Fanfic su attori > Jake Gyllenhaal
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Autore: Aine Walsh    20/12/2012    7 recensioni
Mi fermo all’improvviso, gli occhi sgranati fissi sulla strada di fronte, le mani che tremano e non ne vogliono sapere di mollare il volante e scendere.
Ho messo sotto qualcuno.
Il cuore mi esplode nel petto, mi sento svenire, mi viene voglia di piangere, di urlare e di chiedere aiuto, ma le gambe tremano e restano impalate al loro posto.
Ho messo sotto qualcuno.
Non ho intenzione di lasciarlo lì steso per terra, ma non riesco proprio a muovermi.
Genere: Generale, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Salve! :D
Prima di leggere questo poema degno del solo Virgilio (sì, certo) dovete sapere che questa fic fa parte di un ciclo di storie natalizie ideate e scritte dal gruppo delle Daydreamers. Ancora non sono state pubblicate tutte le storie, questa è la quarta, ma alla fine della storia trovere i link delle altre tre (storie che, fra l'altro, vi consiglio vivamente di leggere!) e di quelle che saranno pubblicate postume.
Detto ciò... buona fortu... cioè... Buona lettura!


The Daydreamers' Carol
All the stars are coming out tonight

 

18 Dicembre 2012

 
Odio Los Angeles.
La odio profondamente, l’ho sempre odiata e la odierò per sempre. E la odio ancora di più adesso.
Odio il suo smog, odio la sua confusione, odio l’incessante strombazzare delle auto e dei loro autisti che si sporgono dal finestrino, rischiando quasi di passarci attraverso, per dirmene gentilmente quattro.
Che cazzo hanno da urlare? Non vedono che sono seriamente in difficoltà?
Certo, che ne sanno loro; pensano solo che io sia una pazza al volante con gravi problemi e con un notevole ritardo mentale, visto che sembro non distinguere la destra dalla sinistra.
Non sanno mica che da dove vengo io, da quel posto meraviglioso dove sono nata e cresciuta e che non cambierei per niente al mondo con la loro schifosa Los Angeles, ecco, non sanno che lì le auto hanno il volante a destra e non a sinistra come i loro.
E quindi criticano, e anche pesantemente.
E sfottono pure, come quei bravi gentlemen che sono abituata a vedere.
«Cogliona, guarda dove vai!», «Chi cazzo ti ha dato la patente?!» e altre dolci paroline escono dalle loro labbra a cuoricino, rimbalzando contro i vetri di questa specie di auto contro cui mi sono ritrovata a combattere.
Lascia perdere, Chaneu, lascia perdere. Sul serio, non ne vale la pena. Voi britannici siete superiori a questi buzzurri americani.  Inspira, espira, inspira… Ecco, così, da brava. Ti senti già meglio, no?
Sì, mi sento meglio. Non mi abbasserò ai loro livelli, non darò loro la soddisfazione di vedermi incazzata o di sentirmi bestemmiare, io non…
«Evita di farti prima di guidare, stronza!».
«BRUTTO FIGLIO DI PUTTANA, IN SCOZIA IL VOLANTE E’ DALL’ALTRA PARTE! SCOZIA, CAPISCI?! COMPRENDI?! QUI QUELLO CHE SI SPARA LE PERE SEI TU, NON IO! COGLIONE!».
Okay, come non detto.
Ho esagerato? Forse sì, ma se lo meritava proprio. E poi nemmeno mi conosce, quindi tanto meglio per me.
Mi accosto al lato destro della strada e mi fermo per prendere un attimo di respiro. Ho il fiato corto, la fronte imperlata di sudore e mi sento stanchissima, esausta, stremata.
Non avrei mai preso un’auto se non fosse stato davvero necessario. Avrei potuto prendere la metro, ma sono claustrofobica e direi che è categoricamente escluso per me salire su quel mezzo malefico e chiudermi in quel cubicolo di metallo, obbligata a stare immobile sul posto per via della troppa gente che lo affolla; Dio, al solo pensiero mi sento già male.
Avrei anche potuto prendere il taxi, ma ultimamente ho bruciato gran parte dei pochi risparmi che mi sono rimasti per pagare burberi taxisti che si perdevano nella loro stessa città. Quindi no.
Per (s)fortuna, almeno, ho questo meraviglioso bolide accartocciato che mi scarrozza (o cerca di scarrozzarmi) dove voglio. E dire che avevo sfottuto troppo quella bellezza ultraterrena di Cameron Diaz nella scena in cui non riusciva a guidare l’auto per il mio stesso problema in L’Amore non va in Vacanza, uno dei pochi film che ho visto in vita mia, tra l’altro.
Sospiro. Ho già detto che odio Los Angeles? Maldetto il giorno in cui acconsentii a trasferirmi qui. E maledetto pure quel bastardo che mi ha fatto la proposta.
Allaccio la cintura e riparto, piano e con calma.
Mi manca Inverness, mi manca da morire, soprattutto adesso che il Natale si avvicina. Non pensavo di essere così nostalgica, lo ammetto, ma il non essere circondata da tutta quella tranquillità, il non sentire il freddo pungente sferzarmi il viso e spaccarmi le mani e, soprattutto, il non vedere le facce a me familiari da quasi un anno mi provocano un groppo in gola.
La vita a Inverness è più semplice, meno superficiale, meno costruita e finta, è più vera, allegra, spensierata e genuina. Qualcuno potrebbe pensare che sia un posto troppo monotono anche per gli anziani e che io sia completamente svitata per ripudiare così la California, ma non capiscono e non possono farlo.
Solo chi ci vive riesce a cogliere la bellezza di quel posto, la pace che vi si respira a pieni polmoni, l’atmosfera magica delle sere della brevissima estate e delle notti di neve in inverno, specie in questo periodo dell’anno, e solo chi ci vive può…
SBOM!
Oh, cazzo.
Mi fermo all’improvviso, gli occhi sgranati fissi sulla strada di fronte, le mani che tremano e non ne vogliono sapere di mollare il volante e scendere.
Ho messo sotto qualcuno.
Il cuore mi esplode nel petto, mi sento svenire, mi viene voglia di piangere, di urlare e di chiedere aiuto, ma le gambe tremano e restano impalate al loro posto.
Ho messo sotto qualcuno.
Non ho intenzione di lasciarlo lì steso per terra, ma non riesco proprio a muovermi. La strada è deserta in questo tratto, non c’è proprio nessuno, io ho messo sotto un uomo e non mi muovo dalla mia macchina, potrei non riuscire più a muovermi per sempre, potrei morire di crepacuore in questo istante, potrebbero vedermi, potrebbero denunciarmi e arrestarmi per omissione di soccorso e allora mi darebbero un ergastolo e sarei costretta a restare qui per tutto il resto della mia vita e…
Okay, no. Basta così. Alza le chiappe e va’ ad aiutarlo.
Mi passo una mano sul viso, sospiro profondamente e apro la portiera; lo sconosciuto è ancora lì, a pochi centimetri dalla mia ruota, ma è seduto e poggiato contro il cofano anteriore. Lancio un’occhiata veloce nelle vicinanze: non sembrano esserci tracce di sangue, posso sentirmi un po’ più sollevata.
«Oddio, mi dispiace tanto! Mi scusi, non volevo! Ero distratta e non mi sono accorta…» inizio, ma il non vedere nessuna reazione da parte sua mi preoccupa.
Sta ancora lì, immobile, con il cappuccio della felpa grigia ben calcata sulla fronte, con gli occhiali scuri che gli nascondono gli occhi e la bocca serrata.
Incoscienza? Stato di shock? Trauma?
Cos’è che ti hanno insegnato al corso di pronto soccorso che hai frequentato quando avevi quattordici anni, Chaneu, cosa? Te lo ricordi?
No, non me lo ricordo.
Mi avvicino piano e lentamente, non smettendo mai di guardarlo. In caso, posso sempre contare sulle mie gambe vincitrici di qualche medaglia nelle corse organizzate ai tempi del liceo.
«Si… si sente bene?» azzardo un po’ timorosa. Forse avrei dovuto subito chiamare i soccorsi.
L’uomo finalmente si volta e mi guarda attraverso le lenti nere, mentre si rimette in piedi massaggiandosi il braccio destro. «Niente di rotto, a quanto pare».
Parole sante!
«Oh cielo, mi dispiace così tanto! Non volevo, lo giuro, sono mortificata! Mi scusi, la prego, ha ragione, lo so, non dovrei mettermi al volante e pensare agli affaracci miei, ma non me ne sono resa conto! E in più guidare col volante a sinistra è difficile e non riesco a…», continuo a sparare parole di giustificazione e scusa come fossi una macchinetta per qualche altro istante, fino a quando l’incidentato non mi fa segno di stare in silenzio e mi sorride bonario.
«Credo che Lei abbia bisogno di calmarsi un po’. Può anche lasciare l’auto qui, c’è una caffetteria proprio dietro l’angolo».
Mi zittisco di colpo e annuisco, seguendolo come se fossi un cagnolino fedele.  Per quanto ne so (o per quanto non ne so) potrebbe essere un maniaco, un pluriomicida, un contrabbandiere di organi, uno schizzato, un magnaccio, un drogato, un alcolizzato… E la lista sarebbe ancora lunga. Tuttavia, lo seguo in silenzio ed entro con lui in quella che sembra una vera, semplice e comunissima caffetteria come ce ne sono tante nel mondo e in questo schifo di città.
