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Autore: Fusterya    18/12/2012    28 recensioni
Quando Mycroft Holmes e Sherlock Holmes vogliono delle cose, quelle cose dovrebbero cominciare a fuggire a gambe levate e nascondersi nel buco più remoto della terra.
E quando quelle cose si chiamano John Watson e Gregory Lestrade, la faccenda si complica. A DISMISURA.
(Attenzione: si ride! O almeno spero...)
Genere: Comico, Demenziale, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson , Lestrade , Mycroft Holmes , Nuovo personaggio, Sherlock Holmes
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno
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Ok, sì, è una roba comica. O per lo meno, mi auguro lo sia. Il punto è che, dopo l’ennesimo carico massiccio di angst, letto e scritto negli ultimi due mesi, il mio cervello un giorno ha urlato e si è lanciato fuori dalla mia scatola cranica. Ha preso possesso del mio pc e ha deciso di scrivere questa roba.

Non so cosa sia, ditemelo voi, ma dev’essere grave.


Nota importante: non è betata ed è pubblicata di corsa, per cui perdonate (e segnalatemi) qualunque strafalcione... Thank you very much!


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Homeses at war!




“E’ così grave?”

La voce di Mycroft è un basso sussurro discreto.

Tesa come raramente capita: ecco perché ora lui dà le spalle all’interno della prestigiosa sala e guarda fuori il Tamigi che scorre irrequieto e grigio sotto i suoi occhi, che hanno assunto lo stesso colore ferrigno. La vista da questa finestra del Parliament è mozzafiato.

E Mycroft ce l’ha, il fiato mozzato, ma non per quello.

Il Big Ben rintocca pigro le due del pomeriggio, a voler sottolineare la drammaticità del momento.

“Se non fosse così grave non avrei sprecato il mio prezioso tempo nel farti questa telefonata, caro fratello.”

La voce di Sherlock è un nero temporale in avvicinamento.

“Vieni subito.”

Mycroft sospira esasperato e si guarda attorno.

La grande stanza rivestita da tendaggi austeri e pannelli di prezioso legno intagliato almeno due secoli prima sembra non più invitante e familiare come pochi istanti fa.

“Sto per presiedere un meeting di vitale importanza per il Medio Oriente, Sherlock!” sibila nel telefono. Anthea, in piedi a diversi metri da lui, lo osserva incuriosita.

“Questo è più importante, Mycroft.”

Holmes senior sospira e abbassa la mano con il telefono. Lo sta stringendo troppo.

Due giovani uomini in impeccabile abito scuro entrano nella sala e raccolgono dei fascicoli da un grande tavolo, uno dei due gli rivolge un timido sguardo che vorrebbe essere di saluto e terrore contemporaneamente, l’altro non si prende neanche il disturbo di mostrargli il proprio, di terrore, e poi insieme escono velocemente per andare a terminare l’allestimento nella sala riunoni attigua, quella più pomposa e importante.

Mycroft si riporta il telefono all’orecchio.

“Anthea, cara. Scusami con i presenti, avverti il sig. Cameron che può fare lui da padrone di casa,” dice nel microfono come se parlasse a Sherlock,” la mia presenza è urgentemente chiamata a più alti doveri. E, per favore, raccomandagli di non balbettare e non sputacchiare durante la conferenza stampa. Dovrebbe aver imparato come si fa, si spera.”

Anthea annuisce mentre digita velocissima sullo smartphone.

“Richmond park. Fra venti minuti.” La voce di Sherlock si è abbassata ulteriormente: potrebbe trivellare il sottosuolo con quelle frequenze così gravi.

Poi la comunicazione si interrompe e a Mycroft resta solo il silenzio, punteggiato dal ticchettio dell’enorme pendola in fondo alla sala.


                ***


“Oh, buon dio...” sussurra Mycroft stringendo gli occhi.

Li chiude strizzandoli quando ode l’urlo provenire dal basso del crinale su cui si trova, sferzato dal vento invernale che gli penetra nelle ossa e fischia attorno al collo del suo cappotto di tweed grigio, nonostante il riparo offerto dall’albero dietro cui è mezzo nascosta la sua alta figura.

Sherlock è immobile al suo fianco, gli occhi fissi sulla stessa scena, i riccioli neri che sbattono contro la fronte aggrottata.

E’ un roboante caos di grida quello che li raggiunge sulle ali del vento impietoso. Un fischio stridulo recide l’aria.

“E’ la terza volta, questa settimana.” mugugna Sherlock tra i denti.

“Che cosa primitiva.” Il disgusto sulle labbra di Mycroft è vivido e tangibile, speculare a quello disegnato sulla faccia del fratello minore.

Sta succedendo qualcosa sotto di loro, a un paio di centinaia di metri più in basso: Sherlock osserva con i sensi affilati, le pupille che saettano nel seguire ciò che si svolge in lontananza ma a buona portata dei suoi occhi famelici.

Un altro fischio stride nell’aria grigia e inclemente.

“Non hai  ancora visto il meglio.”

Sherlock solleva il polso e guarda l’orologio.

“... che dovrebbe avvenire in tre... due... uno...”

Un nuovo boato vocale si solleva dal fondo della collina.

Mycroft spalanca gli occhi quando vede John Watson e Gregory Lestrade corrersi incontro, ricoperti di fango, darsi prima un cinque a palmo spalancato e poi abbracciarsi come nella miglior scena di Via col vento. Greg lo solleva come se fosse una piuma e non lo rimette giù.

Non lo rimette giù!

Attorno a loro, altri ventiquattro energumeni neri di terra e umidità si abbracciano saltando o camminano in tondo scuotendo le teste, come se da ciò che è appena accaduto fosse dipesa la loro vita.

“Che cosa... animalesca!” ribadisce Mycroft prendendo un fazzoletto dalla tasca e tamponandosi il naso. Ha gli occhi fissi su John e Lestrade, che non stanno  più avvinghiati, ma si scambiano festosi convenevoli con gli altri, e Greg ha ancora il braccio attorno alle spalle di John.

“Una delle cose più stupide che abbia mai visto.” Gli fa eco Sherlock, occhi fissi su John e denti scoperti come un animale feroce.

“Dovrebbero vietare il rugby in tutto il paese!”

“Dovrebbero vietarlo ai dottori e ai poliziotti.”

L’Holmes più anziano punta l’ombrello nella terra soffice d’acqua.

Quella mattina ha piovuto in abbondanza, per la gioia assoluta di tutti i giocatori di rubgy amatoriali di New Scotland Yard, sembra.

“Questa nuova passione del tuo dottore è deleteria. Non puoi dissuaderlo?”
“Ci ho provato. Mi rifiuto di ripetere gli improperi con cui sono stato ricoperto.”

Sherlock soffia dalle narici come un grosso bufalo.

“Tu, piuttosto. Non puoi far ordinare a Lestrade da qualcuno in alto di non perdere tempo con questo hobby da troglodita?”

“Mh. Con quale giustificazione... genio?”

“Nessuna. Semplice abuso di potere.”

“E’ troppo sfacciato anche per me, Sherlock. Tieni a freno quel piccolo animale selvatico, invece!”

“Se sapessi come fare, lo farei!” sbotta Sherlock.

Restano un attimo in silenzio ad osservare gli uomini in basso che si avviano verso i margini del campo di allenamento.

John e Lestrade camminano fianco a fianco e chiacchierano. E ridono.

“Dobbiamo inventarci qualcosa.”

“Fagli dare un nuovo incarico, Mycroft. Fallo ammazzare di lavoro. Trova un modo!”

“Ognuna di queste soluzioni sarebbe peggiore del problema. Se non gestisse più i tuoi casi, non avrei scuse per poterlo interpellare o per fingere di riparare i tuoi danni quelle rare volte in cui è finzione.”

“Ok,” sbuffa Sherlock “restiamo in osservazione. Ho due grossi omicidi per le mani, nei prossimi giorni ridurrò John a un ammasso piangente di fatica e privazione di cibo e di sonno. Vediamo che succede. Se avrà la forza di andare... al pub!” Sputa la parola come se avesse lo stesso sapore del pesce marcio.

“Quante volte, questa settimana?”

