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Autore: AntheaMalec    18/12/2012    8 recensioni
“Quindi adesso siamo una sorta di…amici?” Chiese John, passando il disinfettante sul taglio allo zigomo che quegli idioti dei suoi compagni di corso –Anderson e Sebastian, a quanto pareva– avevano fatto a Sherlock, con un pugno ben mirato proprio nel momento in cui non se l’aspettava –‘sono comunque degli idioti, John, non c’è bisogno che ti comporti da infermierina isterica’ ‘ti hanno dato un pugno, Sherlock! E non mi comporto da infermierina isterica!’ Sherlock roteò le iridi, rimanendo in silenzio. “Io non ho amici, John.” Rispose, mugolando di dolore dopo la pressione che le dita di John avevano fatto sulla ferita dopo quelle parole.
“Sì, beh, è per questo che ho chiesto, sai…” Mormorò John, cercando di non incontrare il suo sguardo e staccando la carta del cerotto.
“Tu vorresti esserlo?”
Genere: Fluff, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson , Sherlock Holmes
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Atterrerò sulle tue spine e graffierò ogni mia cellula

 

When I was younger
I saw my daddy cry
And cursed at the wind
He broke his own heart
And I watched
As he tried to reassemble it
And my momma swore that
She would never let herself forget
And that was the day that I promised
I’d never sing of love
If it does not exist
You, are, the only exception
But, you, are, the only exception
 
Paramore

 
 
 
 
 
 

Sherlock era piccolo, ma aveva sempre compreso ogni significato complicato, ogni ragionamento che per qualunque altro bambino della sua età sarebbe parso incomprensibile. Nonostante ciò, però, Sherlock doveva ammettere di trovarsi in seria difficoltà, seppur il suo lodevole cervello avesse raccolto abbastanza materiale e numerosi dati da confrontare e assimilare.
Era colpa sua, sapeva anche questo. Stavano cenando tutti insieme quella sera, una cena al completo come non succedeva da tempo, con suo fratello Mycroft e suo padre a capotavola, rigidi e in silenzio, mentre sua madre stava davanti a lui, alzando di tanto in tanto gli occhi verso di lui e sorridendogli dolcemente, fino a quando, semplicemente, era arrivato il momento in cui Sherlock non era riuscito più a stare in silenzio, specchiandosi nelle acque malinconiche che apparivano nelle iridi di sua madre, e l’aveva detto ad alta voce. Aveva guardato fisso nel suo piatto mentre diceva alla sua mamma –gli provocava una lieve irritazione sotto pelle al solo pensarci– che aveva visto papà con una donna diversa, più e più volte. Sherlock non aveva alzato gli occhi chiari, ma aveva dedotto lo stesso che Mycroft aveva sbuffato piano dal naso, riposando accuratamente la forchetta nel piatto, facendola combaciare con il coltello di argento, suo padre lo aveva fissato per minuti interi –aveva percepito le sue pupille bruciargli il cranio– e poi si era alzato elegantemente dal tavolo rettangolare in legno di mogano, uscendo velocemente dal soggiorno. Sherlock non aveva voluto vedere la faccia di sua madre, aveva semplicemente continuato a fissare la sua verdura completamente intatta nel piatto di ceramica, sentendo un’altra sedia stridere sul pavimento e un’altra porta sbattere, prima delle urla –prevedibile. In quel momento si era deciso ad alzare gli occhi, smettendola di comportarsi da ridicolo codardo quale sembrava essere –aveva otto anni, per la miseria!–, e incrociando così la faccia accusatoria di Mycroft.
“Bel lavoro, fratellino, complimenti.” Non gli aveva dato la soddisfazione di vederlo scappare nella sua camera come uno di quei suoi compagni di classe, pronti a frignare al primo taglietto inutile, aveva semplicemente alzato il mento, quasi fiero, prima di dirigersi, con le mani nelle tasche dei pantaloni, su per le scale, fino alla sua stanza. Chiusa, finalmente, la porta, Sherlock si era lasciato scivolare lì per alcuni secondi, ponendosi milioni di domande a cui non riusciva a trovare risposta, irritandolo maggiormente. Era sicuro che sua madre sapesse, o almeno sospettasse, delle continue relazioni extraconiugali di suo marito, quindi perché prendersela tanto? Perché fare quella sceneggiata? Non era, forse, meglio una cruda verità ad una pessima bugia? Lui era di quell’opinione, per lo meno. Non gli piaceva sentire sua madre piangere, nel cuore della notte, perché papà non era tornato. Non gli piaceva vederle le occhiaie sotto agli occhi e non gli piaceva sentire tutto quel silenzio quando lui, invece, era presente, come se avesse il potere di risucchiare tutta la felicità di quella casa solamente entrandoci.
Non si sentiva in torto nell’aver scoperto le carte di quel gioco in cui tutti gli attori recitavano la loro parte in maniera pessima. Aveva otto anni, era adulto quel tanto che bastava per proteggere sua madre e portare a galla la verità e, in ogni caso, non si sentiva in colpa. Quindi, si era alzato e aveva aperto la grande finestra che dava sul cortile, sedendosi sul davanzale e facendo penzolare le gambe nel vuoto. Aveva osservato le nuvole bianche rincorrersi nel cielo pomeridiano e si era chiesto di cosa fossero fatte –doveva assolutamente fare una ricerca–, aveva guardato un’ape svolazzare vicino al suo ginocchio, prima di perdersi lontano dal suo sguardo, aveva posato gli occhi sul giardino pieno di rose dei vicini e su quella stranissima ossessione per ogni tipo di macchinina giocattolo che, a quanto aveva potuto constatare, facevano scatenare tutte le energie del loro grassoccio figliolo, fino a quando suo padre non era comparso sul percorso di ghiaia davanti al loro cancello, con in mano un borsone che stonava completamente con l’abbigliamento elegante che portava.
Se ne stava andando? Sarebbe tornato? Sherlock si sporse un po’ di più, cercando di leggere il labiale dei suoi genitori, ora l’uno davanti all’altra.
Ora che notava un po’ meglio, riusciva a vedere la solita maschera di freddezza che suo padre indossava ogni giorno, rompersi sempre di più, con le mani appena protese in avanti, verso il maglione color mare di sua madre, che, al contrario, faceva passi indietro, allontanandosi da lui. La distruzione dei sogni, si disse Sherlock, grattando con un’unghia sul marmo color grigio fumo sotto di lui. Una vita passata ad aspettare l’amore solo per poi scoprire che, in realtà, tutto quel sogno ad occhi aperti era solo un’illusione molto realistica e senza nessun significato.
Eccolo lì, il capolinea di ciò che era stata, fino a quel momento, la sua famiglia. Quella perfetta, quella che nascondeva al resto del mondo, quella che cadeva a pezzi sotto tutte le apparenze. Non sembravano più le persone aristocratiche che venivano ammirate per le strade di Londra e nemmeno quelle perfette statue greche racchiuse nelle foto di gruppo. Smontati, rotti, in fondo, completamente umani come tutto il resto del mondo.
Suo padre sembrava avere il cuore a pezzi, nonostante fosse stato lui a rovinare tutto, mentre alzava un po’ di più la voce e si dirigeva verso la macchina, urlando improperi al cielo. Sherlock lo guardò salire in macchina, chiudere lo sportello e uscire per sempre dalle loro vite, con un’ultima, astiosa occhiata a lui, con ancora la testa riccioluta che cercava di osservare sotto di sé –sapeva che non avrebbe mai dimenticato quello sguardo a occhi lucidi, il loro definitivo addio.
Rimase fermo lì per un tempo interminabile, stropicciandosi le mani pallide nel vano tentativo di scaricare tutta quella tensione che sembrava aver intrappolato la casa, tarpandole le ali. Aveva fatto bene, si continuava a ripetere, era meglio vivere da soli che vivere con dei traditori, sua madre si meritava di meglio. Sherlock si rimise i piedi sul pavimento della sua cameretta, richiudendo accuratamente le grande finestre color sabbia.
Non avevo tempo da perdere, il suo esperimento con un riccio particolarmente vivace lo stava aspettando a braccia aperte, non poteva di certo deludere le sue minuscole e pungenti aspettative –magari avrebbero fatto amicizia e l’avrebbe portato sulla sua meravigliosa nave, affrontando i sette mari insieme con il suo nuovo compagno di avventure, quello che non aveva mai avuto. Prese le chiavi della cantina, il quale era ormai diventato il suo laboratorio, e scese le scale, passando davanti alla stanza di suo fratello, intento ad ascoltare musica classica –odioso, cosa poteva capirne lui delle sue motivazioni? –, e scese le scale, cercando di fare meno rumore possibile.
Arrivato, però, a metà dell’ultima scalinata a chiocciola, Sherlock dovette fermare la sua corsa, affacciandosi piano dietro al muro color salmone che gli copriva la visuale. Sua madre, Violet, stava davanti alla portafinestra che dava sul balcone a piano terra, gli occhi persi fuori come se non facesse davvero parte di quel mondo, non più. Aveva in mano un bicchiere con del liquido color marrone chiaro e Sherlock, nonostante la sua età, capiva perfettamente che non si trattava di tea o di qualcosa di meno leggero di un superalcolico –mamma….
“Per non dimenticare.” Sussurrò, tracannando l’ultimo sorso di bevanda e poggiando malamente il bicchiere sul tavolo di cristallo lì vicino. Si spolverò la giacca elegante e rimise al proprio posto una ciocca bionda di capelli dietro l’orecchio, prima di girarsi e incominciare a sistemare ogni oggetto le capitasse tra le mani, con ancora l’accenno delle guance umide e rosse sotto agli occhi sorprendentemente azzurri.
L’amore rendeva fragili.
Sherlock restò lì, completamente dimentico del suo riccio rinchiuso in una di quelle strane e scomode gabbie per criceti, a osservare come sua madre stesse reagendo, come, pian piano, stesse ricoprendosi di uno strato di ghiaccio troppo spesso anche per un osservatore esterno come lui.
Ancora non sapeva che Violet non sarebbe più stata la stessa, che, come un fiore, avrebbe fatto finta di essere splendido come sempre, ma quel sorriso sarebbe diventato sempre più finto e quelle iridi sempre più stanche, fino a confondere realtà con finzione.
Sherlock ancora non sapeva che sua madre sarebbe diventata la persona da evitare maggiormente, ma anche colei da cui prendere esempio per il futuro.
Sherlock, nonostante il suo incredibile cervello, molto più sviluppato di quello di qualunque altro ragazzo della sua età, non comprendeva ancora molte cose ma, mentre tornava di corsa nella sua camera, cercando riparo e protezione in quelle quattro mura così familiari, Sherlock fece una promessa a se stesso, una promessa che avrebbe mantenuto a tutti i costi, per il resto della sua vita: non avrebbe mai cercato l’amore perché, semplicemente, esso non esisteva e la dimostrazione stava proprio davanti ai suoi giovani occhi da bimbo.  
L’amore, o quel che la gente pensava che fosse, non durava mai, bisognava solo trovare altri modi per farcela da soli oppure rendersi impassibili e impenetrabili, come Violet.  Non si sarebbe mai permesso di ridursi così, non si sarebbe mai permesso di venir buttato via come un ferro vecchio e inutile, di venire rotto in mille pezzi come uno stupido derelitto.
Sherlock Holmes non avrebbe fatto eccezione per nessuno, diventando una portentosa macchina inarrestabile e inaccessibile, questo si disse, prima di infilarsi le grosse cuffie color crema alle orecchie e accendere la musica, premendo la testa contro il cuscino e spegnendo il cervello per l’ultima volta.
Nessuna eccezione alla regola.
 
