N.B.: La storia è stata scritta con l’ampio
consenso della persona qui citata, ovviamente sotto nome diverso. Quindi enjoy, aspetto numerose recensioni J
Avete presente quelle giornate
scolastiche così terribilmente frustranti da portarti all’esasperazione totale,
in cui nemmeno il sole alto nel cielo e gli uccellini che cinguettano possono
tirarti su di morale? Quelle giornate in cui il tuo nuovo prof di filosofia
sceglie proprio te per cominciare il primo giro di interrogazioni, e magari- proprio per puro caso, eh!- la
prof di fisica ha la stessa geniale pensata e tu non puoi fare altro che urlare
interiormente “Perché ce l’hai con me?”
con le mani giunte e il viso drammaticamente rivolto verso il gran burlone che
da lassù ci incasina la vita? Giornate in cui, per giunta, non hai nemmeno
abbastanza spiccioli per comprarti un caffè acquoso
alla macchinetta e il tuo stomaco gorgoglia come un tubo intasato. Proprio in
un giorno del genere io, povera nerd liceale già
troppo stressata e vittima di costanti agguati da parte dei professori,
raggiunsi l'apice dell'isteria con un livello di surriscaldamento della calotta cranica mai raggiunta fino ad allora. Tutta colpa
della prof di latino. Colpa sua e del suo simpaticissimo esperimento.
Ero appunto giunta a scuola, quasi per
miracolo a dir la verità, in quanto quella mattina il vento
della fortuna proprio non soffiava in poppa e mi ero alzata in ritardo, quando,
dopo essermi beccata una sonora strigliata dalla Cobaldi,
venni a conoscenza del suo maligno progetto. Collassata sul mio banco in fondo
alla classe, vicino al caro vecchio Antimo, compagno di banco dal primo anno,
alzai di scatto la testa ad una frase piuttosto ambigua. Non ero sicura di aver
recepito bene il contenuto dell’ennesimo sermone della
prof, anche perché a quell'ora il mio cervello
funzionava ad intermittenza, ma mi era parso di sentire qualcosa che suonava
come "oggi cambiamo tutti compagno di
banco!"
-Cosa!?- esclamai shockata,
alzandomi ritta sullo schienale e puntando i miei occhi gonfi dal sonno in
quelli della Cobaldi.
-Hai capito bene, Marianna, ho pensato
che cambiarvi di posto e mescolarvi sia una bella occasione
per smuovere l'andamento sonnolento della classe- ribatté piccata la donnina.
Quella strega incarognita! Aveva davvero osato mettere in discussione la mia
sedentarietà?
-Porca miseria, questa
oggi la uccido, Anti- mormorai a bassa voce ad
Antimo, acquattandomi dietro il mio astuccio in posizione strategica.
-Andiamo, perché la fai tanto difficile?
Ritieniti fortunata, almeno oggi non ha intenzione di
interrogarti- bofonchiò il biondino, lanciandomi un'occhiata perplessa.
-Non ho intenzione di muovermi da qui!-
sussurrai istericamente, ancorandomi al banco spruzzato di inchiostro
rosso e nero e decorato da fitti motivi floreali, frutto di un lavoro durato
quasi tre anni.
-Marianna, per favore, smettila di protestare.
Faremo un sorteggio, è deciso. Su, vieni qui a pescare
un bigliettino, sei la prima- mi richiamò la prof, invitandomi a dare inizio a
quel sorteggio improvvisato con una dozzina di bigliettini di carta mescolati
insieme nell’astuccio di Marco.
-Lo vedi, trovano
sempre il modo di chiamarmi!- protestai, intestardita, per poi dirigermi alla
cattedra a tentare la sorte. Il mio umore era nero che nemmeno il cielo prima dell’esplosione del Big Bang e in classe
regnava una suspense degna del miglior film giallo. Potevo quasi sentire la
musichetta di sottofondo che in ogni mistero che si rispetti
rende l’atmosfera ancora più dannosa per il sistema nervoso del povero
malcapitato.