“Tutte-le-sere!”

“Da soli?”

“Da soli!”

“Oh, Signore!” Mycroft si copre la faccia con una mano. Come ha potuto non far spiare Gregory dalle telecamere proprio quella settimana? Maledetta crisi con la Cina!

“Buon dio, Sherlock! Non puoi andare con lui?”

“Mycroft!”

Lui? Al pub? A parlare di sport e film e anneddoti sconci con quella massa di scimmie ritardate che porta sul bavero un badge di Scotland Yard?

“Scusa.”

“Vigiliamo, Mycroft. Questa cosa deve finire.”

“Non deve nemmeno iniziare,” sibila Mycroft roteando l’ombrello per aria ”fosse l’ultima cosa che faccio in vita mia!”


       

        ***


Sherlock mantiene la parola.

Dopo quattro giorni di inseguimenti al freddo, pasti saltati, nottate all’addiaccio e corse a perdifiato, John è stecchito.

Ma la cosa, a quanto pare, non porta i risultati previsti.

Sono le undici di sera e sono rientrati da nemmeno un’ora, e Sherlock è al tavolo del soggiorno, davanti al lap top, le mani giunte e i vestiti bagnati, in attesa che la doccia si liberi e che possa darsi una sistemata anche lui.

Pregusta dolcemente, e con un sorrisetto da volpe, la serata che gli si prospetta davanti.

Divano, thé, un dvd (uno qualunque, anche un film per minus habens di quelli che piacciono tanto a John), e John, per l’appunto.

E’ la serata giusta per insinuarsi nel suo cervello con argomentazioni valide e inoppugnabili, magari facendo seguire un whisky o due al thé caldo di cui già sente il sapore sulla lingua: parlerà piano a John, sottovoce, e gli farà notare quanto sia stanco e non gli faccia bene uscire ogni sera, o giocare a football a giorni alterni, e di quanto il suo supporto sia fondamentale per il lavoro, per cui deve essere in forma, non può rischiare di rompersi una gamba su quel campo scivoloso e malsano, e magari mentre gli parla si farà un po’ più in là, appoggiando il ginocchio contro quello di John, perché è da tempo che Sherlock ha notato delle cose strane... come dire?... è più una sensazione che altro, ma lui si basa sui fatti, ed è un FATTO che John da qualche settimana non abbia appuntamenti con nessuno

(nessuna donna!)

se non con Lestrade,

(Lestrade! Peste ti colga!)

e allora può facilmente collegare altri piccoli particolari risalenti ad ancora prima, quando non erano ancora iniziate le serate al pub con Lestrade,

(Lestrade! Ti mangerò il cuore! Crudo!)

e scopriva John a sbirciarlo sottecchi

(sbirciare lui, non Lestrade! Lestrade! Maledetto cane! Ti condurrò a Dover con la scusa di un caso e ti spingerò giù dalla scogliera!)

e poi a distogliere lo sguardo imbarazzato, o a indugiare un momento di più nel medicargli qualche ferita, spingendoglisi un po’ addosso, o a sfiorargli le dita con titubanza e a mantenere il contatto qualche istante di troppo nel passargli il telecomando, o il telefono, o una busta con delle lingue umane dentro...

A lui, non a Lestrade!

(Lestrade! Maledetto! Allestirò una strage e lascerò i tuoi stupidi capelli bianchi e le tue impronte su tutta la scena del crimine!)

Si rimprovera con durezza per non aver colto delle cose allora (sempre se ci sia qualcosa da cogliere): il dubbio lo attanaglia ancora, ed è un grossissimo dubbio... è più che possibile che sia lui a proiettare su John i suoi stessi, repressi desideri, che all’improvviso sono eruttati fuori, incontrollabili, con la grottesca comparsa dell’amico Lestrade (Lestrade! Maledetto suino! Ti aprirò la cassa toracica e ci sputerò dentro!).

Perché all’improvviso?

Perché adesso?

E perché lui ci legge qualcosa di romantico, anche se la sua mente sa che Lestrade (Lestrade! Maledettooooooo!) e John non potrebbero... loro hanno altri gus... cioè... uno è fresco di divorzio, l’altro cambia una fidanzata alla settimana, per cui John e Lestrade (Lestrade! *%/&”$£**ç°é£1!!!) non dovrebbero... insomma... oh dio, oh buon dio...  

Si accorge ora, guardandosi riflesso nello schermo spento dello smartphone appoggiato lì di fianco, che il sorrisetto di prima si è congelato in un ghigno atroce.

Se avesse Lestrade (Lestrade! Paramecio infido che vivi nelle acque più putride della fogna di Londra!) tra le mani... SE SOLO AVESSE LESTRADE (Lestrade! Che io abbia torto e che dio esista, e scateni su di te l’Armageddon!) TRA LE MANI!


Sente la porta del bagno aprirsi e si ricompone, addrizzandosi sulla sedia e dandosi un tono mentre comincia a digitare una roba su blog di entomologia.

I lepidotteri sono la distrazione giusta, sì... contegno, ritegno, spalle dritte e aria annoiata, ecco.

I passi dietro ovattati dietro di lui si avvicinano.

Cammina scalzo.

Strano.

John non esce mai dalla doccia senza pantofole.

“Puoi andare, non ho consumato tutta l’acqua calda.” si sente dire con tono allegro.

Allegro? Dovrebbe essere mezzo morto!

“Uhm... sì, tra due minuti. Ho trovato questa ricerca che...”

La musica assordante e ridicola della suoneria del cellulare di John lo interrompe facendolo quasi sobbalzare. Il cellulare è appoggiato sul tavolo, oltre il suo laptop, e vibra come una grossa vespa intrappolata sotto un bicchiere.

Il nome sul display lampeggia e si infila negli occhi di Sherlock come due dita (ungulate!) di un campione di kung fu.

Lestrade!  

L E S T R A D E ! (il suo cervello formula talmente tante contemporanee maledizioni che non riesce a pensarle in un’unica lingua coerente e chiede aiuto al francese, al polacco e al cinese mandarino).

Vede la mano di John infilarsi nel suo campo visivo e simultaneamente si gira di scatto verso di lui.

John! No! Non dovresti rispsahsassfffgh....”
John è nudo.

Cioè, non proprio nudo, ha un piccolo telo da bagno attorcigliato alla vita, ma tutto il resto è... nudo.

Senza vestiti. Senza maglietta. Senza pantaloni. Senza niente.

“Oh, è Greg.” Sorride John con i capelli tutti arruffati sulla testa e le gocce d’acqua che ancora scivolano sul collo e si infilano nel solco tra i pettorali, alcune intrappolandosi tra la peluria bionda sul petto e altre, invece, che scorrono fino all’ombelico e tracciano linee argentate sull’addome che... oh, dio, sii clemente e accecami adesso! In questo preciso istante!

John si sporge su di lui e gli si appoggia sulla spalla per allungarsi verso il telefono.

Ogni residua traccia di pensiero compiuto abbandona Sherlock Holmes, come fa l’anima di un moribondo che fluttua sul soffitto della sala operatoria e guarda con stupore il proprio stesso cadavere poco prima di ritornarvi dentro e raccontare che ha visto la luce.

“Scusa.” gli dice anche, e per lo sforzo fa spuntare la lingua rosa tra le labbra umide, e tutto ciò che Sherlock può replicare è : “Mh.”

“Greg!”

Quella mano sulla spalla è ancora lì. Ancora lì. Ancora lì.

“No, non è tardi, non ti preoccupare. Dimmi.”

Il naso di Sherlock è all’altezza del fianco destro di John e i suoi occhi imbambolati fissano la linea dell’osso pelvico che scivola morbida sulla pelle ambrata e si spegne contro il tessuto bianco dell’asciugamani.

“Davvero? Tra quanto?”

E poi c’è il profumo del bagnoschiuma... intenso... cos’é? Muschio... no, patchouli... qualunque cosa sia, è peggio di un vassoio di cocaina infilato sotto le sue narici.

“Fammi pensare... in effetti sarei un po’ stanco.”

Sì, sei stanco, John. Sei distrutto!

