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Autore: Angy_Valentine    21/12/2012    7 recensioni
«Ah, a proposito, io mi chiamo Lavi Bookman. Piacere di conoscerti!».
Non sembrava esserci modo di metter freno alla sua lingua, decisamente. Accennando un sorriso, allungò la mano verso quella che il giovane le stava tendendo, stringendola e lasciandosi avvolgere il palmo dalle sue dita.
«Rukia Kuchiki. Il piacere è tutto mio.».
[...]
Cominciava a covare il dubbio che i problemi di Lavi fossero, probabilmente, più grandi di quel che temeva. In cuor suo sperava davvero che il ragazzo non si offendesse per i suoi tentativi di aiutarlo. Perché dietro a quelle negazioni, quel nervoso, quegli sguardi frustrati e stizziti, sembrava scorgere solo una muta e disperata richiesta d’aiuto.

**
[Crossover Bleach/D.Gray-man][Crosspairing][LaviRuki][Byakuya x Hisana][Het][!Linguaggio][Angst]
[Sospesa in via definitiva]
Genere: Angst, Drammatico, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Crack Pairing | Personaggi: Byakuya Kuchiki, Hichigo, Hisana Kuchiki, Kuchiki Rukia
Note: AU, Cross-over | Avvertimenti: Incompiuta, Tematiche delicate
Capitoli:
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Ohil- *schiva pomodori* lo so, scusateeeee! Sono in ritardo ritardassimo, non posso nemmeno dire che non è colpa mia, ma sapete, il freddo, la pigrizia, il blocco dello scrittore… insomma, non è del tutto colpa mia. Mi perdonate, vero? Insomma, mi posso ingraziare qualcuno con questo capitolo lungo quanto il precedente? Spero davvero di sì, sennò prego comunque per la vostra magnanimità xD Anzi, no, non ho esattamente solo cazzeggiato, sarò franca xD Per la serie "spargiamo il verbo del ByaSana", ho aggiunto un'altra oneshot al ciclo di "When the Snow falls". Il richiamo ByaSanico per me è sempre irresistibile, se ne ho l'occasione <3
Sono un po’ di corsa, stasera, anche se stranamente riesco ad aggiornare ad un orario VERAMENTE UMANO. LOL. Ma ci tenevo a lasciarvi l’aggiornamento prima della partenza per le ferie di Natale. Vado al caldo, migro come le rondini. Tanto torno per Capodanno, eh, ma qualcosina ve la volevo lo stesso lasciare. Non perdo ovviamente occasione per ringraziare tutti coloro che seguono questa storia, chi addirittura non manca di recensire ogni volta nonostante gli apocalittici ritardi, vi adoro! Siete voi il mio carburante per continuare questa long che, spero, possa continuare a piacervi. Un ultimo avviso, poi smetto di rompervi: forse le gemelline sembreranno un po' OOC (e forse lo sono, chiedo venia), ma mi son voluta prendere una piccola "licenza" per quest'occasione - anche perché in seguito avranno poco da scherzare, ma non voglio anticiparvi nulla. Non vi tedio oltre e vi lascio alla lettura, belle bimbe. Alla prossima!
 
 
 
 
 
Capitolo 11 – Preludio


 

 
«Darkie, ma si può sapere cosa ti prende? Hai un’aura omicida attorno!».
Rukia osservava la sorella da diversi minuti mordicchiando il tappo della penna nera, lo sguardo fisso sulla ragazza seduta di fronte a lei e una mano che cercava alla cieca i biscotti sistemati su un piatto poco distante. Ne aveva appena morso uno quando Darukia sollevò appena la testa per riuscire a vederla in viso, rivolgendole involontariamente un’occhiata torva che la stupì non poco.
«No, non dirmelo. Scommetto che è colpa…».
«Di Deak, sì.» ringhiò l’altra completando la frase di Rukia, stringendo il portamine nero tanto da far scricchiolare il gancetto argento.
La sorella sospirò, richiudendo la penna e portandosi il viso tra le mani, coi gomiti poggiati sopra il quaderno degli appunti. Era da quando si era seduta a tavola in salotto, il loro posto prediletto per sistemare gli appunti come quando andavano al liceo, che Darukia aveva continuato a fissare con aria malevola il libro di etologia, scarabocchiando di quando in quando poche parole e sottolineando frasi apparentemente a caso. Hichigo l’aveva accompagnata a casa – e l’albino aveva rivolto una semplice scrollata di spalle allo sguardo perplesso di Rukia, che osservava la sorella dirigersi a passo di marcia verso la propria camera, dopo averle rivolto un saluto distratto. “Il solito pirla con la lingua da aspide.”, aveva detto lui. E c’era una sola persona capace di far arrabbiare in quella maniera la ragazza. Anzi, arrabbiata non era nemmeno la definizione corretta – pareva, piuttosto, testardamente determinata. Probabilmente, mentre sottolineava frasi su frasi, si rivedeva durante la discussione che l’aveva fatta alterare così.
«Che ha combinato stavolta?».
Era meglio andarci cauti in certe situazioni: Darkie non era il tipo che esplodeva in scatti di rabbia, ma del resto era da quando aveva conosciuto Deak che i suoi malumori erano diventati più frequenti. Nemmeno quando aveva conosciuto Hichigo si era comportata allo stesso modo.
«È una testa di fava. Uno stupido testardo e maleducato. Che nervi mi fa venire, quel… quel cretino!» esclamò la ragazza, sbattendo una mano sul tavolo e rovesciando briciole sul ripiano «“Non me ne frega niente di quel che dici”, ma scherziamo? Nemmeno Hichi mi ha mai risposto così!».
«Perché Hichigo è tuo amico e tiene a te, si sa. Anche se all’inizio ti prendeva sempre in giro.».
«Appunto. Cioè, ma con tutta la buona volontà, ti pare una risposta sensata e da persona intelligente? Secondo me lui e Lavi non sono nemmeno fratelli, sono tipo vipera e agnellino!».
Rukia scrollò leggermente le spalle, sospirando. Le aveva raccontato per sommi capi la loro discussione, ma non aveva accennato a ciò che Lavi le aveva riferito riguardo al gemello.
«Secondo Lavi, Deak ha bisogno di… più tempo, per fidarsi di qualcuno. O anche solo convincersi a provare.» mormorò esitante, giocherellando con la penna.
La gemella sbuffò, lasciando cadere il portamine tra le pagine del libro. L’aveva capito anche lei che a Deak serviva tempo, non era un parere influenzato di Lavi, impietosito perché si trattava del fratello. Quel che non capiva era la sua necessità di essere così scontroso e maleducato anche con chi tentava pacificamente di avvicinarlo. Rukia le aveva riferivo anche il poco che il ragazzo le aveva detto riguardo al loro “farsi accettare” dagli altri. Certo, non doveva esser stato un bel vivere, costantemente messi in disparte per via del colore dei capelli o della benda sull’occhio. E per certi versi poteva pure capire il suo essere così restio ad avvicinarsi a qualcuno, ma lui si stava veramente chiudendo a riccio contro chiunque.
«Darkie, secondo me non è cattivo come vuole far credere. Magari la sua è solo…».
«Paura.» sbottò lei, poggiando il mento su un palmo «Deak ha paura. Vuol tenere tutti a distanza perché ha paura di essere ancora allontanato o tradito, quindi ovvia il problema evitando per primo di avvicinarsi a qualcuno.».
«Ecco perché Lavi ha detto che si rifiuta di provare a fidarsi degli altri… ma secondo te abbiamo una faccia così da mascalzone?» mentre parlava cercò un altro biscotto, mangiucchiandolo distrattamente.
«Non penso sia quello il fatto, Rukia… senti, io vado a parlargli. A costo di piantare le tende sotto il portico di casa sua.» annunciò, richiudendo il libro e gettando il portamine nell’astuccio.
«Darkie, aspetta!» Rukia cercò di trattenere la gemella, prendendola per un polso «Forzarlo non servirebbe a niente, lo faresti arrabbiare ancora di più.».
«Non voglio forzarlo, infatti.» replicò l’altra, facendo spallucce «Né voglio che mi dica perché si fa tante paranoie ritenendoci tutti dei mostri. Insomma, capirà anche lui che non voglio essergli amica per un tornaconto personale, no? È acido come il latte scaduto!».
«Appunto. Perché ti ostini tanto con lui? Non dirmi che senti gli istinti da crocerossina che vede il poverino in difficoltà e lo vuole aiutare!».
«Lo curerei a suon di ceffoni, altroché.» si prese qualche attimo, prima di riprendere a parlare «Non lo so perché, Rukia. Non è di certo pena o filantropia, però…».
«Sei curiosa?».
«… Non posso negarlo. Ma non è quello il punto, davvero.».
«Non è che sta cominciando a piacerti, piuttosto?».
«Quando un pugno allo stomaco. Certo che no, scema!» arrossì a quelle parole, accigliandosi. Ovvio che non era per quello, che razza di idee assurde gironzolavano nella testa di sua sorella? «Anche perché sarei piuttosto masochista, non ti pare? Tu, piuttosto, potrei dirti lo stesso di Lavi. Fate pure le chiacchierate in casa all’insaputa di tutti… pensa se viene a saperlo nii-san.».
«N-non è vero! E poi è stato lui a venire qui, non l’ho di certo chiamato io! Abbiamo solo parlato!».
Darukia sghignazzò di fronte al rossore che imporporava le guance della sorella, raccogliendo la propria roba per riportarla in camera.
«Stavo scherzando, Rukia. Certo che se ti infervori così…» le fece una linguaccia prima di entrare nella stanza, lasciando tutto sopra la scrivania e cercando la propria giacca. Si sistemò per bene la sciarpa e si avviò all’ingresso, seguita dallo sguardo della sorella.
