Fanfic su artisti musicali > David Bowie
Ricorda la storia  |       
Autore: MadnessInk    23/12/2012    5 recensioni
-Mi spiega come faccio a truccarle l'occhio se non lo chiude? Vuole che le trucchi il bulbo oculare?-. E David si limitò solamente a dire:-Trevor, dopo lo show provvedi a licenziare questa dipendente inutile-. -Ma mr. Bowie, che sta dicendo? È la m...- e lui, sbraitando letteralmente: -Taci, fa' quello che ti ho detto!-. A quel punto Mya non resse più.
Genere: Commedia, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
   >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Faceva freddo, molto freddo. Era la metà di maggio inoltrata, è vero, ma faceva freddo. Dentro e fuori. Mya si guardò al parasole dotato di specchietto del taxi che aveva preso. Il tassista, un suo vecchio amico, la aveva fatta sedere davanti, per avere una conversazione e perché, sì, era sua amica. Che stupore quando Mya entrò nel taxi e vide quel viso così familiare. Balbettò il suo nome, Massimo e, quando lui annui dicendo a sua volta il nome di lei, i due si abbracciarono come se non si vedessero da anni. In effetti era così. Erano ormai undici anni che Massimo non aveva più notizie di Mya. Undici anni. Una vita. Così, come ho detto, la fece sedere davanti.

-Allora Mya, dove ti porto?- chiese con un tono allegro il tassista ventottenne. La ragazza si tolse gli occhiali da sole scuri e opachi, sfoggiando un bel paio di occhioni azzurri tendenti al ghiaccio e, sorridente gli rispose: -Al Pavillon de Paris-. Max, come lo chiamava lei ai tempi delle medie, quando erano compagni di banco, esclamò accendendo la radio: -Certo!-, poi dopo una breve pausa riprese: -Vai a vedere il concerto di David Bowie?- e lei, sempre sorridendo:-Non esattamente. Sono comunque lì per l'evento. Tu piuttosto, come sei finito a fare il tassista a Parigi?- domandò lei, pregando che non avesse toccato un argomento delicato. -Oh beh, sai che ho sempre desiderato fare il tassista. E sai che ho sempre adorato Parigi. Così... faccio il tassista a Parigi. Vivo qui con mia moglie e i miei due bambini- e lei, entusiasta :-Sei sposato? E hai dei bambini? È meraviglioso!- e lui, con aria orgogliosa, giacché erano al semaforo, prese il portafogli dalla tasca e ne uscì una foto. La mostrò a Mya : -Questi siamo noi. Questa è mia moglie- disse indicando la donna bionda al quale era abbracciato -Questo è Dante- disse indicando un bambino di cinque anni con i capelli biondi e gli occhi scuri, poi proseguì -E questa invece è Beatrice- e indicò una bimba di tre anni con i capelli neri e gli occhi verdi. Mya sorrise, mostrando il suo bianchissimo sorriso a trentadue denti ed esclamò: -Siete bellissimi! Hai dei figli meravigliosi. Ed una moglie molto bella. Complimenti. Sembra... Alice!- e lui, orgoglioso : -Infatti è Alice, Alice che veniva con noi alle medie- e lei, ridendo gridò: -L'avevo detto io che vi sareste sposati!-. Lui sorrise e riprese a guidare, poi ché il semaforo era diventato ormai verde.

Dopo qualche secondo si rivolse a lei: -E tu? Che fai nella vita?-. Lei sorrise e abbassò lo sguardo, poi si girò verso di lui sorridente e rispose: -La truccatrice- e lui, con aria dispiaciuta e interdetta: -Sei portata, è vero, ma non odiavi truccare le persone?-. Guardandosi allo specchietto del parasole e aggiustandosi il ciuffo della lunga, folta e brillante chioma corvina, lei rispose ridacchiando:-Infatti. E lo odio tutt'ora-. Poi sospirò -Ma non posso farci niente. Ho iniziato da truccatrice molti anni fa-. Lui, curioso, andò avanti con le domande sull'argomento: -E chi trucchi?-. Mya si morse il labbro sorridendo : -Se te lo dico ti prego di credermi e di non metterti a ridere, va bene?- e lui ridendo: -Ok, va bene-. Mya si unì alla risata e poi, sbuffando disse : -Ecco, stai già ridendo. Comunque... lavoro per David Bowie. Mi occupo del suo trucco. Sono la sua make up artist personale- e lui, rimasto a bocca aperta : -Oh, e com'è? Lui intendo- e lei, tranquilla, come se stesse parlando del vicino di casa : -Oh, tranquillo, molto simpatico e molto professionale. Come la maggior parte delle celebrità è un po' capriccioso, però... ci si accontenta-.

