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Autore: Pendragon of the Elves    16/12/2012    4 recensioni
Achtung! Questa storia è stata scritta per l'ART TRADE proposto da Homicidal Maniac: i personaggi, le ambientazioni e quant'altro non mi appartengono ma sono suoi.
Levò lo sguardo in alto fino al volto dell'essere si ergeva dinnanzi a lui e, quando lo scorse, il suo cuore si gelò dal terrore. Prima dell'abbigliamento militare, prima della pistola puntata con sicurezza e precisione assassina verso la sua testa, prima ancora delle orecchie innaturalmente lunghe e appuntite che sbucavano dai capelli biondi, i suoi occhi si posarono sul viso. Nel viso apparentemente giovane, che dimostrava molti meno anni di quelli che avrebbe dovuto, negli occhi freddi che conservavano la stessa terribile luce glaciale di cui già si scorgevano i segni molto tempo addietro, riconobbe con orrore il bambino sperduto, l'aborto che non avrebbe mai dovuto essere nato: il mostro che un tempo aveva sorvegliato, fuggito infine dalla sua patetica gabbia.
La voce gli uscì flebile, come se stesse attingendo aria dalla sua stessa anima per parlare. Pronunciare quel singolo nome gli costò uno sforzo immenso, nemmeno avesse dovuto estrarlo lettera per lettera dalle fiamme dell'inferno.
«Zima Einderblüch…».
Genere: Angst, Drammatico, Guerra | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
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*ACHTUNG! Questa storia è stata scritta per l'ART TRADE proposto da Homicidal Maniac: i personaggi che troverete qui dentro non mi appartengono ma sono tratti dalla serie "Moonlight Sonata". Se volete saperne di più, leggete la storia (http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=908468)*