«Ti conviene portarti un ombrello, mi sa che tra un po’ piove.» bofonchiò tra un pezzo di biscotto e l’altro «Ma non è meglio se aspetti nii-san?».
«Byakuya tornerà tardi e quel cafone non può pensare di farla franca così a buon mercato. Meglio battere il ferro finché è caldo, no?».
«Finisce che ti butta veramente fuori di casa.» Rukia incrociò le braccia al petto, tutt’altro che convinta «Darkie, davvero, io non mi fido a lasciarti andare da sola, d’accordo che è nuvoloso e non buio pesto, ma…».
«Sorellina, tu ti preoccupi troppo.» l’altra le sorrise, chinandosi per sistemarsi ai piedi gli stivaletti «E poi avrò anche l’ombrello, sai che non mi tiro indietro dall’usarlo come arma se qualcuno prova a mettermi le mani addosso.».
«Non dirlo neanche! Aspetta un secondo, eh.» corse in camera ciabattando rumorosamente lungo il corridoio, tornando dopo un paio di minuti con una mini-bomboletta che le mise in mano «Spray al peperoncino, non si sa mai.».
Darkie stava per replicare con una battuta, ma lo sguardo serio della gemella la convinse a tenere la lingua tra i denti. Povera Rukia, era davvero preoccupata. Le assicurò che avrebbe fatto attenzione, dandole un rapido abbraccio prima di uscire – erano veramente tanto legate, in fondo era inevitabile che si preoccupassero così l’una dell’altra. Una volta in cortile, constatò che effettivamente era più buio di quel che pensava. Non che fosse troppo tardi, per quello – anche perché non avrebbe percorso strade buie o scorciatoie, tenendosi comunque sulle strade principali. D’accordo voler risparmiare tempo, ma non era tanto stupida da girare da sola lungo vie isolate. Strinse forte l’ombrello e lo spallaccio della tracolla, sistemandosi le cuffiette alle orecchie – un po’ sconsigliate, ma era più forte di lei: la inquietava troppo non avere la musica, quand’era fuori. A conti fatti, se la sarebbe cavata in un’oretta e mezza, forse, giusto il tempo di tornare a casa a mangiare – e, sottilmente, sperò che Byakuya non la sgridasse per essere uscita da sola. Non era come un cane da guardia, certo, ma era pur sempre un fratello maggiore abbastanza apprensivo e severo, nel suo piccolo faceva del suo meglio perché non finissero nei pasticci. Si ritrovò a canticchiare a mezza voce, mentre costeggiava un corso d’acqua protetto dalla recinzione. Anche vicino alla villa dove viveva il resto della sua famiglia c’era un fiumiciattolo del genere, ricordava benissimo quando lei e Rukia, da piccole, scappavano di nascosto per andare a tirare i sassi in acqua – e pure quante volte Sojun avesse minacciato di sculacciarle se si fossero allontanate di nuovo senza dire nulla. Se l’erano quasi sempre cavata facendo gli occhi lucidi al padre che, per quanto ci provasse, non riusciva davvero a prendersela con quelle due piccole pesti. Alla fine avevano fatto di Byakuya loro complice, ambasciatore col genitore e responsabile affinché si assicurasse che nessuna delle due finisse accidentalmente in acqua– e sì, era successo pure quello. Ma quella volta Rukia aveva pianto così disperata che Sojun non se l’era sentita di rimproverarla ulteriormente, si era spaventata già a sufficienza, contando anche che al tempo la poverina non sapeva nemmeno nuotare. Sorrise nell’osservare il pigro scorrere dell’acqua, notando quasi per caso le luci dei lampioni accesi che si riflettevano sulla superficie in figure indistinte. Essendo piuttosto distanti gli uni dagli altri creavano zone d’ombra tra loro, ma nell’immediato non ci fece nemmeno caso. Ormai mancava poco alla casa dei gemelli Bookman, appurò dandosi una rapida occhiata attorno. Era finita nella zona residenziale, immersa nella pace più completa, anche i veicoli passavano di rado da quelle parti. Era così rilassata che quasi avrebbe accennato qualche passo saltellato, facendo ondeggiare la borsa e l’ombrello – non fosse che si sentì tirare per un polso all’improvviso, facendola trasalire.
Era una presa chiaramente maschile, sentiva il polso imprigionato in quella stretta troppo forte per lei, e mentalmente si mandò mille accidenti per non aver lasciato a casa l’mp3. Mannaggia a lei e al suo vizio di tenere le cuffiette! Prima che potesse pensare o fare qualsiasi cosa si sentì strattonare indietro, facendola barcollare, mandandola nel panico più completo. Rukia aveva ragione, avrebbe dovuto stare attenta, non uscire da sola, non quando stava lentamente calando la sera.  Sentì un brivido gelido quando avvertì una mano sulla schiena, poco più sopra del sedere, sul momento non capì nemmeno se la stesse tenendo per la cintura del cappotto o meno. Lo spray, dov’era lo spray? Chiuso in borsetta, si rispose subito, ma l’unica mano libera era quella che reggeva l’ombrello – motivo per cui, voltandosi, lo brandì a mo’ di mazza, allungando preventivamente un calcio in mezzo alle gambe del suo aggressore.
«Porco!» esclamò colpendolo alla schiena più volte, approfittando del fatto che quello si fosse piegato in due per il dolore «Maniaco schifoso! Ti insegno io… a dar fastidio… alle ragazze sole… brutto stronzo… che non sei altro!».
Ogni frammento di frase veniva intervallato da un nuovo colpo alla schiena o alle gambe, aggiungendoci poi schiaffoni, calci, borsate e pure pugni intrecciati sulla testa. E l’altro ringhiava lamenti tra i denti, tentando di proteggersi come meglio poteva, riuscendo dopo poco ad allontanarla con una leggera spinta e risollevandosi. Darkie deglutì, era spaventosamente più alto di lei e pure più robusto – non che ci volesse molto, considerò amaramente. Lo vide allungare una mano verso di lei, al che reagì istintivamente con un ceffone sul palmo che le bruciò da matti e che fece masticare una colorita imprecazione a quel tipo – ma quando tentò di tirargliene un altro si sentì afferrare di nuovo, mentre anche l’altra mano veniva imprigionata nella stretta di quei palmi troppo grandi.
«Lasciami! Lasciami o giuro che urlo!» tentò di tirarsi indietro strattonando le mani ma niente, non sembrava minimamente intenzionato a mollarla «Ti ammazzo se solo provi a toccarmi, bastardo!».
«Macché toccarti e toccarti, cretina!» brontolò lui, tirando il filo delle cuffiette per fargliele cadere dalle orecchie «Si può sapere che diavolo ti è preso? Tu sei completamente pazza! Ehi, guardami. Guardami, accidenti!».
Darkie sollevò appena lo sguardo, senza smettere di tremare – non aveva mai desiderato tanto di essere a casa con Rukia e Byakuya, al sicuro, al calduccio -, rendendosi conto dopo una manciata di secondi che quello che aveva davanti non era affatto un maniaco, ma il più acido dei gemelli Bookman – certo, imbacuccato come un moscovita, ma quei ciuffi rossi su cui era riflessa la debole luce del lampione erano inconfondibili. Ne fu quasi sollevata, sperando che le ginocchia non le cedessero proprio in quel momento, ma gli occhi furono più infami e non tardarono a diventare lucidi di lacrime trattenute.
«D… Deak?!» singhiozzò, sentendosi le guance avvampare. Diamine, che spavento s’era presa.
«Stupida!» esclamò il ragazzo, tenendole ancora i polsi stretti nei pugni «Non te l’ha detto nessuno di non girare di sera con quelle diavolo di cuffiette nelle orecchie? Avevo poco da chiamarti, se tenevi la musica a palla!».
«Mi… mi stavi chiamando?».
«Cosa che non è servita a niente, vista la scarica di botte che mi hai dato del tutto gratuitamente. Che ci fai qui? Non stavi venendo da noi, vero?».
La ragazza ammutolì e s’imbronciò, punta sul vivo, mentre cercava una risposta abbastanza verosimile per salvaguardare la propria credibilità. L’acidità di Deak le aveva fatto completamente dimenticare lo spavento.
«C-certo che no! Stavo andando… a far la spesa!». Totale fallimento, altroché.
«Qui?» il ragazzo sollevò un sopracciglio con aria scettica, incrociando le braccia al petto «Un vero peccato che i negozi siano da tutt’altra parte. Ho forse la scritta “fesso” stampata in fronte?».
«Ooh, e va bene!» sbottò lei, stringendo i pugni «Sì, stavo venendo da te, d’accordo? Non pensare di abbindolarmi con quella linguaccia da vipera che ti ritrovi, in primis perché son sicura di non averti fatto nulla di male per meritarmi tutta ‘sta cafonaggine da parte tua.».
Deak abbassò lo sguardo sull’indice che lei aveva preso a premergli contro il petto, come a rimarcare il concetto. Accidenti, quant’era testarda. Stava chiaramente per dire qualcos’altro, quando la vide scrutarlo aggrottando le sopracciglia.
«Vieni un secondo qui.».
Lo trascinò di più sotto la luce del lampione, prendendogli il mento tra le mani per rigirargli il viso e vederlo meglio. Ignorò lo sguardo scettico del ragazzo, abbassandogli la sciarpa dal naso e notando quanto la pelle fosse arrossata – non si era davvero risparmiata con i colpi. Un rivolo rosso prese a scendergli dalla narice, finendo lentamente sul bordo delle labbra. Epitassi, fantastico. Abbassò la testa porgendogli un fazzoletto, vergognandosi a morte.
«Scusa, non volevo.» mormorò, rabbuiandosi.