Trenta glaciali secondi di imbarazzante silenzio. Alla radio si sentirono le prime note di “The Fool On The Hill”, dei Beatles. Mya lanciò un'occhiataccia alla radio. Odiava i Beatles, li odiava con tutto il cuore. Avevano avuto un successo immeritato. E odiava a morte quella canzone. Sembrava parlare di lei. Anzi, si domandava spesso se il buon McCartney non l'avesse vista un giorno per caso in un bar e ci avesse scritto una canzone. Dopo quei glaciali trenta secondi iniziarono a ridere entrambi : -No, non mi posso lamentare!- disse Mya e poi, pensando alle parole che aveva appena pronunciato, sospirò. Max cambiò discorso: -Immagino che anche tu sia sposata-. Lei rise di gusto: -Affatto! Te l'ho detto: io non mi sposerò mai!- in realtà rideva di sé stessa. Non si sarebbe mai sposata. Per un motivo o per l'altro. Non aveva un bel carattere: era introversa, fredda e diffidente. Era seria, aveva la testa sulle spalle la ragazza. Forse era per questo che non si sarebbe mai sposata. Perché non era un tipo che se ne andava con il primo che capitava. La maggior parte dei ragazzi che conosceva erano tutti pretendisti, scortesi, sessisti e volevano una ragazza facile. Lei non lo era, non lo era affatto. E questo la consolava almeno un po'. Comunque sta di fatto che arrivarono alla meta. -Max- disse Mya -è stato bello rincontrarti. Porta i miei saluti alla tua famiglia. Quanto ti devo?- e lui, come se fosse offeso: -Come sarebbe a dire quanto ti devo?- poi sorrise e si gettò al collo dell'amica -Un abbraccio basta e avanza- e perciò lei lo abbracciò. Quando si staccò da quell'abbraccio soffocante fece per prendere il portafogli dalla borsa, ma Max subito le si rivolse: -Mya, non voglio soldi. È stato un piacere accompagnarti. Stammi bene- lei sorrise e scese dal taxi. Si affacciò al finestrino: -Max, grazie mille. Stammi bene anche tu-. Dopo averle concesso un sorriso Max sfrecciò via, dopo qualche secondo non lo si poteva vedere più.

Mya si incamminò verso l'entrata riservata allo staff. Non ci sarebbe voluta andare, ma dovette. Mostrata carta di identità e tesserino alla sicurezza arrivò di fronte alla porta del camerino del Duca. Che cosa passasse per la testa di Mya in quel momento, che esitava ad aprire la porta, lo si capiva: non voleva entrare. Ma perché? Preso coraggio aprì la porta ed entrò. Era vuoto. Non c'era anima viva. Tirò un sospiro di sollievo ed entrò, poi si chiuse la porta alle spalle.

Non osò neanche pensare di appendere il suo trench all'attaccapanni o di poggiare i suoi effetti personali sul tavolino di quella stanza. Chiese a Jim, l'addetto all'acustica, se poteva poggiare le sue cose nel camerino delle coriste dove stava anche lui. Il ragazzo ovviamente acconsentì. Dopo essersi lavata le mani mise in ordine tutto il necessario al trucco: creme, fondotinta, ciprie, blush, primer, matite, ombretti e così discorrendo. Mise al loro posto anche le spugnette e i pennelli. Raccolse i capelli in una coda di cavallo e poi in uno chingnon. Si lavò nuovamente le mani. Era una maniaca dell'igiene, lei. Sentì aprire la porta. Si girò come se ci fosse qualcosa o qualcuno che non voleva vedere. Era solo il manager di Bowie, Trevor, un quarantenne di radici latine, estremamente gentile e simpatico. -Ciao Mya!- le disse l'uomo. Lei sorrise e ricambiò il saluto: -Ciao Trevor, come stai?- -Io sto benissimo, grazie. Tu?- le chiese l'omone e lei, rispose sorridendo: -Anch'io me la passo tranquillamente-. Trevor la mise al corrente dell'arrivo del Duca: -Attualmente è alla sicurezza-.

