Nel cuore della notte
Spalancò la porta di casa con un calcio.
S’intrufolò dentro, gocce
di sudore che le imperlavano la fronte: due buste strapiene in ogni mano.
- No, ti ringrazio! – esclamò, sarcastica – Non
venire ad aiutarmi, Lello! Davvero, ce la faccio! -
A risponderle solo il silenzio.
Sbuffò, trascinando le buste in cucina e sollevandole sul
tavolo con un ultimo, immane sforzo. Si sgranchì le dita, sospirando di
sollievo per l’impresa appena compiuta. Sfilandosi il giubbotto si avviò
verso la camera del ragazzo, entrandovi senza pensarci sopra due volte:
- Vedo che hai avuto da fare in mia assenza –
ironizzò, avvicinandosi, trovandolo nella stessa posizione in cui lo aveva
lasciato quasi un’ora prima. Sepolto sotto le coperte. Invisibile.
- Vieni a guardarmi mentre poso la spesa? –
Silenzio.
- Il frigo era vuoto, e anche la credenza, così ho pensato
di rifornirli un po’ -
Silenzio.
- Ho preso anche del gelato, e patatine, e cracker, e
schifezze varie… tutto quello che può venirti in mente -
Silenzio.
Ginevra sbuffò, allontanando le coperte per riuscire a
vedere il volto del ragazzo.
- C’è anche una sorpresa per te -
Lo vide aprire gli occhi e lanciarle un’occhiata
indifferente, colma di apatia. Non gli interessava. No, non gli importava
proprio un bel niente della sua sorpresina. Chiuse gli occhi.
- Dai che ti piace! – lo stuzzicò lei, tirandolo
verso di sé e mettendolo in piedi come aveva fatto la sera prima.
Il sorriso di Ginevra si incrinò mentre il timore che lui
potesse di nuovo urlarle contro l’assaliva. Poi, però, si ricordò della
stretta della mano di Lello, della sua promessa silenziosa, e le paure
svanirono.
Lo afferrò per la manica del maglione e lo tirò verso la
cucina.
- Siedi -
Lello crollò a sedere sulla prima sedia, le braccia
incrociate sul tavolo come la sera prima. Si piegò in avanti, poggiando il
mento sulle braccia: Ginevra fremette, temendo che lui potesse chiudere gli
occhi anche lì.
La stanza era luminosa ma non troppo. Le persiane erano
state sollevate solo in parte: Ginevra non voleva interferire troppo,
rischiando di indisporre il ragazzo, così si era limitata ad aprirle quel tanto
che bastava a far entrare giusto un pochino di luce.
- Guarda – gli disse, cominciando a svuotare la
prima busta – La frutta la metto qui – e prese una ciotola di
legno, posandola al centro del tavolo.
Lello non rispose, non mosse un muscolo. Gli occhi scuri,
però, non perdevano un solo movimento di lei.
- La pasta qui, sul solito scaffale – continuò
Ginevra, ordinando i diversi pacchi colorati.
Aveva appena chiuso il mobile quando sentì il solito
sibilo, sentore dell’apparire di Biss: lo intravide subito, mentre
strusciava sul pavimento e si arrotolava attorno alla gamba del tavolo,
arrampicandovisi piano. Fino ad arrivare a poggiare la testa sul bordo del
ripiano, affianco a Lello.
Ginevra sospirò, le mani che si poggiavano sui fianchi
mentre entrambi la fissavano, nella stessa posizione.
- Ma come siete carini! – esclamò, sarcastica
– Da quant’è che state insieme, eh? -
Lello non rispose. Biss neanche.
- E va bene – sbuffò la ragazza, tornando a frugare
nelle buste.
Ne estrasse rotoli di carta igienica, boccette di shampoo,
due spazzolini, schiuma da barba, rasoi… tutte cose che i due, padrone e
serpente, fissavano senza emettere suono. Ginevra le prendeva e le andava a
posizionare al loro posto: quali in bagno, quali in salotto, quali in camera da
letto. Non si aspettava repliche né tantomeno lamentele. Ormai non si aspettava
più niente.
Aveva messo in bella mostra tutti i prodotti
d’igiene, sperando forse che in Lello scattasse qualcosa: un vago senso
di urgenza, una scintilla, un desiderio impellente. Dai
Lello, pregava in silenzio: una doccia, non ti va di farti una bella doccia? Un
bel getto d’acqua caldo sulla pelle, eh? O di farti la barba, eh? Non ti
va?