Deglutisce e non ci riesce, perché il soffice addome di John si espande lievemente e poi si ritrae con la respirazione, e la striscia di morbidi peli biondo scuro che corre in giù tra il suo ombelico e verso l’inguine si muove insieme ad esso, e... dio mio... cosa ho fatto per meritare questo? Qualcuno mi spari! Ora!

“Ok, a te non posso dire di no. Dammi dieci minuti”

A te non posso... COSA?

“John!” scatta finalmente e guarda in su, ma quello gli posa un dito sulle labbra (gli.posa.un.dito.sulle.labbra.) e gli fa “ssshh!”, e lui tace come un imbecille, e John ridacchia al telefono e dice qualcosa tipo: “oh, ho capito... aspetta, ci vuole un po’ di privacy...” e si allontana da lui, e toglie la mano da lui, e si incammina verso le scale abbassando la voce in tono complice, emettendo un’altra risatina, e... e...

LESTRADE!

MALEDETTO NEI SECOLI DEI SECOLI! IO TI UCCIDERO’ CON LE MIE NUDE MANI E BERRO’ IL TUO SANGUE!



            ***



Mycroft!”

“Il tuo tono non mi piace...”

“Sono usciti. Adesso!”

“Seguili!”

“Li ho già seguiti ieri, e l’altro ieri, e l’altro ieri ancora!”

“E?”

“Niente. Solito pub, solito tavolo, se c’è posto... altrimenti al bancone. Bevono birra e mangiano noccioline.”

“E?”

“Ridono. “

“Uhm.”

“Mycroft...”

“Sherlock...“

“Invitalo a cena. Toglimelo di torno per una maledetta sera!”

“Con quale scusa? Invita tu a cena John!”

“Ah! Ci ho provato ieri e mi ha risposto di no, l’ingrato cane scozzese! E poi è uscito con quel... quel... … ”

“Sherlock...”

“...”

“Ti mancano le parole...”

“Er...”

“E’ gravissimo. Dobbiamo tirare fuori l’artiglieria pesante.”
“NO!”

“Domenica. E’ deciso.”

“No... Mycroft.... NO!”

“Non mancare o ti faccio narcotizzare e prelevare da tutti gli agenti del M6!”


           

    ***



Giorni dopo, Sherlock cammina in cerchio e sta praticando un buco nelle assi del pavimento del soggiorno.

John è uscito quella sera e tutte le altre, tornando a orari impossibili e odorando di birra. Ma, quel che è peggio, torna di buonumore, rosso in viso e con un’espressione rilassata e languida.

TROPPO LANGUIDA.

La situazione sta precipitando.

Mycroft ha ragione, per quanto sia fastidioso riconoscerlo.

Bisogna ricorrere all’artiglieria pesante.



    ***



“Non... ci posso credere.”

Violet Holmes saetta gli occhi furiosi da un figlio all’altro.

La sua bocca elegante è una linea sottile e bianca di rabbia, le dita dalle unghie pallide tamburellano sulla tovaglia di fiandra del 1849.

“Tu! Con tutta la tua spocchiosa onniscienza!” sibila verso Sherlock, che abbassa gli occhi e si aggiusta il colletto della camicia con fare imbarazzato.

“E tu, con tutta la tua tronfia onnipotenza!”

Mycroft sospira e fissa la mensola intarsiata dell’enorme camino, trovandola all’improvviso interessante.

“Due... idioti!” sbotta Violet. La mano cala sul tavolo e fa tintinnare le posate d’argento.

“Violet...” la richiama una voce calma e carica di pazienza dal fondo della stanza.

“Siger, non ti intromettere!”

Siger Holmes, corpulento e rassegnato, sospira nella sua confortevole poltrona vittoriana e gira una pagina del giornale.

“Ragazzi, io ve lo avevo detto...”
“Papà, ti prego. Mamma ha ragione.” interviene Mycroft con un moto di orgoglio.

“Non fare lo scolaretto pentito, Mycroft.” Violet gli punta un dito contro “Sei il maggiore! Sei quasi un uomo di mezza età e ora capisco perché sei disperatamente single! Non ti ho insegnato proprio niente?”

“Mamma...”

“Silenzio! Inseguire la gente?”

Adesso è a Sherlock che si rivolge, e tanta è l’enfasi che l’elegante ciuffo bianco che le incorona il capo si muove come un pennacchio “Sei impazzito?”

Sherlock solleva per un attimo gli occhi spaventati in quelli della madre e se ne pente subito.

“Vogliamo interpellare anche i servizi segreti, già che ci siamo?”

Sherlock si schiarisce la gola.

“Veramente Mycroft ci stava pens...”

“Sherlock!” La voce di Mycroft è venata di panico.

Violet nasconde la faccia tra le mani.

“Oh, dio mio! Ho generato due imbecilli e non posso credere che ci sia il mio DNA, lì dentro! “
“Non guardare me” le fa eco Siger voltando placidamente un’altra pagina “Io ti ho corteggiata da subito e nemmeno un mese dopo eravamo fidanzati.”

“Ecco! Appunto!” Violet risbatte la mano sul tavolo, le perle al suo collo oscillano con un frenetico moto di rimprovero “Avete sentito vostro padre? Per una volta l’ha detta giusta!”

Sieger emette un sospiro di rinuncia.

Sherlock e Mycroft fissano la madre ad occhi spalancati, come due civette investite da un fascio di luce.

Ancora una volta lei li fissa costernata, prima l’uno e poi l’altro.

E’ davvero mai possibile che non... capiscano?

“Corteggiare!” sbotta.

I due figli saltano sulle sedie.

“il segreto è corteggiare! Non spiare, inseguire, riprendere con le telecamere, impedire che pratichino i loro hobbies! Corteggiare è la parola d’ordine!”

“Ha rifiutato il mio invito a cena!” si difende Sherlock con il tono petulante che usava da bambino.

“E tu” il tono di Violet diventa pericolosamente flautato “come glielo hai chiesto, se posso permettermi?”

Sherlock mette il muso e incrocia le braccia sul petto.

“Come avrei dovuto dirlo? Gli ho detto: John, andiamo a mangiare da Angelo’s.”

“Idiota!” Sbam, la mano sul tavolo.

Sherlock salta di nuovo sulla sedia.

Adesso Violet è rossa in viso.

“Fai spazio nella segatura che ti ovatta la testa e ragiona! Siete coinquilini, e dire - andiamo a mangiare da Angelo - equivale a: il frigo è vuoto, procuriamoci del cibo! Come nella giungla! Senza altre implicazioni! Un invito a cena ha un vero e proprio rituale da seguire! Preparare il terreno qualche giorno prima con atteggiamenti affettuosi ma non invadenti,  dirlo in un certo modo, accompagnare la proposta con parole ammiccanti ma non troppo intimidatorie, pressare con gentilezza facendo capire che un no sarebbe davvero molto triste da sopportare, ma senza dirlo apertamente... un po’ di grazia, delicatezza e di atmosfera... oh, dio mio, aiutami! Grazia e delicatezza... tu? Ah!”

Per un istante piomba il silenzio nel quale si percepisce solo il respiro accelerato di Violet. Sherlock sembra ancora una civetta terrorizzata e Mycroft, a testa bassa, gioca col cucchaino nella tazza di caffè vuota.

“E tu, invece, caro signor Sonoilpadronedelmondomanonsoinvitarefuoriqualcunochemipiace?”

“Io... ecco... è più complicato...”

“Perché? Perché non è tuo amico? Non è tuo coinquilino? Non lo conosci così bene?” insinua Violet, melliflua.
“Ecco... esattamente.”

“Stando a questo, il genere umano dovrebbe essere estinto da tempo.” miagola sua madre.

“E invece no!”  Sbam, la mano sul tavolo.

Cristo, si fratturerà le dita, pensa Siger accendendosi il sigaro, e non può reprimere un mezzo sorriso sotto la curatissima barba canuta.

Mycroft si è ristretto nelle spalle come un maglione di cachemire lavato a 60 gradi.  

“Ti fai avanti! Cortese e discreto, ma ti fai avanti! Che ci vuole? Ispettore, posso parlare con lei di una questione? Magari stasera a cena? Non ci vuole una laurea, Mycroft Holmes!”

“Mamma... non è così semplice...”