Non intendeva fargli così male, accidenti, chissà lividi che gli aveva lasciato pure sulle gambe. Non era mai stata il tipo da mettere le mani addosso a qualcuno, lei, ma il terrore di essere finita tra le grinfie di un maniaco aveva mandato in totale black-out il suo proverbiale autocontrollo. Deak si toccò la bocca, leccando quelle poche gocce che erano finite sulle labbra e sentendo immediatamente il gusto ferroso del sangue, scoccando una rapida occhiata alla ragazza davanti a sé.
«Sarai contenta, immagino.» sbottò, afferrando il fazzoletto che lei ancora gli porgeva e premendoselo contro il naso, alzando la testa verso l’alto «Ammettilo che non aspettavi altro.».
«Co… cosa? Ti sembro il tipo che va a menar le mani a destra e a manca?» Darkie strinse l’ombrello tra le mani, soffocando a fatica l’istinto di usarlo per tirargli un altro colpo in testa «Pensavo fossi un maniaco, ecco tutto. Sarai stato anche un gran cafone, ma di certo non vendicherei riempiendoti di botte – e poi, tanto per essere puntigliosi, sei pure tanto più grande di me, sarei io quella che finirebbe col farsi male!».
«Visto che per oggi hai già combinato abbastanza guai, che ne dici  di eclissarti? Giuro di non denunciarti.» le propose lui con un sorrisetto sbieco.
«Suvvia, tuo nonno si chiederà dove hai rimediato così tanti lividi, non voglio sfuggire alle mie responsabilità. Gli spiegherò tutta la situazione.» replicò la ragazza, ricambiandolo con un sorriso affabile e altrettanto falso.
«Mio nonno non c’è, è via per lavoro.».
«Sì che c’è, quando ho chiamato tuo fratello ha detto che era in casa pure lui e che non avrebbe avuto problemi se mi fossi presentata.» non sapeva nemmeno da dove le fosse uscita quella bugia, presa dalla foga del momento. Sperò solo di non aver detto una scemenza colossale.
«Lavi dovrebbe cucirsi la bocca col filo spinato.» borbottò l’altro a denti stretti.
Avvertiva, oltre al fastidioso calore al naso che non accennava a smettere di sanguinare, anche un vago bruciore allo stinco sinistro. Quella dannata ragazzina non gliene aveva risparmiata mezza, se non altro aveva avuto prova di quanta forza e irruenza fossero racchiuse in quel corpo così minuto. Anche se per un attimo pensò che forse, ma proprio forse, avrebbe preferito lasciare che fosse quell’individuo che la seguiva da un po’, tenendosi diversi metri più indietro e ben al riparo dalla luce, a prenderle di santa ragione in caso avesse avuto la malaugurata idea di aggredirla. Non era certo intervenuto per difenderla da un’eventuale molestia, nossignore. Almeno così volle convincersi, mentre si avviava verso casa con quella piccola furia che lo seguiva con un sorrisetto soddisfatto stampato in faccia – sembrava totalmente inutile allungare il passo per cercare di distanziarla. Certo era che aveva non poche difficoltà a camminare tenendo alta la testa per fermare il sangue, in più con la benda e la luce piuttosto scarsa del viale la visibilità non era delle migliori. Ma non si sarebbe mai abbassato a chiederle di dargli una mano, piuttosto si sarebbe schiantato contro il primo albero disponibile – e l’avrebbe fatto a testa alta, letteralmente.
«Deak?».
«Che vuoi, ancora?».
«Volevo solo avvisarti che tra due passi rischi di spalmarti contro un palo.».
Lui però non fece in tempo a frenarsi, sbattendo violentemente la punta del piede sinistro contro un paracarri in cemento e facendosi scappare uno strozzato “Cazzo!” che gli uscì del tutto spontaneo. Si chinò tenendosi il piede dolorante, masticando imprecazioni come uno scaricatore di porto. Gli stava salendo un’enorme voglia di prenderlo a calci, quel dannato palo in cemento, ma chi era stato l’idiota che l’aveva messo in mezzo alla strada? Ripensandoci ancora, era solo ed esclusivamente colpa di quella ragazzina che gli stava accanto se era stato costretto a camminare col naso per aria. Accidenti, accidenti a lei, gli portava solo un mucchio di sfighe!
«Potevi anche avvisarmi prima!».
«Ehi, c’eri tu davanti, come potevo vederlo?» fu la pronta replica, mentre gettava in un cestino il fazzoletto che gli era caduto e si chinava per premergliene un altro sul naso, assumendo l’espressione più ingenua che le riuscì «Insomma, andavi via così spedito che sembrava volessi evitarmi a tutti i costi.».
«Ma che brava, ci sei arrivata? Sei più sveglia di quel che pensavo.» sbottò lui, lanciandole un’occhiataccia.
«Era ironico, fenomeno. E visto che la pensi così, ti sta pure bene. Dai, ti aiuto.».
Stavolta Deak fu costretto a mordersi la lingua. Aveva avuto prova da pochi minuti di quanta forza riuscisse a tirar fuori quando voleva, quei colpi alla schiena gli avevano tolto il fiato – e lo stinco non smetteva di bruciare, senza contare che ora si era aggiunto anche il piede a fargli un male allucinante. Si obbligò a non protestare quando la sentì passarsi un suo braccio sulle spalle e portargliene uno in vita – non riteneva necessario aiutarlo così tanto, non s’era di certo rotto una gamba, ma per non guadagnarsi altri lividi inghiottì a fatica l’orgoglio e la lasciò fare. La differenza d’altezza tra loro era piuttosto notevole, tanto che Deak pensò bene di non caricare il peso su di lei, onde evitare di finire a terra entrambi. Mentalmente sperò che non ne facesse parola con l’albino, ci mancava solo che quello schizzato venisse a sapere quante ne aveva prese da quella ragazzina, l’avrebbe sfottuto fino alla morte – non che lo scontro con il paracarri fosse stato tanto meglio, doveva ammetterlo. Lei però non aveva riso, anzi, anche durante il tragitto lo aiutò in silenzio, avvisandolo quando si trovava in prossimità di gradini o buche. Poco prima di giungere sulla via di casa sua il ragazzo si scostò, borbottando che l’epitassi si era fermata e che avrebbe proseguito per i fatti suoi, ora che poteva vedere. Darkie accettò con una scrollata di spalle, ben immaginandosi che lui avrebbe preferito mordersi la lingua a sangue piuttosto che farsi vedere soccorso agli occhi di suo fratello – e proprio da lei, poi. Una volta arrivati al cancello Deak le lanciò un’occhiata, quasi sperando che lo salutasse e se ne andasse, visto che lo sapeva al sicuro, ma lei gli rispose con un sorrisetto così adorabile che gli fece saltare ancora di più i nervi. Piccola bastardella, chissà quanto si stava divertendo. Sospirò rassegnato avviandosi sotto il portico e aprendo la porta, scostandosi un poco per permetterle di entrare e richiudersi l’uscio alle spalle.
«Sono tornato.» disse, chinandosi per togliersi le scarpe.
Da una delle porte – a Darkie pareva di ricordare che lì si trovasse il salotto – fece capolino un anziano piuttosto basso – addirittura più basso di lei, constatò la ragazza, vestito in una lunga tunica nera in stile cinese, con dei morbidi pantaloni stretti alle caviglie. Sugli occhi portava un pesantissimo quanto eccentrico trucco nero, e i pochi capelli rimasti, bianchi, erano raccolti in una coda sulla sommità del capo. Portava degli orecchini pendenti lavorati con un particolare intreccio, cosa che rendeva l’insieme particolarmente stravagante. L’uomo la scrutò incuriosito per diversi secondi, prima che Darkie gli rivolgesse un sorriso e un educato inchino.
«Scusi l’improvvisata a quest’ora, signor Bookman. Sono Darukia Kuchiki, una compagna di università di suo nipote Deak.» si presentò, rialzando lo sguardo e notando che il vecchio l’osservava ancora con le mani nascoste all’interno delle lunghe maniche della veste, davanti al petto.
«Sei la benvenuta in questa casa, Darukia Kuchiki.» disse, ricambiandole l’inchino «Lavi mi ha parlato molto di te e di tua sorella.».
Lavi, ovviamente. Sia mai che Deak pensasse di raccontare a suo nonno qualcosa della sua quotidianità alla facoltà. Nel mentre il ragazzo l’aveva superata, zoppicando ancora piuttosto vistosamente, diretto verso le scale in legno scuro che conducevano al piano di sopra.
«Deak, cosa t’è successo?».
«Niente, nonno. Non ho visto un gradino e sono inciampato.» fu la spiccia risposta che il vecchio ricevette, mentre Deak spariva oltre l’angolo delle scale.
Darkie incrociò le braccia al petto, osservando il punto in cui il ragazzo aveva svoltato. Perché non aveva detto la verità? Doveva temere ritorsioni da parte di suo nonno? Gli rivolse uno sguardo, trovandolo a grattarsi la testa e a sospirare, borbottando qualcosa che somigliava vagamente ad un “Quel benedetto ragazzo mi farà impazzire.”. Non aveva idea di che rapporto si fosse instaurato tra l’anziano storico e Deak, all’apparenza il primo sembrava abbastanza severo, ma magari si sarebbe ritrovata ad avere a che fare con la persona più gentile del mondo. Tanto valeva vuotare il sacco, perché non dirgli come stavano effettivamente le cose?
«Signor Bookman, in realtà…» mormorò tormentandosi leggermente le mani, non prima di aver poggiato l’ombrello in un angolo, dove non avrebbe dato fastidio a nessuno «In realtà Deak non è inciampato. Cioè, la botta al piede se l’è presa da solo, ma per il resto… insomma, sono stata io…».
«Ti ha fatto qualcosa di male? Ti ha messo le mani addosso?» l’interruppe lui assottigliando lo sguardo, quasi pronto a correre su per le scale per andare a tirare qualche scapaccione al nipote.