 
John sbuffò nuovamente mentre osservava inferocito la porta di casa, come se essa potesse avere tutte le colpe del suo fastidio improvviso.  Insomma, proprio quando la sua mamma era andata a fare la spesa qualcuno doveva bussare alla porta? Non che fosse un bambino poco socievole, ovviamente, ma aveva appena iniziato la sua costruzione con i Lego da far vedere al suo papà, una volta che fosse tornato dalla ‘brutta guerra che finirà molto presto’, a detta di mamma.
Lanciò un ultimo sguardo afflitto alla fila di mattonelle multicolori che aveva disposto davanti alle sue gambe incrociate, prima di alzarsi e aprire la porta in legno chiaro, dopo l’ennesimo trillo del campanello. Tutta l’irritazione provata un momento prima lasciò lo spazio alla sorpresa mentre gli occhi chiari passavano in rassegna la figura maschile coperta in un completo militare.
Non era certamente il suo papà, aveva un sacco di foto sue e non era passato così tanto tempo da fargli distorcere i ricordi completamente, quindi, si chiese, chi era quell’uomo e cosa voleva da loro? Lo fissò interrogativo dal basso verso l’alto, a causa della sua piccola statura, fino a quando il ragazzo non si decise a parlare.
“Tua madre è in casa?” Disse il giovane, abbassandosi un po’ per raggiungere la sua altezza. Solo allora John si accorse di quei dettagli che erano passati in secondo piano poco tempo prima. L’uomo aveva attaccate alla propria giacca blu scuro un sacco di medaglie e in mano, in quella sinistra, reggeva una busta con sopra il nome della sua mamma. Lo guardò nuovamente negli occhi, arrivando a una conclusione a cui non avrebbe mai voluto arrivare. Non era stupido, John, sapeva benissimo cosa significasse la presenza di quella persona davanti alla propria casa, l’aveva visto in una marea di film mentre sua mamma lo stringeva stretto al petto, cercando di trattenere la disperazione dell’abbandono. Non voleva crederci, solo questo. Avrebbe voluto tornare indietro, continuare a giocare con i suoi pezzi di Lego e osservare la maniglia d’ottone della porta, non accennandosi ad alzarsi. Gli occhi chiari dell’uomo davanti a lui lo fissarono tristemente, piegandosi ancora un po’ fino a scontrare le ginocchia sul terreno in ghiaia dell’ingresso. John chiuse gli occhi e abbassò la testa, sentendo il mondo crollare sulle sue giovani spalle, troppo fragili per poter sopportare il peso di quella notizia. Sentì le ciglia attaccarsi alle guance a causa delle lacrime che, prepotenti, cercavano la via d’uscita dalle sue palpebre serrate. La mano del soldato si fermò sull’attaccatura del suo braccio, cercando di dare un conforto che a John non era permesso, non in quel momento.
Alzò nuovamente la testa solo per ritrovare il viso già disperato di sua madre oltre la testa dell’uomo davanti a lui, con tra le mani i sacchetti della spesa che avrebbero dovuto mettere via insieme, una volta tornata. Corse verso di loro e John trovò l’occasione giusta per scappare da quella situazione, per camminare svelto ma con il mento alzato attraverso il corridoio, quello pieno di foto di famiglia, quello pieno di ricordi che avevano accuratamente appeso lui e suo papà in quella breve vacanza prima della nuova partenza.
Alzò il braccio come se pesasse macigni interi e buttò giù il vaso di vetro in cui aveva riposto tutti i graziosi sassolini che riusciva a pescare tra la sabbia, quando sua mamma lo portava al mare. Lo osservò cadere come se tutto il suo mondo andasse a rallentatore, fino a trovarsi milioni di cocci tra i piedi e sassi ovunque, sassi che non avevano più nessuna importanza.
Lanciò un ultimo sguardo di odio ad una foto ritraente suo padre in ginocchio sull’erba del cortile e John abbracciato lui, solo pochi anni addietro. Una vita fa. Salì le scale di corsa ed entrò nella sua stanza, sbattendo furiosamente la porta dietro di sé e lasciandosi cadere sul letto, inerme. Riusciva a sentire i singhiozzi concitati di sua madre, se aguzzava un po’ l’udito. Riusciva a sentire le flebili parole di conforto del militare –“abbiamo perso le sue tracce da mesi, ma non è ancora certo che sia morto”; menzogne. Osservò per minuti interi il soffitto candido, cercando di trovare la forza per non cadere in lacrime, cercando di trovare la forza per non sentire spezzare le ossa del suo corpo in milioni di pezzi, insieme al suo cuore e all’inutile vaso trasparente.
Prese le cuffie e accese il suo walkman, facendo partire la riproduzione e alzando a tutto volume la musica, soffocando i pensieri.
Sarebbe diventato grande e sarebbe andato a cercalo, si disse, guardando il cielo scurirsi fuori dalla sua finestra. Si sarebbe arruolato nell’esercito e avrebbe condiviso la via che suo padre aveva precedentemente seguito, trovando un senso a quel vuoto che ora più che mai sembrava tranciargli di netto il suo piccolo petto, affondando radici profonde fatte di solitudine. Avrebbe compreso se, veramente, diventare un militare e andare in guerra era più importante della propria famiglia e della propria casa. Affondò il volto nel cuscino, mordendosi le labbra a sangue pur di non far uscire quei singhiozzi che cercavano di spezzarlo.
Non avrebbe ceduto, sarebbe diventato forte, per sé e per la sua mamma. Strinse forte il cuscino a forma di pistola che aveva vinto alla fiera del paese, sperando che il suo cuore smettesse di battere così forte e promettendosi di diventare una portentosa macchina inarrestabile e inaccessibile. Per il resto della sua vita.
Nessuna eccezione alla regola.
 
