie della fanciulla la cui attenzione semi-incosciente era ipnotizzata dal suo sangue che colava sul pouf, generando una macchia scura ed appiccicosa.

Un odore ferroso inebriò la Sēla, ma Asmita non vi fece caso.

La mano, gonfia, dalla mutilazione sfilacciata e slabbrata cadde a terra in un tonfo sordo; giaceva su una nuova pozza di sangue.

Il sudore del padre si mischiava al sangue della figlia a terra.

Gocce scarlatte continuavano ad unirsi a quel lago, espandendolo.

Asmita era affascinata da quelle sfere cremisi, tonde e perfette che abbandonavano il suo corpo, precipitando a terra.

Producevano un suono simile a quello della pioggia sul terreno.

Il sole, ormai sorto, penetrava negli intagli, riflettendosi su quelle gocce perfette, rubini liquidi, illuminandole.

Ad Asmita parve di riuscire a scorgervi delle figure al loro interno, come affreschi in un piatto.

Ogni goccia di sangue rappresentava un momento fondamentale della sua vita e del suo amore, della sua passione.

Si vedeva a sei anni, quando sua madre aspettava il piccolo Nazeem, che poi non sarebbe riuscito nemmeno ad emettere il suo primo vagito, seduta proprio su quel pouf, avvolta da uno scialle di macramè rosso che abbracciava la sua figura appesantita dalla gravidanza, ma sempre seducente.

Il suo volto sottile e proporzionato era chinato verso il basso, verso Asmita che era accoccolata ai suoi piedi, sdraiata su un tappeto blu che richiamava gli occhi di Shanti, gemme di rara bellezza per chi viveva in India.

Il suo sorriso dolce specchiava la melodia che le sue abili mani stavano suonando al pianoforte.

Quello era stato il momento in cui Asmita aveva deciso che sarebbe divenuta una pianista.

Pic.

La goccia si disperse nella chiazza per terra, ma ecco che un'altra stava già prendendo il suo posto, rievocando un nuovo ricordo.

Asmita aveva ormai nove anni e il suo talento al pianoforte era lodato da chiunque l'avesse sentita suonare, ma Umrao non voleva udire ragioni: era il 1947 e non si era mai vista una donna indiana di buona famiglia lasciare tutto per suonare.

Sarebbe stato un disonore.

Asmita era una Nagaraj e il suo matrimonio con suo cugino Omar era stato deciso nell'istante stesso in cui lei era venuta al mondo.

Poco importava se Omar era di trent'anni più grande e non le avrebbe permesso di suonare.

La musica era un diletto, non una professione.

Il suo primo litigio.

Pic.

Nelle tre gocce seguenti Asmita rivide il suo peccato: la sua decisione di suonare di nascosto, gli anni trascorsi e la nuova serva tradirla con suo padre, rivelandogli il suo segreto.

Ogni goccia di sangue erano note che Asmita aveva suonato.

Umrao fece cenno alle guardie di andarsene, poi baciò dolcemente sua figlia sul capo.

«Domani sposerai Omar» concluse, sereno.

Asmita non reagì, seguitava ad osservare il suo sangue, la sua vita.

Quando fu sola, tremante, si alzò in piedi e recuperò una boccetta di profumo dalla forma piramidale, di vetro trasparente.

Svuotò l'essenza e raggiunse la pozza di sangue.

Quell'odore ora penetrava nelle sue narici, ma Asmita lo ignorò.

Con un fazzoletto di seta raccolse quel liquido scarlatto e lo fece colare all'interno della fiala.

Non voleva sprecarne nemmeno una goccia.

Fasciò da sola il suo moncherino, poi, con dolcezza, raccolse la sua mano.

La strinse al petto, piangendo e baciando quelle dita capaci di produrre tanta gioia quanto dolore.

Si avvicinò al pianoforte e solo con la sinistra suonò la sua ultima melodia, la stessa composizione che aveva studiato per prima, la stessa che aveva suonato sua madre nel primo ricordo mostratole dal suo sangue.

Quando la terminò, svuotò la fiala sui tasti dello strumento.

Ossidiana, avorio ed arenaria rossa, come la pietra con cui era costruita l'Imārata.

Lentamente raggiunse un padiglione bianco e superò la terrazza.

Il sangue colava sui tasti del pianoforte mentre Asmita allargava le braccia, eterea nella luce del mattino.

Le gocce cremisi raggiunsero il termine della tastiera e cominciarono a colare nel vuoto, attratte a terra dalla forza di gravità.

Asmita avvertiva l'aria gonfiarle il sari magenta.

Chiuse gli occhi e i raggi del sole contro le sue palpebre le facevano vedere solo rosso.

Come la pozza di sangue nella sua Sēla, formata dal suo peccato, dal suo amore.

   
 
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