«N-no, no!» esclamò concitata, agitando le mani «Cioè, è stato tutto un malinteso, non l’avevo sentito mentre mi chiamava e quando mi son sentita prendere per il polso, ecco… ho avuto paura che fosse un maniaco e non c’ho più visto. Lui non ha colpa, davvero.».
L’uomo l’osservò scettico, quasi incredulo che una pulce come lei avesse potuto conciare in quella maniera il nipote, decisamente più alto e robusto. Quando l’aveva visto aveva un leggero alone scuro all’altezza dello zigomo, poco sotto l’occhio sinistro, e la pelle tra il naso e le labbra era sporca di rosso, probabilmente per via di un’epitassi. Studiando meglio l’ombrello che la ragazza aveva posato vicino alla porta notò che un paio di stecche erano piegate – e, senza sapere d’aver pensato giusto, si chiese se per caso non l’avesse picchiato anche con quello. Doveva essersi veramente presa uno spavento assurdo, chissà come aveva reagito quando si era resa conto di chi aveva effettivamente di fronte. Magari aveva pianto – ma guardandola in viso si accorse che gli occhi non erano arrossati. Forse, semplicemente, non aveva pianto poi così tanto, ma era certo che in fondo si fosse sentita sollevata del fatto che il presunto maniaco non era altri che un suo amico particolarmente sfortunato, in quel momento.
Darukia, dal canto suo, si sentiva estremamente in imbarazzo. Quel vecchio la studiava come uno scienziato osserva una cavietta da laboratorio, attento, seppur cordiale. Almeno non l’aveva messa alla porta dopo aver scoperto che aveva barbaramente picchiato suo nipote. Si tormentò nervosamente le mani, leccandosi le labbra e alternando lo sguardo dalle scale all’uomo che aveva di fronte, vergognandosi a stare lì impalata.
«Ehm… davvero, mi dispiace, signor Bookman.» disse inchinandosi di nuovo, almeno sfuggiva a quelle iridi fredde «Non era mia intenzione far così male a suo nipote, non… non so davvero come scusarmi.».
«Non è a me che devi chiedere scusa.» replicò l’anziano storico «Ma se ti senti in colpa anche dopo aver chiesto il suo perdono, potresti provare a dargli una mano a medicarsi se ne ha bisogno. Deak è sempre stato una frana a disinfettarsi le ferite, ha una certa… ritrosia ad utilizzare certi prodotti.».
«Posso davvero…?» la ragazza rialzò la testa, perplessa.
«Prego. Il bagno è l’ultima stanza sulla destra. La camera di Deak si trova giusto accanto al parapetto delle scale a sinistra.».
«Allora… con permesso…».
Si chinò per togliersi le scarpe, accettando con un sorriso le pantofole che il vecchio le aveva messo davanti, e si avviò su per le scale, ritrovandosi in un corridoio illuminato dalle luci tenui delle plafoniere attaccate alle pareti. Si guardò attorno, notando immediatamente la quasi totale assenza di mobili in quell’ambiente, fatta eccezione per una cassettiera in legno scuro con sopra un centrino e una lampada.  Anche lì, nessuna foto. In quella casa sembrava davvero che i ritratti di persone fossero stati aboliti, rimpiazzati da quadri di paesaggi. La luce del lampione che avevano accanto al cancello penetrava fin lì, proiettando ombre sul tappeto che copriva il parquet. Decidendo di tralasciare l’arredamento, la ragazza fece per avviarsi verso il bagno – se doveva disinfettarsi, di certo era andato lì. Invece, il rumore di qualcosa che cadeva e una secca imprecazione la costrinsero a voltarsi verso la stanza di Deak. Si avvicinò titubante, bussando un paio di volte alla porta.
«Che c’è?» lo sentì chiedere, percependo perfettamente la nota scocciata nella sua voce.
«Ehm… hai bisogno di una mano?».
«No.» seccato e deciso come sempre, del resto.
Darkie sospirò, abbassando la testa. Era davvero impossibile tentare di riallacciare un qualsiasi rapporto con lui, se per primo le impediva anche solo di dargli una mano per botte che lei stessa gli aveva dato. Le dispiaceva, accidenti, perché non la lasciava parlare e pareva non dar peso alle scuse che diceva? Certo, di per suo pensava non aver altro per cui chiedergli perdono, anzi, se ne aspettava da lui visto il modo in cui la trattava. Tsk, sembrava davvero una fidanzatina abbandonata con il cuore a pezzi – ma non aveva nessuna intenzione di abbassarsi a piagnucolare per poter entrare, no davvero.
«Senti, posso entrare…?».
«Mi sto cambiando.».
«Oh. Allora… allora aspetto.».
«Sì, certo… sai che non puoi piantare le radici in corridoio, vero?».
«Beh…» si ritrovò a sospirare, sollevandosi la manica del cappotto per poter vedere l’orologio «Diciamo che se entro un minuto non sei cambiato, ecco, qualche uccellino dispettoso potrebbe mettere al corrente qualcuno di nostra conoscenza della tua involontaria esperienza come sacco da boxe.».
Lo sentì imprecare di nuovo, avvicinandosi a passo pesante alla porta e spalancandola – e guarda caso, era già sistemato di tutto punto. I pantaloni che indossava prima giacevano a terra, sostituiti da un paio più largo e comodo, da ginnastica. Le rivolse un’occhiata truce, quasi minacciandola con il solo sguardo di non azzardarsi a dire mezza parola su quel che era successo. Certo, in altri casi avrebbe lasciato correre, ma quell’avvertimento l’aveva colto del tutto impreparato, tanto che si stava già pentendo di averle aperto la porta. Visto che ormai il danno era fatto, tanto valeva sentire cos’aveva da dirgli, salutarla e tanti baci, ognuno per la sua strada. Schioccò la lingua riavviandosi verso il letto, permettendole solo in quel momento di vedere che la gamba sinistra dei pantaloni era tirata su, lasciando la pelle scoperta fino a metà coscia. Lei accennò un paio di passi esitanti all’interno della stanza, subito colpita dalla mostruosa quantità di libri stipati su ogni ripiano disponibile. Una parete accanto alla porta era occupata interamente da una grande libreria in legno scuro, mentre la parete più lunga era percorsa dagli armadi e, nascosto sotto, c’era il letto a ponte. La metà delle ante superiori erano state tolte per far spazio a mensole e libri, mentre sulla parete opposta rispetto all’ingresso vi era una grande finestra e la scrivania – incredibilmente in ordine, con libri e quaderni riposti in pile ordinate e le penne riunite in un barattolo nero. Sull’altro muro rimasto ancora mensole, mensole e mensole, tutte stracolme di volumi di ogni autore possibile ed immaginabile. La totale mancanza di foto veniva compensata dalla quasi soffocante moltitudine di tomi, se non altro. E si avvertiva anche nell’odore di carta che permeava nell’aria.
Deak, nel frattempo, si era seduto nuovamente sul letto e stava trafficando con il barattolo di disinfettante e del cotone. Sebbene bruciasse sfregava quasi seccato sulla ferita, concentrato, pur di non darle motivo di iniziare una discussione. Fu costretto a rialzare lo sguardo quando la ragazza, ponendosi davanti a lui, coprì la luce del lampadario – e solo allora si accorse che si era tolta il cappotto e l’aveva posato sullo schienale della sedia della sua scrivania. Lo guardava seria, osservando dispiaciuta quello che doveva essere il risultato di uno dei tanti calci che aveva tirato.
«Sei un vero disastro.» mormorò, chinandosi in avanti e prendendo un po’ di cotone, inumidendolo per bene con il disinfettante. Si sistemò in ginocchio sui talloni, tenendogli ferma la gamba con una mano «Aveva proprio ragione tuo nonno, a dire che con ‘ste cose non ci sai fare.».
«Non ho bisogno del tuo aiuto!» sbottò lui, facendo per tirare indietro la gamba «Sono capacissimo di arrangiarmi, non serve che tu mi faccia da baby-sitter.».
«Non faccio la baby-sitter, stupido.» ribatté la ragazza, rafforzando la presa sul suo tallone e premendo di più il cotone sulla ferita, guardandolo male «Vorrei solo che ti entrasse in quella testaccia più dura del granito che io con te ci voglio parlare, okay? Anche se mi trovi una rompipalle per chissà quale oscuro motivo.».
«Non ti trovo una rompipalle. Ma dato che non abbiamo niente di cui parlare, non vedo perché insistere tanto.».
«Sei tu che non mi dai la possibilità di trovare argomenti!».
«Va bene, allora forza, trovane uno.».
La ragazza si accigliò, riportando lo sguardo sulla ferita che stava tamponando. Poco più su c’era un piccolo alone nero, ma non si azzardò a premerci sopra un dito. Presa così in contropiede non sapeva davvero cosa andare a dirgli, il che significava anche dargliela vinta – ma da quando era tipo che si arrendeva così facilmente? Fece per dire qualcosa, ma si ritrovò a sentire lo sbuffo soddisfatto del ragazzo seduto sul letto.
«Come pensavo, non hai nessuna idea.».
«Perché non ci sono foto, in questa casa?» chiese allora, senza alzare lo sguardo.
«Sì che ce ne sono. Anche appese alle pareti.» Deak piegò appena la testa, osservandola mentre ripuliva per bene la ferita – ma no, Deak, non farti strani pensieri, si disse. Si sentiva stupidamente in colpa e voleva rimediare, ecco tutto. Uno stupido senso del dovere, per sentirsi a posto con se stessa.
«Solo paesaggi. Non ci sono persone.».
«Ce ne sono anche altre. Mica le teniamo tutte fuori. E comunque a me e Lavi non piace farci fare fotografie.».