 
John avrebbe compiuto ventidue anni l’anno successivo eppure, a conti fatti, la sua vita sembrava ancora quella di un misero adolescente indeciso e senza spunti per il futuro, probabilmente con crisi sociali e psichiche, a detta di alcuni suoi compagni di corsi. Sei giorni alla settimana doveva svegliarsi alle cinque e mezza, vestirsi in tutta fretta e prendere il treno con un tragitto di un’ora e mezza al freddo e con persone poco raccomandabili, per poi fare ventiquattro minuti di camminata –li aveva cronometrati adeguatamente per passare il tempo, tra un passo e l’altro– e ritrovarsi all’università per le prime lezioni di medicina della giornata. Ritornava a casa, sentendo le strilla della sua sorellastra, Harriet, che riteneva più come una vera e propria sorella che come un tradimento da parte della loro genitrice, contro la madre –problemi di alcool, problemi di educazione, problemi in continuazione–, fino a quando John preferiva la calda accoglienza della biblioteca, nel quale prestava servizi dal tardo pomeriggio fino a sera, al chiasso assurdo della propria, scontrosa famiglia. Da piccolo aveva avuto l’idea di arruolarsi nell’esercito e anche in quei giorni, John si ritrovava a pensarci con un misto di emozioni tra il desiderio e il timore. Sentiva come se non avesse una vera e propria casa –o una vera propria vita, a dir la verità. Sembrava tutto una corsa contro al tempo, un momento all’università e poi uno seduto accanto al grosso tavolo in legno della biblioteca e un altro ancora a riporre libri negli scaffali polverosi, sotto lo sguardo severo della bibliotecaria. Stanchezza e vuoto, ecco cosa provava, come se tutto il mondo riuscisse a vivere, tranne lui.
Fino a quel giorno era stato come una macchia d’ombra che si spostava lentamente da una situazione all’altra, controllando la propria invalicabilità come si faceva con un fedele partner di avventure. Fino a quel giorno era riuscito a restare invincibile a ogni persona che voleva dialogare con lui, chiacchierando e sorridendo senza veramente volerlo fare. Fino a quel giorno, era rimasto il John Watson che aveva sempre voluto essere, senza amici reali o senza un persona da amare e da definire casa. Fino a quel giorno.
 