ERLKÖNIG


Il glorioso attentato per riconquistare quella parte delle strade di Berlino era fallito dinnanzi al Reichstag: stroncato sul nascere come un aborto fetale, un'impresa sconfitta ancora prima di vedere la luce. Sul suolo ghiacciato giacevano decine di corpi menomati e senza vita, i volti riversi sulla neve chiazzata di sangue e coperta di detriti, le armi abbandonate a terra, senza più mani, se non quelle dei morti, ad impugnarle. Dinnanzi a loro, la meta che non erano nemmeno riusciti a raggiungere: il plotone di eroi di Berlino ora non era altro che una legione di cadaveri, dannati caduti prima di raggiungere le porte del paradiso. E il Reichstag si ergeva così, fiero e distante: il freddo ventre materno che avevano a lungo sognato e tentato di raggiungere, alla fine, non aveva potuto accogliere i suoi figli, negando loro la vista delle grazie cittadine, la vittoria e la vita. Il sogno di gloria dei ribelli diveniva la fredda, immobile lapide che non li avrebbe mai ricordati, caduti nelle viscere della città ormai persa.
Questo quadro di desolazione misero a fuoco i suoi occhi mentre si guardava attorno, confuso, cercando qualche segno di vita in quel mare di corpi abbattuti durante la carica.
Erano sbucati dagli alberi del Großer Tiergarten, dove si erano appostati come fiere alle porte di un villaggio: nulla avrebbe potuto fornire un segno della loro presenza. Avevano atteso tutta la notte stretti gli uni agli altri e tremanti dal freddo e, quando avevano visto il cielo schiarirsi ad oriente, avevano dato il segnale. Erano usciti all'improvviso, armati di tutti i fucili e pistole che avevano a disposizione. Erano in tanti, più di un centinaio, fra uomini e donne, tra giovani e anziani, e avevano la luce nel cuore, la certezza di uccidere tutti assieme il mostro immondo che si nascondeva oltre il Reichstag. Era bastata una bomba a spazzarli via tutti, una singola bomba per mietere tutte quelle vite, svanite ancora prima di capire di non avere più speranza.
L'onda d'urto doveva averlo sbalzato a terra. Tentò maldestramente di alzarsi appoggiandosi su arti tremanti che non gli rispondevano più. La vista gli si annebbiava, nella mente ancora sembrava risuonare la terribile detonazione che lo aveva assordato. Le orecchie gli fischiavano, non riusciva a sentire nemmeno il battito del proprio cuore. La testa gli girava tanto da sembrare staccata dal corpo, tenuta attaccata al collo da quell'esile filo di coscienza che gli consentiva di rendersi conto della situazione: in quel momento, anche se il mondo sembrava vorticare come un macabro carosello sotto il suo corpo, lui sembrava essere l'unica cosa viva. Intorno a lui ora c'era solo una densa nuvola di fumo, l'odore di polvere da sparo e di carne bruciata: i suoi polmoni lo inalavano, doloranti, stuzzicati da una costola rotta. Mentre tentava maldestramente di rimettere ordine nei frammenti dei suoi pensieri, gli sembrò infine di vedere una sagoma muoversi nel fumo di fronte a lui. Nel suo stato confusionale, credette si trattasse di un'allucinazione, uno spettro traballante di un'ombra dei suoi sogni, una grottesca imitazione di figura umana dove non poteva essercene più una. Rassegnò il suo cuore a quel pensiero: non poteva essere sopravvissuto nessun altro. Una tosse violenta gli squassò il petto con forti fitte e per un tempo infinito sembrò esistere solo quel dolore mentre il suo stomaco rigettava a terra bile e sangue. Quando riuscì a calmarsi, alzò il volto che aveva sepolto nella neve e si accorse di un paio di neri stivali di pelle lucida, freddi e sadici incubi carnivori piantati nella leve a poche spanne dal suo viso. Levò lo sguardo in alto fino al volto dell'essere si ergeva dinnanzi a lui e, quando lo scorse, il suo cuore si gelò dal terrore. Prima dell'abbigliamento militare, prima della pistola puntata con sicurezza e precisione assassina verso la sua testa, prima ancora delle orecchie innaturalmente lunghe e appuntite che sbucavano dai capelli biondi, i suoi occhi si posarono sul viso. Nel viso apparentemente giovane, che dimostrava molti meno anni di quelli che avrebbe dovuto, negli occhi freddi che conservavano la stessa terribile luce glaciale di cui già si scorgevano i segni molto tempo addietro, riconobbe con orrore il bambino sperduto, l'aborto che non avrebbe mai dovuto essere nato: il mostro che un tempo aveva sorvegliato, fuggito infine dalla sua patetica gabbia. Una luce poco rassicurante si accese negli occhi dell'elfo mentre sembrava accorgersi di chi aveva dinnanzi.
«Bene, bene, bene: guarda chi si vede…», mormorò inarcando un sopracciglio all'indirizzo del vecchio.
La sua voce raggiunse la sua mente come una miriade di schegge di ghiaccio, ferendogli le orecchie più di quanto non avesse fatto l'esplosione. Solo quando tentò di urlare si accorse di aver trattenuto il respiro fino a quel momento poiché dalle labbra gli uscì solo un gemito patetico.
«Cosa c'è, vecchio? Non mi riconosci più?».
La voce gli uscì flebile, come se stesse attingendo aria dalla sua stessa anima per parlare. Pronunciare quel singolo nome gli costò uno sforzo immenso, nemmeno avesse dovuto estrarlo lettera per lettera dalle fiamme dell'inferno.
«Zima Einderblüch…».
«Oh, mi fa piacere che si ricordi di me», disse l'elfo con tono palesemente falso: una felicità verbalmente simulata che non si rifletteva nelle sue orbite insensibili che si illuminarono di un lampo ironico mentre caricava la pistola, «Anche io mi ricordo di lei».
Annaspò: il cuore gli faceva male come se la fredda pallottola che ancora lo aspettava paziente in canna gli avesse già forato il petto. Ormai stava tremando, la paura gli serrava le viscere in una morsa ferrea e gli immobilizzava gli arti a terra mentre, all'interno del suo corpo, si agitava una lotta feroce di voci contrastanti. Alla fine, l'istinto di sopravvivenza ebbe la meglio. Con un gridolino incespicò all'indietro, tentando di alzarsi ma le gambe gli cedettero come burro e cadde nuovamente al suolo.
«Mi sembra di vedere che abbia fretta».
La voce di Zima risuonò nuovamente vicino a lui. Sì girò appena in tempo per ritrovare ancora una volta la sinistra lucentezza dell'arma puntatagli contro. «È un vero peccato che se ne debba andare così presto».
In quel momento, si ricordò di essere armato anche lui. Afferrò fulmineamente la pistola che portava alla cintura  e sparò in fretta, senza pensare. Le mani gli tremarono così tanto che solo un colpo andò a segno. Il proiettile colpì la spalla del suo nemico di striscio, lacerandogli superficialmente la carne e la pelle del cappotto. Zima premette una mano guantata sulla ferita con un ringhio che pareva più animale che umano. Lo fissò con odio digrignando i denti da sotto l'ombra che il berretto militare gli gettava sul volto. Alzò la pistola con velocità sovrumana e schiacciò il grilletto. La pallottola di metallo gli trapassò la mano fracassandogli le ossa. La sua arma volò in aria mentre si accasciava a terra ululando di dolore, stringendo con la mano sana il polso dal quale ora pendeva solo il macilento ricordo di un arto. Questa volta, il dolore lo fece reagire. Non provò nemmeno a cercare la pistola, il suo primo pensiero fu scappare. Mentre ancora barcollava più veloce che poteva verso gli alberi un'altro colpo di pistola lo raggiunse alla spalla. Un tiro studiato, preciso, calcolato: il metallo gli penetrò la carne fino a toccare le ossa dell'articolazione. Con un singhiozzo, continuò ad avanzare fino ad essere ingoiato dal fumo e dalla nebbia che aveva preso ad aleggiare attorno agli alberi.
Era da solo, senza nessuno dei suoi compagni ad aiutarlo e nessun'arma per difendersi e rifugi dove nascondersi. In quel momento, con due proiettili in corpo e gli arti mossi solo dalla paura cieca, non gli interessava nemmeno dove i suoi piedi malfermi lo conducessero, bastava che lo portassero lontano più possibile dal Reichstag, lontano dall'incubo. Correva come se avesse il diavolo attaccato ai calcagni, la bocca rugosa annaspava nel grigiore dell'aurora alla ricerca di aria fredda che gli entrava nel petto, gli gelava i polmoni e travasava condensandolo nell'aria ghiacciata quel poco di calore che riusciva a scavare da quel corpo distrutto. Il braccio sinistro ormai era un peso morto da trascinarsi dietro, un pezzo di carne sanguinolenta e bruciante appeso alla spalla. I piedi si alternavano incerti nella neve lasciando dietro di sé una scia di orme e gocce di sangue, come se segnasse su una mappa bianca il suo percorso con dei trattini rossi. Nella mente offuscata dal folle terrore, riusciva a sentire la presenza dell'elfo dietro di sé, lo vedeva dietro ogni albero, sotto ogni cespuglio, strisciare in ogni ombra del Großer Tiergarten come una serpe, un mostro rigurgitato dalle tenebre, da un passato che non avrebbe mai dovuto realizzarsi. Nella nebbia dove vagava, sembrava affondare sempre più nelle spire della pazzia in pozzi di ricordi, come se ripercorresse la sua vita.
Un passo alla volta.