Seguirono diversi minuti di silenzio, durante i quali Darkie finì di medicargli la ferita allo stinco. Fu quando tolse anche il calzino nero che si rese conto di aver combinato più pasticci del previsto. L’unghia dell’alluce era rotta a metà e il dito era tutto bordato di sangue. Un veloce esame le fece capire che lì poteva fare ben poco, se non ripulire il tutto cercando di fargli meno male possibile. Stupidamente si ritrovò a constatare che aveva anche piedi incredibilmente curati, per essere un uomo. Anche la sua stanza non aveva una virgola fuori posto, quella che sembrava una giacca della tuta era ripiegata per bene ai piedi del letto, non c’erano vestiti in giro – a parte i pantaloni che prima indossava -, niente consolle con cavi che spuntavano da ogni dove, libri e quaderni sistemati con una cura quasi maniacale. Insomma, quella stanza era l’esatto opposto di quella di Hichigo, molto più colorata ma anche infinitamente più disordinata. Inumidì per l’ultima volta il cotone, dando gli ultimi tamponamenti per togliere eventuali rimasugli sfuggiti.
«Ti conviene togliere l’unghia dopo esserti fatto una doccia o lasciato i piedi a mollo. Così la pelle sarà più morbida e darà meno fastidio.» disse, lasciandogli andare il tallone.
Il ragazzo sollevò il piede dopo una manciata di secondi, spostando lo sguardo dalle propria ginocchia al suo viso, sempre mantenendo un’espressione corrucciata.
«Ora sei contenta?».
«Prego?».
Se non altro, doveva riconoscere che quella ragazza aveva un ottimo talento nella simulazione: pareva sinceramente perplessa, come se la sua domanda l’avesse colta del tutto impreparata.
«Ti senti meglio con te stessa, ora che hai medicato le ferite che proprio tu hai causato?».
«Io non… mica l’ho fatto per compiacermi!» sbottò irritata, accigliandosi a sua volta «Figurati se devo proprio mettermi a fare la crocerossina per autocompiacimento! Non ho certo un ego del genere.».
«Ora verrai a dirmi che ti dispiaceva davvero e che l’hai fatto senza secondi fini.».
«No, il secondo fine c’era, e bene o male lo sto raggiungendo.».
Stavolta fu lui a non afferrare per bene il concetto. Possibile che avesse un fine ultimo di cui lui non si era nemmeno accorto?
«E sarebbe?».
«Sto parlando con te.».
Deak inarcò le sopracciglia, seriamente stupito. Era quello il suo fine? Poter parlare con lui? Ma cosa ne guadagnava, se lui per primo le rispondeva sprezzante com’era abituato a fare? Testarda e pure stramba, ecco cos’era quella ragazza. Evidentemente l’influenza di Hichigo era stata più forte del previsto. O forse era più propensa a rapportarsi con tipi “problematici”, come lui stesso riconosceva di essere – ma non per questo si biasimava, anzi. Sapeva di non essere un angelo sceso in Terra in quanto a rapporti con la gente, aveva perso il conto dei compagni di scuola delle altre città che aveva tenuto a debita distanza con il proprio atteggiamento. Per non parlare delle ragazze, ce n’erano state tre o quattro di un paio di anni più grandi che ci avevano provato con lui ai tempi del liceo – inutile dire che si erano viste rifiutate in malo modo, pensando poi di ferirlo nell’orgoglio accennando qualcosa circa al fatto che “con quella benda facevi pena, di sicuro non avrai mai rimediato nulla”. Non sapevano, loro, quanta rabbia si portasse dentro quel ragazzo – ma non per quelle parole, Deak passava la moneta per quel che valeva, in quel caso meno di zero, erano solo spinte dal loro amor proprio ferito dal suo netto rifiuto. Non odiava nemmeno le donne, c’era da dirlo – odiava che lo vedessero come un menomato per via di quella benda. Che aveva in meno degli altri? Nulla. Doveva solo sforzare un po’ di più l’occhio sinistro per vederci, ma nulla di più. Il suo ostinato orgoglio gli impediva di vedere in quella benda un handicap: certo, avrebbe preferito cento volte non essere costretto a portarla, d’altronde sapeva da sé di non avere alternative. Ma non poteva sopportare che la gente lo considerasse alla stregua di un ritardato solo per un pezzo di stoffa, come se da quello fosse conseguito un deficit mentale. La sua rabbia lo spingeva a dimostrare a tutti che non era affatto stupido, e anzi, ben presto sia lui che Lavi avevano rivelato due menti a dir poco geniali. La loro capacità di memorizzazione era quasi spaventosa, le loro interrogazioni parevano conferenze di luminari, non avevano difficoltà a risolvere anche i problemi più complessi. Di per contro, la cosa aveva tirato addosso ad entrambi le antipatie dei più invidiosi – e Lavi era stato quello che più ne aveva sofferto. Vedeva nel gemello il bisogno di sentirsi accettato, al di là della benda che portava all’occhio, al di là di quella mente fin troppo sveglia. Ma la disillusione sui rapporti umani sembrava accompagnarli entrambi per mano: non erano mai riusciti a legare con i compagni di classe, che si limitavano ai saluti di circostanza e quattro chiacchiere buttate lì.
Osservando la ragazza che in quel momento stava sistemando il cotone e la bottiglietta di disinfettante nella scatola del pronto soccorso, si rese conto che in effetti, per il fratello, quel posto era il Paradiso – o qualcosa del genere: spesso si fermava fuori con i suoi compagni di corso, pranzavano insieme o si ritrovavano a casa dell’uno o dell’altro per un pomeriggio di studio o una spensierata chiacchierata. Darukia, nel suo piccolo, aveva tentato di coinvolgerlo a sua volta, di farlo divertire, di fargli conoscere altra gente che sembrava di tutt’altra pasta rispetto a quella che era stato costretto a frequentare negli anni precedenti. Chissà se era sempre stata così propositiva nei confronti degli altri.
«Vi conoscete da tanto?» chiese d’un tratto, alzando lo sguardo a cercare quello di Darukia, vagamente perplesso «Tu e Hichigo, intendo.».
«Oh. Beh, ormai sono quasi due anni…» lei si grattò la nuca, guardando per un attimo il soffitto «L’ho conosciuto il giorno dell’esame d’ammissione. Ed era insopportabile almeno quanto tu lo sei tutt’ora.».
«Grazie, eh.».
«Dovere.» lei scrollò le spalle, accennando un sorrisetto «Se sono riuscita a rendere lui una compagnia piacevole, non vedo perché non potrei riuscirci anche con te.».
«Non mi farai il lavaggio del cervello, t’avviso.».
«Non voglio farti il lavaggio del cervello, stupido. Solo… provare a capire da che parte prenderti. E farmi considerare come un soggetto “non dannoso” ad un livello sufficiente per parlarti senza ricevere veleno in faccia. Un po’ come ora, insomma.».
«T’intestardisci così con tutti?».
La ragazza ammutolì per diversi istanti, come se ci stesse pensando a propria volta solo in quel momento. Non poteva negare a se stessa che qualunque altra persona gli avrebbe già tirato un ceffone e tanti saluti, piuttosto che sorbirsi le sue battutine e le sue rispostacce. Però lei ne era rimasta incuriosita, una volta passata l’irritazione dei primi attriti. Non era di certo quella che andava a caccia di cause socialmente perse per farle ridiventare amabili col resto del mondo, anzi, non si era mai esentata dal rispondere per le rime a chi la trattava in malo modo. Per Hichigo era stato un po’ diverso, lui non era cattivo, solo molto strafottente, e con un orgoglio a dir poco smisurato. Ma per lo meno, la ragione principale era visibile a tutti: si era sempre rifiutato di tingersi i capelli di nero per celare il proprio albinismo, sfoggiava la chioma chiarissima con una disinvoltura estrema – la medesima nonchalance con cui faceva parlare i pugni quando qualcuno azzardava più di una parola di troppo. Dietro la scorza rude Darkie aveva trovato una persona essenzialmente buona, ma bersagliata da troppi pregiudizi e cattiverie. Non c’era da stupirsi se era diventato un tipo da rissa per strada – e raccontava con fierezza tutte le volte in cui era stato sospeso da scuola per una scazzottata nei corridoi o in terrazza. Una personalità del genere, affiancata poi ad un elemento come Grimmjow, avrebbe potuto generale una miscela a dir poco esplosiva – le volte in cui erano quasi venuti alle mani erano state parecchie, agli inizi –, che però era sfociata in quella tipica amicizia tra maschi, fatta di sfottò a frequenza regolare ma assoluta fiducia e lealtà reciproca. Non c’era da stupirsi, infatti, che durante gli anni del liceo i due avessero passato più tempo in punizione insieme che ai club sportivi. Dopo il diploma l’albino e il fratello si erano trasferiti a Tokyo per studiare all’università, e Grimmjow aveva aperto la propria attività con Renji, altro scavezzacollo che aveva frequentato con lui il club di kick-boxing al liceo.
Deak, invece, non lasciava intendere i motivi del suo atteggiamento. Si rifiutava di credere che la sua acidità da zitella frustrata fosse naturale del suo essere, anche perché in quel momento stavano discutendo civilmente. Insomma, non l’aveva ancora cacciata fuori e questo era già un bel passo avanti, almeno dal suo punto di vista. Solo, non riusciva a vedere motivazioni chiare, palesi come poteva esserlo l’albinismo di Hichigo: l’unica “nota stonata” del suo aspetto era quella benda che portava, come il fratello, sull’occhio destro. Non riteneva che i capelli rossi fossero un fattore così “anomalo” da comportare pregiudizi da parte della gente, aveva visto ragazzi con le chiome tinte dei colori più disparati, che fosse un verde acido o azzurro cielo – e Grimmjow era un esempio lampante, giusto per citarne uno. Anche Renji vantava una chioma rosso fuoco, e pure bella lunga, sempre stretta in una coda di cavallo – e quei due erano tutto fuorché degli asociali, anzi, vivevano praticamente sempre a contatto con la gente. Forse era anche quello, sì, uno dei motivi che spingeva Darkie a cercare di conoscerlo meglio. Di per contro, pensandoci bene si diede pure dell’egoista: stava passando sopra le opinioni altrui per soddisfare la propria curiosità.