Il locale non è stracolmo di gente e, inoltre, sembrano tutti clienti abituali visto il modo in cui chiacchierano allegramente con il barista o con la donna sulla sessantina seduta dietro la cassa. Ed è proprio questa che, nello stesso momento in cui entriamo, ci butta gli occhi addosso e ci fissa imperterrita. Ricambio lo sguardo per un po’ e mi accorgo che non è interessata a me, ma bensì al quasi-metro-e-ottanta che mi sta accanto (il quale ha abbassato il cappuccio della felpa e ha scoperto dei capelli castani, come la sua barbetta).
«Jake! – esclama con evidente sorpresa – Sei tu?».
Guardo lo sconosciuto di profilo, o meglio, guardo Jake di profilo. Ha un bel nome, anche se mi ricorda vagamente quell’antipatico ricco sfondato pieno di sé di mio cugino. Ma questi sono fatti miei.
Jake sorride (un sorriso da spot pubblicitario per Colgate, a dirla tutta) e abbraccia la donna che sembrava non aspettare altro che quel contatto. Beata lei.
Beata lei?! Un attimo, che c’entra?!
«Era da parecchio tempo che non ti facevi vedere, ragazzone» apostrofa l’uomo dietro il bancone,  che presumo essere il marito dell’arzilla signora.
«Sono stato impegnato con il lavoro, zio Harold» si giustifica con semplicità.
Ah, quindi quelli sono i suoi zii.
Pronto? Fa’ qualcosa, diamine! Sembri lobotomizzata!
Sì, ecco, sembro una ritardata incapace di parlare. Cosa faccio, cosa faccio…?
Tossisco un po’; è l’unica cosa che mi viene in mente e devo dire di non essere particolarmente fiera di questo non colpo di genio.
Oh, però funziona perché si girano tutti verso di me.
«Quel tavolo lì può andar bene?» chiede Jake indicandomi un punto del locale.
Non mi volto nemmeno a guardare la direzione, ma affermo pensando che sarebbe stupido fare obiezioni. E devo dire che ci resto un po’ male quando noto che ha scelto il tavolo nascosto nell’angolo più remoto di tutta la caffetteria invece di quello carino carino accanto alla finestra che avevo adocchiato appena entrata.
Pazienza. In fin dei conti, non mi importa proprio. Ho accettato solo per cortesia e per essere sicura di non avergli procurato qualche danno al cervello, quindi posso ben dire che non intendo restare qui più del necessario: la situazione è molto più che imbarazzante ed io non sono ancora in totale possesso delle mie facoltà intellettive.
Ci sediamo, uno di fronte all’altra e non diciamo una parola. Bene, che conversazione entusiasmante. Questa sarà sicuramente una giornata da ricordare, una di quelle da scrivere nel diario segreto che non ho mai avuto.
Mi guardo intorno, non sapendo cos’altro fare. L’ambiente non è il massimo, o meglio, non è esattamente uno di quei locali esclusivi che ti aspetti di trovare in una città fashion come Los Angeles, ma non è nemmeno tanto brutto e squallido come i peggiori bar di Caracas. E’ più una piccola caffetteria, comoda e confortevole, con i tavoli in compensato e le pareti color cioccolato e panna (mi chiedo se sia stato fatto di proposito per farmi venire l’acquolina), il tutto a gestione familiare. Alle pareti sono appese parecchie foto, alcune delle quali in bianco e nero, e capisco che il locale deve essere parecchio antico; cosa di cui mi rendo conto dal fatto che la prima fotografia (quando la trovo) risale al 1952. Accanto al bancone è sistemato un albero di Natale alto più o meno quanto me e dall’aria abbastanza vecchia. E’ decorato in maniera quasi maniacale e il rosso e il dorato delle palle richiamano i festoni appesi al soffitto e le varie decorazioni sparse qua e là (come l’allegro Babbo Natale che mi ritrovo seduto nella mensola di fronte a me). Il tutto dà un bell’effetto, si respira un’aria tranquilla e pacifica che fa sì che la mia mente inizi a vagare di nuovo in direzione di Inverness. Questo posto me la ricorda molto più di quanto avessi immaginato.
«Sei sempre così loquace?».
E poi il lento vagare finisce di colpo, così com’era iniziato.
Jake (di cui ancora non conosco ufficialmente il nome, visto che non ci siamo presentati) sorride  divertito e mi guarda attraverso le lenti scure degli occhiali. Mi chiedo quando abbia intenzione di sfilarseli perché sì, sono curiosa di vedere i suoi occhi. Poi un brivido mi corre lungo schiena e mi fa avvampare le guance.
Oh, sì. Mentre il tuo bel cervellino era a fare jogging in Scozia, i tuoi occhioni da cerbiatta erano fissi su di lui. E’ logico che pensi che tu lo trovi attraente, no?
Ad aggravare la situazione, poi, ci si mette anche l’eco della domanda a cui non ho ancora risposto.
«Io… No, cioè, sì… Io stavo solo… solo guardando intorno, ecco» farfuglio con estrema confusione.
Mi appello a te, o grande e onnipotente Superman: se è vero che esisti, portami via di qui. Se fai presto, ti pago anche la cena.
Non riesco ad aggiungere altro e lascio calare nuovamente il silenzio. Dio, che imbarazzo. Chino il capo e prendo ad esaminare le mie unghie con molta attenzione, come se stessi compiendo un’azione molto più importante di quello che può apparentemente sembrare. Voglio dire, chi avrebbe mai potuto pensare che sotto quel deficiente di Clark Kent si nascondesse il mitico Superman?
Ti rendi conto di quello che stai pensando?
No. Assolutamente no.
Jake mi guarda ancora, non ricambio il suo sguardo, ma so che è così. Secondo me, sta iniziando a credere che io sia una povera psicopatica. Come dargli torto, del resto?
«Va tutto bene?» domanda cautamente e con tono pacato.
Perfetto, lo sta pensando davvero.
«Sì, tutto nella norma… – AHAHAHAHAHAHAHAHAHA! – E tu?» m’informo, ignorando del tutto la vocina che continua a ridersela nella mia mente.
«Mai stato meglio», sorride ancora.
«Ne sono felice». A quanto pare, oggi non riesco proprio a fare a meno di dare risposte secche e lapidarie. Forse è per questo motivo che non ho mai avuto una vita sociale molto florida e intensa come tutti gli abitanti di questa città?
Sei prevenuta, lo sai?
Sì, e sai perché.
Stavolta però il ragazzone che mi sta di fronte evita di far interporre un’altra pausa e prende subito parola. «Io sono Jake. – annuncia tendendomi una mano – Jake Gyllenhaal» aggiunge dopo qualche attimo in cui sembra esitare.
«Chaneu Williams» mi presento accettando la presa. Gli stringo la mano e, chissà perché, ho come la sensazione che lui stia aspettando qualcosa, qualche mia reazione particolare, forse… Che puntualmente non arriva. Sì, insomma, che dovrei dirgli?
Quando allentiamo la stretta, Jake si porta la mano al viso e si sfila gli occhiali. Bravo, ragazzo, hai capito.
Okay, non so che mi prende. Mi ammutolisco di colpo.
E’ possibile avere due occhi così azzurri? E’ come se tutto l’azzurro del cielo si fosse concentrato nelle sue iridi. Una cosa del genere dovrebbe essere illegale, no? Però, adesso che riesco a vederlo per intero, la mia sensazione trova conferma: è come se si aspettasse qualcosa e fosse titubante.
Ora che lo guardo meglio, mi ricorda qualcuno ed è come se l’avessi già visto, ma non riesco a ricordare dove. Ma no, mi sbaglio sicuramente.
«C’è qualcosa che non va?» mi risolvo a domandare infine, decisa come sono a cercare di decifrare il suo sguardo.
Jake abbozza un sorriso e sembra più sollevato. «No, tutto a posto. Da dove vieni? Hai un accento particolare».
«Inverness, Scozia. E tranquillo, di’ pure che il nostro accento è pesante, tanto lo so e me ne rendo conto».
Fai pure la vittima adesso?
«Beh, un americano non può mai criticare l’accento di una scozzese, non trovi? Non siamo esattamente come quei perfettini degli inglesi. – ridacchia – E’ per questo che…?».
Lo interrompo, sapendo già cosa sta per chiedermi. «Che guidavo come una folle in preda ad una crisi di panico? Sì».
«Io avrei detto come una persona molto spaventata, a dire il vero. Immagino che guidare con il volante dall’altro lato sia parecchio difficile…».
«Più di quanto immagini, credimi! E’ stressante e avvilente, una cosa che non auguro davvero a nessuno».
Adesso che stavo iniziando a sbloccarmi e a riacquisire la capacità di esprimermi un po’ meglio di un macaco, la donna sulla sessantina (a.k.a. la giovanile zietta) viene verso di noi e si para davanti al tavolo.
«Posso portarvi qualcosa, cari?» chiede rivolta a Jake, che però ha occhi solo per me (sì, magari!).
«Due LA Special, ordino io per lei».
«Cos’è un LA Special?» domando ingenuamente alla donna. Questa però non risponde e non capisco se non mi abbia davvero sentito o se non abbia proprio voglia di parlarmi.
«Vedrai, ho la sensazione che ti piacerà» ammicca occhi-di-zaffiro. Sì, gli ho anche trovato un soprannome.
Zia May finisce di scrivere sul block notes e si allontana, dopo avermi lanciato un’occhiata in cagnesco però.
«Non farci caso, fa così con tutte le ragazze con cui mi vede. E’ solo preoccupata per me, ma non è cattiva».
Tutte le ragazze con cui mi vede. Perché mi sento come se mi avessero appena mollato un ceffone su una guancia? E perché mi si mozza per un attimo il respiro?
Perché ti piace e speri in qualcosa.
Taci, tu. E’ un bel ragazzo, non lo si può negare, ma siamo due perfetti estranei e sono sicura che quando uscirò da qua non lo rivedrò più. In più, avrei anche dovuto aspettarmelo: chissà quante gli fanno il filo ogni giorno.
