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Autore: Deirbhile    20/12/2012    1 recensioni
Storia seconda classificata al contest "Descrivi il tuo vicino di banco", indetto da Whathashappened
Dalla storia:
"Potevo capitare vicino a Michela, solare e intelligente brunetta seduta al primo banco, [...] o magari vicino a Vincenzo, il pagliaccio della classe che- dopo me ovviamente!- era il pallino fisso dei professori o persino vicino a Renza, [...] silenziosa e sensibile cultrice di musica indie. O vicino a Gianni il tenebroso, oppure a Marta, la nipote della prof di storia dell’arte. Insomma, quel cambio non sarebbe stato così terribile, dopotutto mi bastava solo un po’ di fortuna nell’azzeccare il compagno giusto. E quando mai io avevo avuto fortuna?"
Genere: Comico, Commedia | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Avete presente quelle giornate scolastiche così terribilmente frustranti da portarti all’esasperazione totale, in cui nemmeno il sole alto nel cielo e gli uccellini che cinguettano possono tirarti su di morale

N.B.: La storia è stata scritta con l’ampio consenso della persona qui citata, ovviamente sotto nome diverso. Quindi enjoy, aspetto numerose recensioni J

 

 

 

 

Avete presente quelle giornate scolastiche così terribilmente frustranti da portarti all’esasperazione totale, in cui nemmeno il sole alto nel cielo e gli uccellini che cinguettano possono tirarti su di morale? Quelle giornate in cui il tuo nuovo prof di filosofia sceglie proprio te per cominciare il primo giro di interrogazioni, e magari- proprio per puro caso, eh!- la prof di fisica ha la stessa geniale pensata e tu non puoi fare altro che urlare interiormente “Perché ce l’hai con me?”  con le mani giunte e il viso drammaticamente rivolto verso il gran burlone che da lassù ci incasina la vita? Giornate in cui, per giunta, non hai nemmeno abbastanza spiccioli per comprarti un caffè acquoso alla macchinetta e il tuo stomaco gorgoglia come un tubo intasato. Proprio in un giorno del genere io, povera nerd liceale già troppo stressata e vittima di costanti agguati da parte dei professori, raggiunsi l'apice dell'isteria con un livello di surriscaldamento della calotta cranica mai raggiunta fino ad allora. Tutta colpa della prof di latino. Colpa sua e del suo simpaticissimo esperimento.

Ero appunto giunta a scuola, quasi per miracolo a dir la verità, in quanto quella mattina il vento della fortuna proprio non soffiava in poppa e mi ero alzata in ritardo, quando, dopo essermi beccata una sonora strigliata dalla Cobaldi, venni a conoscenza del suo maligno progetto. Collassata sul mio banco in fondo alla classe, vicino al caro vecchio Antimo, compagno di banco dal primo anno, alzai di scatto la testa ad una frase piuttosto ambigua. Non ero sicura di aver recepito bene il contenuto dell’ennesimo sermone della prof, anche perché a quell'ora il mio cervello funzionava ad intermittenza, ma mi era parso di sentire qualcosa che suonava come "oggi cambiamo tutti compagno di banco!"

-Cosa!?- esclamai shockata, alzandomi ritta sullo schienale e puntando i miei occhi gonfi dal sonno in quelli della Cobaldi

-Hai capito bene, Marianna, ho pensato che cambiarvi di posto e mescolarvi sia una bella occasione per smuovere l'andamento sonnolento della classe- ribatté piccata la donnina. Quella strega incarognita! Aveva davvero osato mettere in discussione la mia sedentarietà?

-Porca miseria, questa oggi la uccido, Anti- mormorai a bassa voce ad Antimo, acquattandomi dietro il mio astuccio in posizione strategica. 

-Andiamo, perché la fai tanto difficile? Ritieniti fortunata, almeno oggi non ha intenzione di interrogarti- bofonchiò il biondino, lanciandomi un'occhiata perplessa. 

-Non ho intenzione di muovermi da qui!- sussurrai istericamente, ancorandomi al banco spruzzato di inchiostro rosso e nero e decorato da fitti motivi floreali, frutto di un lavoro durato quasi tre anni. 

-Marianna, per favore, smettila di protestare. Faremo un sorteggio, è deciso. Su, vieni qui a pescare un bigliettino, sei la prima- mi richiamò la prof, invitandomi a dare inizio a quel sorteggio improvvisato con una dozzina di bigliettini di carta mescolati insieme nell’astuccio di Marco. 