«Forse farei meglio a lasciar perdere, hai ragione.» disse, accennando un sorriso. Si rialzò in piedi, dandosi qualche pacca sui pesanti leggings neri e allungando un braccio per riprendersi il cappottino «O finirà che mi troverai davvero odiosa.».
Deak rimase alquanto perplesso a quella risposta, non combaciava affatto con i comportamenti che aveva tenuto fino ad allora. Era davvero una tipa stramba, quella lì. Però l’idea di “esser lasciato perdere” lo infastidiva senza una ragione precisa. Solo perché è una delle poche facce conosciute, si disse. E non sapeva ancora se quel pensiero fosse sincero o meno.
«Non ho detto nemmeno che ti troverei odiosa. Volevo sapere se per caso facevo parte di una lista di elementi selezionati.».
«Tsé, selezionati! Non ho un debole per le cause perse, se questo ti può consolare.» sbottò lei, sempre sorridendo «E no, non c’è nessuna lista. Te l’ho detto, vorrei solo… provare a capirti, tutto qui. Almeno, se poi mi manderai al diavolo definitivamente, potrò dire di averci almeno provato.».
Stavolta il ragazzo non disse nulla, limitandosi a sospirare e buttando un’occhiata verso la finestra. Si era fatto veramente buio, fuori, e di sicuro suo nonno non avrebbe mai permesso che Darukia tornasse a casa da sola. Non che ce l’avesse a morte con lei per averlo picchiato – ragionandoci un istante, una reazione simile era stata più che naturale, anche se non era di certo possibile dare la colpa solo a lui. Volente o meno si sarebbe ritrovato moralmente costretto a riaccompagnarla, o avrebbe dovuto sorbirsi i truci sguardi di suo nonno in caso si fosse rifiutato. Cercò con tutte le sue forze di non dare la colpa alla consapevolezza che qualcuno stava pedinando la ragazza: dopo essersi reso conto che lui non avrebbe lasciato da sola Darukia – seppur controvoglia -, lo sconosciuto si era volatilizzato nel giro di poco. Forse la sua poteva essere paranoia, eppure qualcosa gli impediva di mollarla fuori di casa da sola. Se solo Lavi l’avesse saputo, se ne sarebbe sicuramente uscito con un “te l’avevo detto, neanche tu lasceresti da sola una ragazza indifesa” – oddio, indifesa mica tanto…
Si sistemò un cerotto sull’alluce per tenere bloccata l’unghia e gettò sopra i pantaloni i calzini, alzandosi poi dal letto sotto lo sguardo perplesso della giovane.
«Scendi a cena? Forse è meglio che me ne vada.» si sistemò il cappotto addosso, armeggiando con la fibbia della cintura per richiuderla in vita.
«Ti accompagno.» sbottò lui, constatando con non poco sollievo che dopo una buona medicazione le ferite non bruciavano più così tanto. Rovistò in un cassetto per prendere un altro paio di calzini, prima di chinarsi per raccogliere gli abiti sporchi e riprendere a parlare «Mio nonno mi fucilerebbe se ti lasciassi uscire da sola con questo buio.».
«Ma no, non…» s’interruppe quando vide il ragazzo sorpassarla senza aggiungere altro.
Si apprestò a seguirlo in corridoio, aspettandolo mentre depositava i vestiti in bagno, e fino al piano di sotto, dove si fermarono per rimettersi entrambi le scarpe. Deak avvisò il vecchio Bookman che l’avrebbe riaccompagnata a casa e uscì senza nemmeno aspettarla, sistemandosi spiccio la giacca e la sciarpa – Darukia si congedò velocemente con un inchino e si affrettò a raggiungerlo, camminandogli accanto. Non si dissero nulla per buona parte del tragitto, entrambi presi dai propri pensieri per scambiarsi qualche parola. Fu solo quando arrivarono ai cancelli del residence dove vivevano i tre fratelli Kuchiki che Deak si decise finalmente a parlare.
«Ti sei ingraziata pure mio nonno, ora. Ma non pensare di averla vinta tanto facilmente.» cacciò le mani nelle tasche del giaccone, mormorando al di sopra del bordo della sciarpa.
«Detta così, la fai sembrare una sfida a conquistare il tuo freddo cuoricino.» replicò la ragazza, ghignando in risposta e atteggiandosi «Qualcosa del tipo “hai conquistato loro, ma non scioglierai anche me, con quei tuoi occhioni da cerbiatta, con quell’aria così dolce, con quel fare così posato e innocente!”, rendo?».
«Fare posato e innocente, tu? Parlo con la stessa persona che mi ha picchiato con la ferocia di una schizzata in piena crisi pre-mestruale?».
«E tu cosa ne sai, di crisi pre-mestruali? Parli per esperienza?».
«Lo sanno anche i sassi che voialtre femmine date di matto in quel periodo. Tu, poi, sembri tanto piccina e deboluccia, poi scalci peggio di un mulo quando lo ferrano…».
«Giusto perché tu lo sappia, non sto rimpiangendo nemmeno uno degli schiaffi che ti ho dato!» esclamò lei punta sul vivo, incrociando le braccia al petto.
«Inutile far tanto la sostenuta, hai già piagnucolato a sufficienza le dovute scuse.» Deak rispose con una linguaccia e un sorrisetto altrettanto bastardo, facendola infervorare ancora di più, tanto che gli rifilò uno spintone per allontanarlo. Poi però sembrò ripensarci e, dopo aver cercato per un po’ nella borsa, gli schiaffò in mano un oggetto che, sulle prime, Deak non riuscì a distinguere. Solo quando vide di cosa effettivamente si trattava, non riuscì a trattenere un’espressione alquanto scettica.
«Spray anti-aggressione? Ma starai scherzando!» cercò di renderglielo, ma Darkie fece un passo indietro, stringendosi le braccia al petto.
«Non si sa mai! Metti che un altro paracarri voglia venirti addosso, con quel bel faccino che ti ritrovi tenteresti anche un platano…» si affrettò a rimangiarsi le parole, non appena vide la sua mano stringersi a pugno ed alzarsi, quasi a volerle tirare un colpo in testa «Dai, scherzavo! Solo per sicurezza, eh? Magari te lo tieni in tasca e non te ne fai niente, ma insomma, metti che veramente gira gente strana…».
«Tsk, ma figurati se mi metterebbero mai le mani addosso.» sbottò lui, intascandoselo con aria seccata e voltandosi «Io vado, ciao.».
«Ah, ehm… uno squillo quando arrivi? Tanto per star sicura?».
«Ma certo, mammina. Vuoi anche che ti mandi una foto con tanto di dedica, magari un “ciao amore, sono ancora tutto intero, nessuno ha messo a rischio la mia virtù”?».
«Ma la finisci di sfottere?! Che deficiente che sei!».
«Sei tu che hai paranoie da fidanzatina ansiosa!».
«Fidan-…?! Mi pare normale preoccuparsi per i propri amici!».
«Vabbé, dai, ti faccio ‘sto benedetto squillo che almeno ti calmi! Ora ti spiace se vado?».
«Tsk, vai pure! E vedi di non schiantarti di nuovo, stavolta!».
Deak borbottò qualcosa e scrollò le spalle, allontanandosi. La ragazza rimase a fissare il punto in cui era sparito, svoltando l’angolo, prima di decidersi a tornare in casa, sbuffando come una locomotiva. Che razza di tipo! Tra sé, però, non riuscì a trattenere un sorrisetto: che gli piacesse o meno, era riuscita almeno in parte nel suo intento.
 
*** *** ***
 
Un paio di giorni dopo, con non poco sollievo, Byakuya vide la scrivania dell’ufficio occupata proprio da Hisana. Di suo era stato assente per via di una causa felicemente conclusasi con la condanna dell’imputato, peraltro colpevole senza possibilità d’errore – troppe erano le prove contro di lui -, era stato un caso forse troppo semplice. La vide salutarlo con un bel sorriso, il viso con un colorito finalmente sano e, immancabili, alcune pratiche da fargli firmare. Quell’attimo di idilliaca pace, però, ebbe vita assai breve: osservò irrigidendosi come un pezzo di marmo la sua segretaria che, con ancora in mano la cornetta del citofono e un sorriso quasi angelico, gli annunciava che quello che aveva appena suonato non era un cliente o il postino con delle carte da consegnargli, ma nientemeno che Yoruichi, la persona più baldanzosa e irriverente che conoscesse. Per quanto bene potesse volerle come amica d’infanzia, ovviamente. Questa si presentò con un sorriso che andava da un orecchio all’altro, placcando Byakuya prima che questi potesse andare a rintanarsi nell’ufficio con la scusante di qualche cliente urgente da sistemare.
«Byakuya-bo, finalmente riesco a trovarti.» disse, salutando Hisana con un cenno della testa «Ho provato a chiamarti un sacco di volte a casa e non ti ho mai trovato, in questi giorni. Praticamente mi sto scarrozzando dietro queste carte da un’eternità, e sai che non posso mica venire quando ti fa più comodo. Ma fino a che ora stagni qui in ufficio, si può sapere?».
«Non ho orari definiti, Yoruichi, dovresti ben saperlo. E comunque, mi pare che tu vada e venga quando ti pare e piace, non quando fa comodo a me.».
«Dettagli, dettagli. Ma per lo meno verso le sette e mezza dovresti esserci, a casa. L’altra sera ha risposto Darkie e ha detto che le avevi appena avvisate che avresti tardato per non ricordo cosa…».