Scuoto leggermente la testa, come a far uscire quel pensiero. «Non c’è problema, anche i miei parenti si comportano così».
«Beh, dai parenti c’è da aspettarselo. Ma vedi, zia May non è veramente mia zia».
«Ah, no?» faccio sorpresa. Ed io che davo già per scontata la loro parentela.
«No, è solo una persona importante che mi ha aiutato parecchio» spiega brevemente e con tono conciso ed io non sono quel tipo di persona che insiste per sapere cose che gli altri vogliono tenere private.
«Non l’avrei detto, sai? Sembra che voi due abbiate proprio un bel rapporto».
La donna riappare e adagia due tazze fumanti sul tavolo, una di fronte a me e una di fronte a Jake. Inspiro e lascio che l’aroma di cappuccino s’impossessi delle mie narici. Molto bravo, Gyl-non-ricordo-il-cognome, fin qui hai indovinato.
«Perché effettivamente è così. Siamo la coppia più bella del mondo, vero zia May?».
Questa si volta e sorride al suo nipote acquisito. «Se fossi stata più giovane, avrei di certo sposato te e non lo zio Harold» commenta a bassa voce.
«Ti ho sentita!» esclama l’uomo.
Rido e Jake mi fa l’eco. Ha una bella risata, contagiosa e argentina, e mi accorgo che non si limita solo alle labbra, ma si estende a tutto il volto, anche agli occhi.
Zia May poggia due piatti sul ripiano e si allontana augurando un «Buona merenda» tutto zuccherino.
Mi chino a guardare la portata. Questo ragazzo è una meraviglia.
«Allora, ho indovinato?» domanda prontamente.
Cappuccino caldo, una spessa fetta di torta al cioccolato e la panna a completare il tutto. Chi è quell’essere che disdegnerebbe un piatto simile? No, dico, presentatemelo.
Hai la bava alla bocca. Un po’ di contegno, santo Cielo! Potrei anche fartela passare, se sapessi essere causata dal bel fusto che hai davanti, ma siccome non lo è… Eh, Chaneu, non ingozzarti come una scrofa.
Parole, parole, parole.
Quando alzo lo sguardo, Jake è lì e mi fissa speranzoso. Ha un’espressione così tenera che, se invece del cappuccino e del cioccolato mi avesse offerto arsenico e cianuro, gli avrei comunque detto di sì e avrei trangugiato tutto con la stessa voracità di come so avrei già fatto se non ci fosse stato lui davanti.
«No, cioè. Tu adesso mi spieghi come hai fatto» gli ordino nel vero senso del termine.
«Quindi ho azzeccato?».
«Mi pare ovvio. Voglio sapere come, però».
Jake stira le braccia verso il basso e risponde: «Facile, ho provato a indovinare».
Lo guardo, un po’ stupita. «Non ci credo. Secondo me fai così con tutte».
Quasi quasi quel suo ridere a gran voce mi fa sentire un’idiota che ha appena detto la sua ennesima idiozia. Anzi, no. Io sono proprio così.
«Ho la faccia di uno spacca cuori, io?» domanda quando riesce un po’ a riprendersi.
In che situazione mi sono cacciata, qualcuno sa spiegarmelo?!
«Non ho detto questo» replico con tutta la convinzione che posso fingere.
«A me sembra proprio di sì».
No, così non va. Se ti avvicini, poggiando il mento sul pugno chiuso, abbassando la voce e sorridendo non proprio in modo casto, beh, no. La cosa tra noi non può funzionare, bello mio.
«Io sono responsabile di ciò che dico, non di quello che tu intendi».
Dio, che oscenità! Sembro una scolaretta saccente!
La situazione peggiora di minuto in minuto, che dico? Di secondo in secondo!
Non voglio continuare a conversare su questo fronte, quindi stacco un pezzetto di torta e me lo porto alla bocca. Ho un avversario troppo forte e non voglio perdere, anche se mi accontenterei volentieri di un pacifico armistizio.
Jake sorride a labbra chiuse e inizia anche lui a mangiare. Non so se per via dell’imbarazzo o per via dell’estasi che il dolce ci sta procurando, ma restiamo in silenzio per una manciata di secondi. Intanto la mia mente sta già progettando le immagini di quello che accadrà subito dopo che avremmo finito: ordineremo il conto, discuteremo perché lui non vorrà farmi pagare la mia metà, usciremo, ci saluteremo con un gesto della mano e io ritornerò a quella macchina degli orrori e alla mia infernale vita.
«Non mi hai ancora detto cosa ci fa una scozzese abituata al freddo e al gelo nella calda e soleggiata California, specie nel periodo natalizio» riprende parola mentre si asciuga le labbra col tovagliolo.
«Sono convinta che non ti interessi molto, lo chiedi solo per… non so, forse gentilezza? Mi sembra un po’ la classica domanda di circostanza e vorrei evitare di annoiarti a morte e farti pentire di avermi portata qui».
«Fidati, cerco sempre di evitare le cose che non mi interessano».
«Dici così perché non mi conosci».
«Appunto, è proprio quello che vorrei fare: conoscerti. Almeno un po’» dichiara candidamente.
Houston, abbiamo problema! Guance in fiamme, ripeto, guance in fiamme!
«Sei tremendo!» esclamo, ridendo nel tentativo di dissimulare l’imbarazzo.
«Sei la terza persona al mondo a dirmi una cosa simile… Dopo mia madre e mia sorella, s’intende. – ridacchia – Su, ora parla».
«Ed io che pensavo fossi simpatico e avrei voluto risparmiarti» recito con il tono grave di un’attrice tragica.
«Ma io sono coraggioso e voglio correre il rischio. Magari mi salverò. In caso contrario, è stato un piacere fare merenda con te, Williams».
Vuoi vuotare il sacco? Siamo arrivati a questo? Sei talmente masochista da spifferare tutto al primo sconosciuto che passa? Che poi, sappiamo entrambe che questo bel visino che hai di fronte s’impossesserà del tuo cervello per tanti dei giorni a venire. E non darmi torto.
No, hai ragione non lo nego. Ma forse sarà utile avere il punto di vista di qualcuno di totalmente estraneo alla faccenda. E, al momento, non vedo nessuno più sconosciuto di Jake.
Cos’è, vuoi fare breccia nel suo cuore di cioccolato fuso come quello della torta che hai appena finito di divorare? Speri così di conquistarlo con la solita storia dei sogni d’amore mai realizzati? Pensi che lui possa darti il suo numero di cellulare e… e… mmm… MI PIACE! SEI UN GENIO, RAGAZZA, O MEGLIO, GHEPARDO! Non ti facevo così, sai? Anni di insegnamenti e di duro lavoro che finalmente vedono la luce!
Veramente non era quello che intendevo, ma…
Sospiro. «E va bene. Ma fermami se dovessi diventare noiosa, ok?».
«Non accadrà».
«Due anni fa, durante una vacanza estiva in Galles, ho conosciuto un ragazzo, tale Eugene Wessex. Bel tipo, almeno per i miei canoni: alto, moro, simpatico e socievole con tutti. Abbiamo passato un bel po’ di tempo insieme, io gli ho insegnato a pescare e lui mi ha spiegato come giocare a Texas Old ‘em. Ci siamo divertiti parecchio, lui mi piaceva e tutti erano concordi nel ritenere che anche io gli interessassi. Poi l’estate è finita, io sono tornata a Inverness, lui è ripartito per Los Angeles e pensavo di averlo perso e aver sprecato un’opportunità. Invece, è venuto a trovarmi in Scozia ed è rimasto per quasi tre mesi. Ci siamo messi insieme e andava tutto a meraviglia; l’ho presentato ai miei genitori e abbiamo passato il Natale a casa mia, tutti felici e contenti. Un giorno è venuto fuori che lui doveva urgentemente fare ritorno in America per motivi lavorativi e allora gli ho chiesto quale fosse il problema. Perché, vedi, da grande, grandissima, immensa stupida che ero e sono tuttora, ero innamorata. Per questo non mi feci troppi problemi a proporgli di trasferirmi qui. Sulle prime, Eugene era abbastanza dubbioso e avevo come la sensazione non che non mi volesse tra i piedi, ma poi accettò e solo parecchio tempo dopo riflettei sul fatto che non lo fece perché ci teneva particolarmente, ma quasi per disperata rassegnazione, capisci? Quindi siamo venuti qui, abbiamo vissuto insieme a casa sua, lui era sempre fuori per lavoro ed io cercavo un impiego per non sentirmi troppo sola. E’ andata avanti così per sette lunghi mesi, periodo in cui ci siamo accorti di come il rapporto stesse affondando e di come ciò fosse dovuto alla sua poca presenza fisica e mentale; la causa era tutta lì, tangibile e universalmente riconosciuta, ma non avevamo il coraggio di parlarne. Lui perché è un grandissimo stronzo ed io perché ero troppo accecata e ingenua per svegliarmi, accontentandomi di quel niente che mi offriva pur di averlo vicino. Però, beh, negare l’evidenza è difficile. Così, quando l’ho visto in atteggiamenti molto poco amichevoli e sicuramente più intimi con la sua ex, sono tornata a casa e ho fatto le valigie. Non si è nemmeno degnato di venirmi a cercare dopo aver trovato l’appartamento vuoto. E quindi… questo è tutto, signori e signore».
Eccola lì, la mia triste storia spiattellata su un vassoio d’argento ad uso e consumo (e sfottimento) libero di tutti.
Per tutto il tempo Jake mi ha fissato con tanto d’occhi, attento, e sembrava fosse davvero interessato a quello che gli dicevo; adesso che ho finito è ammutolito e non sono in grado di decifrare la sua espressione. Abbozzo un sorriso, come a dirgli che non vale la pena rimuginare su queste cose.