Rimaneva solo un’ultima busta.
Ginevra sorrise, prendendo un coltello e poi tornando a
sedersi di fronte a Lello.
- Eccoci qui – disse, arricciando le labbra con aria
divertita – Vuoi sapere o no qual è la sorpresa? -
Lello non rispose, limitandosi ad inarcare un
sopracciglio: Biss, con quei suoi occhioni gialli, quasi quasi era più
espressivo di lui. Ginevra sospirò, accettando quel leggerissimo movimento come
risposta.
Una scatola di biscotti e un barattolo di nutella, ecco
cos’era la sorpresa.
Biscotti al cioccolato e cocco. Nutella.
Il paradiso.
- Te li ricordi, Lello? –
sussurrò, cominciando ad aprire la Nutella – Sono quelli al cocco. Ho
dovuto girare parecchio per trovarli, sai? Ne avevo
una voglia pazzesca, però! -
Sorrise, immergendo il coltello nel barattolo e
avvicinandolo poi al primo biscotto:
- Ne vuoi uno? -
Lello non rispose. La guardava con aria assorta, gli occhi
che senza fretta indugiavano prima su di lei, poi sul biscotto e infine sulla
lama grondante nutella. Apatico.
Biss sibilò, muovendo la lingua come se volesse leccarsi
le labbra.
- Oh, signore! – esclamò Ginevra, sinceramente
divertita – Il serpente è davvero più espressivo di te! -
Scuotendo la testa, spalmò la Nutella sul primo biscotto.
E andò avanti così, prendendoci sempre più la mano, decorando di cioccolata un
biscotto dopo l’altro: li poggiava con attenzione sul tavolo, in fila, e
di tanto in tanto non resisteva al metterne uno in bocca. Si leccò le labbra,
il sapore di cocco che si fondeva agli altri.
Sublime.
- Ti ricordi le porcherie che ci raccontavamo mentre
mangiavamo queste bombe, Lello? – sussurrò – Cavolo, erano proprio
porcate, eh? E non ci risparmiavamo i particolari – sghignazzò, i ricordi
che riaffioravano, spinti a galla dalla Nutella – Come quella volta che
lo feci con Angelo in camera dei suoi… - si leccò i denti – O
quella di te e la pubblicitaria, nella sala conferenze… -
Si era fermata, limitandosi a mangiare i biscotti,
sfaldandone lentamente le fila.
- Cazzo, alcuni racconti erano talmente sporchi che ancora
mi chiedo se te li inventavi o cosa. Ci si potevano girare dei film porno, a
ripensarci. Potremmo farci bei soldi, sai? – ridacchiò Ginevra, gli occhi
del serpente che sembravano essere diventati biasimevoli – Mah, forse non
dovremmo riderne. Eravamo dei pervertiti -
Stava scuotendo la testa, pensierosa, quando notò quel
biscotto in particolare: era stracolmo di Nutella, traboccante quasi, e si
stava lentamente allontanando. Guardò Lello che se lo portava alle labbra e per
qualche attimo smise di respirare, sbigottita. Finse di non dar troppo peso
alla cosa, continuando a parlare:
- Ci siamo divertiti, però, no? – sussurrò,
affrettandosi a preparare altri biscotti – Com’era quella frase che
ti piaceva tanto? Se non hai avuto una gioventù bruciata, allora hai
bruciato la tua gioventù. Ecco. Di certo noi non abbiamo bruciato la
nostra, ti pare? Direi che era già abbastanza bruciata di per sé -
Gli occhi di Ginevra non perdevano di vista la bocca di
Lello: aveva mangiato il biscotto, diamine sì, lo aveva mangiato! Sentiva un
fiotto di calore che le si spandeva nel petto, un senso di appagamento, di soddisfazione.
Osservava il viso smunto del ragazzo, quelle guance
scavate, e non poteva fare a meno di chiedersi da quanto tempo non mangiasse
come si doveva. Anzi, da quanto tempo non mangiava e basta… era
denutrito, affamato.
Era come se si stesse davvero lasciando morire di fame.
Fino a quel momento. Quell’attimo, cinque minuti
prima, in cui aveva addentato il biscotto.