Infilai scocciata la mano
nell’astuccio e chiusi gli occhi per qualche secondo, con la lingua fra i
denti, cercando di ricordarmi qualche preghiera imparata secoli prima al
catechismo, nella speranza di essere ascoltata da qualche entità superiore e
non capitare vicino a qualcuno di insopportabile.
Potevo capitare vicino a Michela, solare e
intelligente brunetta seduta al primo banco, dalla quale copiavo sempre i
compiti di algebra, o magari vicino a Vincenzo, il pagliaccio della classe che-
dopo me ovviamente!- era il pallino fisso dei professori o persino vicino a Renza,
quella con cui forse avevo legato di più in quegli anni, silenziosa e sensibile
cultrice di musica indie. O vicino a Gianni il
tenebroso, oppure a Marta, la nipote della prof di storia dell’arte. Insomma,
Antimo aveva ragione. Quel cambio non sarebbe stato così
terribile, dopotutto mi bastava solo un po’ di fortuna nell’azzeccare il
compagno giusto. E quando mai io ero stata fortunata?
Con questi pensieri, girai
più volte attorno ai pezzetti di carta con le dita, senza prenderne uno, per
poi, fulminata com’ero dallo sguardo torvo della Cobaldi che sembrava voler dire “sei sempre la solita perdi tempo”, afferrarne uno e tirarlo fuori
con decisione. Inutile dire che in quel momento mi
sentivo come Harry Potter
alla prima prova del Torneo Tremaghi, una volta aver
tirato fuori dal sacchetto la piccola riproduzione dell’Ungaro
Spinato e aver capito di essere praticamente fottuto.
Dopo aver infatti aperto il foglietto e aver letto il
nome contenuto, Giulia Taccone, scritto in lettere
così chiare da non lasciare nemmeno la speranza di aver letto male, mi uscì
spontaneo uno sbuffo. Giulia Taccone era, e per certi
versi è ancora, anche se ora il mio parere su di lei non è più così severo, il
prototipo di ragazzina viziata e gonfiata tipica di ogni
piccolo liceo di provincia. A sedici anni e mezzo vantava di aver avuto un
numero così alto di fidanzati a detta sua strafighissimi da superare persino il numero di debiti
che avevo dovuto recuperare al primo quadrimestre del
quarto ginnasio. Con atteggiamenti degni di una gangster di periferia aveva
subito, fin dal primo giorno, marcato il confine fra lei e le sue amichette
popolari e ben truccate e quelli come me, squattrinati studenti con interessi fuori dalla norma come i fumetti e i libri fantasy. Inutile fare un excursus sugli avvenimenti delle
precedenti puntate, in cui la suddetta Giulia aveva insultato le mie
fantastiche ciocche color magenta e definito il
“Signore degli Anelli”, praticamente la mia bibbia
personale, un libro orrido e noioso che
parla di cose maledettamente all’antica. Si è capita, spero,
l’indole della mia neo-compagna di banco e per questo, potrete ben comprendere
il mio stato di tumultuosa indignazione nel vedermi assegnato per il resto
dell’anno scolastico, ahimé ancora lungo, un tale impiastro.
-Prof, mi è uscita
-Perfetto! Giulia passa al
posto di Antimo e avanti con il prossimo!- gongolò
evidentemente soddisfatta
-Ci sarà proprio da
divertirsi- dissi cupa, arrendendomi ormai al fatto
che la prof non sarebbe tornata sulla decisione e lanciando uno sguardo davvero
poco felice ad Antimo, che esultava per essersi finalmente liberato di una
rottura come me. Che traditore!
Mi lasciai di nuovo cadere
sulla sedia, contenta almeno di non aver cambiato banco, visto che il mio era
provvisto di appositi buchi dove nascondere
bigliettini nel caso di compiti a sorpresa (dovevo pur ingegnarmi visto che la
mia fortuna in fatto di verifiche era proverbiale!) e lasciai che si
accomodasse anche Giulia, indicandole il posto con un gesto ironicamente
galante, il tutto accompagnato da un sorrisino di sfida.