«È… è colpa mia.» pigolò timidamente Hisana, arrossendo di botto.
Due paia di occhi si piantarono su di lei, facendola diventare ancora più rossa – Yoruichi, poi, la guardava come se fosse stata un’aliena, chiedendo spiegazioni con il solo sguardo. Non riusciva davvero a vedere il nesso tra la segretaria e l’assenteismo di Byakuya da casa. A meno che…
«È che… in questi giorni sono stata male, e il dottore è stato così gentile da assistermi dopo l’orario d’ufficio… ma non pensavo che vi avrebbe causato ritardi con il lavoro, dottore, mi dispiace!» farfugliò, inchinandosi dispiaciuta.
Non poté vedere lo sguardo sbalordito dell’agente, che si alternava da lei all’uomo che aveva accanto il quale, nel mentre, sperava ardentemente che non si sentisse in colpa per le parole di Yoruichi – aveva il vizio troppo radicato di sentirsi un disturbo, accidenti a lei.
«Sarei stato comunque impegnato per preparare l’udienza di ieri per poterle leggere con la dovuta attenzione, Hisana, quindi non c’è motivo di scusarsi.» disse, incrociando le braccia al petto.
«Byakuya-bo, ma voi due…».
«No.» fu la secca risposta dell’avvocato «Prima che tu ti faccia strani film mentali, Yoruichi, metto in chiaro che tra noi non ci sono chissà che tresche da romanzetto rosa. Stava male e l’ho aiutata, tu non faresti lo stesso se qualcuno dei tuoi stesse male?».
«Beh, oddio, dipende.» la donna si grattò svogliatamente la nuca, continuando a fissare entrambi «Un tipo come Omaeda dell’ufficio di sorveglianza forse no. Non che abbia qualcosa contro di lui, chiariamoci, ma di certo non starei ore extra fuori casa solo per vederlo vomitare in preda alla febbre.».
Touché, pensò Byakuya. D’altro canto non se la sentiva di spifferare ai quattro venti che Hisana non aveva nessuno che potesse assisterla e, ovviamente, non voleva dare l’idea sbagliata di averlo fatto per pietà nei suoi confronti. Vero era che per la maggior parte del tempo Hisana era rimasta a letto a parlare con lui, sonnecchiando di quando in quando anche per pochi minuti, mentre magari lui ne approfittava per portare via una scodella vuota o portarle altro tè caldo – sempre, ovviamente, sotto lo sguardo inquisitorio della palla di pelo che teneva in casa. Solitamente quel gatto se ne stava steso sul letto accanto alle gambe di Hisana, rispondendo con le fusa ai lievi grattini che lei gli faceva dietro le orecchie, a quelle che parevano di più blande carezze – e miagolava quando la sentiva fermarsi, come a rimproverarla di aver interrotto quel piacevole passatempo.
Ma Hisana, quasi con ingenua vergogna, ammise a mezza voce che no, lei non aveva dato di stomaco mentre Byakuya era in casa. Aveva “avuto l’accortezza di evitarlo”, mormorò, perché la cosa l’avrebbe imbarazzata parecchio. Cosa ci fosse di imbarazzante Byakuya non lo sapeva davvero, lui che si era preso cura per anni delle sorelline quando stavano male era veramente abituato a tutto – ma, più probabilmente, era dovuto al fatto che Hisana fosse poco avvezza ad avere gente estranea in casa, figurarsi in un momento del genere.
«Yoruichi, vieni nel mio ufficio.» disse d’un tratto, prendendo dalle mani della poliziotta la busta. Si avviò verso la porta, fermandosi prima di abbassare la maniglia «Hisana, per cortesia, vorrei prima delle 14 la programmazione della settimana e i vari colloqui previsti, specie per quanto riguarda gli avvocati della difesa di quel magnate.».
Attese solo la conferma da parte della giovane, prima di entrare nella stanza e far accomodare la poliziotta, che lo seguì con un sorrisetto che andava da un orecchio all’altro.
«Ma da quando gli avvocati si prendono cura delle proprie segretarie malaticce?» la donna attese che chiudesse la porta, prima di parlare «Non dirmi che non è una trama da romanzo perché non ci credo neanche se mi paghi.».
«Yoruichi, piantala. Hisana è un’ottima segretaria, con la testa a posto. Non è assolutamente una di quelle che fanno le gattemorte per avere favoritismi.» Byakuya s’avviò alla propria scrivania, gettandoci sopra la busta e facendo il giro per sedersi sulla poltrona.
«Non ho mai detto questo, Byakuya-bo. Ha troppo il faccino da brava ragazza per essere una di quelle che mostra la scollatura per un aumento. È che è strano da parte tua, non dire di no. Insomma, a che io sappia finora ti sei sempre e solo preso cura delle tue sorelle, mai delle tue dipendenti.».
«Una volta anche di te, ma eri talmente stordita dalla febbre che mi hai vomitato sulle pantofole non appena mi sono seduto accanto al tuo letto.».
«Oddio, te ne ricordi ancora? Non è stata colpa mia, dai. Avevo un po’ lo stomaco deboluccio, allora.».
«Lasciamo perdere questo argomento, per ora. Hai novità?».
Yoruichi sospirò, tornando seria. Sapeva fare la simpaticona, specie con Byakuya, ma sapeva anche quand’era il momento di smettere di scherzare.
«Poco e nulla, per ora. Ma le prime voci hanno iniziato a girare, sanno che ti stai occupando di questo caso, Byakuya, non ci metteranno molto a darsi da fare e sai anche tu che quella è gente che non scherza. Ne hai parlato con Rukia e Darkie?».
«Ovvio che no, non nel dettaglio, almeno. Meno sanno di questa storia e meglio è.» mormorò lui, meditabondo «Stavo pensando di mandarle per un po’ di tempo alla villa, ma sono in pieno anno accademico e non se ne andranno senza motivazioni valide.».
«Cerca solo di proteggerle, Byakuya. Nella più malata delle ipotesi, potrebbero colpire loro per cercare di fermarti. Sanno che non ti fermi davanti a niente, non sarebbe strano se le prendessero di mira.».
«Non dirlo neanche per scherzo.» la voce di Byakuya si ridusse ad un ringhio, mentre stringeva nervosamente le dita intrecciate «Chiamerò mio padre e gli chiederò due agenti della nostra scorta, non posso permettere che gli succeda qualcosa. Ma spero davvero non debbano mai avere occasione di agire.».
«Lo spero per te, Byakuya. Comunque sia, pare che alla lista delle persone legate a quel simpatico personaggio, e scomparse in circostanze del tutto sconosciute, si sia aggiunta anche una donna, una cugina alla lontana. Non si hanno più notizie di lei da più di dieci anni e nessuno sa che fine abbia fatto.».
«Stai cercando di dirmi che è possibile che venga aggiunto un altro capo d’imputazione? Mi pare che quelli già presenti siano sufficientemente gravi da assicurargli la prigione a vita, come minimo.».
«È una possibilità da non escludere. Specie se, nel frattempo, la suddetta donna dovesse tornare… o meglio, venisse ritrovata con pochi lembi di pelle attaccati alle ossa, se rendo l’idea.».
«La rendi pure troppo.» Byakuya sospirò, sfogliando i documenti prima contenuti nella busta «Farò il possibile per farlo finire in gabbia, Yoruichi. Su questo puoi starne certa.».
«Lo so che quando ti metti in testa un’idea non la cambi neanche a morire, Byakuya-bo. Esattamente come quando eri un bambinello testardo che s’infiammava per un nonnulla.».
«Le tue interruzioni ai miei allenamenti di kendo non erano un nonnulla.».
«Io però mi divertivo a farti imbestialire.» Yoruichi ridacchiò, scrollando le spalle «Dai, ti lascio lavorare. In bocca al lupo, Byakuya-bo.».
«Lo spero davvero.» fu la pronta risposta, mentre tornava a concentrarsi su quei dossier.
 
 
Erano ormai le 19 passate, quando Byakuya richiuse gli uffici. Salutò Hisana con un cenno della testa, prima di avviarsi verso la macchina e metterla in moto, sparendo alla vista della giovane alla prima curva. Hisana si lasciò scappare un sospiro, stringendosi nel cappotto e immergendo il viso nella sciarpa: vero era che mancava poco più di un mese e mezzo alla primavera, ma le temperature erano ancora veramente rigide, non ci teneva a passare un’altra settimana a letto con la febbre. Lungo il tragitto non prestò più di tanta attenzione a chi la circondava, tutti se ne stavano imbacuccati nei pesanti cappotti, sembrava quasi che il trascorso Natale si fosse portato via tutta la vitalità della gente, i negozi e le strade erano già state spogliate di tutte quelle lucine che avevano rallegrato le fredde serate in città. Poggiò la tempia contro il finestrino dell’autobus, osservando distratta il paesaggio scorrerle davanti agli occhi attraverso il vetro appannato e leggermente sporco all’esterno. Non vedeva davvero l’ora di arrivare a casa e farsi un bagno caldo, rilassarsi un po’ dopo quella giornataccia – non aveva avuto un attimo di tregua, sempre presa da chiamate e programmazione dei colloqui. Per non parlare dell’incontro con Yoruichi, sulle prime l’aveva scambiata anche per la fidanzata dell’avvocato – ma, ragionandoci un istante, Byakuya non avrebbe dichiarato con tanta leggerezza di esser rimasto da lei piuttosto che a casa, se davvero tra loro c’era qualcosa. Altra conferma arrivò proprio da Yoruichi che, tra una chiacchiera e l’altra, aveva accennato ad un certo Kisuke, lasciando intendere un rapporto ben più profondo della semplice amicizia. E quando, timidamente, Hisana le aveva chiesto se sapesse in che modo poteva sdebitarsi nei confronti di Byakuya, lei le aveva risposto qualcosa del tipo “Il solo fatto che tu sia qui per lui è un ringraziamento più che sufficiente, anche se non vuole ammetterlo.”. Aveva subito chiarito che non c’era chissà quale risvolto romantico nella sua frase, cercando di sedare bonariamente l’imbarazzo che aveva causato. Era una tipa simpatica, quella Yoruichi – e diamine, era veramente bella. La pelle ambrata sembrava impreziosita dalle iridi quasi dorate e dai lunghi capelli scuri, tendenti al viola. La superava d’altezza, ma era anche fisicamente più formosa di lei – decisamente più formosa. Insomma, faceva la sua bella figura tra la gente, specie in divisa – e non osò immaginarla in abiti formali o eleganti, anche per salvaguardare un po’ la propria già misera autostima in confronto ad una bellezza del genere.