E sì: cioccolato, cocco e nutella erano un ottimo modo per
intraprendere il ritorno nel mondo dei vivi. Era come viaggiare in prima
classe. La via più breve per rimettere un po’ di grasso su quelle ossa.
- La Saponaro! – esclamò di colpo Ginevra, una luce
divertita negli occhi – Quella te la sei inventata, vero?
Non ci credevo allora e non ci credo adesso: non è possibile che lo avete fatto sotto la cassa di un supermercato, non se,
come dici tu, il supermercato era aperto –
Lello aveva portato un secondo biscotto alle labbra, lo
sguardo di Ginevra che si faceva sempre più luminoso.
- Io non invento niente -
Ginevra sentì il cuore che mancava un battito per la
troppa sorpresa. Due biscotti e quattro parole. Sembrava troppo bello per
essere vero.
- E allora il cassiere cosa faceva mentre voi vi davate da
fare ai suoi piedi? – chiese con tono di sfida, mentre a stento si
tratteneva dal sospingere un terzo biscotto verso il ragazzo.
Lello si alzò in piedi, abbandonando la cucina.
La risposta arrivò dal corridoio:
- Guardava -
Aveva passato tutto il pomeriggio su quella poltrona.
Era sgattaiolata in camera di Lello per chiedergli cosa
diavolo avesse fatto alla televisione. Aveva provato ad accenderla, ma niente.
Aveva guardato l’intrico di fili neri e non ci aveva capito niente.
Infine si era arresa.
Ed era andata da lui, sperando che le desse un suggerimento:
un aiutino per riuscire a farla funzionare.
Era entrata in punta di piedi, come al solito, e lo aveva
trovato sepolto sotto le coperte.
Come sempre. Con Biss che lo avvolgeva in parte,
facendogli compagnia.
La voce le si era bloccata in gola, creando un groppo
amaro, insopportabile. Doloroso.
Era crollata a sedere sulla poltroncina più vicina, senza
curarsi dei vestiti che vi erano stati appoggiati sopra. Lello non si era mosso
nemmeno, ignorandola completamente. E lei aveva stretto le gambe al petto,
posandovi sopra il mento, cullandosi lentamente. Nel silenzio della stanza,
cercava di annullare il boato dei pensieri.
Aveva passato tutto il pomeriggio su quella poltrona.
Inebetita, senza sapere cosa fare, cosa dire, come agire.
Impreparata. Del tutto impreparata.
Era una sensazione che non provava più da tanto, tanto
tempo: da quando ancora frequentava il liceo, forse. Chiuse gli occhi, le ombre
delle interrogazioni passate che le tornavano alla mente: quel momento di paura
cieca in cui apri le labbra e non sai cosa dire, perso. Cosa faceva in quei
momenti? Prendeva un bel respiro. E poi? Poi cominciava dalle basi. Da ciò che
sapeva. E ci ricamava sopra, abilmente, costruendo una conoscenza che non aveva
in realtà. Inventandola.
Cominciava dalle basi.
Da ciò che sapeva.
Le basi.
- Ci siamo allontanati, Lello – mormorò,
socchiudendo gli occhi – Lentamente, un poco alla volta.
Fino a non vederci più, a non sentirci nemmeno. Un po’ alla volta fino ad
arrivare agli ultimi cinque anni. Come? Come è potuto succedere proprio a noi?
-
C’era un velo di ironia nell’ultima domanda:
un’ironia che si riferiva al passato, a loro due. A quegli eterni
sognatori che poi avevano dovuto fare i conti con il mondo, con la realtà.
- Siamo stati due sciocchi, non è vero? Convinti di poter
superare ogni cosa, di essere invincibili. E poi? Alla fine dei giochi sono
bastate la distanza e qualche lite un po’ più violenta per farci fuori.
Non è assurdo? -
Ginevra si passò le mani sul viso, massaggiandosi gli
occhi:
- Non era mia intenzione allontanarti, lo sai. Non
l’ho mai voluto. Io… non è facile parlarne,
Lello. Sembra tutto così banale, così scontato. Come hanno potuto batterci
poche ore di treno? -
Scuoteva il capo, lottando contro il suono petulante della
propria voce: era difficile dare finalmente voce a quei pensieri, renderli
veri, reali. Accettare che sì: la loro amicizia non era stata abbastanza forte.
Un legame durato anni e anni, sopravvissuto apparentemente a tutto, non ce
l’aveva fatto contro la distanza.