“Sì, lo è! Lo è! temi un rifiuto? I rifiuti fanno parte della vita, My. Aspetti un po’ e ci riprovi. Anche l’insistenza paga. E adesso via dalla mia vista, tutti e due. Oh, dio, non avrò mai dei nipoti!”

Sherlock e Mycroft si scambiano uno sguardo colmo d’orrore.

“Ehm... mamma... si tratta di due... uomini.” Azzarda Mycroft.

“Esistono le adozioni e gli uteri in affitto in questo paese, mi pare! Fuori di qui, e fatevi risentire solo se avete da chiedermi cose sensate. Vi posso guidare e consigliare, ma solo se lo volete veramente e vi fidate. Via! A casa vostra! Non posso più stare nella stessa stanza con due cretini come voi!”

I due si alzano lentamente, affogati nell’imbarazzo. Violet ha appoggiato la fronte alla sua mano destra.

Sherlock deglutisce impacciato. “Allora... ecco... ci sentiamo...”

“Via!”

I fratelli ruzzolano fuori dalla stanza alla velocità della luce.



“Violet, sei sempre così dura con loro...” Siger sta ridacchiando e tossichiando contemporaneamente.

Sua moglie si va a sedere sul bracciolo della poltrona e gli circonda un braccio con le spalle.

Adesso sta ridacchiando anche lei.

“Qualcuno li deve tenere ancorati a questa terra.”

Siger sospira sollevato. “Hai visto Sherlock? Era... imbambolato.”

“Innamorato.” lo corregge lei. “Chi avrebbe mai detto che avrei visto questo giorno?”

“Scommetto che ti chiamerà entro stasera.”

“Se non lo farà lui, lo farò io. Quel John Watson è una benedizione, non possiamo lasciarcelo sfuggire.”

“E Mycroft?”
“Ah, è meno imbranato di quel che sembra, a lui basterà la strigliata di oggi.”

“Sei una donna perfida.”

I due coniugi si guardano con lo stesso ghigno nefando.

“E tu mi hai sempre amata per questo.”

“E sempre ti amerò.”



        ***



“Allora, facciamo questa stupidaggine. Da dove parto?”

“Si comincia dalle piccole cose, Sherl.”

“Che sarebbero?”

Violet sorride come farebbe una faina di fronte ad un pollaio incustodito e comincia a parlare al telefono sottovoce, circolando per la stanza e giocherellando col filo di perle che porta sempre al collo. Sempre, da quando è la signora Holmes.



        ***



John sente che c’è qualcosa di strano fin da quando si sveglia, quella mattina.

C’è... silenzio.

Niente violino. Niente passi al galoppo sulle tavole di legno del piano di sotto. Niente sproloqui solitari con quel vocione vibrato che, John ne è sicuro, si sente anche al 225D.

Forse è cominciato uno di quei periodi in cui Sherlock pensa in stato catatonico.

Volesse il cielo!

Sono le sei e trentacinque, come ogni giorno, e quando scende nel soggiorno c’è di sicuro qualcosa che non va.

Niente Sherlock sul divano. Niente catatonia riflessiva, quindi.

Ma anche niente fumi chimici mefitici dalla cucina.

E niente fischi nelle tubature che indichino che è sotto la doccia e sta dando fondo a tutta l’acqua calda.

Che stia... dormendo?

Nah... che idea balzana!

Comunque John decide di controllare e va verso la sua camera da letto, passando quindi dalla cucina, e... oh.

Oh, oh!

Cosa è... questo?

Un vassoio sul tavolo. Un tavolo sgombro e pulito.

Un vassoio con una tazza non sbeccata e lavata, con tanto di piattino, cucchiaino, zuccheriera (non coordinata alla tazza, sarebbe stato troppo!), un portauovo con dentro... un uovo alla coque!!! E del pane tostato appena fatto in un cestino! E una teiera bollente ricoperta dal copriteiera termico. E una ciotolina con il burro, una con la marmellata di ciliege, una con la conserva di arance. E un coltello. E un bicchierino con dentro una margherita, una sola, un po’ curva che pare svenuta, a dire il vero...

“Sherlock!” Lo chiama spaventato. Ma la casa risponde col silenzio.

Va verso la camera da letto e bussa.

“Sherlock?”

Niente. Gira la maniglia e socchiude la porta. Il letto è intatto, la stanza è vuota.

John torna in cucina perplesso e si mette a fissare di nuovo il vassoio.

Toh, c’è un bigliettino infilato tra la margherita e la teiera. Immaginando che non possa essere per altri che per lui, John lo prende e lo apre.

Per te, caro John. Buon appetito. SH.

John si gratta il mento, disorientato. Che Sherlock stia male? Un virus... un’infezione... qualcosa che sta minando le sue facoltà mentali!

Tutta la roba è fragrante, appena fatta: Sherlock deve essere uscito da pochissimo.

Se John fosse sceso due minuti prima, lo avrebbe incrociato di certo. E avrebbe potuto sentire se aveva la febbre, o se le sue pupille erano dilatate a causa di qualche droga.

Ha persino messo in ordine. Il pentolino per l’uovo alla coque è nel lavello. I ripiani dei mobili sono... intonsi! L’attrezzatura chimica è scintillante, ed è riposta con un senso logico su un solo bancone.

Deve essere grave. Oh, sì, pensa John sedendosi a tavola e sorridendo tra sè. Dev’essere molto grave. Ma nulla a cui non si possa pensare dopo una colazione come questa.


    ***


Quella sera è anche più grave.

John rientra dopo un turno massacrante e tre ore di straordinario, e già appena sale per le scale il suo naso percepisce un odore poco familiare.

Cibo. Sì, ma non cibo da asporto. Cibo che sta cuocendo.

Si affaccia alla porta della cucina prima con la testa, temendo che si tratti di un esperimento (che so, una sostanza letale che ha lo stesso odore del risotto ai funghi....), e quello che vede è sconvolgente.

Sherlock Holmes è in piedi davanti ai fornelli e gira il cucchiaio di legno in una pentola bassa mentre intona un motivo a labbra chiuse. La cavalcata delle Valkirie, a quanto sembra.

Chi non intona Wagner mentre cucina?

E la tavola è apparecchiata.

Bene apparecchiata.

Tovaglia (hanno una tovaglia? Lo scopre adesso), sottopiatti e una bottiglia di rosso già aperta al centro.

“Sherlock?” John non ha il coraggio di muoversi dalla sua posizione.

Quello si gira sui tacchi come un generale teutonico e lo guarda con un buonumore che non gli vedeva sul volto da quando ha risolto un triplice omicidio in 24 minuti e senza andare sulla scena del crimine.

“Ah, John, eccoti. Siediti, è praticamente perfetto.”

Solo allora John riesce a fare qualche passo, guardandosi attorno stupefatto.

“Hai... cucinato?”

Un altro passo.

“Tu sai... cucinare?”

“La cucina è una questione di chimica, John. Tempi, ingredienti, procedure. Basta documentarsi con precisione, e io l’ho fatto. E, come per ogni cosa che faccio, il risultato è impeccabile.”

Con aria soddisfatta, Sherlock spegne i fornelli. John gli si è avvicinato e sbircia da dietro la sua spalla.

“Ed è... commestibile?”

“E’ più che commestibile, è buono.”

Sherlock affonda il cucchiaio sulla superficie del risotto, ne raccoglie una minima quantità e glielo avvicina alle labbra.

“Assaggia. E’ bollente, fai attenzione.” Poi cambia idea e ci soffia su lui.

“Ecco.”

John, titubante, fa come gli viene detto.

E poi lo guarda ad occhi spalancati.

“Te l’avevo detto.” si gonfia quell’altro “e adesso sistemati e raggiungimi, se non lo tolgo dal tegame continua a cuocere e si rovina.”

John lo guarda per un altro po’ sbattendo le ciglia, confuso oltre ogni immaginazione.

“E come sapevi che sarei rientrato ora e non tre ore fa?”

Sherlock mostra i denti con fare suadente. Per un attimo John pensa che due canini lunghi e affilati ci starebbero benissimo, in quella bocca.

“Non essere ovvio. Ho chiamato la clinica.”