«E dove sei andata?» domanda con serietà.
«A casa di un mio collega».
«E stai ancora lì?».
«Sì. Siamo io, lui e… il suo compagno. E’ un po’ imbarazzante, lo ammetto. Cioè, no. Non ho nulla contro gli omosessuali, ma… sono piombata improvvisamente dal cielo e contamino la loro privacy. Loro sono gentilissimi, non mi fanno mai pesare nulla, ma mi sento fortemente in debito».
«E non puoi tornare in Scozia?».
Questa è una bella domanda. Bellissima domanda, anzi.
Sospiro e aspetto che zia May abbia portato via piatti e tazze prima di rispondere. «No, al momento non posso» sussurro evitando di guardarlo negli occhi. Mi imbarazza non poco spiegare il motivo.
«Dove lavori?».
«Ai grandi magazzini in periferia, dall’altra parte della città. Sono impiegata presso il negozio di articoli sportivi. Non so se lo conosci, ma è una gabbia di matti quel posto», ridacchio: forse è per questo motivo che mi hanno assunta.
Ma Jake non sorride ed è ancora serio e pensieroso. «E ti manca casa tua?».
Che sia un poliziotto? Sembra ti abbia scambiato per qualcuno di sospetto…
«Lo so, è una domanda stupida, ma…».
«Forse è stupida, – lo interrompo – ma non per questo non è lecita. Sì, mi manca tanto, più di quanto avessi immaginato il giorno in cui me ne andai. E poi Los Angeles non mi piace. Sul serio, non capisco come la si faccia a ritenere una delle città più belle del mondo! E’ sporca, ha un alto tasso di criminalità e, Cielo, non parliamo dei suoi abitanti! Sarò anche condizionata dal rapporto che ho avuto con Eugene, ma caspita, i californiani sono insopportabili! Superbi, spocchiosi, superficiali, incivili, cazzoni…».
Sì, mi sono lasciata andare.
Jake sorride. «Los Angeles è la mia città natale».
«Per non parlare del fatto che…», mi fermo.
Ha davvero detto quello che ho sentito?
Sì, l’ha fatto.
Dio, no.
Dio, sì. Se ti interessa, ho visto una pala fuori di qui. Potrei aiutarti a scavare la fossa.
Lo guardo, imbarazzatissima e confusa per tutto quello che i poveri criceti abitanti il mio troppo stupido cervello stanno elaborando. La figuraccia è ormai bell’e fatta, una delle tante che ho fatto oggi in sua presenza.
Cambio discorso? Mi scuso? Inizio a dire cose senza senso e tergiverso? Scappo urlando?
«C’è sempre l’eccezione che conferma la regola» dico. Che poi, non ho mai nemmeno capito il significato profondo di questo detto. Come fa un’eccezione a confermare una regola?
Fregatane altamente di queste frasi già fatte e pensa a salvarti le chiappe!
Occhi blu ride e non pare per nulla offeso; ride in un modo che sembra davvero sincero e ho l’impressione che sia divertito, senza però prendermi in giro.
«Sono un fenomeno da baraccone, vero?», più che una domanda la mia è un’affermazione.
«Ma dai, che dici? Sei simpatica… e prevenuta».
«Non è vero».
«Invece sì».
«Invece no. Sono condizionata ed ho i miei buoni motivi per credere una cosa simile, è diverso».
«Ah, generalizzi pure?» sorride smorfiosetto. Se non fosse così adorabile, penso che avrei già riempito di schiaffi il suo bel faccino impertinente.
No, non l’avrei fatto. Forse è impossibile crederlo, ma non è da me. E poi mi sto veramente divertendo, non avrei potuto trovare uno sconosciuto migliore di Jake con cui bere cappuccino, mangiare torta al cioccolato e parlare a cuore aperto degli ultimi traumatici e depressi mesi della mia vita.
Jake schiocca le dita e mi rivolge un’occhiata del tipo “come-ho-fatto-a-non-pensarci-prima”. «Sai cosa ti dico? Ti farò cambiare idea su noi e su questa città e lo farò proprio adesso!».
Va bene, adesso è lui a dire cose strane.
«Jake, io non penso che…».
«Ma sì, ma sì, vedrai!» esclama come un bambino mentre si alza e lascia una banconota sul tavolo. Ha un entusiasmo così contagioso che mi fa sorridere; è una brava persona, sono pronta a giocarmi una mano. Altro che stalker, maniaco, serial killer dei miei stivali!
Dà una pacca sulla spalla a zio Harold, stampa un sonoro bacio sulla guancia rosea di zia May, mi prende per le spalle e mi guida fuori. «Tonerò presto!» promette prima di chiudersi la porta a vetri alle spalle.
Fuori si sta facendo buio e l’aria più fredda mi fa rabbrividire. Il sole è ormai sparito dall’orizzonte fatto di grattacieli e le prime stelle iniziano ad accendersi in alto, su un cielo terso senza nubi. Mi stringo nelle spalle; sì, siamo a Dicembre, ma non pensavo che potesse esserci tutto questo gelo. La California non era rinomata per le sue temperature miti durante tutto l’anno?
«Che mi venga un colpo, tu hai freddo!» esclama con sorpresa il ragazzone.
«E’ vietato?».
«No, ma una che viene dal Circolo Polare Artico dovrebbe esserci abituata, o sbaglio? A proposito, non è che hai lavorato per Babbo Natale, vero?» scherza.
Chino il capo e rido insieme a lui. «Punto primo, al momento non sono ben equipaggiata perché pensavo di stare fuori casa per meno tempo, ma lascia che prenda il cappotto in macchina e poi ne riparliamo. Punto secondo… – aspetto che passino alcuni secondi e mi preparo ad assumere un’espressione stupit/da – Come hai fatto a scoprirmi? Non vorrai mica farmi saltare la copertura, vero? Non vorrai rovinare la mia già rovinata vita, vero?».
Jake mi apre la portiera e sorride. Non so quante volte l’abbia fatto, ho perso il conto, ma questo è veramente uno di quei sorrisi che ti mozzano il fiato e ti fanno andare in iperventilazione. Può un umano essere più perfetto di così?
Si guarda brevemente intorno con fare sospetto, poi si avvicina e sussurra: «Beh, tra colleghi ci si riconosce sempre, no? Anche tu sei stata mandata qui in missione?».
Anime gemelle!
Annuisco e salgo in macchina (rigorosamente dal lato del passeggero), anche se non penso proprio di avere una faccia intelligente al momento. Sì, sono enormemente spiazzata e non mi aspettavo una risposta del genere.
Ma perché ti fai tanti problemi? Questa è una dichiarazione in tutto e per tutto! Allarga gli orizzonti di quella pigna che ti ritrovi al posto dell’encefalo e non essere così ottusa e obsoleta! Nemmeno tua nonna lo è! Vedi? Non so se ti accorgi del modo in cui continui a guardarlo. Ti piace e ti attrae non solo fisicamente, sai che è così. Chi ti dice che magari non sia uno di quei romanticoni che crede nel colpo di fulmine e nell’amore eterno? Magari questo potrebbe essere il tuo regalo di Natale in anticipo!
Rimango in silenzio per un po’, pensierosa. Il pessimismo cosmico è una delle peculiarità ereditate da mio padre e, per quanto mi sforzi, faccio fatica a vedere ciò che mi riguarda sotto una luce più positiva, a dire “Ma sì, vivi il momento e comportati come una normale venticinquenne farebbe al posto tuo”. Anche se ho già più volte ammesso che Jake mi ispiri parecchia fiducia. E a proposito…
«Non mi hai ancora detto dove stiamo andando».
«Ti aspetti forse che io lo faccia?» domanda non staccando lo sguardo dalla strada davanti a noi.
Ci rifletto su per un attimo. «Sinceramente no, ma a Natale sono tutti più buoni, tu guidi il mio piccolo bolide super accartocciato e tentare non nuoce».
«Preferisco farti pensare che io sia cattivo, piuttosto che svelarti la sorpresa» annuncia alzando il volume della radio.
Santa Clause is coming to town, Frank Sinatra.
Getto le armi e mi decido ad aspettare con più o meno pazienza, curiosa di sapere cosa ha in mente. Poggio la testa contro il finestrino e guardo fuori: la città mi scorre davanti, illuminata e colorata dalle mille e mille luci che addobbano le vetrine dei negozi e le strade. Ci sono alberi davanti ai locali e tanti Babbo Natale agli incroci, dove distribuiscono caramelle ai bambini e si fanno scattare fotografie con i sacchi in spalla. E poi con Jake che canta in sottofondo, passando indifferentemente da Silent Night a White Christmas a Jingle Bells, è tutta un’altra cosa (anche se non credo che sia interessato ad una carriera musicale, visto la voce che si ritrova…).
«Ti piace?» incalza con nonchalance.
«Mi hai portata qui di proposito, vero?».
«Forse sì. Ma non hai ancora risposto alla mia domanda».
E dai…
Sbuffo. «Sì, ha il suo fascino».
Jake batte le mani soddisfatto e si volta a guardarmi, approfittando del rosso del semaforo. «Ti costa ammetterlo».
«Non immagini quanto».
«E non hai ancora visto la parte migliore! Dovrai chiedermi scusa in ginocchio».
«Oh, certamente. Stavo proprio per dirtelo, sai?» ribatto palesando la mia poca convinzione.
Ingrana la marcia e ripartiamo alla volta di questa misteriosa destinazione.
«Cosa devo fare con te, cosa?» sospira.
Prendila e portala a casa tua!
Arrossisco e non riesco a trovare una risposta decente, così decido di rimanere in silenzio e sembrare un po’ meno stupida. Jake continua a canticchiare per tutto il tempo ed io non posso fare a meno di chiedermi alcune cose.