 
“Cime Tempestose, Dorian Gray, Orgoglio e Pregiudizio, Persuasione, L’abbazia di Northanger, Emma, Mansfield Park, Anna Karenina…” John osservò per un momento lo scaffale, passandosi un dito sulle labbra, pensieroso. Ne mancava uno, di questo era sicuro. Conosceva tutte le posizioni dei libri e poteva giurare che lì, proprio in mezzo a Emma e Mansfield Park, mancasse un tomo grande, un tomo che avrebbe rimesso in equilibrio l’intera fila di volumi classici.
La biblioteca era ormai vuota, vista l’ora ormai tarda per splendide passeggiate in biblioteca, quindi doveva essere stato appoggiato da qualche parte, come qualche sventurato idiota soleva fare, non visto dagli occhi esperti della bibliotecaria. Fece qualche passo indietro, proprio nel momento in cui un ragazzo riccioluto gli si accostò, osservandolo con occhio critico per meno di mezzo secondo per poi mettere le mani –invoca la calma divina, John Watson, invocala con solennità e respira– nel suo perfetto e ordinato scaffale, facendo cadere tutti i libri da un lato e mettendo sopra a tutto quel caos Il conte di Montecristo. John chiuse gli occhi e concentrò tutta la sua pazienza nel centro del suo petto, prima di esplodere.
“Emh, scusa?” John chiamò con voce un po’ più alta il ragazzo guadagnandosi un’occhiata minacciosa dalla bibliotecaria, dietro al bancone centrale, molto distante da loro. Il giovane si girò e lo fissò con dei sorprendenti occhi chiari –blu, no azzurri, no verdi, no, dannazione, non era il dannatissimo momento di fare il dannato poeta per dannate iridi.
“Stai parlando con me?” Il ragazzo alzò appena un sopracciglio, sembrando più oltraggiato dalla cosa che rispettosamente confuso o imbarazzato. John lo osservò per un po’, analizzando la persona che aveva incrinato i suoi già precari nervi quella sera. Era alto, ma più giovane di lui, a quanto poteva notare dal viso, sembrava quasi un bambino se non fosse stato per il comportamento da adulto –irrispettoso adulto, in realtà. Era vestito di tutto punto, con una di quelle camicie viola attillate che sembravano urlare ricchezza da ogni fibra e pantaloni dal taglio classico, più adatti ad una cerimonia elegante che ad una gitarella in biblioteca, pensò John, stringendosi nel suo caldo maglione color crema.
“Sì, beh, non credo sia il modo di trattare degli oggetti che sono di proprietà pubblica.” Il ragazzo sembrò trovare divertente la conversazione perché sorrise appena.
“Non mi sembra di aver intaccato il prezioso bene pubblico, John Watson.” Rispose, leggendo il suo nome dalla targhetta color giallo limone attaccata alla sua maglia. John si sentì arrossire leggermente sulla punta delle orecchie e ciò lo fece innervosire ancora di più.
“C’è gente che lavora per mantenere questo posto ordinato.” Il ragazzo sembrò fissarlo più intensamente che mai, scalfendolo con quegli occhi che sembrava vogliano sbranarlo tutto.
“Senti, lascia perdere, dimentica ciò che ho detto.” Disse, dopo aver retto il suo sguardo non più di qualche minuto. Non si sentiva proprio dell’umore di giocare ad uno strano gioco del silenzio con quel tizio né aveva voglia di mettersi a litigare per stupidaggini come l’ordinazione dei libri su uno scaffale –era davvero diventata così monotono? Lui che da piccolo desiderava l’avventura più di qualunque altra cosa?.
Prese tutti i tomi e li riposizionò sul tavolo robusto accanto a lui, posizionandoli uno sull’altro accuratamente. Guardò il suo vecchio  orologio da polso e si accorse che, probabilmente, sarebbe rimasto in quel posto ancora per un bel po’, visto il lavoro che gli mancava da fare nelle altre tre stanze della biblioteca. Non che gli dispiacesse più di tanto, in fondo, più stava lontano da casa e meglio era per tutti. Sbuffò piano, osservando quei libri come se potessero rivelargli la chiave per la sua salvezza quando il rumore stridente di una sedia spostata accanto a lui non lo fece voltare nuovamente.
Il ragazzo, quel personaggio che sembrava nascondere più cose di quante ne volesse rivelare –come si chiamava? John aveva l’improvviso impulso di saperlo–, si era seduto accanto al bancone dove John aveva rimesso tutti i volumi e sfogliava annoiato le pagine di Cime Tempestose, simulando facce schifate ogni qual volta il suo sguardo si posava su frasi che, a quanto sembrava, non erano di suo gusto. John sentì i suoi muscoli allentarsi un po’ e un fievole sorriso apparire sul suo viso alla vista di quella plateale scena di disgusto.
“E’ un bel libro.” Sentenziò, senza rendersene conto. Il ragazzo alzò appena la testa, appena sorpreso di sentirlo ancora parlare con lui.
“A me non sembra.”
John mise sullo scaffale Orgoglio e Pregiudizio, facendolo pressare bene contro il suo precedente e lo osservò ancora con la coda dell’occhio.
“E’ di genere romantico.”
“A mio parere è solo di genere noioso.” A John scappò una mezza risata e lo sconosciuto lo guardò ancora più sorpreso, accennando un sorriso anche lui.
“In realtà l’ho sempre pensato anche io, ma dicono sia davvero un classico da perderci la testa.”
“Sarebbe più divertente se qualcuno ci perdesse davvero la testa. Tante belle morti così atroci, sarebbe qualcosa di diverso, per lo meno.”
John corrugò la fronte, indeciso se prenderlo sul serio o continuare a sorridere, accondiscendente –non era pazzo, vero?–, continuando a distribuire i libri su tutta la fila, fino alla fine. Guardò per un momento il libro in mano al tizio, chiedendosi se dovesse chiederglielo o far finta di niente e andarsene alla velocità della luce lontano da lui.
“Vuoi tenerlo?” Chiese, mettendosi a posto le sedie intorno al tavolo senza un reale bisogno. Il ragazzo non sembrò sentirlo, perso in un qualcosa di interessante a fine libro. John si schiarì la voce, osservando i lampadari sopra alle loro teste e prendendo in considerazione l’idea di finire il lavoro senza dare più retta allo sconosciuto.
“Dove posso trovare i libri di anatomia umana?” John si girò a fissarlo, con il busto già pronto per approdare nella prossima sala della biblioteca e lasciarlo stare. Sentì uno strano calore affossarsi nello stomaco.
“Oh, e avete anche dei libri sulla vivisezione? Morti violente? Libri di genere giallo?” John lo fissò come si poteva fissare un malato terminale che, sul punto di morte, chiedeva delle focaccine di mirtilli da poter stuzzicare. Era pazzo? Molto probabilmente, ma John sentiva un’inspiegabile attrazione per quel ragazzo all’apparenza infrangibile e inavvicinabile –come appariva lui ad ogni persona che conosceva, compresa sua madre, dopo quel giorno. Era strano, quello era innegabile, ma non strano come qualcosa di anomalo e brutale, solo…strano. Quasi piacevole.
“Seconda sala, quella sulla sinistra.” Rispose, con un tono così calmo da sorprendere anche lui, indicando con l’indice il varco ovale alla sua sinistra. Il ragazzo si alzò, ignorando le regole della buona educazione –grazie?, sei molto gentile?, un semplice sorriso? Ovviamente no–, e camminando con la schiena perfettamente dritta davanti a lui, non incrociando il suo sguardo se non per un flebile, inafferrabile secondo.
Avrebbe dovuto seguirlo? No, certo che no, non era un suo amico, né un suo conoscente, né nient’altro. Un ragazzo qualunque che era venuto a cercare informazioni nella biblioteca pubblica. Normale, preciso, un signor nessun che non attirava affatto l’attenzione di John. Lo seguì con lo sguardo fino a che non scomparì oltre il vano della porta, facendo iniziare così uno scontro interiore nel petto di John. Doveva andare? No, doveva lavorare, ecco. Quella stanza, comunque, non l’aveva ancora ordinata e da qualche parte doveva pur cominciare.
Prima ancora che se ne rendesse conto, John era entrato nella seconda sala, più intima e ariosa della precedente, e i suoi occhi cercarono la figura slanciata del giovane che girava curiosamente tra gli scaffali come il più affascinante degli intellettuali. Non che fosse affascinante, si corresse, o intellettuale, lui non lo conosceva nemmeno e non aveva intenzione di conoscerlo.
“E’ quello in fondo.” Si ritrovò a dire, indicando l’ultima fila in fondo alla stanza, vicino alle scale che portavano alla zona per bambini. Sherlock volse il viso verso di lui, con un sorriso mal mascherato –o almeno così pareva a John–, mentre si spostava nella direzione da lui detta.
“Questo?” Chiese, avvicinandosi allo scaffale accanto a quello giusto. No, no che non era quello, e John aveva già lo strano presentimento che lo stesse un po’ prendendo in giro, con quel suo fare misterioso. Lasciò perdere quella sensazione e gli andò incontro, osservando la fila di libri con i titoli più scabrosi –e quindi quasi mai toccati– che la libreria possedesse.
“Qui c’è molto materiale sulla vivisezione, poi…i gialli sono nello scompartimento a destra, contro al muro e…” John si alzò sulle punte, cercando di prendere un libro particolarmente irraggiungibile a causa della sua esigua altezza.
“..questo dovrebbe essere sulle morti fatali o accidentali.” Sussurrò con sforzo, cercando di darsi più slancio.
“Vado a prendere la scala, arrivo subito.”
“Non ce n’è bisogno.” Rispose il ragazzo, ridendo appena e alzando un braccio fino a toccare con le lunghe dita il bordo del libro e tirarlo giù. John sentì tutte le orecchie andare a fuoco, peggio di prima, e sapeva che se non si sarebbe tolto in fretta da quella posizione imbarazzante gli sarebbero uscite delle stupide macchie sul collo, quelle che aveva sempre odiato e che lo facevano sembrare un idiota –più idiota di quanto in quel momento aveva già dimostrato di essere? Quasi impossibile. Abbassò silenziosamente lo sguardo, sentendo lo stomaco rivoltarsi e sussultare come se avesse anima propria. John riuscì a vedere solamente le sue dita posarsi delicatamente sulla mensola dello scaffale, pericolosamente vicino alla sua spalla sinistra, prima di ritrarsi e andarsene senza dire una parola. Respirò velocemente prima di alzare il mento, fieramente, come aveva imparato a fare da molto tempo, e uscire dalla sala, guardando solo di sfuggita la schiena perfettamente fasciata del ragazzo, piegato davanti al libro, vicino ad una delle finestre più belle della biblioteca, quella con i vetri a mosaico multicolori che formavano un armonioso fiore color arcobaleno. John si morse l’interno guancia, forzando i propri piedi ad andarsene da lì prima che la situazione peggiorasse inevitabilmente –cosa che sarebbe successa assolutamente se non si sarebbe dato una regolata al più presto. Andò verso il bancone all’ingresso e ci girò attorno, aprendo il cassetto riservato al personale e mettendo a posto il suo cartellino insieme a quello degli altri.
“John, potrei parlarle un momento?” John sentì tutti i muscoli delle spalle irrigidirsi nuovamente sentendo la voce acuta della bibliotecaria: una vecchietta insostenibile, con una imperitura crocchia ordinata sulla testa bianca come la neve e con indosso uno di quei soliti gilet che le nonne regalavano a Natale ai propri nipoti e che, puntualmente, finivano sotto al cassetto, mai usati. John sapeva che la signora Teller provava uno sviscerato disgusto per ogni cosa o persona che avesse meno dei suoi anni, ovvero quasi ogni cosa, pensò inviperito. Oltre all’inutile fatto che gli desse sempre del lei, nonostante i suoi freschi ventidue anni –avrebbe potuto essere suo figlio! Oh, mio Dio, no, era meglio di no. Prese un respiro profondo e la guardò negli occhi piccoli e scuri, già pronto per una dose di rimproveri che non aveva davvero voglia di ascoltare.
“Sì, certo che può, signora Teller.” Rispose, cercando di sembrare il più garbato possibile, grattandosi i corti capelli biondi.
“Lei sa perfettamente, spero, che per i crediti extra lei avrà bisogno di una lettera firmata e scritta dalla bibliotecaria, non è vero?” Ogni santo giorno, gemette internamente John, doveva incominciare il discorso nello stesso, identico, seccante modo.
“Certamente, signora Teller.” Ed ogni giorno, la sua risposta era sempre la medesima.
“Lei sa, quindi, che i libri vanno riposti negli scaffali adeguati, ordinati per categoria e in ordine alfabetico. Lei sa, quindi, che i libri ridati dai nostri clienti vanno controllati, schedati e rimessi al loro posto. Lei sa, quindi, che i volumi da prenotare devono essere scritti sul registro apposito, quello blu dove le piace scarabocchiare quando io non sono qui a supervisionare la biblioteca.” John avrebbe voluto dirle che per la milionesima volta che non era lui a fare pasticci inutili sul suo stupidissimo taccuino, ma i bambini che si infiltravano di nascosto e le facevano i dispetti, credendola la strega cattiva di Cenerentola piuttosto che una donna umana e reale –alle volte ci credeva anche lui, nonostante la sua età. Avrebbe voluto sputarle in faccia che non si divertiva, lui, a rifare gli stessi gesti ogni santissimo pomeriggio, ma che andava bene, perché almeno la vita sembrava fare meno ribrezzo fuori di casa, ma ciò che gli uscì dalle labbra fu solo un flebile sospiro mentre la testa si abbassava senza volerlo, facendogli osservare il suolo.
“Sì, lo so, signora Teller.”
“Ne ero certa.” Disse, melensa, ticchettando con le unghie contro il bancone.
“Quindi potrebbe spiegarmi come mai non riesce a svolgere mansioni così semplici? E’ forse affetto da qualche malattia degenerativa?” John si morse le labbra a sangue, cercando di ricacciare in fondo alla gola le brutte parole che voleva vomitare fuori dal suo corpo. Lo faceva per il suo futuro, si ripeteva come una cantilena, lo faceva perché l’università non era per niente facile e tutti gli aiuti possibili erano ben accetti. Lo faceva per il suo futuro, per poter liberarsi dalle catene della sua famiglia e diventare un dottore o fare un qualunque altro mestiere che lo portasse via da quella città, che lo portasse a vivere. Strinse forte la mascella, alzando per un momento lo sguardo solo per annuire, ma incrociando lo sguardo di ghiaccio di Sherlock, appena ad un paio di passi da loro, immobile ad ascoltare la loro conversazione. Si sentì doppiamente umiliato mentre si tormentava violentemente l’unghia del pollice e pensava non esplodere, non esplodere, non esplodere.
“Non ho sentito una risposta, Watson. E’ forse affetto da qualche malattia degenerativa?”
“No.” Grugnì, a denti stretti.
“Potrebbe spiegarmi il suo comportamento?”
“Sono solo stanco, vorrei andarmene al più presto da qui e basta.”
“Oh!” La signora Teller rise senza allegria, picchiettando più forte le dita sul bancone.
“Vuole andarsene? Può anche non tornare se questo lavoro la stanca tanto!”
“Non ho detto questo.” Alzò lo sguardo verso di lei con il sangue che ribolliva violento nelle vene, ormai dimentico della presenza alle spalle della bibliotecaria.
“Ogni giorno mi sveglio alle cinque e mezza e ogni giorno lei mi ferma qui oltre il mio orario pur di farmi una stupida ramanzina che non avrà nessun effetto su di me o su qualunque altra persona la stia a sentire, quindi se vuole proprio lice-”
“Avrei bisogno di aiuto per un libro, qualcuno potrebbe aiutarmi?” Il volto dello sconosciuto era immerso perfettamente in una maschera di implorazione da miglior premio oscar, con gli occhi chiari appena sgranati e un sorriso cortese sul volto. John lo guardò, stranito, mentre la bibliotecaria faceva un seccato cenno con la mano e spariva su per le scale interne che andavano nella zona bambini e nell’area del contatore che solevano spegnere ogni sera. John prese il suo giubbotto e si diresse a passo di marcia giù per le scale e poi all’aria aperta, seguito prontamente dalla camminata veloce dell’altro. L’aveva aiutato a non cacciarsi nei guai, sapeva benissimo che non aveva nessun bisogno di aiuto per cercare stupidi libri. L’aveva fatto per lui. Quel pensiero improvviso gli fece scaldare le mani in maniera bizzarra, portando i suoi occhi a scontrarsi contro il profilo dello sconosciuto.
“Non disturbarti a ringraziarmi.” Sbuffò, infilando le mani nelle grosse tasche del lungo cappotto nero dal taglio elegante.
“Non ne avevo nessuna intenzione, infatti.” John alzò appena gli angoli della bocca, frenando l’impulso di toccarlo o di dirgli cose prettamente inadeguate. Non voleva chiedergli come si chiamasse dalla prima volta che aveva incrociato i suoi occhi, certo che no. Era solo…curiosità, magari. Un po’, nemmeno tanta. Forse un po’ troppa, in verità, si disse, mentre il ragazzo si fermava sul marciapiede, oltre il cancello ferroso, e faceva alcuni passi indietro, dirigendosi dalla parte opposta alla direzione di John.
“Devi andare da quella parte?” Chiese John e il tizio alzò le sopracciglia, indossando un’espressione assurdamente sarcastica.
“Quale grande constatazione dell’ovvio, John Watson.” John sorrise e sentì un’ondata di immotivato panico e fretta invadergli il petto alla vista della schiena dell’altro che si allontanava a passi rapidi da lui.
“Aspetta!” Urlò, guardandosi intorno e ringraziando il cielo che non ci fosse nessun pedone in vista. Il ragazzo si girò, guardandolo con quelle incredibili iridi che sembravano brillare anche al buio della sera.
“Stai parlando con me?” John sorrise un po’ di più a quella frase, ricordandosi quando solo poco tempo prima l’aveva pronunciata –sembravano già passati giorni dalla prima volta in cui ci aveva parlato insieme; sembrava così…avvolgente.
“Sì! Non so come ti chiami.” Il giovane si avvicinò solo di un passo, con un mezzo sorriso a creargli delle affascinanti rughe sulle guance e intorno alla bocca. Rimase in silenzio, fermo davanti a lui, con il vento che gli scompigliava appena i ricci scuri come la notte. John si morse appena l’interno del labbro, prima di parlare ancora.
“Non me lo vuoi dire?”
“Non me l’hai chiesto.” John si leccò le labbra, stringendo la stoffa laterale dei jeans tra le dita sudate.
“Come ti chiami?” Il ragazzo lo guardò un’ultima volta intensamente e John pensò che stesse decidendo se confessarglielo o meno, il suo nome. Non si diceva che quando si conosce il nome di una persona si poteva avere accesso ad ogni cosa di ella? La mamma glielo ripeteva sempre quando lo portava all’asilo, mano nella mano fino all’entrata a vetri della scuola. Per questo John non aveva mai avuto veramente interesse a chiedere a qualcuno il proprio nome, se non per la banale utilità di esso. Ma ora…c’era qualcosa. John lo poteva percepire nell’aria, come qualcosa che si crea e si espande in un frammento di secondo, ancora prima che ce se ne possa accorgere. Era lui, lo aveva compreso dal primo istante. Lui sarebbe stato diverso e questo lo terrorizzava in maniera incredibile, fino a sperare che, in un attimo di follia, lo sconosciuto non gli volesse più dire il suo nome, rimanendo nell’anonimato e sparendo per sempre. Inarrestabile einaccessibile, da allora e per sempre, era questo che si era promesso di essere ed era questo che sarebbe sempre stato. Un nome non avrebbe fatto la differenza.
“Il mio nome è Sherlock Holmes.” A John sembrò di respirare per la prima volta, dopo averlo sentito parlare nuovamente. Focalizzò il suo sguardo un’ultima volta sul suo viso, prima che Sherlock si girasse e andasse via, cullato dal vento.
“Ciao Sherlock Holmes!” Proruppe, alzando un po’ la voce e guardò il suo braccio alzarsi, in segno di saluto.
Sherlock Holmes. L’avrebbe rivisto? Si chiese, scalciando un sassolino dal marciapiede ricoperto di foglie rosse e gialle, appena illuminate dalla luce dei lampioni. Era combattuto, ma sapeva solamente che quel nome avrebbe sempre avuto un impronta particolare sul suo palato, legandolo per sempre a quella persona particolare.
Sherlock Holmes e John Watson non avrebbero fatto eccezioni per nessuno.
 
