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Autore: inbadlounds    12/12/2012    8 recensioni
[Long-fic, AU, OOC, baby!klaine]
Kurt e Blaine, due anime e una clinica.
Kurt e Blaine, due malattie diverse, uno stesso destino.
*
"Quando la Dottoressa Sorriso lo presentò agli altri bambini – chi sulla sedia a rotelle, chi con il braccio ingessato, chi, come lui, fasciato alla testa – tra tanti occhi curiosi e ammalati, solo due sfere di cielo colato riuscirono a incantarlo.
Erano così azzurri che per un attimo scordò la sua ossessione per quel posto. Lo odiava ma, con quegli occhi color del cielo, forse, forse avrebbe potuto odiarlo un po’ meno.
Blaine, più tardi, non sarebbe riuscito a definire il colore di quegli occhi .
Erano mare, cielo e sogni. Erano fanciullezza e dolore. Erano amore e dolcezza.
Che sciocchezza, avrebbe pensato, una persona normale li definirebbe solo azzurri.
Il contatto resistette un attimo, giusto il fruscio d’un battito di ali di farfalla, mentre il cielo e la terra si mescolavano in un vortice di emozioni e poi, come succedeva nelle fiabe, l’incanto si spezzò e rimase solo il vuoto. Ancora una volta il bianco. "
Genere: Angst, Fluff, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Blaine Anderson, Kurt Hummel | Coppie: Blaine/Kurt
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Autrice: R i n
Fandom: Glee
Titolo: WhiteRblood
Personaggi: baby!Kurt, baby!Blaine.
Avvertimenti:AU, OOC, Angst, Fluff.
Raiting: Arancione
Note: A fine capitolo. Leggetele, sono importanti.
 
 
 

 
"I bambini non dovrebbero mai dormire.
La mattina seguente si risvegliano
più vecchi di un giorno e
senza che nemmeno te ne accorgi,
sono cresciuti...!"
- Neverland, un sogno per la vita.

 

WhiteRblood _

 
 

Capitolo I. Everything is so white.

 
 
 
Blaine era un bambino di sette anni e odiava molte cose. Tra le tante cose, Blaine odiava il bianco. Rappresentava l’assenza, il vuoto; era trasparente.
Se c’era una cosa che disprezzava di più - ed è difficile da crederci, credetemi - quelle erano le nuvole. Ogni bambino ama le nuvole e si diverte a creare forme di strane creature leggendarie o di oggetti che sicuramente esisteranno da qualche parte; ma Blaine, purtroppo, odiava tanto le nuvole. Per lui rappresentavano l’illusione.
Subito dopo, (nella lista che teneva nel terzo cassetto del comodino, sotto il cioccolato fondente che una volta le aveva regalato un’infermiera) c’era la neve.
Blaine l’amava e al contempo l’odiava. Lo faceva perché appena scendeva dal cielo era soffice, morbida, candida e viveva, poi, appena toccava il suolo, veniva consumata dall’asfalto, sbiadita e sporcata e dopo qualche tempo diventava dura, fredda e morta.
Infine Blaine odiava le mura degli ospedali perché, ogni volta che finiva in quell’odioso edificio, le trovava continuamente immacolate. Non c’era stata una volta – una sola, dannata, volta – che quelle pareti fossero state schizzate di rosso o di qualsiasi altro colore. Erano intoccabili. Il piccolo, fondamentalmente, le detestava perché erano bianche, fredde e candide e nessuna cosa era l’insieme di due opposti.
 
Qualche giorno prima stava giocando con Cooper a palle di neve: mentre altra neve cadeva dal cielo e mentre correva per nascondersi dal fratello, era scivolato da una piccola altura e, cadendo, si era procurato un dolore alla gamba e una grossa ferita alla testa.
Gli avevano raccontato che aveva vinto, quel giorno, perché il suo sangue aveva macchiato il bianco e ora non doveva più preoccuparsi. Lui aveva vinto, poi aveva perso i sensi.
 