“E non potevi chiamare... me?”

“E la sorpresa?”

“Oh.”

La... sorpresa.

John vorrebbe dire qualcosa ancora, ma probabilmente balbetterebbe, e comunque Sherlock si è girato per spostare la pentola sul ripiano.

“Sbrigati o rovinerai la mia creazione.”

Vagamente rassegnato, John si avvia per andare a cambiarsi sotto lo sguardo soddisfatto di Sherlock.

Se fossero in un fumetto, il punto interrogativo che campeggia sulla sua testa sarebbe troppo gigantesco per uscire dalla porta della cucina.


“Allora, a cosa devo tutto questo?”

John si siede a tavola e, prima di cominciare, lo fissa sospettoso.

Sherlock sorride candidamente, ma non è un sorriso sincero e sembra più una smorfia sardonica.

“Ci deve essere un motivo?”

“Hai preso qualcosa? Qualche... sostanza?”

“Dovresti essere in grado di dedurlo tu, dottore.”

John lo scruta diffidente e no, non ha preso niente. Pupille normali, colorito eccellente, coerenza nei movimenti. A parte il risotto.

“Hai fatto qualcosa che devi farti perdonare, allora.”

“No.”

“Hai rovistato in camera mia e hai trovato il... le...”

“Cosa?”

“Niente. Lascia perdere.”

Sherlock assaggia il riso, John incrocia le mani sotto il mento e lo fissa poco convinto.

“Che hai fatto? Confessa?”

“Niente, ripeto. Voler essere gentili non è un delitto.”

“Hai cancellato per errore il mio blog.”

“No.”

“Hai ucciso per sbaglio Mrs Hudson.”

“No.”

“Hai dato fuoco ai miei vestiti.”
“Mi piacerebbe, soprattutto i maglioni, ma no.”

“C’è un corpo a pezzi nel frigo e non puoi dimostrare di non essere stato tu.”
“No, John.”

“Non mi hai dato le bollette  da pagare e tra poco resteremo al freddo e al buio.”

“No. Mangia, ti dico.”

“Tu non sei gentile. Tu sei la persona meno gentile che conosca.”
Sherlock prende il bicchiere del vino e lo solleva come per fare un brindisi.

“Ho deciso di cambiare. Tu meriti un coinquilino e un amico gentile.”

“Oh, ecco, questo spiega tutto.”

“Mangia.”

E John mangia. Piano, con un’aria smarrita, in silenzio, sotto lo sguardo terrorizzante del suo strampalato coinquilino, e soprattutto assaporando ogni chicco di quella delizia.

Alla fine il piatto è vuoto e John si sente più rilassato.

“Potrei abituarmici, sai?”

Sherlock rifà quel sorriso da vampiro senza canini.

“E’ quello che mi auguro.”


John non chiede cosa voglia intendere. A volte, con Sherlock, è meglio così.


    ***


“Non esci con... Lestrade, stasera?” (Lestrade! Orrendo uomo peloso e dagli occhi maligni!)

“Uhmm.. oggi no, è quasi mezzanotte”.

Il divano è confortevole, lo stomaco è pieno, la tv è al volume giusto, gli occhi si stanno chiudendo.

Non si accorge fino all’ultimo della presenza che incombe davanti a lui e che poi cala con tutto il proprio peso sul cuscino lì affianco, parlando con voce premurosa.

“Dovresti andare di sopra, stai crollando.”

John apre un occhio e lo guarda.
“Sherlock, mi stai facendo paura.”

“No, John, niente può spaventarti. Nemmeno io.”

“Vorrebbe essere un complimento?”

“Lo è.”

“Vuoi venire anche ad assicurarti che mi lavi i denti e mi infili sotto le coperte?”

“Se lo ritieni necessario, lo farò.”

“Sherl... “

Sorriso sibillino.

“Domani dovrai dirmi cosa succede o, per dio, non risponderò di me!”


Ovviamente Sherlock non glielo dice. Né il giorno dopo, né quelli successivi.

   

***



“Come procede con John?”

“E’ confuso.”

“Immagino.”

“Tu?”

“Io ho chiesto un favore a un vecchio amico. Lestrade avrà una settimana di doppi turni per un finto caso che, guarda un po’, coinvolge me personalmente, cosa che lo obbligherà a vedermi spesso: e la sera sarà così stanco che si trascinerà sulle ginocchia.”

“Bene. Mantieni questo assetto.”

“Vedi dei risultati?”

“Mh. Ricambia le gentilezze, cosa che non fa testo perché John è sempre gentile. E’ preoccupato. Teme che io abbia preso qualche sostanza psicotropa di mia invenzione. Ma ho notato che mi osserva con più insistenza. Sta... riflettendo.”

“Bene. Procede tutto come previsto.”

“Spero solo che finisca presto. Tutto questo cucinare e riordinare mi sta sciogliendo il cervello e rovinando le mani.”

“Ieri sera sono usciti?”

“Sì. Cinema.”

“Quale film?”

“Non ricordo il titolo.”

“E’ importante. Mai un film romantico, Sherlock. Stai all’erta.”

“No, era una faccenda di guerra ed esplosioni.”

“Per quanto... basta il buio in sala a creare certe situazioni....”

“No, nessuna situazione.”

“Come lo sai.”

“Li ho fissati per tutto il tempo. Il tizio accanto a me voleva chiamare la polizia, l’ho dovuto anestetizzare.”

“Bravo ragazzo!”



    ***



Dopo un’altra settimana di casi impegnativi, inseguimenti, corse, veglie notturne sui tetti dei palazzi, e cene preparate con cura, sorrisi e gentilezze, Sherlock è andato.

Spezzato.

Fritto.

Cotto.

Esausto.

Isterico.

Fustrato.

Prossimo al crollo nervoso.

Pericolosamente vicino al suicidio (stavolta vero) dovuto alla ineluttabile, ineffabile calma di John, alla sua resistenza alla stanchezza fisica, al suo essersi abituato (velocemente, e senza altre domande, il cane scozzese!) alle amenità che offre la casa, tra cui del vino rosso pregiato e diverso ogni sera, piatti francesi di una certa difficoltà e il bucato che miracolosamente compare fresco e ben piegato sul suo letto. Ogni santo giorno.

Ma niente. Nulla cambia.

Ogni sera, ogni fottuta sera, John si alza soddisfattissimo da tavola, gli rivolge qualche parola di sincera ammirazione e dei ringraziamenti commossi, ed esce.

Con Lestrade.

(Lestrade! Maledettissimo! Userò il tuo cranio per farne una lampada da tavolo e sarà meraviglioso digitare sulla tastiera del pc alla luce soffusa che proverrà dalle tue orbite oculari!)


Niente altro.


“Basta!”

Shelock sta urlando al telefono.

“Questa idiozia ha oltrepassato ogni limite! Sono la versione sociopatica di Biancaneve, e meno male che di nano ne ho solo uno!”

“Sherlock, caro... fai uno sforzo, corteggiare è una questione di pazienza. Non sono nemmeno tre settimane che...”

“Mi rifiuto! Da adesso si fanno le cose a modo mio!” Sherlock vaga avanti e indietro a passi lunghissimi e pesanti, come se volesse uccidere il pavimento.

“Appena lo vedrò, glielo dirò in faccia e vedremo cosa mi risponderà! Non posso essere umiliato in questo modo! Il bucato? Tsé! Che idea... balzana è mai stata questa?”

“Non urlare con me, ragazzino! Commetterai un errore!”

“E che errore sia!” è un ruggito feroce e accompagna il volo del cordless che si infrange con un crack contro il muro di fronte, appena in tempo per accogliere l’apertura della porta di ingresso e la faccia di un perplesso, sospettoso John sulla soglia.

Sherlock fa una giravolta con relativo svolazzo della coda della vestaglia e si immobilizza al centro della stanza, spalle dritte, mani dietro la schiena e atteggiamento da saluto militare. Con uno sbuffo spazientito si soffia via un ricciolo che gli è caduto in mezzo agli occhi e fa comparire sulla faccia un ghigno congelato da manichino di film horror.

John lo guarda con la fronte aggrottata.

“Che sta succedendo? Perché il telefono è sul pavimento, in pezzi?”