 
Se ne sarebbe andato di casa, ormai aveva deciso e l’avrebbe fatto. Aveva preparato il borsone con all’interno gli indumenti essenziali ed era andato in biblioteca, stanziandosi su una sedia nell’angolo più remoto della seconda stanza, cercando di concentrare tutta la sua attenzione sul tomo universitario di medicina avanzata e non sulla sacca in mezzo ai suoi piedi che sembrava pulsare di vita propria, ricordandogli la furiosa litigata di poche ore prima.
Respirò profondamente, girando la pagina così forte da strapparla leggermente vicino alla rilegatura. Perfetto, pensò, una giornata davvero grandiosa.
Scivolò un po’ giù con la schiena, appoggiando la testa contro lo schienale della sedia in plastica sulla quale si era seduto poco prima.
Chiuse gli occhi e sospirò, pensando a cose belle come il mosaico di colori della finestra all’inizio della stanza, il caffè senza zucchero che si concedeva alla fine di tutte le lezioni mattutine, il fatto che Sherlock Holmes non si faceva vedere da due giorni…no, quello non era un pensiero particolarmente spensierato, né un pensiero da fare in quel momento o in un’intera vita, a dir la verità. Non che avesse riflettuto su dove diamine fosse finito dopo il loro primo incontro, che fosse chiaro, era stato solamente un po’ curioso e un tantino deluso di non vederlo comparire il giorno dopo con una di quelle espressioni rigide che sembravano tipiche del suo modo di essere, niente di più.
Uno schiarimento di voce lo fece ritornare alla realtà, infossandosi stupidamente nella sedia alla vista di quei ricci che, odiava ammetterlo, temeva o forse sperava di non rivedere più. Da dove diavolo era spuntato fuori e come aveva fatto a non sentirlo sedersi vicino a lui e sfogliare distrattamente un altro di quei volumi dall’aria ambigua che, aveva il sospetto, solo lui avrebbe mai toccato o letto con un minimo di interesse.
“Non pensavo che questa fosse un’ala riservata al riposo.” Mormorò, fissando le righe d’inchiostro del suo libro, non prestandogli la benché minima attenzione. John sentì un moto di fastidio scaturire da dentro di lui e che lo fece sembrare più sgarbato di quanto avrebbe voluto essere.
“Infatti non lo è.” Sherlock alzò appena lo sguardo verso di lui, con una luce sarcastica negli occhi leggermente più scuri dell’ultima volta.
“Non credo risolverai molto andandotene di casa e non credo risolverai molto prendendotela con me.” John inarcò le sopracciglia, perplesso. Come faceva a sapere che voleva andarsene di casa?
Sherlock sbuffò, infastidito da qualcosa che John non riusciva a comprendere –faceva uso di sostanze stupefacenti o era solamente lui che era diventato un incredibile idiota?.
“Il borsone, John. Non credo tu stia andando ad un’amichevole di calcio o a fare qualche altro sport visto che – guardò il suo Rolex perfettamente lucidato e stretto attorno al suo polso bianco – tra ben dodici minuti dovrai iniziare il tuo turno in biblioteca e quindi non avresti nemmeno il tempo di uscire da questa porta. Per non sottolineare il fatto che sei incredibilmente irritabile, che continui a torturarti il bordo del maglione con le dita, che dalla cerniera della tua sacca esce la manica di una camicia, che il tuo telefonino è probabilmente spento e lo schermo è rivolto contro il tavolo, chiaro sentore che non vuoi essere disturbato da nessuno che potrebbe contattarti tramite esso. Un cellulare usato, probabilmente da…tuo fratello, vista la dedica sulla cover. Problemi con l’alcool, suppongo.  E oserei dire che ora la tua espressione facciale sia incredibilmente…idiota.” Proferì in un’unica emissione di fiato, passandosi un dito sul labbro inferiore con gli occhi ancora legati alle pagine del libro. Come…come…
“Hai capito tutto questo solo guardandomi?”
“Non ho semplicemente guardato.” Disse sprezzante, chiudendo con un gesto secco il tomo che aveva tra le mani.
“Ho osservato, non è difficile per chi possiede un cervello.” John lo fissò inebetito, sentendo la gola seccarsi senza possibilità di scampo. Era intelligente, molto intelligente. Le sue mani incominciarono a sudare senza ragione.
“Oh…” Sherlock sembrò non accettare di buon grado il lieve sussurro di John perché si alzò con un agile scatto e lo fulminò con un’occhiata glaciale, prima di camminare spedito verso l’uscita. No! L’aveva, forse, offeso? Non era stata quella la sua intenzione, nient’affatto!
“E’ stato davvero…spettacolare!” Esclamò, stringendo forte la presa sul bordo del tavolo mentre vedeva Sherlock arrestare la sua camminata veloce, con il tallone del piede sinistro appena sopra il pavimento in marmo. Bloccato.
“Lo pensi davvero?” Sussurrò, dandogli ancora le spalle. La bibliotecaria l’avrebbe nuovamente sgridato per il caos che creava nella sua perfetta e silenziosa dimora anche se nemmeno un’anima era presente nella loro sala –o nell’intera biblioteca, a dir la verità.
“Certo che lo penso. Spettacolare, davvero straordinario.” Sherlock si girò lentamente, accennando un tiepido sorriso sulle labbra rosse.
Sherlock si risedette sulla sedia accanto a lui, cercando di non incontrare gli occhi di John per il maggior tempo possibile –nessuna eccezione, nessuna eccezione, nessuna eccezione.
Sei strano.” Sentenziò Sherlock ad un certo punto, immobilizzando John sulla sedia, con lo sguardo basso come un cucciolo abbandonato.
“Scusa.” Borbottò John, cercando di apparire il meno deluso possibile.  
“Era un complimento” Sbuffò l’altro, accennando ad un lieve sorriso.
John si morse il labbro inferiore, alzandosi e osservando impensierito il borsone –lasciarlo lì o portarlo dietro al bancone? Di certo non voleva che la signora Teller scoprisse i fatti suoi.
“Tranquillo, puoi lasciare le tue cose qui.” Disse, prendendo il cellulare dalla tasca dei jeans scuri e scattando una foto alla pagina del libro, in equilibrio sulle sue gambe.
“Grazie mille, Sherlock.” John sorrise e alzò una mano per sfiorargli la spalla, per poi ripensarci all’ultimo secondo e andare via, diretto nello stanzino stretto e umido dove tenevano i libri appena riconsegnati.
Quando finì il suo turno, di Sherlock non c’era più traccia ma, raccogliendo tutti i suoi oggetti, notò che il suo cellulare era girato e acceso –nessuna eccezione, ma lento smantellamento di un muro costruito per anni.
 