No, non potevano avergli detto quello. Non poteva essere, non dopo che avare aspettato con trepidazione nel cuore per ore in un corridoio silenzioso in attesa di ben altre notizie. Non poteva aver sentito quelle parole uscire dalla bocca del medico, non dopo tutti quegli anni spesi nella depressione, non quando aveva intravisto una scintilla di speranza dopo tanto tempo. Ma quando tentò di aggrapparsi agli occhi dell'uomo in cerca di una luce, qualcosa, qualsiasi cosa potesse comunicargli il contrario di quello che le sue orecchie avevano appena sentito, vi lesse lo stesso identico messaggio.
«Mi creda, abbiamo fatto tutto il possibile, signore, ma per sua moglie e per il bambino non c'è stato nulla da fare. Mi spiace. La prego di accettare le mie più sentite condoglianze».
Non poteva essere, era solo crudele ironia, l'ironia sprezzante della vita che prima, dopo anni di aborti spontanei, di sangue sulle piastrelle del bagno, lacrime nell'oscurità e antidepressivi, aveva deciso di donare loro una gravidanza sana, normale, viva, e dopo aveva deciso di togliergli tutto.


Non avrebbe dato la colpa al destino, ormai sapeva che il destino era una fandonia, una favoletta romantica per sognatori o una pillola di fiele per i poeti, esisteva solo la causalità. Non poteva dare colpa a nessuno, come non poteva dare la colpa al sole che lo svegliava la mattina, all'acqua dei fiumi, alle nuvole in cielo: ciò che gli succedeva era la diretta conseguenza delle sue scelte. Un uomo deve fare ciò che un uomo deve fare e cogliere ogni opportunità. Lui aveva colto la palla al balzo, ora aveva un lavoro molto meglio retribuito ma sempre lo stesso passato. Non voleva sentire di esserselo meritato, non voleva pensare che qualcuno - destino, la natura, Dio o che fosse - si stesse divertendo così crudelmente alle sue spalle. La causa del dolore di un uomo è colpa esclusiva dell'uomo stesso e del caso.
In quel momento, si chiese se dovesse dare la colpa al caso o a sé stesso se dinnanzi a lui si trovava un gigantesco utero artificiale pieno di liquido amniotico e, dentro, attaccato ad una placenta chimica con ogni genere di tubi, galleggiava un piccolo feto umano.
Si chiese se, con quella macchina, avrebbe potuto salvarsi anche suo figlio.