Una volta scesa dal mezzo, si fermò a pochi passi dalla porta della palazzina per cercare le chiavi nella borsetta. Mentalmente prese nota di dover chiamare gli addetti all’illuminazione del palazzo, visto che le luci avevano dato bellamente forfait. Si spostò poco più sotto del lampione, con la testa ancora china alla ricerca del mazzo scomparso – non si accorse dell’aitante giovane che le arrivò alle spalle, senza sfiorarla né nulla, ma ad una vicinanza tale da renderle difficile riuscire a girarsi per vederlo in viso.
«Chiedo scusa, signorina…» mormorò, la voce ben udibile nonostante il filtro della sciarpa «Lei è per caso la segretaria dell’avvocato Byakuya Kuchiki?».
Hisana fermò la mano ancora immersa nella borsetta, cercando di sciogliere i muscoli che le si erano improvvisamente irrigiditi – e non solo per il freddo – a constatare che non aveva abbastanza spazio, intrappolata tra quell’individuo, il cestino dell’immondizia e il palo della luce.
«Chi vuole saperlo?» chiese in risposta, cercando di riunire quanto più coraggio possibile.
«Lui sa chi sono, non si preoccupi, signorina. E dal suo scetticismo deduco che sì, lei è la sua segretaria. Come mai tutta questa rigidità? Non sono un maniaco, mi creda.».
«Faccio fatica a crederlo, quando lei per primo non mi permette di vederla in viso. Cosa vuole da me?».
«Oh, niente di che, davvero. Solo, vorrei che riferisse al suo principale che gli conviene davvero interrompere tutte le sue indagini nel caso di quel famoso magnate di cui lei ha sicuramente sentito parlare. Sa, non si sa mai come trattare con certa gente, potrebbero non prendere bene il suo ficcanasare nelle faccende altrui…».
«Non si permetta di fare minacce!» esclamò lei, cercando di voltarsi – ma lui la bloccò sul posto, puntandole qualcosa contro la schiena. Non volle davvero assicurarsi che si trattasse di un semplice indice o di qualcosa di peggio.
«Non faccio minacce, signorina. Il mio è un semplice avvertimento. Ne vogliamo uscire tutti sani, no?» quella voce melliflua le sfiorò l’orecchio, facendola rabbrividire per il disgusto «Mi raccomando, lo faccia sapere al suo capo. Non vorrà mica che succeda qualcosa a lui o alle sue adorabili sorelline, vero?».
Hisana non riuscì a rispondere, raggelata. Stava valutando tutti i modi per riuscire a voltarsi e bloccare quel tipo, vederlo almeno in viso, ma prima che potesse farlo sentì quella pressione alla schiena sparire, e un frettoloso rumore di passi allontanarsi. Deglutì prima di girarsi, quasi tentata di rincorrerlo – ma quel tipo, chiunque esso fosse, si era velocemente mescolato alla gente che passava in quel momento, impedendole di capire chi potesse essere. Recuperò in fretta le chiavi e salì fino a casa quasi correndo, premendosi contro la porta dell’appartamento e riprendendo fiato solo dopo essere entrata. Non le aveva fatto molestie di sorta, quel tipo, ma le sole parole erano bastate a farle venire i brividi come poche altre volte in vita sua. Shiro, fermo sul tappeto del corridoio, la fissava senza nemmeno avvicinarsi mentre, lasciandosi scivolare seduta sul pavimento, la ragazza prendeva tra le mani il cellulare. Aveva messo in memoria il numero di Byakuya sin dal giorno in cui lui stesso glielo aveva lasciato, ma non aveva mai trovato il coraggio di chiamarlo, anche solo per ringraziarlo. Ma se davvero era a rischio lui, o addirittura le sue sorelle, non poteva starsene zitta. Inspirò profondamente più volte, tentando di comporre il numero con le dita sufficientemente ferme.
 
 
Byakuya era rientrato da poco, abbandonando la giacca e la borsa nella propria camera. Sciolse il nodo della cravatta, sistemandola sulla sedia, e si diresse in cucina. Darukia era tutta presa a preparare la cena, canticchiando sommessamente tra le labbra, mentre la sorella finiva di preparare la tavola.
«Nii-san, stasera sei tornato presto.» disse Rukia, sistemando i bicchieri sui rispettivi posti «Niente impegni, stavolta?».
«No, Hisana si è rimessa perfettamente.» rispose sovrappensiero, sedendosi sul divano e aprendo il giornale. Non si accorse minimamente dello sguardo che si erano scambiate le sorelle, alquanto perplesso.
«Scusa, ma chi sarebbe Hisana? Una fidanzata di cui non sapevamo niente?»  chiese l’altra, senza riuscire nemmeno a rimettere il mestolo nella pentola piena di verdure.
«La mia segretaria, Darkie. Non è la mia fidanzata.».
«No, no, fammi capire.» Rukia agitò le mani, frenetica «Sei stato a casa della tua segretaria malata per prenderti cura di lei, in questi giorni?».
Stavolta Byakuya si trovò costretto a rialzare lo sguardo dalle notizie economiche, squadrando le gemelle che lo fissavano con tanto d’occhi.
«Rukia, per piacere, non fare come Yoruichi che si è fatta chissà quali film mentali. In parte è stata anche colpa mia, mi pareva il minimo.».
Darkie si sentì strattonare per il braccio dalla sorella che, con espressione fin troppo allegra, aveva cominciato a tirarla a sé.
«Darkie, ti ricorda niente? È come in Midnight Secretary, solo che lui era un capo aziendale e pure vampiro!».
«Effettivamente la tresca capo-segretaria è gettonatissima pure nei manga…» la ragazza si sfiorò il mento, osservando attenta il fratello.
«Non c’è nessuna tresca, vi ho detto!».
«Aah, stoico e freddo come Kyouhei! Ti mancano solo i canini e le compresse di sangue finto, nii-san!».
«E tutte le belle donne che si ripassava per avere sangue fresco…».
«Ma poi ha scelto la serietà e la semplicità della dolcissima Kaya.».
«In effetti poi ha voluto solo lei come compagna… meglio non dire come faceva per avere il sangue allo stato migliore, però.».
«Ragazze, ho una vaga idea di quali idee malate vi stiano frullando per la testa, ma torno a ribadirvi che tra me e Hisana non c’è stato assolutamente niente, nessuna tresca e nessunissimo coinvolgimento fisico-emotivo mentre eravamo in casa sua.» Byakuya depose il giornale, tanto era certo che non avrebbe più letto in tranquillità nemmeno una riga. Possibile che tutti fraintendessero? La cosa cominciava pure ad irritarlo «Aveva la febbre e l’ho aiutata, visto che non ha parenti che possano occuparsi di lei se sta male.».
Le gemelle parvero quasi ponderare le sue parole, accennando poi un vago sorrisetto mentre tornavano ad occuparsi delle loro faccende.
«Sai che comunque noi tifiamo per te, nii-san. Insomma, è un peccato che caruccio come sei, non trovi una donna pure tu. Voglio dire, passi il bell’aspetto, ma se c’è riuscito uno dalla parolaccia facile come Grimmjow, non vedo come non possa riuscirci anche tu.».
«Non ho tempo per le relazioni, Rukia, non vedi pure tu che non so mai a che ora torno la sera?».
«Per questo ti stiamo dicendo che, in caso la tua fidanzata fosse anche la tua segretaria, riuscireste a passare comunque del tempo insieme.».
Era una battaglia persa, decisamente. Byakuya si rassegnò ad alzare metaforicamente la bandiera bianca, quando si trattava di certi argomenti le gemelle partivano in quinta – e chi riusciva più a fermarle? Venne salvato, ringraziando il cielo, dallo squillare del telefonino che aveva lasciato in camera. Si diresse a passo spedito nella stanza, cercando bonariamente d’ignorare le gemelle che ridacchiavano alla faccia sua, e raccattò il cellulare dalla tasca.
Il numero chiamante era sconosciuto, al che avvicinò l’apparecchio con un certo scetticismo.
«Pronto?».
«Dottor Kuchiki? Mi dispiace disturbarla, sono… sono Makimura.».
«Hisana! È successo qualcosa?».
Occhieggiando verso la porta vide Rukia e Darkie semi-nascoste dall’angolo del muro ad origliare, aggrottò le sopracciglia dirigendosi verso la porta per richiuderla. Ma rimase con la maniglia stretta nel pugno, i lineamenti così induriti da sembrare scolpiti nel marmo. Aveva previsto che, da quando avrebbe cominciato a circolare la voce che il caso era in mano sua, ci sarebbero stati dei guai. Sojun gli avrebbe mandato due agenti delle loro scorte per tenere al sicuro almeno le gemelle. Quello che non aveva calcolato, però, era che avvicinassero persino Hisana. Sentì un brivido corrergli su per la schiena, sebbene in casa fosse più che caldo. E, stranamente, non fu affatto per le sottili minacce che la segretaria gli stava riferendo in quel momento.
   
 
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