 
Le sue giornate noiose e prettamente inutili erano diventate una sorta di quotidiana ed eccitante routine, dove la mattina passava troppo lenta e il pomeriggio passava troppo velocemente. Non che, in una settimana, lui e Sherlock avessero fatto alcun progresso –nell’ambito dell’amicizia, ovviamente–, né aveva cercato di forzare le situazioni perché, in verità, a lui andava più che bene così. John arrivava sempre un po’ prima di lui e si sedeva accanto alla finestra che gli piaceva tanto, quella nella seconda sala, ormai appannata a causa del freddo che si stava impossessando della città, e passava il tempo aspettando l’arrivo di Sherlock.
Era tutta una quieta aspettativa, la sua giornata. Il lento scorrere delle lancette, il ticchettio dei tacchi della bibliotecaria, il rumore di pagine sfogliate, di mine spezzate da prese troppo forzate, tutto sembrava aspettare il suo arrivo che, sembrava farlo apposta, tardava sempre. Si sedevano lì, leggevano, chiacchieravano un po’ e Sherlock, ogni tanto, si metteva a radiografare ogni persona presente in biblioteca con quella sua dote magnifica dell’osservazione.
A John piaceva, ecco tutto. Gli piaceva passare del tempo con lui perché era un tipo speciale che, ne era certo, non si incontrava tutti i giorni –o nelle banali vite all’insegna delle frivolezze. Gli aveva detto che gli piaceva fare degli esperimenti e che non aveva amici –‘lo so, sembra triste, ma sto bene così.’ ‘Lo stesso equivale per me’–, gli aveva detto che le pareti della sua camera erano blu perché era un colore che lo rilassava –‘perché diavolo vuoi sapere di che colore sono le mie pareti?’ ‘Curiosità.’ – e che avrebbe voluto fare un lavoro che amava o non avrebbe lavorato affatto. A John piaceva anche sentirlo parlare, il modo in cui si stropicciava le labbra quando qualcosa lo assorbiva profondamente, la curva delle sopracciglia che si incuneava di più quando qualcosa lo infastidiva e gli occhi, quegli occhi perfetti che avrebbero parlato per milioni di popoli.
Per questo, mentre era seduto accanto al finestrino del treno, con le gambe attaccate al petto e un libro sulle ginocchia, a John venne quasi un colpo vedendo salire Sherlock Holmes dalla fermata prima della sua, con il solito cappotto scuro e gli occhi che vagavano ovunque, apprendendo informazioni. Lo stava cercando? Sapeva che era lì? Avrebbe dovuto chiamarlo o avrebbe semplicemente fatto finta di non vederlo, continuando la sua lettura?
John si mordicchiò l’interno guancia, prima di chiamarlo, smozzicando le ultime lettere del suo nome. Lo sguardo di Sherlock si puntò direttamente su di lui, con un faro accecante nella nebbia. Passò accanto a una madre ed una figlia e poi ad un uomo con le cuffie nelle orecchie e gli occhi chiusi, fino ad arrivare accanto a lui.
“Questo posto è orrendo.” Proruppe con una smorfia schifata. John rise lievemente, pressandosi un po’ di più contro il finestrino una volta che Sherlock si sedette accanto a lui.
“Lo so, ma devo pur arrivare all’università.” Sherlock osservò con un sopracciglio alzato un neonato che aveva incominciato a strepitare e piangere.
“Decisamente molto meglio i taxi.” Mormorò, allungando il collo per vedere il titolo del libro che John aveva in mano. John allontanò piano il volto dai suoi capelli, volgendo lo sguardo fuori dal vetro e cercando di respirare il meno possibile. Avrebbe dovuto prenotargli dei libri sugli spazi personali e su come sia corretto e assolutamente necessario che lui li rispettasse.
“Quindi… –inalò profondamente dopo lo spostamento di Sherlock lontano da lui– mi stavi seguendo?” John gli fece un sorriso, smascherando una reale domanda con una nota sarcastica nella voce.
“Ogni persona su questo treno starebbe seguendo te, seguendo il tuo ragionamento.” John sentì il viso scaldarsi e girò pagina, nonostante non avesse più capito nulla delle informazioni scritteci.
“Che cosa ci fai qui, allora?”
“Osservo, indago…sperimento.”
“Sembra interessante.” Mormorò, osservando che mancavano solo due fermate alla sua destinazione.
“Lo è.”
“Quindi Sherlock Holmes va in giro all’alba a osservare sconosciuti su un treno?”
“Il più delle volte sì, stare a casa mi soffoca.” John avrebbe voluto dirgli che era lo stesso per lui, ma preferì rimanere in silenzio, concentrandosi più sullo spostamento flebile della cabina che faceva sfregare le loro spalle l’una contro l’altra.
“Potresti andare a caccia di cadaveri, almeno avresti qualcosa di interessante da fare.” Disse, alzandosi e attaccandosi al sedile per sorreggersi da eventuali scossoni.
“I cadaveri non sono affatto interessanti se non sono collegati a killer spietati e psicopatici.” John alzò appena gli occhi al cielo, prendendo la sua cartella.
“Questa è la mia fermata, Sherlock.” Un giorno di questi l’avrebbe sgridato, John lo sapeva, perché continuava a ripetere così tante volte il suo volte che glielo stava facendo odiare al limite del possibile.
Sherlock alzò un momento lo sguardo, prima di mettersi in piedi e avvicinarsi a lui. John lo squadrò, confuso.
“E’ anche la mia fermata, è un problema?” Disse, fissando lo sportello che si apriva, facendo entrare e uscire gente frettolosa e rigida.
“Nessun problema, sono solo sorpreso.” Rispose, camminando fianco a fianco con l’altro, non perdendolo un attimo di vista. Riusciva a vedere tutto, John lo riusciva a comprendere dalla piega che assumevano le sue labbra o dallo sguardo un po’ più profondo nei suoi occhi. A volte si spaventava di come, nonostante fosse passato davvero poco tempo, riuscisse a comprenderlo così bene –non che ci tenesse, sia chiaro, era solo…piacevole avere la sua compagnia.
Usciti dalla banchiglia, John si accorse che i nuvoloni neri che avevano fissato minacciosamente quella mattina si erano tramutati in pioggia torrenziale, facendolo arrestare sul posto, insieme a Sherlock.
“Io devo andare oltre il municipio, tu?” Disse, volgendosi verso Sherlock, già con i riccioli appena bagnati e appiccicati alla fronte. John sorrise, intenerito, prendendo la sua borsa e rovistandoci dentro fino a trovare un ombrello di piccole dimensioni, messo lì dentro per le situazioni come quella.
“Devo andare dalla parte opposta.” Sentenziò, facendo un paio di passi fuori dalla tettoia, sotto la pioggia.
“Sherlock, ehi, aspetta, vieni qui.” Lo chiamò, cercando di non arrossire o sembrare uno di quei bambini un po’ stupidi che finiscono sempre per scivolare e cadere per terra, picchiando la faccia.
Gli mise una mano sul braccio, facendolo voltare verso di lui e porgendogli l’ombrello che aveva sicuramente visto tempi migliori, ma che, comunque, era meglio di nulla.
“Tieni, usa il mio.”
“John, non c’è bisogno che…”
“Invece sì, io sono quasi arrivato, non ho molta strada da fare.” Sherlock lo continuò a guardare negli occhi, facendo provare a John la sensazione di essere finito in una centrifuga così forte da fargli perdere il contatto con la realtà –bellissimo.
“Anche io ho solo qualche minuto di camminata.”
“Ci tengo, davvero.” Fece scivolare piano la mano dalla sua manica, fino al dorso della sua mano, sfiorando con delicatezza quella pelle che sembrava chiamarlo a gran voce.
Sherlock sembrò essere in procinto di dire qualcosa, prima di ritirare con uno scatto severo la mano e accettare l’ombrello, guardando le macchine in corsa.
“Ci vediamo.” Disse John, infilando le mani nelle tasche e aspettando una risposta che non arrivò mentre rimaneva ad osservare la schiena di Sherlock che si allontanava sempre di più, fino a sparire dietro a un angolo.
Sherlock…
 