“Un caso!” esclama Sherlock con la voce più alta di un’ottava “Il cliente è un idiota!”

John non smette di scrutarlo con fare pensoso mentre gli si avvicina.

“Stai avendo una paresi?”

“Prego?”

“Quel... sorriso. Stai avendo un ictus? E’ inquietante.”

“Inquietante?” La bocca di Sherlock si storce di più. John scuote la testa, arrendendosi e  sfilandosi la giacca per lasciarla cadere su una sedia.

“Ok, non lo voglio sapere, vado a farmi una doccia. Spero di non vederlo più sulla tua faccia quando torno in questa stanza, mi fa venire i brividi. Non c’è del thé?”

“Uh... er... del thé?”

John solleva la testa e lo guarda come se non sapesse chi è questo tizio alto e magro che staziona al centro del suo soggiorno.

“Stai ripetendo le cose che dico. Stai bene?”

Sherlock cerca di aggiustare la smorfia che ha sulla faccia ma la peggiora.

Il suo piano, quello che ha urlato alla madre poco fa, non è decisamente un buon piano. Non ora che John lo sta guardando come se fosse pazzo.

“Uhm... certo, benissimo. Del thé. Che thé sia.”

Vola via verso la cucina facendo svirgolare nell’aria la vestaglia come il mantello di Batman. Un Batman bipolare.

John resta lì a chiedersi per almeno un minuto se non abbia preso davvero qualche droga.
 


La doccia ghiacciata arriva poco dopo.

Sono seduti al tavolo della cucina e Sherlock fissa in modo inquietante la faccia indecifrabile (da quando John Watson è indecifrabile?) di John, ancora indeciso se saltargli addosso ora, subito, o se evitare di rischiare le mandibola e studiare la cosa ancora un po’.

John sta masticando un biscotto con la placidità di un dromedario che rumina la sterpaglia secca del deserto.

“Sai, Sherlock.... stasera vorrei invitare a cena Greg. Visto che il tuo ultimo hobby sembra l’alta cucina e che ogni sera avanza dell’ottima roba, mi sembrava una buona idea...”

Sherlock vorrebbe strapparsi gli occhi, ora.

E ingoiarli.

E picchiare John fino a renderlo incosciente (e poi, magari, legarlo al letto, diciamo).

E poi vorrebbe attendere Lestrade (Lestrade! Maledetto!) stasera, sulle scale, e... e... al momento non sa trovare quale sia il modo più doloroso per ucciderlo, deve ragionarci su.

Però sa anche che quella di John è una buona idea, un’ottima idea, perché così potrà vederli insieme e tentare di capire come interagiscono, in modo da farsi un quadro quantomeno vicino alla realtà.

“Ma certo.” sorride come prima. Una bambola voodo sarebbe meno orribile da guardare. “Invitiamo Lestrade.”

(Lestrade, maledetto, dalle tue ossa farò dei lucidi e perfetti rosari musulmani in grani che andrò a vendere in Yemen! )



Durante la cena, nonostante gli sforzi di Sherlock di essere di Malumore Assoluto e di sedere con loro, nero e greve come La Morte stessa, a braccia incrociate e bocca storta nel disgusto più evidente, Greg e John ridono.

Ridono senza sapere in quali modi raffinati e crudeli l’uomo che siede di fronte a loro stia immaginando di macellare e cuocere Lestrade (Maledetto!)... e magari anche il cane scozzese.

Lestrade (Maled... vabbè, lo sapete già) ha portato una bottiglia di vino che ora campeggia vuota sul tavolo insieme ad altre due, e Sherlock si è scatenato nel presentare con le sue peggiori intenzioni una roba di alghe e lumache, spacciata per roba fusion franco-giapponese.

Ma quello, Il Maledetto, non solo ha mangiato, ma ne ha preso ancora.

E ancora.

Bestia famelica e senza dignità!

“Prendine ancora, John. E’ buono. Dio, Sherlock, non ti facevo così pieno di virtù.”

Sherlock emette un brontolio incoerente, John si rilassa contro la spalliera della sedia e sospira soddisfatto.

“No, grazie, Greg. Sono strapieno. E il vino... dio mio...”

Sono complici e affiatati. E ridono sempre, come due deficienti.

O come due che hanno una cotta.

Sherlock Holmes vuole dare fuoco al quartiere.

Invece grugnisce e digita un messaggio al cellulare, sotto il tavolo.


  • I fedifraghi tubano. Davanti a me! SH


Pochi istanti e un bip annuncia la risposta.


  • Arrivo. Contienili con ogni mezzo a tua disposizione. Anche illegale. MH


E’ così che Il Maledetto crolla sul divano poco dopo, vittima di un caffè pesantemente adulterato con sostanze innominabili, ma il cui effetto può essere facilmente spacciato per troppo vino, prima che possano uscire per andare a bersi un cicchetto di scotch al pub come stavano programmando di fare.

Il Cane Scozzese non si accorge di niente perché lo segue poco dopo, scivolando dalla sua poltrona di sedere sul pavimento e rimanendo così, la testa penzoloni e il maglione tutto arrotolato intorno al petto.

Sherlock si complimenta con sé stesso mentre apre la porta per far entrare gli scagnozzi di Mycroft che si portano via Lestrade come fosse una balla di fieno, sotto lo sguardo disperato e indignato del fratello maggiore.

“Che facciamo adesso?” chiede sconfortato Holmes senior.

Sherlock sorride con lo stesso calore di un rettile preistorico.

“Eliminiamo fisicamente Lestrade.”

“Non essere idiota.” Mycroft si tampona la bocca con un fazzoletto candido, cosa che fa quando è molto, molto turbato.

Sherlock sbuffa dalle narici e si stira con le mani i risvolti della vestaglia.

Il suo sguardo è duro e concentrato.

“Cosa si fa in guerra, Mycroft?”

Quello lo guarda con un solo sopracciglio sollevato.

“Dipende. Tu cosa faresti?”

“Ciò che destabilizza di più il nemico.”

Sherlock guarda John, collassato sul pavimento in maniera poco dignitosa, e si chiede... beh, insomma... si chiede cosa ci trovi... ma guardalo... è ridicolo!

Porta dei maglioni orribili e fischietta quando lava i piatti.

Gli piace lo sport... oh, mio dio... lo sport! E non solo il rugby, anche il calcio!

Fa i cruciverba nella pagina centrale dei quotidiani della domenica e ride per i video demenziali su youtube.

Predilige una pessima marca di marmellate, la meno dolce che ci sia... insomma, se mangi marmellata vuoi che sia dolce, no?

Corre piano. Rispetto a lui, almeno, e dà la colpa alle gambe più corte.

Urla se mentre fa la doccia si accorge che la bottiglia dello shampoo è vuota e nessuno l’ha sostituita, senza capire che il cervello di un genio non può prestare attenzione a queste cose.

Usa troppo ammorbidente nel bucato, e costringe Sherlock a odorare come una bambina di sette anni per giorni.

Si nasconde la faccia nel palmo di una mano quando è imbarazzato o arrabbiato, mettendo su quell’aria da professorino che definire irritante è un puro eufemismo.
Russa. Non tantissimo, ma russa (come Sherlock sia venuto a conoscenza di questa informazione è meglio che resti un segreto).

E poi è ottuso, come sta ampiamente dimostrando in queste circostanze.

Cosa Sherlock ci trovi, proprio non si sa!

E’ un tizio comune, duro di comprendonio, irascibile, permaloso, fastidioso, sempre lì a rimproverare, a bacchettare... e gni gni gni, e bla bla bla!

Cosa ci troverà mai...

“Un atto di terrorismo. Questo, ci vuole.” mugugna alla fine, sopraffatto dalla incontestabile adorabilità della figura di John, appassita per terra come un enorme orso di peluche strapazzato da un bambino crudele.  

Mycroft lo guarda con stupore.

“Il kamikaze.” sentenzia Sherlock con voce cupa “L’ultima possibilità.”

Mycroft sospira.

“E’ il momento, dunque.”

“Pare di sì.”

“Hai valutato tutti i rischi?”

“Andiamo, Mycroft! Mi sono lanciato dal tetto di un edificio una volta, posso fare anche questo!”