"È perfetto", diceva la dottoressa, ammirando la sua nuova creatura.
Lui non aveva visto, non aveva assistito alla nascita controllata, né quella né nessun'altra volta: era solo una guardia giurata, in fondo. Ma l'aveva sentito, quel suono, chiaramente come se fosse stato presente. E aveva continuato a sentirlo tutto il giorno, gli era rimbombato nella testa ogni minuto, ogni ora e avrebbe continuato a risuonare fino a che la vodka non avesse fatto effetti e non l'avesse fatto cadere a terra privo di sensi. Come ogni volta.
"Sono forti, sopravviveranno: sono perfetti", diceva la dottoressa.
Chi l'aveva detto che il suo non avrebbe dovuto sopravvivere: chi era lo scienziato nell'alto dei cieli che decretava certe cose?  Ormai aveva perso il conto delle sere che passava ponendosi quella domanda. E nella testa, collezionava il primo vagito di ognuna di quelle creature. Il solo pensiero lo teneva sveglio la notte, impedendogli di dormire e di ubriacarsi come voleva.
"Sopravviveranno".
Perché il suo bambino, che tanto aveva desiderato, era morto, e quella cosa, quel mostro che nessuno aveva voluto, sarebbe sopravvissuto?

Lo vedeva crescere giorno dopo giorno, anno dopo anno, rimanendo sempre più strano, sempre meno umano. Sentiva quegli occhi su di lui costantemente, quegli occhi di ghiaccio che sembravano aver inghiottito il suo futuro, così vuoti, così inconsapevoli. Non erano innocenti, no, ma così insostenibilmente inconsapevoli. Come poteva una creatura del genere ignorare cosa era davvero? Come potevano guardare in giro con la stessa luce di quelli umani? Come potevano solo essere degni di posarsi su quel mondo, un mondo che non gli apparteneva, un mondo a cui non avrebbero dovuto appartenere?
Aveva una voglia pazzesca di picchiarli, lacerare la loro carne col manganello che batteva invitante contro la sua coscia ad ogni passo che compiva. Voleva tingere di colori lividi quella pela che non avrebbe dovuto essere viva, voleva dipingerla dei colori della morte, vedere quegli occhi spegnersi e quel corpo sbriciolarsi a terra in un cumulo di ossa e cenere. Come avrebbe dovuto essere. Ma non poteva fare nulla di tutto questo, avrebbe perso il lavoro. Allora avrebbe almeno avuto la soddisfazione di vedere la sofferenza negli occhi di quei mostri, dovevano almeno sentirsi dispiaciuti per quello che erano e non avrebbero mai dovuto essere.
"Non sei altro che un aborto mancato, non avresti dovuto nascere".
"Sei uno scherzo della natura, un errore".
"Non avresti dovuto esistere"
"Non sei umano".
"Mostro".
Ma quegli occhi freddi rimanevano spalancati e vuoti, pozzi neri di un corpo senz'anima dove germinavano pensieri oscuri come la notte e taglienti come l'odio.