 
“Questo cos’è?”
“Un regalo!” Rispose John, torturandosi le mani dietro alla schiena.
“Non voglio regali.”
“E’ Natale, non puoi non accettarlo.”
“Io non ti ho fatto nessun regalo, non è giusto.”
“Potrai farmelo la prossima volta, okay?” John gli tirò via dei riccioli dalla fronte e Sherlock strinse forte i pugni contro la sciarpa blu scuro sopra alla carta da regalo rotta e stropicciata.
“Ti piace?”
“Non pensavo esistesse qualcuno come te.”
“Così stupido?” Chiese, ricordandosi delle continue gentilezze –a detta di Sherlock– che continuava a dirgli ogni volta che ne avesse l’occasione.
“No, qualcuno pazzo come me.”
John sorrise e Sherlock con lui, seduti dietro uno scatolone aspettando che la polizia passasse indisturbata, senza vederli.
 
 
“Quindi adesso siamo una sorta di…amici?” Chiese John, passando il disinfettante sul taglio allo zigomo che quegli idioti dei suoi compagni di corso –Anderson e Sebastian, a quanto pareva– avevano fatto a Sherlock, con un pugno ben mirato proprio nel momento in cui non se l’aspettava –‘sono comunque degli idioti, John, non c’è bisogno che ti comporti da infermierina isterica’ ‘ti hanno dato un pugno, Sherlock! E non mi comporto da infermierina isterica!’ Sherlock roteò le iridi, rimanendo in silenzio.
Si erano nascosti nella zona dei bambini, con John che aveva preso cerotto e disinfettante dalla cassetta del pronto soccorso, nascosta sotto al bancone, ed ora lo medicava con cura, non stando a sentire i borbottii e le maledizioni che uscivano dalle labbra dell’altro.
“Io non ho amici, John.” Rispose, mugolando di dolore dopo la pressione che le dita di John avevano fatto sulla ferita dopo quelle parole.
“Sì, beh, è per questo che ho chiesto, sai…” Mormorò John, cercando di non incontrare il suo sguardo e staccando la carta del cerotto.
“Tu vorresti esserlo?”
“Non ho detto questo.” Disse, facendogli inclinare un po’ il viso con una mano, in modo da applicargli il cerotto correttamente.
“Bene.”
“Bene.” Sherlock alzò il volto per guardarlo negli occhi, innervosito dal sentirsi così basso rispetto all’altro –c’era proprio bisogno di farlo sedere su una sedia verde mela grande alta quanto un nano da giardino?.
John rimase ad osservargli le labbra, come rapito da qualcosa di potenzialmente più grande di lui –quella bocca riscriveva la storia.
C’era sempre stata quella sintonia a livello inconscio, tra loro due, che ora sembrava attirarli sempre di più, fino al limite del burrone buio e oscuro.
Sentiva quel vuoto tra lo stomaco e la gola e sapeva che colui che avrebbe potuto riempirlo sarebbe stato solo ed esclusivamente lui, colui che aveva sempre rappresentato l’eccezione alla sua regola personale, fin dalla prima volta.
Lo guardò un momento nelle iridi, osservando quelle sfumature verdi e gialle da sempre più vicino, avvicinando il proprio viso al suo, molto lentamente.
Che cosa diavolo stava facendo? Lui non voleva, non voleva di certo baciarlo! Sfiorò piano il naso di Sherlock con il suo, osservandolo con occhi atterriti mentre gli sfiorava delicatamente la base della nuca con i polpastrelli.
Brividi, lo stomaco che si attorcigliava frenetico, il cuore che pompava sangue ad una velocità allarmante e le pupille che non perdevano un attimo di vista le sue, appena più dilatate e sgranate del solito. Stava sudando, la testa gli girava e probabilmente sarebbe morto lì, ancora prima di poter toccare quelle labbra perfette –sperava solamente che la signora Teller non lo seppellisse sotto una di quelle stupide sedie di plastica color evidenziatore.
Non importava quanto il suo cervello gli stesse urlando che non ci sarebbe stata nessuna eccezione, che la sua promessa sarebbe durata per tutta la sua vita e poi ancora e ancora, non importava più nulla se non il suo volto sempre più vicino e il suo cuore che urlava fallo, fallo, fallo, senza sosta.
John mise le mani sulle sue spalle e trovò il coraggio di spingere le proprie labbra avanti proprio nel momento in cui Sherlock girò la testa dall’altra parte, facendo finire il tutto con un delusissimo bacio sulla guancia.
“Credo sia meglio che io vada a casa.” Oh. Prima ancora che John potesse qualcosa, qualunque cosa, Sherlock era già sparito dalla sua vista, scendendo le scale e, probabilmente, sparendo per sempre. Ottimo lavoro, John Watson. Digrignò i denti e buttò giù un libro di favole appoggiato al tavolo di plastica dietro alla sedia dove, solo poco prima, si era depositato Sherlock –solo ad un soffio, erano stati lontani solo un battito di labbra.
Si passò una mano sulla faccia, raccogliendo il libro gettato a terra e sedendosi contro allo scaffale per bambini.
Riusciva solo a pensare che quella roba del  ‘Verba volant’ era una gran stronzata perché le parole rimanevano incastrate dentro come proiettili –l’eccezione alla regola, la sua.
 