In seguito si era svegliato in una stanza dell’ospedale dalle pareti odiosamente bianche, con la testa fasciata di bianco e un flebo al braccio.
Tutto, in quella stanza - notò Blaine - era di colore bianco, persino le tende, gli armadi e la distesa di neve, che s’intravedeva dalla finestra. Case, alberi, parchi, macchine ricoperte interamente di bianco.
Sbuffando, distolse lo sguardo da tutto quel bianco e aguzzò la vista alla ricerca di un qualche colore, di qualsiasi tonalità, finché l’occhio cadde sul comodino, dove c’erano la borsa rossa di sua madre e il telefono nero di Cooper, in netto contrasto con la stanza. Di loro, però, non c’era nessuna traccia.
Blaine si sentiva soffocare in quella camera, era come essere intrappolati in una grossa tela, tessuta da mille fili invisibili e non c’era nessuna, nessunissima via di fuga.
«Mamma? Cooper?» Chiamò il piccolo, tentando di farsi sentire al di là dalla porta. La testa gli faceva male, così tanto male che la vista gli si annebbiava e non distingueva più i colori. Per un attimo gli mancò il bianco.
Entrò un’infermiera, anche lei vestita di bianco, che per prima cosa lo visitò e poi gli comunicò che la madre e il fratello erano a parlare con il suo dottore. Il piccolo ascoltò molto attentamente quella signora dal sorriso gentile finché non le domandò, con una certa impazienza, se poteva uscire a far un giro.
«Non è permesso ai bambini di girare per l’ospedale» gli rispose la signora e, vedendo la smorfia del piccolo, aggiunse: «però ti posso portare nella sala giochi, dove potrai giocare con gli altri bambini».
A quella notizia il piccolo s’illuminò e con l’aiuto della gentile signora si avviarono presso la sala giochi.
Quando arrivarono Blaine notò che il reparto “Neverland” – chiamato in quel modo dalla Dottoressa Sorriso, così aveva deciso di chiamarla Blaine – era tutto tinteggiato di vari colori.
Il bianco, in quel posto, non esisteva.
C’erano pareti blu, viola, gialle, verdi e tanti, tantissimi disegni.
Il riccio si guardò attorno attentamente e mentre l’infermiera lo spingeva dentro la sala giochi, esclamò eccitato «Wow, forte ‘sto posto!».
Quando la Dottoressa Sorriso lo presentò agli altri bambini – chi sulla sedia a rotelle, chi con il braccio ingessato, chi, come lui, fasciato alla testa – tra tanti occhi curiosi e ammalati, solo due sfere di cielo colato riuscirono a incantarlo.
Erano così azzurri che per un attimo scordò la sua ossessione per quel posto. Lo odiava ma, con quegli occhi color del cielo, forse, forse avrebbe potuto odiarlo un po’ meno.
Blaine, più tardi, non sarebbe riuscito a definire il colore di quegli occhi .
Erano mare, cielo e sogni. Erano fanciullezza e dolore. Erano amore e dolcezza.
Che sciocchezza, avrebbe pensato, una persona normale li definirebbe solo azzurri.
Il contatto resistette un attimo, giusto il fruscio d’un battito di ali di farfalla, mentre il cielo e la terra si mescolavano in un vortice di emozioni e poi, come succedeva nelle fiabe, l’incanto si spezzò e rimase solo il vuoto. Ancora una volta il bianco.
Il bambino dagli occhi cielo sparì inghiottito dalle bianche vesti delle infermiere che lo portarono lontano, troppo lontano da Blaine, che rimase lì, intontito e strano, a fissar un punto ormai vuoto nella speranza che quel curioso bambino senza nome tornasse a riempire di colore la sua vita.
Il riccio restò seduto attorno al tavolo, circondato da altri bambini, a colorare, tagliare, dipingere quegli stupidi fogli bianchi.
Di tanto in tanto, al cigolio di una porta o ai rumori di passi leggeri, i suoi occhi cercavano l’infinito e non lo trovavano mai.
Ma si sa, i sogni son desideri, che restano chiusi in fondo al cuor. 1
 