Non erano bastate le telefonate, i messaggi, le foto. Non
era bastato niente.
Si erano allontanati, sempre più distanti: sommersi dal
lavoro, presi dai nuovi amici, dalle famiglie, da tutti i pensieri. Avevano
lasciato che i nodi della loro unione si allentassero, che arrivassero perfino
a sciogliersi.
Le chiamate da giornaliere divennero settimanali, poi
mensili e via via sempre più rade. Sempre più dure, più difficili: avevano
tanto da raccontarsi ma non ci riuscivano, come impediti. Non riuscivano a scherzare
sulle cose più banali, non avevano modo di fare collegamenti o riferimenti;
niente. Si erano persi.
I punti in comune andavano sbiadendo: le persone che
nominavano non erano le stesse, gli eventi a cui si riferivano non erano
conosciuti… e calava il silenzio, sempre più spesso. Più pesante.
Insopportabile.
Un silenzio che non gli era familiare, che non c’era
mai stato fra di loro: soppiantava le risate, i doppi
sensi. Cambiava tutto, annientando il calore. Cancellando i sorrisi.
Sottolineando la distanza.
- Eravamo arrivati a un punto in cui non avevamo più
niente da dirci, te ne rendi conto? – balbettava lei, non riuscendo quasi
a credere alle proprie parole – Noi, che non avevamo argomenti di cui
discorrere. Noi. A dirlo, e ancora stento a crederlo.
Mi sembra assurdo. Noi. Noi che potevamo parlare per ore anche di una macchia
del tavolo, che passavamo minuti imbarazzanti al silenzio, zitti. Persi -
E poi gli ultimi cinque anni.
Anni di silenzio assoluto, come se non esistessero più
l’uno per l’altro. Scomparsi.
- Ho provato dolore, lo sai, per questi cinque anni.
Sempre. Un dolore sordo, continuo, ma talmente lieve e indefinito da passare
inosservato. Era come se ci fosse un qualcosa di freddo e pesante, lì nel
petto, a ricordare che qualcosa l’avevo sbagliato. Ed era sempre lì,
immancabilmente: non potevo fare niente, però. Nemmeno chiamarti: se anche lo
avessi fatto, cosa avrei potuto dirti, eh? Mi capitava di prendere il cellulare,
di digitare il tuo numero e poi di stare lì a fissarlo con sguardo vacuo: gli
racconto di Sofia, pensavo. Per poi ricordarmi che tu non conoscevi Sofia. E
allora gli chiedo come va con il computer, e poi mi veniva in mente che si era
rotto tipo tre anni prima. Così mi perdevo… quel dolore sordo che
improvvisamente aumentava. Bastardo -
Ginevra sospirò, reclinando il capo all’indietro.
Ecco come un’amicizia secolare, iniziata alle medie
e andata avanti per più di dieci anni, era andata a farsi fottere. Avevano condiviso
casa, scuola, emozioni, follie: tutte quelle cose che non si dimenticano più,
che ti cambiano, ti temprano, ti rendono ciò che realmente sei. Le avevano
passate tutte: insieme. Come nei film, nei libri, e nei migliori racconti.
Amici del cuore, per la pelle, di sangue.
Amici del cazzo, avrebbe aggiunto lei con il senno di poi.
Amici che non reggono cinque ore di treno a dividerli.
Amici?
- E cosa ci resta ora, Lello? A
parte i ricordi, dico. Come possiamo anche solo pensare di conoscerci ancora,
per davvero? Lo sai a cosa ho pensato quando ho messo piede qui? Ho pensato che
niente era cambiato. Che era veramente tutto come prima, come quando
l’avevo lasciato. Poi vedo te. E fatico a riconoscerti, a trovare i tuoi
occhioni neri e a convincermi che sì, sei davvero tu. Il mio Lello… e
poi… -
Ginevra si bloccò, mordendosi un labbro.
Aveva perso il filo del discorso, stava divagando:
rischiava di dire cose che non voleva, che non doveva.
E poi ricordò: le basi.
Cominciare dalle basi.
Basi.
- Ti ho parlato di Luca, Lello? -
Ricominciò. Dalle basi.
Gli raccontò tutto, gli occhi chiusi, dando libero sfogo a
tutte le parole che non le erano uscite durante le loro telefonate. Cominciò
dall’inizio.