-Lo vedi, trovano sempre il modo di chiamarmi!- protestai, intestardita, per poi dirigermi alla cattedra a tentare la sorte. Il mio umore era nero che nemmeno il cielo prima dell’esplosione del Big Bang e in classe regnava una suspense degna del miglior film giallo. Potevo quasi sentire la musichetta di sottofondo che in ogni mistero che si rispetti rende l’atmosfera ancora più dannosa per il sistema nervoso del povero malcapitato.

Infilai scocciata la mano nell’astuccio e chiusi gli occhi per qualche secondo, con la lingua fra i denti, cercando di ricordarmi qualche preghiera imparata secoli prima al catechismo, nella speranza di essere ascoltata da qualche entità superiore e non capitare vicino a qualcuno di insopportabile. Potevo capitare vicino a Michela, solare e intelligente brunetta seduta al primo banco, dalla quale copiavo sempre i compiti di algebra, o magari vicino a Vincenzo, il pagliaccio della classe che- dopo me ovviamente!- era il pallino fisso dei professori o persino vicino a Renza, quella con cui forse avevo legato di più in quegli anni, silenziosa e sensibile cultrice di musica indie. O vicino a Gianni il tenebroso, oppure a Marta, la nipote della prof di storia dell’arte. Insomma, Antimo aveva ragione. Quel cambio non sarebbe stato così terribile, dopotutto mi bastava solo un po’ di fortuna nell’azzeccare il compagno giusto. E quando mai io ero stata fortunata?

Con questi pensieri, girai più volte attorno ai pezzetti di carta con le dita, senza prenderne uno, per poi, fulminata com’ero dallo sguardo torvo della Cobaldi che sembrava voler dire “sei sempre la solita perdi tempo”, afferrarne uno e tirarlo fuori con decisione. Inutile dire che in quel momento mi sentivo come Harry Potter alla prima prova del Torneo Tremaghi, una volta aver tirato fuori dal sacchetto la piccola riproduzione dell’Ungaro Spinato e aver capito di essere praticamente fottuto. Dopo aver infatti aperto il foglietto e aver letto il nome contenuto, Giulia Taccone, scritto in lettere così chiare da non lasciare nemmeno la speranza di aver letto male, mi uscì spontaneo uno sbuffo. Giulia Taccone era, e per certi versi è ancora, anche se ora il mio parere su di lei non è più così severo, il prototipo di ragazzina viziata e gonfiata tipica di ogni piccolo liceo di provincia. A sedici anni e mezzo vantava di aver avuto un numero così alto di fidanzati a detta sua strafighissimi da superare persino il numero di debiti che avevo dovuto recuperare al primo quadrimestre del quarto ginnasio. Con atteggiamenti degni di una gangster di periferia aveva subito, fin dal primo giorno, marcato il confine fra lei e le sue amichette popolari e ben truccate e quelli come me, squattrinati studenti con interessi fuori dalla norma come i fumetti e i libri fantasy. Inutile fare un excursus sugli avvenimenti delle precedenti puntate, in cui la suddetta Giulia aveva insultato le mie fantastiche ciocche color magenta e definito il “Signore degli Anelli”, praticamente la mia bibbia personale, un libro orrido e noioso che parla di cose maledettamente all’antica. Si è capita, spero, l’indole della mia neo-compagna di banco e per questo, potrete ben comprendere il mio stato di tumultuosa indignazione nel vedermi assegnato per il resto dell’anno scolastico, ahimé ancora lungo, un tale impiastro.

-Prof, mi è uscita la Taccone-  borbottai, senza timore di far trasparire il mio fastidio. Era risaputa l’ostilità fra la reginetta del liceo e la paladina degli sfigati.

-Perfetto! Giulia passa al posto di Antimo e avanti con il prossimo!- gongolò evidentemente soddisfatta la Cobaldi, con l’irritante espressione di chi ha visto realizzarsi  uno dei suoi scherzi migliori. Ero sicura che in quel momento mi uscisse del fumo dalle narici.

-Ci sarà proprio da divertirsi- dissi cupa, arrendendomi ormai al fatto che la prof non sarebbe tornata sulla decisione e lanciando uno sguardo davvero poco felice ad Antimo, che esultava per essersi finalmente liberato di una rottura come me. Che traditore!