 
John si sentiva stupido. Non che in realtà per tutta la sua vita si fosse sentito un genio in confronto agli altri suoi coetanei, ma solo ora riusciva a comprendere la reale idiozia di tutto il suo essere. Era una settimana, una stramaledettissima settimana, che cercava in tutti i modi di rintracciare Sherlock, solo per realizzare che no, ovviamente non gli era affatto saltato in mente di chiedergli il numero di telefono in tutti quei giorni di conoscenza –nascondersi dietro ad un ‘non faccio eccezioni’ in quel momento sembrava davvero patetico– e nemmeno di chiedergli dove diavolo abitasse, dove facesse colazione la mattina, in quali caspita di posti andasse tutti i giorni in modo che potesse rintracciarlo in qualche modo. Niente. Il nulla. Sembrava come se la sfortuna lo seguisse con la sua imperitura nuvoletta nera, non lasciandolo un momento in pace. Non riusciva più a chiudere occhio da quando Sherlock l’aveva mollato nella zona bambini da solo, non riusciva più a pensare a qualcos’altro, qualsiasi altra cosa che non fosse il suo viso, il suo modo di parlare e la sua lingua lunga –oh Dio, no, non pensare alla sua lingua.
Gli mancava, ecco tutto. Disperatamente. Non ricordava nemmeno come fosse la sua vita prima di lui, senza tutte quelle risate inopportune e le sue battute sarcastiche sussurrate durante il turno alla biblioteca. Era ovunque, lo sentiva ovunque.
Il suo cervello sembrava pensare solo Sherlock, Sherlock, Sherlock, bloccandogli la concentrazione per lo studio, facendogli esplodere la testa quando si trovava in casa, in mezzo ai due uragani che rappresentavano sua madre e sua sorella, un po’ più silenziose e guardinghe nei suoi confronti, ultimamente.
Fino a quel giorno.
C’era vento, vento che tirava da tutte le parti e gocce di pioggia che cadevano dal cielo ad una velocità impressionante, allagando tutte le strade dopo solo un paio d’ore dall’inizio della tempesta. John aveva collezionato una portentosa chiazza sui pantaloni, dovuta ad una macchina che, a tutta velocità, aveva colpito una grossa e profondissima pozzanghera proprio nel momento in cui stava passando sul marciapiede. Aveva anche collezionato una felpa e un giubbotto fradici a causa della sua dimenticanza di un ombrello –oh, già, il suo l’aveva lasciato a Sherlock come stupido pegno d’amore l’ultima volta.
John aveva respirato a lungo e aveva stretto la mascella fino a sentir scricchiolare i denti, alzando lo sguardo al cielo. Ma qualcosa, o meglio qualcuno, aveva interrotto la corsa dei suoi occhi verso i nuvoloni scuri.  Fissò l’angolo della strada che dava sull’ingresso della biblioteca dove, con il suo ombrello e il suo solito cappotto, Sherlock Holmes osservava attentamente l’orologio, spostando il peso da un piede all’altro. Era lui. Era lì.
John non riuscì a reprimere un sorriso mentre camminava frettolosamente verso Sherlock, ignorando le lamentele di una vecchietta e l’uggiolio di un cane –gli aveva pestato la coda? Non l’aveva fatto apposta, era solo…c’era solo Sherlock.
L’altro, per l’appunto, sembrò accorgersi dell’arrivo di John e girò il viso verso la sua direzione, indossando una paralitica espressione di pietra, immobilizzato. Il sorriso che John sfoggiava con tanto orgoglio sembrò sciogliersi come neve al sole quando vide Sherlock fissarlo un’ultima volta prima di girare i tacchi e incominciare a camminare velocemente dalla parte opposta. Dove stava andando? Non era, forse, venuto a parlare con lui?
“Sherlock?” Provò a chiamarlo, aumentando il passo, ormai allenato dalle continue corse per Londra con il suo compagno –o ex compagno? No, no, era molto meglio attuale compagno, l’alternativa era troppo deprimente. Sherlock non sembrò sentirlo, continuando la sua marcia lontano da lui.
“Sherlock! Sherlock, aspetta!” John si mise a correre, vedendo che il cretino non aveva nessuna intenzione di fermarsi e dialogare come due persone civili. Riuscì a raggiungerlo e ad afferrargli il braccio appena prima di un incrocio, arrestando la sua fuga.
“Dobbiamo parlare.”
“No, non dobbiamo.”
“Sì che dobbiamo, Sherlock, non fare il bambino.” Sherlock sembrava aver sperimentato un nuovo, spassosissimo gioco che aveva come regolare il non incontrare il suo sguardo od ogni cosa che gli appartenesse.
“Sherlock?” Strinse un po’ più forte la presa sul suo braccio e l’altro si agitò come un animale in gabbia.
“Perché non vuoi parlare con me?”
“Non ho niente da dirti, mi sembra logico e perfettamente cristallino.” John prese un altro profondo respiro, cercando di non perdere la calma o agitarsi.
“Sherlock, ci siamo quasi baciati pochi giorni fa.” Sherlock sembrò essere trapassato da un fulmine sentendo quelle parole, chiudendo le mani a pugno lungo i fianchi. A John non erano mai piaciuti i giri di parole.
“Non mi sembra di nessuna rilevanza.” John sgranò gli occhi, lasciando la presa su di lui e agitando le mani in aria.
“Beh, sembra rilevante a me, se permetti! Si può sapere cosa ti prende?” John alzò appena la voce, attirando l’attenzione di un uomo anziano che passava lì vicino. Bene, perfetto, ora mettevano in scena anche uno stupido teatrino, pensò.
“Non mi interessano queste cose.” Borbottò, infilando una mano nella tasca del cappotto e posando lo sguardo sulla villetta dietro John.
“Non vuoi sapere perché volevo baciarti?” Sherlock si morse il labbro inferiore, continuando a fissare un punto alle spalle di John che, spazientito, mise una mano sulla sua guancia e spinse il suo volto verso il basso, per incrociare il suo sguardo.
“Guardami negli occhi mentre ti parlo. Non vuoi sapere perché volevo baciarti, Sherlock?” La sua voce aveva preso una piega amara durante la frase, mettendo su un altro piano la conversazione.
“Lo so benissimo perché volevi baciarmi, John, ma tu, a quanto pare, non hai compreso il mio comportamento.”
“Se hai avuto paura, non devi preo-”
“Non ho avuto paura, John! Perché diamine non capisci?” Urlò, sputando fuori quelle parole che gli pesavano come macigni.
“Io credo di essermi innamorato di te, Sherlock.” Disse, in una presa di coraggio che era inaspettata anche per lui. Perché l’aveva detto? Non lo pensava, non lo pensava affatto! Panico. Lo pensava? Dio, sì, lo pensava. Lo provava. Le spalle di Sherlock si drizzarono di colpo e la mascella si indurì, facendolo sembrare un po’ più adulto di quanto in realtà fosse.
“L’amore non esiste.” L’amore non esiste? Era partito per la fase depressiva leggendo biglietti perugina falsificati in quei giorni?
“Chi ha detto questa idiozia?” Chiese John, sentendo parte della sua rabbia sbollire un po’ a quell’uscita.
“Lo so e basta.” Mormorò, stringendo di più la presa sul suo ombrello. John sospirò, più per il sollievo che per una nuova dose di arrabbiatura.
“Beh, anche io so di amarti.” Disse, avvicinandosi un po’ di più a lui. Sherlock lo fissò negli occhi, interessato.
“Provamelo. Non credo a niente che non sia comprovato da dati certi.” John sembrò ricordarsi proprio in quel momento di una lezione all’università, alcuni giorni fa, in cui avevano spiegati meccanismi particolari del corpo umano.
Prese una mano di Sherlock tra le sue e la portò al suo collo, premendo due dita contro la sua pelle, in attesa che sentisse il suo cuore battere senza controllo. Sentire la carne di Sherlock contro la sua gli provocò una scarica al cervello che lo fece avvicinare pericolosamente al suo viso, tanto da potergli contare le meravigliose ciglia per ogni occhio.
“Bisogna fidarsi l’uno dell’altro in queste cose, Sherlock.”
“Comunque andranno le cose, John…” Sherlock avvicinò un altro po’ il suo volto a quello di John, facendo scontrare i loro nasi. John sorrise, sentendo l’aspettativa crescere dentro di lui come mare in tempesta.
“…per me rimarrai sempre un idiota.” John infilò una mano nei capelli asciutti di Sherlock e spinse la sua testa contro le sue labbra, assaporando finalmente quella bocca che era stata la sua ossessione per ore intere. Leccò piano il suo labbro inferiore e si dedicò al suo labbro superiore con cura, riscrivendo il suo contorno più e più volte, senza stancarsi mai. Sherlock se ne stava quasi immobile, muovendo un po’ la bocca per assecondare i piacevoli momenti dell’altro, fino a quando non lasciò andare l’ombrello, facendolo cadere alle sue spalle e stringendo le braccia intorno al collo di John, che sorrise maggiormente contro le sue labbra.
“Mi ridurrai una stupida macchina diabetica, John Watson.” John rise, non lasciando la sua bocca per nulla al mondo.
“Lo spero bene, sei insopportabile tutto scienza e niente divertimento.”
“Scienza è divertimento!” Borbottò, mordicchiando, divertito, il suo labbro inferiore. Perfetto.
“Tutto quello che vuoi tu, Sherlock, basta che stai zitto e continui a baciarmi.”
John fece scivolare una mano dai suoi capelli, ora leggermente più umidi, fino alla sua mano, intrecciando le dita con le sue, socchiudendo gli occhi e osservando la sua espressione concentrata mentre lo baciava.
A John non importava più di tanto di non aver mantenuto fede alla promessa che si era fatto da piccolo, né gli importava che fossero in mezzo ad una strada pubblica a baciarsi come due adolescenti in piena crisi ormonale –che poi, in realtà, in crisi ormonale lo fossero veramente, era tutto un altro discorso.
A John non importava più di nulla, se non della stretta delle loro mani unite come le loro labbra.
Erano caduti sulle spine del loro passato e avevano graffiato ogni loro cellula con il carattere dell’altro, fino a rendersi invulnerabili, fino a rendersi simili e complementari.
Le uniche, perfette, eccezioni alla loro regola. 

   
 
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