*

 
Più passava il tempo, più Blaine si sentiva vuoto senza quel bambino - anche se non riusciva a spiegarne il motivo.
Era cosi e basta.
Voleva incontrare quegli occhi, voleva guardarli, leggerli e fotografarli nella sua mente e scoprire altre sfumature che vi erano racchiuse; perché Blaine, di quello, ne era sicuro: non si trattava di  semplice azzurro.
Blaine, impegnato in quel turbine di se e ma e,però, parve non rendersi subito conto della macchia di rosso che colorò il suo inquietante foglio bianco.
Furono le urla degli altri bambini a destar dalla trance il piccolo Blaine che, alla vista del sangue, impallidì.
Solo allora si accorse che tutto quel bianco cercava di dirgli qualcosa, ma cosa, ancora Blaine non lo sapeva. Non poteva saperlo; eppure, quando la Dottoressa Sorriso gli fasciò il dito con una garza bianca, Blaine, di nuovo, si convinse che, sì, il bianco gli stava davvero suggerendo qualcosa.
Il piccolo fissò il dito così intensamente che – ad un certo punto – se lo avvicinò alla bocca e gli sussurrò : «Cosa stai cercando di dirmi?» Non ottenne alcuna risposta.
 
Eppure doveva esserci una risposta. Blaine sapeva fosse così.
 
Qualche tempo dopo, mentre Blaine giocava con gli altri bambini, la Dottoressa Sorriso lo chiamò e lo riaccompagnò nella sua stanza, dove, ad attenderlo, c’erano il Dottore, la mamma e Cooper.
A quella vista Blaine si lanciò in una piccola corsa verso di loro ed era troppo eccitato dalla loro visita, tanto da non notare, al momento, gli occhi arrossati della madre e il sorriso fin troppo stirato del fratello. Tuttavia la corsa fu interrotta dal Dottore che si parò davanti al piccolo e con voce gentile lo salutò, allungandogli la mano per poterla stringerla e Blaine capì – non era un bambino stupido, lui – che qualcosa non andava.
Aveva notato che, nei film, quando appariva il Dottore con il camice bianco c’era sempre qualche piccola sventura in giro. La sua è bianca e gli fa tanta paura.
Blaine cercò con lo sguardo la madre mentre il medico lo poggiava sul letto e gli controllava la ferita alla testa.
 «Perché piangi, mamma?»
La giovane donna guardò il suo bambino, con quegli adorabili ricci e quegli occhi color nocciola sfumati di verde, così simili a quelli di suo padre. Dopo tutte quelle brutte notizie non riuscì più a trattenere il suo pianto, e pianse lacrime di dolore, pianse lacrime di rassegnazione, perché non c’era più niente da fare, e pianse, pianse ancora, sotto lo sguardo allibito di Blaine.
 
Se c’era una cosa che Blaine odiava con tutto il cuore era vedere le persone piangere, soprattutto se una di queste era la sua mamma. Gli si stringeva il cuore e Blaine era sicuro, molto sicuro: quel bianco gli portava davvero sfortuna.
«Blaine, ascolta attentamente ciò che sto per dire» gli disse la madre mentre il piccolo annuì.
La donna iniziò il suo racconto e il piccolo non perdeva una sola parola di ciò che diceva, anche se di tanto in tanto corrugava la fronte, oppure poggiava la mano sul mento con fare pensieroso, perché, nonostante fosse un bambino sveglio, certe cose ancora gli sfuggivano. Spesso gli parlavano con il linguaggio dei grandi e Blaine non coglieva il vero significato delle parole.
Alla fine del racconto Blaine aveva ancora le idee un po’ confuse, ma quello, a sua madre e Cooper, non lo diede a vedere. Poi sua madre pronunciò una parola e proprio quella parola, per un motivo e l’altro, era rimasta impressa nella sua mente. Fu come viaggiare nel tempo e ritrovarsi in un pomeriggio di novembre di qualche anno prima, nel salotto di casa sua, mentre suo padre pronunciava la stessa parola. Blaine gli chiese cosa significasse, ma il padre fu analogamente ambiguo.
 
«Un giorno sconfiggerai il bianco, Blaine».
 
Forse era per questo motivo che Blaine odiava così tanto il bianco.
Non riusciva a prevalere su di esso, nonostante nel suo armadio avesse soltanto le magliette più colorate del mondo: ma si sa che, quando la volpe non arriva all’uva, va dicendo in giro che è acerba.
Blaine non era un bambino stupido, anzi, era piuttosto sveglio e potete immaginare come la sua mente lavorava frenetica, montando tassello per tassello e trovando una soluzione a quell’enigma troppo complicato per la sua età.
E i tasselli, nella sua testa, si montarono. Quello che Blaine capì fu peggio di una doccia fredda quando fuori c’era la neve e la mamma si dimenticava di accendere i riscaldamenti. O forse era ancora peggio. Fatto sta che a Blaine quasi gelò il cuore.
 