Mi lasciai di nuovo cadere sulla sedia, contenta almeno di non aver cambiato banco, visto che il mio era provvisto di appositi buchi dove nascondere bigliettini nel caso di compiti a sorpresa (dovevo pur ingegnarmi visto che la mia fortuna in fatto di verifiche era proverbiale!) e lasciai che si accomodasse anche Giulia, indicandole il posto con un gesto ironicamente galante, il tutto accompagnato da un sorrisino di sfida.

Dopo che la Cobaldi ebbe attuato il più grande cambiamento logistico nell’intera storia della Q, cambiamento che probabilmente avrebbe portato di lì a cinque giorni ad un attacco isterico collettivo tanto erano ben combinate le coppie, passò a ciò che più diverte e svaga la mente perversa degli insegnanti: le interrogazioni.

-Bianchini, interrogata- mi chiamò. E ancora una volta la mia leggendaria fortuna fu dalla mia parte.

Tralasciando l’esito alquanto tragico di quell’interrogazione, e di quella successiva, visto che anche il prof di biologia mi aveva designato come vittima sacrificale, all’ultima ora di quel maledetto dieci novembre mi ritrovai stesa sul banco, in stato quanto mai semi-comatoso, a pormi confusamente domande circa il mio essere bersaglio di qualunque cosa in questo stramaledetto universo. Giulia, che mi osservava quasi con disgusto come se fossi un tricheco arenato chissà come su una spiaggia dei Carabi, se ne stava rannicchiata dalla parte opposta del banco, con le sue cose sistemate in modo maniacale il più lontano possibile da me e dalla mia sfiga.

-Ci mancava solo questo- brontolai esausta, riferendomi alla situazione tragicamente comica.

-Non è colpa mia- obiettò subito Giulia, con quel suo molesto tono da figlia di papà abituata ad avere tutto e subito ciò che voleva.

- Non volevo trascinarti in tutto questo con la mia sfortuna- piagnucolai. Le mie difese si erano notevolmente abbassate dopo quattro ore di pressanti stimolazioni intellettuali, tanto da non avere nemmeno più la forza o la fantasia per sparare a raffica battutine sagaci nei confronti della Taccone.

-E’ capitato- alzò le spalle lei, scuotendosi poi i suoi boccoli biondi con superiorità. Socchiusi un occhio per scrutare il suo viso.

-Facciamo così, non dobbiamo parlarci per forza. In fondo sono solo quattro o cinque ore al giorno tranne il fine settimana fino a giugno, per un totale di circa… un trilione di ore- mugugnai, levandomi a sedere. Giulia mi osservò seria, annuendo.

-Si, si può fare- asserì, per poi restare in silenzio per il resto dell’ora di inglese.

Quella, strano a dirsi, fu la prima conversazione civile fra me e Giulia, senza una parolaccia o un gestaccio, insomma un piccolo spiraglio di speranza che presagiva un futuro anno scolastico non eccessivamente funesto né con probabilità di tentato omicidio per avvelenamento di caffè o brioche.

L’armistizio, se così si poteva definire quella situazione di auto-gestito silenzio interrotto solo per motivi didattici, durò senza problemi fino ad una strana giornata di gennaio, più strana persino di quel dieci novembre che ci vide accoppiate e che mi rivelò, come un’epifania degna di un racconto di James Joyce, un aspetto della personalità di Giulia che fino ad allora avevo sempre ignorato.

Anche quella mattina, probabilmente più intontita del solito dal freddo invernale e dalla nevicata che si era abbattuta sul nostro paesello a ridosso degli Appennini, giunsi in classe in ritardo, giustificandomi con il prof di filosofia dicendo di aver perso il pullman e di aver dovuto percorrere a piedi l’intera strada coperta da un metro di neve nelle mie modeste converse consunte. Impietosito dal mio faccino congelato, il prof almeno per quella mattina mi lasciò stare tranquilla a crogiolarmi nel caldo cantuccio del mio banco isolato.

Mi sistemai come da rituale, affondando la faccia nella mia pesante sciarpa fatta a maglia e stavo proprio per recuperare un po’ di sonno perduto a causa della maratona diGrey’s Anatomy” della notte precedente, quando Giulia mi diede uno scossone alquanto violento.