Primo, chissà che idea si è fatto di me. Questa è una cosa che non trascurerei affatto perché magari pensa che io sia mentalmente disturbata e il pezzo forte a cui ha accennato è un manicomio…
Secondo, perché fa tutto questo. Voglio dire, chi è quello sconosciuto che invece di chiederti il risarcimento più o meno diretto per averlo messo sotto, ti porta invece a fare merenda e paga al posto tuo? Lo fa per me, per farmi vivere qualche ora in modo così surreale che, se dovessi ripensarci domani (cosa che farò sicuramente), mi farebbe esplodere il cervello? A quale scopo? Non sono neanche bella, poi. E sicuramente sfiguro ancora di più insieme a lui. Che sia forse la sua buona azione natalizia? Raccogliere una povera pazza dalla strada e distoglierla un po’ dalla sua monotona e triste vita? Mmm… Dovrò cercare di approfondire questo aspetto, dopo.
Terzo, e poi? Che si fa? Ci si rivede? Dovrei lasciargli il numero o fare in modo che lui mi lasci il suo?
E quarto, è legale avere un profilo così dannatamente perfetto? Se Jake fosse stato un pizzico più brutto, sarei riuscita a gestire meglio la situazione, ne sono sicura. Quegli occhioni non mi facilitano mica la cosa, eh. Non ricordo di aver mai faticato tanto, nemmeno in palestra.
L’auto frena all’improvviso e mi sporgo in avanti, involontariamente. Una scusa per non pensarci più, al momento. Do uno sguardo attorno e tutto quello che vedo è un grande palazzone (o forse è un grattacielo, visto che non riesco a vedere dove finisce) che si erge sopra di noi.
«Siamo arrivati?».
Jake spegne l’auto e anniusce. «Mulholland Drive, conosci? E’ la seconda strada più famosa della città e hanno pure girato un film in suo onore».
«Non conosco molto LA e non sono un’esperta di film e cinema, mi dispiace». Quanto sono capra.
Il ragazzo mi guarda e fa un’espressione strana; non so come definirla, è come se avesse finalmente capito qualcosa ed ha lo sguardo illuminato. Beh, forse è colpa del freddo che mi ha congelato il cervello. O forse sono completamente assuefatta.
Scendiamo e ci avviamo dentro l’edificio, su per le scale, quando un pensiero mi blocca e quasi non mi fa rotolare giù.
Beh, e anche se fosse?
Come sarebbe a dire? Non può portarmi a casa sua! No no no e ancora no! Categorico! Escluso! Che faccio? Che dico?  Che cosa mai…?
«Ti senti bene? Hai una faccia stravolta…» domanda e sembra sia davvero preoccupato. Anche se non oso immaginare cosa intenda per “stravolta”.
«No, è tutto a posto. Solo che… ehm… quanti piani mancano ancora?». Massì, buttiamola sul mio scarso allenamento fisico.
«Ci siamo quasi, e mi dispiace che non ci sia l’ascensore. Posso portarti in braccio se vuoi… ne sarei anche abbastanza contento» sghignazza.
Gli rivolgo una finta occhiataccia e salgo quei cinque gradini che bastano a farmi passare in vantaggio, senza nemmeno dire una parola.
«Testarda, la signorinella» commenta sarcastico.
«Pensavo l’avessi già capito».
Fa spallucce, sorride (in modo diabolico, aggiungerei) e annulla la poca distanza fra noi mettendosi al mio fianco. Mi guarda, piazzando i suoi begli occhi nei miei (Dio buono, questo è gioco sporco!) e mi cinge con delicatezza la vita con un braccio.
Cielo, no. E adesso che fa? Non sono pronta, mi coglie di sorpresa, non me l’aspettavo!
Sta’ zitta e smettila di farti tante paranoie. Da’ retta ai tuoi ormoni, cribbio!
Facile a dirsi, difficile a farsi. Sai che sono una paranoica incontrollabile che parla a vanvera quando è agitata e dice spesso cose insensate e non riesce a chiudere il becco anche se si rende conto di star dicendo solo un mucchio di stronz…
«Chiudi gli occhi» sussurra poco lontano dal mio orecchio.
«Perché?» gracchio a stento.
«Ti fidi di me?».
Esito. Mi fido di lui? Mi fido di uno sconosciuto? Riesco ancora a fidarmi di qualcuno, specie dell’altro sesso, dopo quello che ho passato? Dopo che qualcuno mi ha tradito nel peggiore dei modi?
«Sì».
We are the champions, my friends…!
L’ultima cosa che vedo è la sua espressione contenta, prima che mi metta la mano davanti agli occhi e si faccia tutto buio. Adesso capisco come si sentono le talpe, poverine.
«Non voglio rovinarti la sorpresa» spiega con semplicità mentre inizia a farmi salire.
«Forse dovrei dirti che il mio equilibrio non è esattamente come quello dei funamboli, se è questo che ti aspetti».
Ridacchia e stringe la presa intorno ai miei fianchi. «Così va meglio?».
Se avessimo più confidenza, gliene direi veramente tante. Questa faccia da schiaffi mi stuzzica in tutti i modi.
«Sai, credo che la parola “tremendo” sia un po’ riduttiva nei tuoi confronti…» dico, sorprendendomi a ridere.
«Addirittura riduttiva? Siamo arrivati a questo ora?».
«Te la sei cercata».
«E insisti pure? Sei coraggiosa e metterti contro un uomo che ti tiene praticamente immobilizzata. Non volevo proprio arrivare a questo, l’avrei volentieri evitato, ma così mi costringi a farlo…».
«Coraggiosa è il soprannome con cui mi chiamano gli amici e… Jake… Jake… Jake, no! Mettimi giù! Ora, subito, immediatamente, all’istante!».
Che gran brutta sensazione quella di non toccare terra e saperti sollevata su per delle scale da cui potresti cadere da un momento all’altro; non la auguro proprio a nessuno. Non scalcio perché ho paura che potrei fargli male e perché non voglio ripercorrere i piani saliti finora rotolando all’indietro, quindi tutto quello che mi resta da fare è cercare di convincerlo. Cosa che non mi riesce affatto bene.
«Basta, mi arrendo. E’ un’ernia al disco quella che vuoi? E un’ernia al disco avrai!» minaccio.
Finalmente mi mette giù e mi toglie anche la mano dagli occhi.
Ma quella sul fianco è rimasta.
Me ne sono accorta e devo ammettere che non mi dispiace.
«Sicuro che sia io la testarda?».
Non risponde e fa cenno col capo alla porta accanto a noi. «Aprila».
Gli rivolgo un’occhiata dubbiosa, mi sfrego le mani per cercare di scaldarle un po’ e spingo la maniglia. Una folata di vento mi prende in pieno, ma non ci faccio molto caso: sono senza parole per lo spettacolo che ho davanti agli occhi.
Jake sembra molto più che soddisfatto, annuisce e mi invita ad uscire. La terrazza non è un granché, ma poco importa perché il panorama che offre è sicuramente cento volte migliore. Mi avvicino al parapetto e inspiro a fondo: tutta Los Angeles è esattamente sotto i miei piedi. Riesco a vedere gli estremi della città, i suoi enormi grattacieli, tutta la miriade di luci che la illumina quasi come fosse giorno ed è una sensazione fantastica. Non so per quanto tempo sia rimasta in contemplazione prima che mi accorgessi di Jake accanto a me.
«Hai vinto, non pensavo che potesse essere così bella» sussurro.
«E’ bello sentirtelo dire».
Rido. «Sapevi che sarebbe andata così. Molto bravo, molto bravo; conosci benissimo la tua città. E hai avuto fortuna nell’indovinare le cose che mi piacciono».
«No, qui sbagli. Non ho avuto fortuna: ti ho conosciuta. – replica indicando prima se stesso e poi me – Insomma, queste sono le tipiche cose che piacciono ad una ragazza che ama la torta al cioccolato».
Non capisco il nesso tra un bel panorama e una fetta di torta, ma non ho il tempo di chiederglielo che prosegue.
«Sono riuscito a farti cambiare idea sulla mia città e ne sono contento, ma adesso devi dirmi che ne pensi degli abitanti».
«Non ho una vita sociale per niente attiva, anzi, non ho una vita sociale e basta, quindi non so… e poi considera che Gene era di queste di parti e non ho una bella opinione di lui…».
«Mmm, su questo hai ragione. – corruga la fronte e si massaggia il mento, prima di avere l’illuminazione – Allora cambiamo domanda: che pensi di me?».
Vuole davvero vedermi soffrire, eh? Si può essere più faccia tosta di così, si può?
Le mie guance si rifiutano di arrossire ancora: per oggi hanno fatto abbastanza, e forse anche un po’ di più. Distolgo lo sguardo (è meglio evitare attacchi improvvisi di dislessia, impappinamento e iperventilazione) e mi rivolgo alle stelle sopra di noi.
Restiamo in silenzio per qualche minuto e Jake non mi fa pressioni di alcun tipo, ma so per certo che muore dalla voglia di sapere che idea mi sia fatta sul suo conto. E una risposta devo dargliela, mi sembra chiaro. Ma il punto è: cosa rispondergli? La domanda mi sembra parecchio affrettata e non vorrei sembrare troppo banale o superficiale… Voglio dire, sicuramente sa di essere tanto bravo quanto bello e non c’è bisogno che io glielo ripeta, passando per un’insulsa bimbetta starnazzante.
«Sto ancora aspettando…» canticchia dopo un po’, come se non gli importasse nulla.
Gli do una lieve gomitata sul fianco e lo ammonisco: «Le donne vanno sempre aspettate, non importa quanto».
«Beh, dovrei presentarti mio cugino Steve; è stato lasciato all’altare dalla sua ragazza…» propone massaggiandosi il mento con fare pensieroso.