Bianco e Rosso, Vita e Morte.
 
«Oh» esclamò il piccolo quando finalmente capì. Capì che – effettivamente – il bianco gli aveva mandato un segnale.
Come al solito la dura verità – maleducata e rossa –, entra in casa tua senza bussare, così, come se fosse normale infastidire l’anima di un bambino e buttare ai quattro venti tutti i suoi sogni.
Blaine era un sacco arrabbiato, sua madre piangeva ancora e Cooper era tristissimo. Per la prima volta odiò se stesso per non aver capito prima.
 
 
Blaine aveva sette anni e non era un bambino stupido. Era sicuro che la sua malattia – una buona camomilla, la sua copertina preferita e una buona storia – sarebbe passata così com’era venuta. La mamma avrebbe smesso di piangere e lui avrebbe corso con Cooper e giocato ancora con il bambino dagli occhi azzurri. Ma la realtà era che no, non sarebbe guarito così in fretta, e forse nel frattempo avrebbe imparato ad amare un po’ più il bianco. Dopotutto il rosso non è poi un così gran bello colore; non siete d’accordo?
Blaine aveva sette anni e odiava, più di ogni altra cosa, l’ospedale. Tentò di sorridere ma la curiosità lo uccideva, allora domandò a Cooper se quella cosa, l’emofilia, fosse davvero una brutta malattia. 
Con un battito di ciglia, un sussurro appena percettibile, Cooper gli rispose, che sì, lo era; ma ciò che colpì il piccolo, talmente tanto da rendere reale la questione fu che – a detta di Cooper - era la stessa malattia che aveva ucciso il suo papà.
Di suo padre, Blaine possedeva pochi ricordi, aveva quattro anni quando lo aveva abbandonato, li aveva abbandonati, lasciandoli soli. Il più delle volte lo ricordava come un uomo dal volto scuro ma dalla voce potente e severa. Ogni volta che Blaine tentava di dar un suo volto a quella voce, non ci riusciva: doveva sempre ricorrere alle varie fotografie, nascoste nei meandri degli album fotografici di casa Anderson.
Rammentava, però, che avevano gli stessi occhi e che forse, entrambi, odiavano il bianco… e il rosso.
Purtroppo il bambino non godeva di ricordi, di per sé, belli o tristi. Erano ricordi vuoti, memorie bianche, delle immagini nebulose. Un semplice soffio di vento e poi, puff, sparivano.
La sua voce, invece, quella restava: potente, autoritaria eppur così solitaria, triste e rotta, come se morta.
 
«Un giorno sconfiggerai il bianco, Blaine» .
 
Poi Blaine aveva capito. Suo padre era stato sconfitto dal bianco, era stato ucciso da un colore che nemmeno gli piaceva – e forse era stato per quello, pensò.
Blaine si chiese come fosse possibile che suo padre non avesse combattuto, dopotutto lui era un duro  e si sa che i duri non falliscono mai.
Blaine era un duro e avrebbe stretto i denti e combattuto quella brutta malattia. Lui non la voleva e se suo padre non ce l’aveva fatta, lui avrebbe rivendicato il tempo rubatogli per conoscerlo e amarlo.
 