Dopo che
-Bianchini, interrogata- mi
chiamò. E ancora una volta la mia leggendaria fortuna
fu dalla mia parte.
Tralasciando l’esito
alquanto tragico di quell’interrogazione, e di quella
successiva, visto che anche il prof di biologia mi aveva designato come vittima
sacrificale, all’ultima ora di quel maledetto dieci novembre mi ritrovai stesa
sul banco, in stato quanto mai semi-comatoso, a pormi confusamente domande
circa il mio essere bersaglio di qualunque cosa in questo stramaledetto
universo. Giulia, che mi osservava quasi con disgusto come se fossi un tricheco
arenato chissà come su una spiaggia dei Carabi, se ne stava rannicchiata dalla
parte opposta del banco, con le sue cose sistemate in modo maniacale il più
lontano possibile da me e dalla mia sfiga.
-Ci mancava
solo questo- brontolai esausta, riferendomi alla situazione tragicamente
comica.
-Non è colpa mia- obiettò subito Giulia, con quel suo molesto tono da figlia
di papà abituata ad avere tutto e subito ciò che voleva.
- Non volevo trascinarti in
tutto questo con la mia sfortuna- piagnucolai. Le mie
difese si erano notevolmente abbassate dopo quattro ore di pressanti
stimolazioni intellettuali, tanto da non avere nemmeno più la forza o la
fantasia per sparare a raffica battutine sagaci nei confronti della Taccone.
-E’ capitato- alzò le spalle lei, scuotendosi poi i
suoi boccoli biondi con superiorità. Socchiusi un occhio per scrutare il suo
viso.
-Facciamo
così, non dobbiamo parlarci per
forza. In fondo sono solo quattro o cinque ore al
giorno tranne il fine settimana fino a giugno, per un totale di circa… un
trilione di ore- mugugnai, levandomi a sedere. Giulia mi osservò seria,
annuendo.
-Si, si può fare- asserì,
per poi restare in silenzio per il resto dell’ora di inglese.
Quella, strano a dirsi, fu
la prima conversazione civile fra me e Giulia, senza una parolaccia o un
gestaccio, insomma un piccolo spiraglio di speranza che presagiva un futuro
anno scolastico non eccessivamente funesto né con probabilità di tentato
omicidio per avvelenamento di caffè o brioche.
L’armistizio, se così si
poteva definire quella situazione di auto-gestito
silenzio interrotto solo per motivi didattici, durò senza problemi fino ad una
strana giornata di gennaio, più strana persino di quel dieci novembre che ci
vide accoppiate e che mi rivelò, come un’epifania degna di un racconto di James Joyce, un aspetto della
personalità di Giulia che fino ad allora avevo sempre ignorato.
Anche quella mattina, probabilmente più intontita del
solito dal freddo invernale e dalla nevicata che si era abbattuta sul nostro
paesello a ridosso degli Appennini, giunsi in classe
in ritardo, giustificandomi con il prof di filosofia dicendo di aver perso il
pullman e di aver dovuto percorrere a piedi l’intera strada coperta da un metro
di neve nelle mie modeste converse consunte. Impietosito dal mio faccino
congelato, il prof almeno per quella mattina mi lasciò stare tranquilla a
crogiolarmi nel caldo cantuccio del mio banco isolato.
Mi sistemai come da
rituale, affondando la faccia nella mia pesante sciarpa fatta a maglia e stavo
proprio per recuperare un po’ di sonno perduto a causa della maratona di “Grey’s Anatomy”
della notte precedente, quando Giulia mi diede uno scossone alquanto violento.
-Si può sapere che vuoi?-
le sibilai, assottigliando gli occhi come un serpente.
Mai disturbare Marianna Bianchini mentre dorme! Un po’ come “Draco dormiens numquam titillandum”.
-Nulla, io… volevo solo
chiederti una cosa- mormorò dispiaciuta, guardandomi tutt’ad
un tratto con un paio di occhioni
da cucciolo spaesato. Giulia Taccone non era mica conosciuta
per essere una ragazza che chiedeva aiuto, tanto meno con un’espressione
arrendevole del genere.