Gli raccontò di Luca: di come, dove e quando lo aveva
conosciuto. Glielo descrisse, sorridendo appena un po’ e scuotendo
leggermente il capo. Gli raccontò ogni cosa, ogni particolare. Le sue fobie, i
suoi difetti, ciò che la faceva impazzire e ciò che invece amava di lui. Tutto.
Persino quanti nei aveva.
Gli raccontò del lavoro: di cosa doveva fare, di quanto
caffè beveva, del capo che cercava di tastarle il sedere. Gli descrisse il suo
ufficio, minuscolo e senza una finestra. La fotocopiatrice che si inceppava una
volta su tre e i colleghi che la facevano mangiare troppo, invitandola sempre
fuori. Il gatto randagio che dormiva sotto la sua scrivania e la signora del
palazzo di fronte che inveiva contro un marito che non si alzava mai dal
divano.
Gli raccontò dei genitori che avevano festeggiato i
venticinque anni di matrimonio, chiedendole prima che andasse via che fine
avesse fatto quel vecchio amico: quello con i capelli neri e gli occhi ancora
più neri.
Gli raccontò del fratello che continuava a leggere
fumetti, ormai una cosa sola con il computer.
E poi tornò a Luca, ai viaggi che avevano fatto assieme.
Il momento in cui aveva accettato di trasferirsi da lui. E l’appartamento
di Luca: la sua nuova casa. In centro, proprio sopra una libreria: quella in
cui aveva palpato il sedere al tipo fichissimo. Il cane di Luca: color miele,
peloso al punto giusto. I peli che il cane perdeva ovunque e che le si attaccavano sui vestiti, irritandola a morte.
Il passaggio, poi, il collegamento, venne spontaneo.
Naturale.
Il cane di Luca e il serpente di Lello.
Il presente che si fondeva al passato, come una magia. Era
riuscita a fare quello in cui loro si erano arresi. Era riuscita a ricucire un
filo, a riallacciare un nodo. Unendoli di nuovo.
Non si era fermata, per quanto quel peso freddo e duro nel
petto si fosse alleggerito. Continuò a straparlare, irruenta, incontenibile.
Aneddoti di ieri e di una vita prima, del lavoro e del liceo. Storie con Luca e
storie con Lello. Figuracce di cui lei era sempre la protagonista.
Immancabilmente.
Fu con sorpresa che si accorse dell’assenza di Biss:
non avrebbe saputo dire in che momento il serpente fosse strisciato via; non se
ne era proprio resa conto, troppo immersa nei
racconti. Troppo felice.
Aveva dato libero sfogo a tutto. Ogni cosa.
E ora Lello era come se fosse tornato a far parte di lei:
ormai conosceva quasi tutto, probabilmente stordito dal troppo parlare di lei;
eppure Ginevra era contenta. Perché adesso lui avrebbe potuto capire ogni
battuta che lei faceva, ogni suo riferimento. Perché conosceva tutto e tutti.
Era come se anni e anni di assenza stessero pian piano sbiadendo.
Accorciandosi. Assottigliandosi.
Con ancora maggiore sorpresa si accorse degli occhi di
Lello che la fissavano.
Aveva cacciato la testa da sotto le coperte e la guardava,
come a dare almeno segno di essere sveglio. E lei si sentì sciogliere,
esaltata, perché quei pozzi neri erano fermi nei suoi.
Quando le mancò per un attimo la voce non aveva ancora
finito di raccontare: era nel bel mezzo di una storia ma la gola le si era
completamente seccata, esausta. La lingua sembrava non volerle più ubbidire.
Ginevra si schiarì la gola, sgranchendosi le gambe: era
arrivato il momento di prendersi una pausa. Si alzò in piedi, stiracchiandosi.
Il sole era tramontato da un pezzo. E a lei andava di guardare un dvd.
- Lello – mormorò semplicemente – Mi accendi
la televisione? -
Non attese risposta, uscendo dalla stanza.
Si chiuse in bagno, il bisogno urgente di fare una pipì.
Non era certa di ciò che avrebbe trovato uscendo: si stava solo illudendo,
molto probabilmente. Illudendo di aver risolto qualcosa, o almeno di averci
provato.
Tirò lo sciacquone e si avviò verso il salotto, delusa dal
buio che ancora la avvolgeva.
Stava per tornarsene in camera e mettersi a letto,
abbattuta, quando lo sentì.
Sorrise e sospirò.
L’audio della televisione.
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