 
Quando sua madre e Cooper lasciarono l’ospedale era già sera inoltrata e Blaine fu portato nella grande sala, dove, assieme agli altri bambini, gli fu servita la cena.
D’impulso alzò gli occhi e cercò, tra vari e innumerevoli sguardi per trovare quelli color del cielo, senza trovarli.
Con un sospiro di rassegnazione il piccolo prese il vassoio che gli fu consegnato e iniziò a mangiucchiare, mentre pensava agli angeli e alla morte (a cui era andato vicino tanto così) e ricordò quello che gli aveva detto Cooper.
«Gli angeli non esistono, sciocco, smettila di frignare.»
Il piccolo tentò di scacciar via quelle brutte parole con un flebile gesto della mano, mentre tentava di trattenere a stento le lacrime e cercando di svagar la mente, iniziò a mangiare il suo pasto. Dopo qualche minuto – che per Blaine rappresentava un’eternità, tanto era afflitto – una voce cristallina giunse alle sue orecchie e catturò tutta la sua attenzione.
Alzò gli occhi e lo vide. Era un po’ lontano ma non ebbe dubbi.
L’angelo senza nome guardava nella sua direzione, senza vederlo realmente. Parlava con la sua Dottoressa Sorriso, notò Blaine, e quando quest’ultimo cercò di spostarsi per aver una visuale migliore, accadde di nuovo.
I loro sguardi s’incrociarono e l’incanto ritornò, eppure Blaine notò che, quella volta, il suo sguardo era scuro, spento, così privo di luce da sembrare morto. Gli occhi azzurri cielo, così sfumati da sembrare cristallini, erano quasi neri. A Blaine apparve stanco, troppo spossato, simile a una fiammella ormai consumata. Voleva alzarsi, andargli incontro e abbracciarlo, raccontargli una barzelletta e cercare di farlo sorridere. A Blaine non piacevano i bambini tristi.
Neppure il tempo di pensarlo che il bambino fu travolto dal bianco, portato via dall’infermiera e come era successo la prima volta, l’incanto si spezzò di nuovo.
Per quel giorno Blaine non vide più il bambino del cielo.
Il piccolo, scoraggiato, finì il suo pasto e chiese alla Dottoressa Sorriso il permesso di tornare in camera.
 
Sentiva una strana sensazione attorno al petto che non riusciva proprio a spiegare, era fastidioso perché faceva un po’ male, giusto quel poco da riuscirlo a sopportare. Arrivò nella sua stanza e vide la luna elevata nel cielo, splendente come non mai. Il piccolo, dentro le mura dell’ospedale, confinato nel suo letto, si girò e rigirò ancora, mentre tentava di prendere sonno.
Il sonno arrivò e trascinò Blaine nei più profondi meandri dell’oblio, tempestato da piccoli incubi che disturbavano il sonno. Inconsciamente strinse il suo peluche e, come per magia, gli occhi del bambino del cielo invasero i suoi incubi, quietandoli.
 
 
 
 

Note:
 
1: famosa strofa della canzone “I sogni son desideri” di Cenerentola.



 


 
N/A :

Buondì, i’m back!
La storia è in corso.
Seguendo – e sperando di rispettare – il progetto originale, sarà composta da dieci capitoli più un finale alternativo.
Un totale di  undici capitoli.
Questa storia è nata per un esperimento, il Flangst, ossia Fluff + Angst e devo dire che mi sta uscendo davvero, davvero, davvero, bene ed ecco spiegato il perché del rating arancione.
Ora, torniamo un attimo alla storia.
Ci sono due punti importanti.
Il primo è, come avete letto, che Blaine è emofiliaco e resterà in quell’odioso edificio bianco.
Eccovi definizione di Emofilia.
Non mi addentro nei meandri di questa malattia e la tratterò molto superficialmente, quindi perdonatemi se sbaglierò qualcosa, risulterò “insensibile” o quello che vi pare, non è voluto.
Il secondo è il titolo. WhiteRblood.
Una persona, leggendo in anteprima questo capitolo, ha già capito cos’ha il bambino dagli occhi del cielo (vi invito ad indovinare chi è!) e avendo capito questo, ha capito il significato di questo titolo.
Il che mi ha lasciato molto sorpresa. E voi, indovinereste?

Spero che il primo capitolo vi sia piaciuto e aspetto le vostre recensioni, quindi recensite!
Davvero, fatelo, perché non solo mi rendete felice, rendere felice anche il piccolo Blaine (e tutti voglio fare felici il piccolo Blaine, vero?), per cui, siamo troppo curiosi di sapere i vostri pensieri.
 
Un ultima cosa: gli aggiornamenti.
Credo che aggiornerò ogni quindici giorni, o giù di li.
Una volta che avrò concluso la storia, si vedrà.
Quindi, il prossimo capitolo lo avrete tra la settimana di Natale e Capodanno.

 
Se avete dubbi, domande, curiosità o per sapere quando aggiorno
potete trovarmi alla mia pagina facebook Rin(marshmallown).

 
A presto,
Rin.
   
 
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