«Ma non intendevo in quel modo!» rido.
«E in che modo intendevi allora?».
«Hai capito».
«Invece no».
«Pensaci, ti reputo abbastanza intelligente per arrivarci da solo».
Jake batte le mani ed esclama uno Ah-ah! tutto soddisfatto.
«Uhm, mi sa che mi sono persa qualcosa…» ammetto un po’ confusa.
«Sono riuscito a spillarti un primo giudizio: hai detto che mi reputi intelligente» spiega con una certa nota da saccente.
«Odio questi giochetti» sbuffo, ma finge di non sentirmi e prosegue.
«E adesso dimmi, che lavoro faccio?» chiede. Il suo tono ora è tranquillo, ma c’è qualcosa nel suo sguardo che, non so, mi dà come l’impressione che sia curioso, eccitato e ansioso di sapere la mia risposta. Risposta che però non ha alcun fondamento logico, perché non ho idea di che mestiere svolga e tutto quello che sto per fare è cercare di indovinare e, magari, sperare anche di avere ragione.
Lo scruto dall’alto in basso e dal basso all’alto, per dargli l’impressione di essere una persona sveglia che valuta bene prima di esporsi e poi dico: «Meccanico?».
Per un attimo di credo davvero, non so perché, ma ha il viso di chi potrebbe fare il meccanico. Però poi la sua lieve ed educata risata (quando invece io potrei anche averlo offeso a morte con quello che gli ho appena detto!) fa crollare quel fragile muro di certezze e mi accorgo di aver fatto un sonoro buco nell’acqua, in Dolby Surround, per essere completi.
«Ci tengo a sottolineare che non ti sto paragonando a un buzzurro, che potrei anche essere multi laureato senza che io lo sappia e che pure i meccanici hanno una loro dignità» tento debolmente di giustificarmi per la cazzata appena sfornata.
«Eri in una buona fede, non lo nego, così come non ti contraddico quando dici che anche i meccanici hanno una loro dignità… ma no, non lo sono. Ritenta e sarai più fortunata».
Okay, stavolta mi sento di dargli una laurea in mano.
«Docente! – esclamo con convinzione – Di Letteratura!».
Jake sorride e scuote la testa. «Ultimo tentativo».
«Ti sto offendendo di brutto, me lo sento».
«No, mi sto divertendo invece».
Sempre buono e gentile. Uff.
«A questo punto penso che tu sia un genio e che lavori per qualche grande compagnia. Che so, magari lavori alla Apple, o sei un ingegnere aerospaziale, oppure sei un ricercatore famosissimo con tanti Nobel alle spalle…».
Sì, con me non esistono le mezze misure.
«No, Nobel non proprio… anche perché non esistono per la mia categoria… cioè sì, ma si chiamano in un altro modo…».
Ecco, ora sono confusa e non capisco dove mi voglia far arrivare. Non sono mai stata una mente eccelsa e il freddo ha anche congelato l’ultimo neurone superstite, quindi credo che potrei restare così a lungo, battendo le ciglia in modo svampito per fargli capire di non avere idea di cosa lui stia cercando di dirmi.
Sospira piano e una nuvoletta si disperde velocemente nell’aria. «Sono un attore. – dice infine – Non so se hai presente il genere, però, visto che sembri vivere fuori dal mondo».
Non so se stia facendo il simpatico o se mi stia prendendo per in fondelli, ma al momento non me ne preoccupo perché sto pensando ad altro. Effettivamente incarna bene l’ideale dell’attore: alto, attraente, fisico statuario… Già.
«Dici sul serio?».
«Sì».
«Cinema o teatro?».
«Cinema».
Lo scruto bene; nella mia scarsa conoscenza in materia cinematografica, chissà, magari l’ho visto da qualche parte. Mi concentro bene sul suo viso, sul suo sguardo, sul profilo del naso e sulle labbra. Ho già detto che somiglia a qualcuno che conosco?
Sì, a quell’idiota di tuo cugino.
Ecco, grazie.
«Trovato niente?» s’informa divertito.
Rammaricata, faccio spallucce. «Spiacente».
«Mmm, vediamo… Amore & Altri Rimedi ti dice niente?».
Vuoto.
«No…».
«Prince of Persia?».
Ancora peggio.
«Nemmeno…».
«The Good Girl? Zodiac? I segreti di Brokeback Mountain?».
«Aspetta! – lo fermo, alzando subito una mano – Questo lo conosco!».
Jake esclama qualcosa e poi mi batte il cinque, mentre io continuo a fissarlo, un po’ imbarazzata a frastornata.
«Dio, quanto ho pianto con quel film… Siete stati fantastici, e mi dispiace per…».
«Heath» mormora.
«Sì, Heath. E… Cielo, no».
«Cielo no, cosa?» ridacchia.
«Tu sei lo stupido ragazzino di Bubble Boy!».
No, non l’ho detto. Certo che non l’ho fatto, non potrei mai aver dato dello stupido ad un figo del genere, una persona ancora più gentile di quanto sia bella, un attore hollywoodiano che tutto il mondo (me inclusa, anche se poco) conosce.
«Avevo intuito che non ti saresti strappata i capelli e non avresti urlato, pianto, o fatto altre scenate del genere, ma non pensavo che mi avresti definito come lo stupido ragazzino di Bubble Boy, devo ammetterlo».
Perché ride? Dovrebbe prendermi a sprangate, abbandonarmi lì, spingermi di sotto, che ne so?
«Però va bene così, sul serio. E’ bello non essere riconosciuti ed essere presi in giro, ogni tanto. E poi in quel film recitavo la parte del perfetto idiota, quindi non c’è problema, sta’ tranquilla».
«Ma davvero, Jake, perché hai deciso di sprecare una giornata passandola con me?». Teoricamente, questa domanda sarebbe dovuta restare sotto forma di pensiero; praticamente, me la sono lasciata sfuggire.
«Non è una giornata sprecata. Se avessi intuito che sarebbe andata come dici tu, pensi che ti avrei portata qui? O che mi sarei intrattenuto con te, prima,  in caffetteria? No. Ma mi sto divertendo e mi fa piacere spezzare la monotonia e poter parlare con qualcuno lontano dai media, ecco» spiega prima di slanciarsi e sedersi sopra il cornicione, girandosi e sistemandosi con i piedi penzoloni. Mi tende una mano e mi aiuta a salire, cosa che cerco di fare senza pensare all’altezza a cui ci troviamo. Sì, sono masochista e folle.
«Soffri di vertigini?».
«No, ma… la strada è parecchio sotto».
«Non pensarci, guarda in alto: magari vediamo passare Babbo Natale a bordo della sua slitta».
«Certo come no. – rido – E comunque ti sbagli, lui non esce mai prima della Vigilia».
«Elfo saputello... Cavolo, mi sembra di essere tornato bambino; senti che discorsi facciamo!».
«Ogni tanto fa bene comportarsi da idioti, no?».
«Sicuro, ma questo vale anche per uno che sta per compiere trentadue anni?».
«Trentadue anni? Quando?» domando sorpresa.
Lancia una veloce occhiata all’orologio che porta al polso. «Uhm… tra quattro ore, più o meno. Hai fretta?» s’informa raggiante, con un sorriso.
«Beh, stasera danno Miracolo sulla 34esima Strada… ma credo che non mi dispiacerà perdermelo per farti gli auguri» rispondo con finto disinteresse.
E poi succede una cosa strana. Una di quelle cose che ti fanno sentire le farfalle allo stomaco, che ti fanno tremare la gambe e che ti catapultano fuori dal tempo e dallo spazio, facendoti dimenticare di trovarti a chissà quanti metri da terra, seduta su un cornicione con una persona che conosci solo da un pomeriggio, infreddolita e immersa nel buio.
Insomma sì, mi bacia. Velocemente, a fior di labbra e anche con un pizzico di imbarazzo, oserei dire, ma basta a mandarmi il cervello in tilt per chissà quanto. Poi sorride, strofina il suo naso contro il mio, mi cinge di nuovo i fianchi con il braccio e poggia la testa sulla mia spalla.
Potrei morire d’infarto, non scherzo.
D’istinto, gli carezzo i capelli fino a lasciare la mia mano poggiata sulla sua spalla, piego il capo in modo da appoggiarlo contro il suo e torno a fissare la stelle.
«Se è così non dovremmo avere alcun problema» osserva stringendomi per un attimo.
«Pare proprio di no».
«Guardi spesso il cielo?».
«Sì, anche se lo facevo di più quando vivevo in Scozia e anche se ho sempre preferito ammirarlo la notte piuttosto che durante il giorno».
«Animo romantico, eh?» ride piano.
«Forse, e tu?».
«Sono nelle tue stesse condizioni».
«Una volta ho letto di qualcuno che diceva che la notte non è meno meravigliosa del giorno perché di notte risplendono le stelle, e si hanno rivelazioni che il giorno ignora».
«Parole sante».
Sorrido. «Beh, tu sei già una stella».
«Io penso che le persone siano un po’ simili alle stelle: magari brillano lontane, ma brillano, e hanno sempre qualcosa di interessante da raccontare» replica.
«D’accordo, ma io non penso di essere così interessante come dici».
Altro che autostima di prima mattina, io sono un caso di pessimismo disperato.
Jake solleva il capo e mi fissa con i suoi occhi azzurro cielo di primavera, per restare in tema.
Ah, l’amore… Ti fa dire le cose più stupide dell’universo!
«Smettila di essere così dura con te stessa, non è buono per la tua salute. E poi sei di gran lunga migliore di molte persone che conosco. E sono serio, quindi non replicare» aggiunge vedendomi aprire bocca per ribattere.
Alzo le mani in segno di resa. «Va bene, sto zitta».
«Ecco, così va bene. Fai comandare l’uomo» ridacchia.
«Sai di star parlando con una femminista convinta, vero?» lo ammonisco non smettendo di ridere.
 