Uno sparò fendé la nebbia chissà da dove, spazzando via il turbinio dei ricordi per conficcarsi nella sua coscia. La carne violata dal metallo cedette sotto il peso del corpo. Crollò a terra ma riuscì a rialzarsi, zoppicando affannato. Un secondo colpo traforò l'altra gamba, incastrandosi dolorosamente tra i muscoli. Cadde nuovamente a terra con l'ennesimo urlo da animale ferito. Dietro di sé, gli stivali  in pelle scandirono col loro incedere inarrestabile la distanza con la fine che si accorciava. Zima si avvicinò senza alcuna fretta al vecchio, immerso nella pozza del suo stesso sangue. Sembrava che l'avesse seguito a piedi e gli avesse sparato solo dopo un po', per il puro, semplice piacere di vederlo cercare una salvezza che non sarebbe giunta, come annoiato dai suoi patetici tentativi di fuga. Il vecchio indietreggiò ancora, trascinandosi sul suolo duro e ghiacciato con l'unico braccio sano spezzandosi le unghie. La neve intanto si insinuava nelle ferite, i muscoli danneggiati si contraevano bruciando per dolore. Quando la sua mano sbatté contro la pietra si rese finalmente conto di dove si trovava: non era giunto dall'altra parte del Tiergarten, come sperava -là forse avrebbe potuto cercare aiuto- ma si trovava esattamente in mezzo a quell'enorme quadrato verde rinchiuso nella città. Sopra di lui, la colonna della vittoria si innalzava nel cielo plumbeo, l'angelo in cima sembrava canzonare, ironico, la sua misera sorte e la sorte di Berlino, ormai perduta. Nella sua mente annebbiata fluttuò la consapevolezza che quel monumento sarebbe stata la sua lapide. "Non voglio morire". Si voltò atterrito, gli occhi puntati su Zima che avanzava inesorabile verso di lui, l'andatura sicura e regolare di un principe, gli stivali di pelle che mordevano il suolo ghiacciato come volessero nutrirsi delle tracce di sangue che aveva lasciato in terra. Alla fine, il re degli elfi veniva a prendersi il padre oltre al figlio. * (riferimento all'Erlkonig di Schubert ndA)
«No! Stammi lontano! STAMMI LONTANO!», urlò.
Il magro petto gli si contrasse per lo sforzo facendolo piegare su sé stesso gorgogliando, la bocca invasa dal sangue: la costola aveva forato il polmone. Quando alzò nuovamente gli occhi, Zima era ancora dinnanzi a lui, l'arma in pugno ma il braccio tranquillamente rilassato lungo il corpo. Si vide quasi riflesso in quegli occhi freddi: un patetico vecchio  più morto che vivo con la barba insanguinata ironicamente accasciato sotto la statua della vittoria. Avvertì l'opprimente presenza del marmo dietro di sé e si sentì irrimediabilmente in trappola come un animale braccato. Orami era quello che era: una  preda atterrita che sperava di trovare la salvezza nel vecchio parco dove una volta cacciavano i principi, una bestia ferita dilaniata dai cani. Non aveva più vie di scampo. Un sorriso sprezzante incurvò gli angoli della bocca dell'elfo mentre si godeva la sua espressione di terrore: le labbra esangui scoprirono i denti bianchi e affilati, come quelli di un lupo che già pregusta il sapore del sangue.
«Pensavi di poter sfuggirmi?».
Il calcio al fianco arrivò inaspettato ma incredibilmente forte. Si accasciò a terra, reprimendo la voce mentre sentiva distintamente l'osso spezzato rimanere imprigionato tra la sua carne: non voleva dare a quel mostro la sensazione di vederlo soffrire. Ma, evidentemente, il re degli elfi non voleva lasciargli nemmeno un minimo di dignità. Zima lo fece voltare con una pedata in faccia: lo stivale gli sradicò un paio di denti dalle gengive e gli fece mordere la lingua. Infine, la suola chiodata calpestò la mano ferita, già maciullata dal proiettile. Questa volta urlò di dolore mentre l'elfo rigirava crudelmente il tallone: sentì con orrore il metallo triturare quel po' che rimaneva della sua carne recidendo con fin troppa facilità nervi, vene e cartilagine fino a che non separò del tutto due dita dal palmo forato. I versi del vecchio somigliavano sempre di più a quelli di un maiale al macello.
«Che essere patetico…», sentì sibilare l'elfo, compiaciuto, mentre infieriva sulla ferita: il suo accento pareva rendere i suoni già duri del tedesco ancora più sprezzanti, taglienti, letali. «Hai qualcosa da dire prima che ponga fine alla tua miserabile vita?».
Inspiegabilmente, i suoi pensieri corsero al figlio che non aveva mai avuto mentre i ricordi di una vita intera tornavano ancora una volta a galla. A quel pensiero, un'inattesa vampa di coraggio dilagò nel cuore del vecchio, incapace di difendersi: in quell'istante, odiò quell'essere più di quanto non l'aveva mai odiato, come se fosse stato lui ad uccidere il figlio. Da qualche parte in quella carcassa di ossa e dolore riuscì a trovare la forza di urlare con tutto il fiato che aveva in gola. «Se credi che implorerò per la mia vita ti sbagli di grosso! Non supplicherò mai un'essere come te, anche se dovessi bruciare tra le fiamme dell'inferno! Sei un mostro, un capriccio del caso: non sei altro che un aborto disgustoso che nessuno ha mai desiderato! Non potrei mai prostrarmi davanti ad verme come te, hai capito?! MAI!».
Il silenzio calò di colpo quando le note di rancore della sua voce si spensero nell'aria fredda. Il sorriso scomparve lentamente dal volto di Zima. L'elfo serrò le labbra chinando il capo. Il berretto militare gli gettava un'ombra sugli occhi che rendeva ancora più fosca la sua espressione. La mano guantata si strinse sui suoi radi capelli e gli sbatté il capo contro il marmo ad una velocità incredibile. Mentre ancora aveva la bocca spalancata per il male gli infilò la pistola in bocca, spaccandogli i denti, schiacciando con rabbia la punta della canna sulla lingua del vecchio, quella stessa disgustosa lingua che già tante volte l'aveva insultato e ferito: quella sarebbe stata l'ultima che si sarebbe permessa un'affronto simile. Gli voltò il capo in modo che potesse guardarlo in volto, negli occhi ora brucianti che già pregustavano la vendetta:«Tu ti sei già inchinato a me».
Uno sparo riecheggiò nelle profondità del Großer Tiergarten mentre l'angelo dorato in cima alla colonna osservava l'alba morente nascosta dalle nuvole cariche di neve che venivano a portare al re degli elfi la sua fredda corona.