Mycroft guarda per terra e rotea l’ombrello puntato sulle assi del pavimento.

“Questa volta potrebbe fare più male.”

Sherlock ha lo sguardo distante mentre risponde:

“Non c’è altro modo.”

Mycroft sospira di nuovo.

“Allora lo faremo insieme.”


    ***



John si risveglia sul proprio letto, ancora vestito e con una coperta gettata addosso, e deve tenersi con le mani al muro quando si alza e va verso la porta.

Ricorda vagamente di aver bevuto tre bottiglie di vino insieme a Lestrade e Sherlock.

Beh, tre bottiglie in tre non avrebbero minimamente dovuto fargli questo effetto, ma hai visto mai? C’è una prima volta per tutto, nella vita.

Sherlock è al microscopio, in cucina, e non gli parla né quando John lo saluta, né ore dopo, né mai fino alla sera,  nonostante l’insistenza, la preoccupazione, gli “Sherlock , tutto ok?”, e poi i “cosa c’è che non va?”, che poi diventano gli  “è qualcosa che ho detto o fatto?”, che a loro volta evolvono in “ok, se non mi vuoi parlare, a me sta benissimo!” , e infine approdano agli  “è vero, è vero, sei un sociopatico del cazzo e io non resterò un minuto di più qui dentro!”

E’ sera inoltrata, la telefonata rituale con Lestrade (Maledetto!) per prendere accordi circa la consueta uscita è già avvenuta, e John ringhiava più che parlare, e adesso è nel soggiorno, seduto sul divano con aria stizzita e si allaccia le scarpe tirando le stringhe come se volesse strangolarsi i piedi.

Sherlock sorge lento e inesorabile come un pianeta dallo sgabello della cucina e a passi lunghi gli si avvicina e si pianta dinanzi a lui, ancora in vestaglia e con le braccia conserte al petto.

“No.”

John solleva gli occhi e lo fissa scettico.

“Ah! Sai parlare, allora! No... cosa?”

“No.”

Sherlock fissa. LO fissa. Cattivo.

John si raddrizza offeso.

“Non ho nessuna voglia di fare giochini da psicopatici. E non correggere psicopatico in sociopatico, è sempre una qualche … patìa! Pertinente al soggetto in questione.”

Si alza dal divano, rigido e impettito, e fa un passo. Sherlock gli si para davanti. I suoi occhi scintillanti sono come laser. Lo bucano. Lo trapassano.

“Ho detto no.”

“No, cosa, per dio!”

“Tu stasera non esci di qui.”

“Cosa?”

“Cosa c’è tra te e Lestrade?”

“Cosa???”

“Tra te e Lestrade... cosa c’è? Veramente?

La sua voce è un mix tra il sibilo di un crotalo e il gorgogliare velenoso di una pozzanghera di zolfo in un geyser islandese.

Può un essere vivente avere questa voce?

E’ possibile che sia il tono della voce a stordire John, piuttosto che la domanda in sé.

“Cosa?” ripete imbambolato.

Sherlock si avvicina di più e fissa di più.

“John, non farmi sillabare come se parlassi a un bambino delle elementari. Cosa c’è tra te e Lestrade?”

Ecco. L’attacco frontale inaspettato. L’ultima spiaggia. Il kamikaze. A questo punto anche mamma sarebbe contenta, o per lo meno sollevata. Tentare il tutto e per tutto. E quel che sarà, sarà.

“Io... non... ma cosa?” balbetta John, ipnotizzato da quegli occhi furenti.

Poi, ad un tratto si riscuote, pronto a difendersi.

“Non... Sherlock! Non sono … non è... non ti riguarda, cristo!” scatta come se qualcuno gli avesse punto il sedere con un forcone da barbecue.

“Ah!” lo inchioda l’altro “Non stai negando! Non mi riguarda, dici! Ma non è una negazione! Cosa c’è tra te e quel maledettissimo Lestrade?”

“Io... “ John annaspa e fa la stessa faccia che aveva durante la falsa retata antidroga di cui fu testimone, suo malgrado, quando lo conobbe. Sherlock gli è vicino nello stesso modo, LO GUARDA nello stesso modo.

“Non c’è niente, io e... Lest... ma di cosa stai parlando?”

Ma quella sulla sua faccia è paura.

“John, non puoi mentirmi. Non puoi mentire a me, proprio tu! Conosco ogni sfumatura nella tua voce, ogni ruga sulla tua faccia, ogni tremore della tua persona... stai mentendo a ME? Che presunzione!”

“Siamo amici!” sbotta John come se avesse realizzato solo ora “Amici in un modo in cui non posso essere con te! Tu vai bene per alcune cose, lui per altre! E’ questo, è solo questo! Cristo, Sherlock!”

“E in cosa ti va bene... lui? Sentiamo! Il cinema? Noioso! Il rugby? Grossolano! La birra? Patetica! E dannosa!” Sta urlando? Sì, Sherlock sta urlando.

“Sono cose che a me piacciono e non posso fare con te!” John urla più di lui.

“Con me non fai più niente!” Sherlock urla talmente tanto che John indietreggia di un passo, ma è pronto a contrattaccare.

“Cos’è? Una infantile scenata di gelosia? Ah, è proprio da te! L’egocentrico del cazzo!”

“Gelosia? Per una partita di rugby o un dvd da dementi che condividete su questo divano? Mi credi così imbecille? C’è altro! Parla, John Watson! Cosa c’è tra voi due?”

“Cristo!” John si passa le mani tra i capelli, esasperato.

E muto, stavolta.

Passa tra loro qualche istante di silenzio metallico, intervallato dai loro respiri accelerati per la rabbia.

John abbandona le braccia lungo i fianchi e lo guarda sconfitto. Anzi, meglio.

Colto in fallo.

Sherlock stringe gli occhi in due fessure malvagie. La sua voce si abbassa in una finta calma indagatrice.

“Da quando non sei più Mr. Io non sono gay?”

John sospira.

“Da quando sei interessato a questo argomento, Mr. Io sono sposato con il mio lavoro?”

“Lo hai mai baciato? O peggio? “

Cosa?”

“Lo hai baciato, ho detto?”

“Non sono affari tuoi!”

“Sì, lo sono.”

Sherlock avanza di quei due passi che li separano e gli sbarra la strada, gli è praticamente addosso, incombe su di lui.
E’ troppo. John serra la mascella e solleva il mento in aria di sfida.

“Certo che l’ho baciato!”
COSA?”

John sbuffa perdendo la pazienza definitivamente e punta le mani sul suo petto per respingerlo.

“Visto che lo hai capito, lascia che te lo spieghi meglio. E’ quello che voglio! Una vita normale,  cose da condividere con qualcuno, sì. Qualcuno di congeniale! E anche una relazione, se capita. E sì dà il caso che stia capitando. In maniera non ortodossa... ok. Non me lo aspettavo nemmeno io, ma sta capitando. E a me sta bene così. E’ chiaro?”

Sherlock lo guarda come se fosse pazzo.

No, anzi... John è pazzo. Qualcuno gli ha fatto qualcosa...

Chi è questo qui?

E di cosa sta parlando?

“E noi...? E tutto questo?” fa un gesto ampio ad indicare la stanza attorno al loro “Il lavoro, i casi... John!”

“Questo non cambierà!” scandisce lui con tono perentorio.

Una tristezza piena di determinazione gli riluce negli occhi. Sembra stanco.

Lo è.

“Lavorerò con te, sempre, e tu lo sai, ma ho bisogno anche della mia vita privata. Di rapporti umani... di sentimento. Hai fatto scappare chiunque mi venisse vicino senza darmi mai niente in cambio,  perché sei un egoista patologico: beh, Greg ti conosce bene, con lui non ci riuscirai. Non ha paura di te, e non è geloso di te. Amo la sua compagnia, mi fa star bene, mi capisce, e, a quanto pare, mi VUOLE.”

Sherlock lo guarda esterrefatto.

John tace, e per la prima volta anche lui non sa cosa argomentare.

Un grumo di angoscia viscosa si attorciglia attorno alla trachea di Sherlock: gli punge gli occhi senza preavviso, umiliandolo.