Il tempo che resta lo passiamo a chiacchierare come se ci conoscessimo da sempre, anche se adesso è lui a prendere più spesso parola e a raccontarmi qualche aneddoto della sua vita, sia privata che pubblica. Anche se è un attore, il primo giudizio che ho avuto su di lui non è stato sbagliato: una persona tranquilla, umile, con i piedi per terra, un attivista che preferisce andare a trovare sua sorella piuttosto che recarsi a qualche festa esclusiva, ma soprattutto, una persona che, come la sottoscritta, ha patito le pene dell’inferno in materia sentimentale. Improvvisamente mi rendo conto del fatto che non siamo poi così diversi come magari avrei immaginato. In più, ho deciso che da domani inizierò la mia personale caccia alla ricerca di tutti i film in cui ha recitato finora, anche quelli in cui è stato una semplice comparsa.
Tuttavia, il tempo continua a trascorrere e sembra addirittura travolgerci nella sua velocità: la mezzanotte arriva e va subito via, la luna è più alta in cielo, ogni minuto porta con sé il presagio della fine. E’ così che mi ritrovo in macchina, davanti al portone dell’immenso palazzo su cui sta in cima il suo attico, a lottare con il nodo che mi si forma nella gola.
«Quindi abiti qui?».
«Già».
Mi guardo intorno. «E i paparazzi lo sanno?».
«Cerco di evitarlo» risponde, ma poi si blocca e dalla sua espressione imbarazzata capisco che vorrebbe aggiungere qualcos’altro, anche se non sembra essere intenzionato a farlo.
«Beh, peccato sia buio ed io non riesca ancora a muovermi dentro questo labirinto di città…».
Mi sorride, grato, e stringe la presa intorno alla mia mano.
«E’ stato bello, oggi» sussurra avvicinandosi.
No, i saluti no. Non sono pronta, non voglio, non mi va!
Lo sapevi.
Sì che lo sapevo, ma… è difficile, ecco.
«Anche per me, Jake. Sei una persona eccezionale e sono felice di averti conosciuto, anche se…».
«Anche se?».
«Uhm. Diciamo che avrei volentieri evitato di metterti sotto».
Ride (a pochi centimetri dalle mie labbra, per essere pignoli). «Insisti ancora con questa storia? Dimmi cosa farai per Natale, piuttosto».
Non ci ho ancora pensato, ma la domanda non lascia molto spazio all’inventiva. «Credo che resterò a casa, a mangiare popcorn mentre guarderò Donnie Darko. – ammicco – E tu?».
«Penso che raggiungerò la mia famiglia a New York. Sai com’è, le nipoti mi reclamano…».
«Che carine» commento con dolcezza. Immagino lo siano davvero.
«Secondo me, ti piacerebbero. E tu piaceresti a loro».
Certo che così il ragazzo non è per niente d’aiuto.
Le sue labbra tornano di nuovo sulle mie, ma stavolta non si limitano a star solamente premute contro.
Interrompo quel bacio per una frazione di secondo, anche se sono perfettamente a conoscenza di essere sul punto di fare una domanda così idiota, ma così idiota, che sicuramente mi vergognerò subito dopo aver richiuso bocca. «Pensi che potremmo vederci un’altra volta?».
Jake sorride, torna a baciarmi come prima, con calma e tenerezza, e quando finisce risponde: «Lo spero».
E tutto finisce. Mi carezza una guancia, stiamo un po’ a fissarci occhi negli occhi e poi va via.
«Buon Natale e felice anno!» esclama un attimo prima di sparire oltre il portone.
«Anche a te, e ancora auguri di buon compleanno!».
Fa un inchino, saluta con un gesto della mano e scompare dalla mia vi(s)ta.
Lo penserai ancora.
Certo che lo farò, su questo non ci piove; però non credo che racconterò a qualcuno di questa surreale giornata. Preferisco tenerla per me e ricordarla senza storpiature, nella sua semplice perfezione.
Sì, al momento ho attivato la modalità zucchero&miele e ho la sensazione che me la porterò dentro per un po’.
Avevo proprio bisogno di una persona come Jake, oggi.
Ma credo sia meglio per tutta la comunità che io cerchi di imparare quanto prima a guidare con il volante dal lato sinistro.
 