---> Angolino dove si dondola Penny <---
*Fact number 1: Ich bin ein
schinkenbrot*

Alla fine, dopo interminabili dubbi, ripensamenti e atroci quesiti, la mia mente ha partorito codesta cosa che non potrà mai essere all'altezza della richiesta fattami e, tantomeno, un adeguato ringraziamento per il disegno che ho richiesto! *^*  Le istruzioni che ho ricevuto sono state di scrivere una missing moment su Zima che si vendica di una guardia giurata che lo maltrattava mentre ancora era bambino nel laboratorio dove è stato creato (la guardia compare in "Mutter").
è stata un'esperienza nuova per me: non ho mai fatto un art trade e mai maneggiato personaggi di altri quindi mi sono sentita piuttosto a disagio. Lavorare con Zima, poi, è stato come maneggiare una bomba a mano! xD
Sono consapevole del fatto che questo sia un Zima un po' diverso da quello che si è visto nella storia ma ho dovuto raccontare di uno Zima più giovane rispetto a quello della storia originale. (infatti, questa storia è ambientata ancora quando Zima aveva 30 anni -umani- e non era ancora il capo degli elfi). Ho provato a confrontare lo Zima enigmatico e imoossibilmente sadico di Eroica con quello bambino che emerge sia nel sesto capitolo di "Moonlight Sonata" che in "Mutter" e ho provato a chiedermi come possa essere arrivato dove è arrivato, come deve essere stata la sua crescita. Alla fine, è venuto fuori uno Zima che già odia gli umani e prova una certa soddisfazione nell'ucciderli ma che ancora non ha affinato il suo sadismo alla perfezione così come non è ancora riuscito a nascondere una sua certa "passionalità". Insomma, dovrebbe essere una versione di Zima che ha ancora molta strada da fare prima di divernire quello che tutti conosciamo: è una sua ipotetica versione giovanile, ecco. Forse assomiglia di più allo Zima che ha ucciso la vecchia scienziata che allo Zima che ha ucciso sua madre.
Il titolo (per altro, anch'esso suggeritomi da Homicidal Maniac xD) è stato ispirato all'"Erlokonig" di Schubert: questa storia -anche se non si nota molto- è giocata su riferimenti an un futuro ruolo di capo di Zima, come quando si dice che è come uno dei principi che cacciavano una volta nel Tiergarten oppure quando uccide il vecchio sotto la colonna della vittoria... sono tutte velate allusioni che dovrebbero presagire la sua futura dittatura. Rileggendo mi sono resa conto che assomigia tantissimo alla scena del film "Red Cliff" dove il principe deve affrontare la caccia alla tigre da solo, come una sorta di rito di passaggio per poter ottenere il rispetto dei sudditi. è una cosa un po' diversa ma, in effetti, si può leggere anche così.
Ringrazio tantissimo Homicidal Maniac per l'art trade, il meraviglioso disegno e l'opportunità di "giocare" un po' col suo bell'elfo! :D Spero sinceramente di non averlo stravolto troppo! ._.  In quel caso, sentitevi liberi di scomunicarmi!
Alla prossima!


Penny

  
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