“John, non mi lasciare.”

John ha le labbra piegate in giù e gli occhi troppo grandi.

“Non posso lasciare ciò che non ho mai avuto, Sherlock.”

Si fissano in silenzio per un altro attimo.

John attende, e attende, e attende ancora... ma Sherlock non capisce... non capisce mai quando serve...

Tutto quello che John vede sono i suoi pugni stretti lungo i fianchi e gli occhi vitrei, spalancati nei suoi.

Immobile. Senza neanche l’emissione di un sospiro.

John abbassa la testa e gli passa davanti, infilandosi la giacca e dirigendosi verso la porta d’ingresso.

Scende per le scale lentamente, con rassegnazione, e sospira nel posare la mano sulla maniglia del portone, sulla quale indugia un attimo per darsi il tempo di deglutire la delusione. E il dolore.

Chiude gli occhi. E’ finita.

Spero che Greg sappia cosa fare, ora.


Un galoppo sconnesso dietro di sé.

I gradini di legno che tremano, vibrano, si scuotono come se ci fosse un terremoto.

John si gira e guarda le scale, da cui un furibondo Sherlock si sta precipitando giù come una furia, saltando gli scalini due a due.

“No!” tuona smettendo di correre dopo aver sceso l’ultimo.

Ora si sta avvicinando a passo marziale. John si blocca ipnotizzato, lo sguardo agganciato dagli occhi verde-azzurri furiosi.

“No,” ripete, e la sua voce è così cupa da vibrare sui vetri, su ogni superficie attorno a John.

Che indietreggia appoggiandosi di spalle alla porta chiusa quando Sherlock lo circonda con le braccia, strattonandolo, e lo bacia famelico.

“Sei mio!” gli ringhia prima di togliergli il fiato completamente “chiama Lestrade e digli che non andrai: né stasera né mai più. John Watson ha un solo proprietario.”

“... proprietario?”

“Già, proprietario!”

John non può più parlare, non con tre metri di lingua cacciati giù per la gola.




“Oh, cristo!”

Più che un’esclamazione è un grido spaventato.

“Che c’è, grande investigatore? Non sai educare i tuoi... animali domestici? Hai paura delle tue... proprietà?”

“Aiuto!”
“Oh, no. Avevi detto che non dovevo lasciarti. Immagino tu intendessi... questo. “

La voce di John è sadica. Suadente. Affannata.
Sherlock si sente letteralmente girare sulla schiena senza nessuna difficoltà, come se il suo metro e 84 di altezza e il considerevole peso delle sue ossa non avessero nessun valore per le leggi della fisica di questo mondo.

John gli crolla sul petto e gli mordicchia le labbra con ingordigia.

“Preparati a imparare un sacco di cose nuove, genio.”

“mmmpfff...”

“.. e fai silenzio, ora parlo io,  nella mia lingua!”

“mmmggghh”

“... e la prossima volta che reclami una proprietà, pensa bene a quello che fai. Ci possono essere delle... conseguenze. Ah!”

“Oh, Gesù!!!”

“Ecco, appunto.”
 



Il pomeriggio successivo, a Scotland Yard
 


Sherlock entra al piano della Omicidi spalancando la doppia porta della divisione con una forza brutale, e percorre il corridoio con cipiglio da ufficiale nazista, seguito a ruota da John.

E’ la prima volta che escono di casa dopo che è stato messo in chiaro un certo concetto riguardante la proprietà di persone e cose in Baker Street.

Ha messo su la sua classica espressione accigliata, come si conviene ogni volta che compare in pubblico, ma essa è decisamente artificiale.  

In realtà, è probabile che il coro delle voci bianche di Westminster gli stia intonando varie e complesse versioni dell’Allelujah nel cervello satollo.
Anche John sembra appena uscito da una beauty farm: rilassato, sorridente.

“Spero sia almeno un numero 8!” bofonchia Sherlock mentre si dirigono verso l’ufficio di colui che è scomparso dai radar dalla sera precedente senza... stranamente, si direbbe... fare nemmeno una telefonata a John.

Non è più Il Maledetto, nella testa di Sherlock, ma comunque detesta l’idea di vederlo: non c’è stato tempo di farsi raccontare tutto, ma proprio tutto, da John.
Ogni tentativo di conversazione della notte precedente si è rapidamente evoluto in qualcosa che richiedeva notevoli abilità atletiche su diverse superfici della stanza, prevedeva la sperimentazione di varie consistenze, angolazioni e competenze, tra cui l’idro(e shampoo)resistenza e, in un paio di casi, anche il coinvolgimento di alimenti viscosi e particolarmente dolci.

No, non c’era stato davvero modo di parlare.

Nè con John, nè con (o di) Lestrade nè con... Mycroft?

E’ Mycroft , quello laggiù?

Quello davanti alla porta di Lestrade, al fianco di Lestrade, che parla con lui in maniera sommessa e Lestrade getta la testa indietro e ride, e poi gli prende un braccio e gli risponde qualcosa di rimando quasi all’orecchio, e stavolta a ridere in maniera leggera e QUASI imbarazzata è Mycroft?

Oh... oh...

C’è della confidenza, tra i due... dell’intimità!

Il suo piano kamikaze ha funzionato anche per lui?

Oh, ma è meglio del previsto! E’ come essere a Natale! Due fottutissimi problemi risolti in una volta sola!


Quando gli Holmes vanno in guerra, non fanno prigionieri, a quanto pare.


Ecco, si muovono, vengono verso di loro nel corridoio, e adesso sono quasi tutti e quattro vicini, gli uni di fronte agli altri: John affianca Sherlock e si ferma alla sua destra.

I due fratelli si guardano con aria di intesa e un sorrisetto appena accennato, ma decisamente eloquente.

“Sherlock...”

“Mycroft...”

Poi i loro sguardi si spostano su John e Greg, che si guardano con un sorriso ancora più eloquente.

Sherlock e Mycroft smettono di sorridere.


Eloquente... in che senso?


“John...”

“Greg...”

“Com’è andata la serata?” chiede Greg suadente.
“Un successone. E la tua?” John sorride come se avesse vinto alla lotteria nazionale.

“Oh, un trionfo, direi.” Greg scorre la lunga figura di Mycroft con aria soddisfatta e poi guarda di nuovo l’amico.

“Facile come bere un bicchier d’acqua.” dice Greg.

“Un gioco da ragazzi.” sorride John.

“Due imbecilli.” gongola Greg.

“Puoi dirlo forte.” accondiscende John “Dopotutto, sono degli Holmes.”

John guarda Sherlock con soddisfazione profonda e si gode lo spettacolo dell’orrida consapevolezza che si fa strada negli occhi acquamarina.

Li osserva spalancarsi in un terrificante stupore. Guarda il sangue che defluisce dalla sua faccia lasciando dietro di sè un pallore mortale. Vede la bocca aprirsi leggermente in un atteggiamento ebete di sorpresa.

Lestrade sta facendo la stessa, identica cosa con Mycroft, a cui sfugge un costernato e sospirato “cosa...?”

“Ci sono cose” sorride John al suo - adesso, finalmente, e si spera per sempre - compagno “che per quanto ti sforzi, Sherlock, non potrai mai capire al volo. E per le quali avrai sempre bisogno di una... spintarella. Per fortuna ci sono io.”

“E io.” gli fa eco Greg, che, mani sui fianchi, sta cercando di capire se l’altrettanto pallido Mycroft stia per svenire o meno.

“Caffè, John?”

“Volentieri, Greg. Lasciamoli affrontare la cosa.”

I due si battono un sonoro “cinque” con i palmi delle mani e si allontanano.


L’ultima cosa che sente, John, è la voce di Sherlock che gli arriva alle spalle.

“John Watson, ti sei scavato la fossa con le tue stesse mani!” urla fuori controllo, prima di minacciarlo di morte in vari modi.


John e Greg ridono di gusto e pensano contemporaneamente, che sì, oh, sì, entrambi avranno la possibilità di sperimentare molti di quei modi, a partire da quella stessa sera, ognuno a casa propria e con l’Holmes giusto al posto giusto.


In fondo, in amore e in guerra tutto è lecito.

No?


 





































  
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