22 Dicembre 2012

 
«Chaneu! – mi chiama Scott, appena rientrato a casa – C’è una lettera per te».
«Una lettera? Da parte di chi?» domando sorpresa. Non ricevo lettere da secoli e mi sembra anche difficile credere che ci sia ancora qualcuno che ne scriva, visto i miracoli della tecnologia al giorno d’oggi.
Il mio coinquilino (altrettanto stupito) fa il suo ingresso in cucina rigirandosi la busta tra le dita. «Non lo so, non c’è nessun indirizzo e pure nessun nome, a parte il tuo».
Prendo la busta azzurrina e la apro. Sto per iniziare a leggere, quando mi accorgo che Scott ha preso posto proprio accanto a me.
«Che fai, sbirci?» ridacchio.
«Gli affari tuoi sono anche affari miei, visto che viviamo sotto lo stesso tetto».
Alzo gli occhi al cielo e decido di non rispondere; avvicino il foglio in modo che possa vederlo meglio e inizio a leggere, in silenzio.
 
Per quel che so di te, penso che non ti sarà difficile capire chi è che ti scrive. Sbaglio?
Avrei voluto dirti tantissime altre cose, l’altra sera in terrazza, ma a volte le parole mancano anche a chi svolge un mestiere come il mio. Magari ti stai chiedendo perché non ho riciclato qualche frase: beh, non sono il tipo.
Comunque sia, sto divagando.
Se stai leggendo questa lettera, vuol dire che il mondo non è finito e che quindi io avevo ragione e tu no. Mi devi una birra per questo, sappilo. Quindi, una volta terminato qui, potrei sempre venire a trovarti lì, al Circolo Polare Artico, in Lapponia, a Inverness o dove ti pare.
Spero che il regalo ti piaccia, te lo meriti.
Sempre felice di averti incontrata,
JG
 
P.S.: Zia May ha espresso il suo giudizio. Dice che sarebbe disposta a prepararti altre torte.

 
Sto letteralmente andando a fuoco. Le mani mi tremano e impiego un po’ ad estrarre ciò che era rimasto dentro la busta.
No, non è vero.
Se è un sogno svegliatemi adesso, per favore, perché non voglio restarci troppo male.
Ho come l’impressione che invece sia tutto vero, Chan!
Batto le palpebre più di una volta, ma i biglietti stanno sempre lì: Los Angeles-New York, New York-Londra, prima classe, entrambi prenotati per domani.
Sento gli occhi bruciare mentre Scott, tra il felice e il malizioso, domanda: «Chi è JG?».
Le lacrime iniziano a scorrermi giù per le guance e la voce si spezza.
«Un amico».
 

 Silent Night, Holy Night...

E se siete arrivati qui, complimenti vivissimi!
Ammetto che questo mattone è davvero difficile da mandare giù...
Comunque sia, ho alcuni ringrazimenti da fare:
a Sara, Costanza, Manuela e Francesca (la donna che porterò a Inverness), che mi hanno sopportata per tutto il tempo di stesura di questa storia (che, per la cronaca, va avanti da metà Novembre...),
ai Take That, che mi hanno fornito più di uno spunto,
ad Alessandro D'Avenia e Gianni Rodari,
e poi a lui, perchè sì, senza di lui questa storia non ci sarebbe stata e avrei fatto a tutti un favore LOL 
Detto ciò, ecco qui i link delle storie che vi prego di leggere u.u
Just fall in love with me this Christmas
di Cocchi, One upon a time... On a Christmas Eve di LaNonnina e One night by chance di maccioccafrancesca.

Ed è tutto gente! Lo strazio è finito! :D
Vi auguro di passare delle buone feste,


A.
didi Ju



 
 
 




  
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