-Dimmi- acconsentii, in modo più calmo.
- Cosa
faresti se il ragazzo che ami non solo non ricambia, ma sta con te solo
per usarti?- pigolò. Dai suoi occhi sembrava stesse
per piangere ed io mi sentii molto a disagio. L’aver passato la maggior parte
della mia infanzia e adolescenza a contatto con i maschi mi aveva resa priva di
tatto esattamente come loro e soprattutto poco avvezza a tematiche
sentimentali di questo tipo. Mi sfregai le mani, imbarazzata.
-Io… vedi,
non sono la persona adatta a cui chiedere. Ho avuto a malapena un
ragazzo e l’ho mollato dopo tre mesi perché me ne ero
stufata e ho trattato male per anni quello che mi interessava davvero- spiegai
concitata, alludendo prima al mio ex ragazzo, il povero Alessandro, e poi
all’unico ragazzo di cui ancora ero un po’ innamorata, uno dei miei migliori
amici, Edoardo. A Giulia però quella giustificazione non bastò e, mentre il
prof ci esponeva non so quale strana teoria di uno dei
suoi filosofi pazzi, mi guardò ancora con quello sguardo disperato.
-Oddio, okay…
smettila, cominci a farmi paura. Perché non ne parli
con le tue amiche?- le domandai, sincera. Lei sembrò prenderla come un rifiuto
di aiutare sua maestà e mi incenerì con un’occhiataccia.
-Perché non posso fare la figura delle scema davanti a loro… ma che ne
vuoi sapere tu- sbuffò, allungando la schiena sullo schienale della sedia.
-Sarebbe
meglio continuare con il silenzio, credo- dissi a quel punto, irritata e sul punto di mollarle un
ceffone. Mi scrutò, enigmatica.
-Scusa, non volevo dire
quello, è solo che per me è una situazione nuova e sono così disorientata che
mi fa paura parlarne con le mie amiche, ho paura che mi giudichino una…-
-Sfigata?- tentai io a quel
punto, allargando le braccia e indicandomi. E fu la
sola volta in cui azzeccai una risposta in tutta la mia vita scolastica e non.
Non ero particolarmente arguta, come potete bene
capire.
-Si, esattamente. Allora,
cosa faresti?- mi domandò di nuovo, trepidante.
-Uhm… vediamo… direi che lo lascerei perdere. Già, lo lascerei
perdere perché non vale la pena soffrire per uno che non si fa
scrupoli a portarmi in giro come un trofeo utile solo al suo ego e perché ho
una dignità, al di là di quanto lo possa amare.Chiaro?- snocciolai, nel blando
tentativo di esserle di conforto. Lei alzò il capo e la lacrima solitaria che
le solcò il viso fu sostituita per una frazione di secondo da un sorrisino
riconoscente e sollevato.
-Tu meriti di più- la
rincuorai ancora, mettendole una mano sul braccio per farle
coraggio. E lo pensavo davvero. Non ero una persona
brillante né una grande ascoltatrice, ma potevo dire
di sentire bene le persone. Di capirle al volo. E quella mattina avevo sentito
che in Giulia c’era molto di più di quello che voleva dare a vedere, che si,
sicuramente aveva un caratteraccio ed era la peggiore compagna di banco in cui potessi sperare, ma era sensibile ed umana esattamente come
me.
Da quel giorno il nostro
rapporto progredì a piccoli passi con il contributo di entrambe,
fino a che arrivammo addirittura a scherzare e a
scambiarci battutine sui prof e fui contenta che per una volta la mia sfortuna
mi avesse portato in lidi inesplorati e totalmente inaspettati, che mi avesse
spinta oltre le Colonne d’Ercole dei miei pregiudizi e mi avesse dato la
dimostrazione che, per quanto le storie delle persone siano diverse e
apparentemente poco affini, il germe dell’amicizia, se innaffiato
a dovere, può crescere su qualunque terreno.