-Si può sapere che vuoi?- le sibilai, assottigliando gli occhi come un serpente. Mai disturbare Marianna Bianchini mentre dorme! Un po’ come “Draco dormiens numquam titillandum”.

-Nulla, io… volevo solo chiederti una cosa- mormorò dispiaciuta, guardandomi tutt’ad un tratto con un paio di occhioni da cucciolo spaesato. Giulia Taccone non era mica conosciuta per essere una ragazza che chiedeva aiuto, tanto meno con un’espressione arrendevole del genere.

-Dimmi- acconsentii, in modo più calmo.

- Cosa faresti se il ragazzo che ami non solo non ricambia, ma sta con te solo per usarti?- pigolò. Dai suoi occhi sembrava stesse per piangere ed io mi sentii molto a disagio. L’aver passato la maggior parte della mia infanzia e adolescenza a contatto con i maschi mi aveva resa priva di tatto esattamente come loro e soprattutto poco avvezza a tematiche sentimentali di questo tipo. Mi sfregai le mani, imbarazzata.

-Io… vedi, non sono la persona adatta a cui chiedere. Ho avuto a malapena un ragazzo e l’ho mollato dopo tre mesi perché me ne ero stufata e ho trattato male per anni quello che mi interessava davvero- spiegai concitata, alludendo prima al mio ex ragazzo, il povero Alessandro, e poi all’unico ragazzo di cui ancora ero un po’ innamorata, uno dei miei migliori amici, Edoardo. A Giulia però quella giustificazione non bastò e, mentre il prof ci esponeva non so quale strana teoria di uno dei suoi filosofi pazzi, mi guardò ancora con quello sguardo disperato.

-Oddio, okay… smettila, cominci a farmi paura. Perché non ne parli con le tue amiche?- le domandai, sincera. Lei sembrò prenderla come un rifiuto di aiutare sua maestà e mi incenerì con un’occhiataccia.

-Perché non posso fare la figura delle scema davanti a loro… ma che ne vuoi sapere tu- sbuffò, allungando la schiena sullo schienale della sedia.

-Sarebbe meglio continuare con il silenzio, credo- dissi a quel punto, irritata e sul punto di mollarle un ceffone. Mi scrutò, enigmatica.

-Scusa, non volevo dire quello, è solo che per me è una situazione nuova e sono così disorientata che mi fa paura parlarne con le mie amiche, ho paura che mi giudichino una…-

-Sfigata?- tentai io a quel punto, allargando le braccia e indicandomi. E fu la sola volta in cui azzeccai una risposta in tutta la mia vita scolastica e non. Non ero particolarmente arguta, come potete bene capire.

-Si, esattamente. Allora, cosa faresti?- mi domandò di nuovo, trepidante.

-Uhm… vediamo… direi che lo lascerei perdere. Già, lo lascerei perdere perché non vale la pena soffrire per uno che non si fa scrupoli a portarmi in giro come un trofeo utile solo al suo ego e perché ho una dignità, al di là di quanto lo possa amare.Chiaro?- snocciolai, nel blando tentativo di esserle di conforto. Lei alzò il capo e la lacrima solitaria che le solcò il viso fu sostituita per una frazione di secondo da un sorrisino riconoscente e sollevato.

-Tu meriti di più- la rincuorai ancora, mettendole una mano sul braccio per farle coraggio. E lo pensavo davvero. Non ero una persona brillante né una grande ascoltatrice, ma potevo dire di sentire bene le persone. Di capirle al volo. E quella mattina avevo sentito che in Giulia c’era molto di più di quello che voleva dare a vedere, che si, sicuramente aveva un caratteraccio ed era la peggiore compagna di banco in cui potessi sperare, ma era sensibile ed umana esattamente come me.

Da quel giorno il nostro rapporto progredì a piccoli passi con il contributo di entrambe,

fino a che arrivammo addirittura a scherzare e a scambiarci battutine sui prof e fui contenta che per una volta la mia sfortuna mi avesse portato in lidi inesplorati e totalmente inaspettati, che mi avesse spinta oltre le Colonne d’Ercole dei miei pregiudizi e mi avesse dato la dimostrazione che, per quanto le storie delle persone siano diverse e

apparentemente poco affini, il germe dell’amicizia, se innaffiato a dovere, può crescere su qualunque terreno.

 

  
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