Neanche fece in tempo a dirlo che lui, in tutto il suo fascino, entrò dall'altra porta. Già tutto vestito accuratamente: camicia bianca, panciotto nero, pantaloni e scarpe del medesimo colore. Un look alquanto contrastante con la sua chioma tinta: rossa e bionda, tirata all'indietro. Gli mancava solo il trucco. Eppure lo faceva sempre per secondo il trucco. Lui non disse una parola, non si degnò neanche di dire “Buonasera, iniziamo”, che si sedette e si mise comodo.

Mya gli si avvicinò: -Vuole un bicchiere d'acqua prima di iniziare, signor Bowie?- e lui, quasi irritato: -No, no. Iniziamo subito. Non ho voglia di perdere tempo in chiacchiere stasera. A proposito, solito trucco, ma stavolta fammi una linea di eyeliner più marcata sull'occhio destro. Iniziamo dal sinistro oggi-. -Come desidera, signor Bowie- e si mise all'opera.

Stese la crema idratante e protettiva, poi il correttore liquido sulle occhiaie, intorno al naso e intorno alla bocca, poi passò un velo di fondotinta liquido con un pennello apposito, non c'era bisogno di metterne tanto, la sua pelle era già perfetta così. Prese un blush aranciato e lo stese nella zona vicino alle tempie e delle guance, per scolpire il viso. Poi fissò con della cipria neutra. Prese del primer illuminante e con il pennello picchiettò gli zigomi, il naso e la fronte, Si lavò di nuovo le mani. Iniziò a lavorare sull'occhio sinistrp. Ci stese una base color carne. Poi applicò su tutta la palpebra mobile e al limite della rima interna inferiore un ombretto marroncino e lo sfumò. Prese un ombretto color champagne e lo applicò sull'arcata sopraccigliare e nell'angolo interno dell'occhio. Fu la volta dell'eyeliner: tracciò una linea sottilissima attaccata alle ciglia.

Fin qui nessun problema. Quelli arrivarono non appena passò all'occhio destro. Bowie era stanco di stare seduto. Gli si erano addormentate le gambe. Odiava quando gli si addormentavano le gambe, ma voleva finire in fretta, non voleva perdere tempo, il Duca.

Mentre Mya lo truccava, lui prese a canticchiare, a fischiettare e, purtroppo, anche a parlare. Canticchiando faceva delle piccole, quasi impercettibili, oscillazioni con il capo. E dopo più o meno un nanosecondo, inevitabilmente...-Ah! Sta' attenta!- urlò Bowie. Mya, molto dolce e paziente, si rivolse al ventinovenne: -Cerchi di non muoversi, così non le farò male- lui stava per replicare, ma quando fece per aprire bocca, un grazioso ciuffetto di capelli di Mya, quello facente parte del ciuffo principale, sfuggì alla presa dell'elastico e scivolò accanto al viso della ragazza, che aveva gli occhi sull'occhio dell'artista, stava mettendo l'eyeliner. Rimase lì a fissarlo con l'occhio sinistro, quel ciuffetto nero nero così lucente, accostato alla pelle chiarissima della sua dipendente. Spostò un attimo lo sguardo quando gli occhi di lei incontrarono il suo. -Ho quasi fin...- Non fece in tempo a finire la frase che subito, lui, gridando come un pazzo: -Sei impazzita? Vuoi farmi un occhio e un occhio? Cos'è quella linea?- E lei, sgranando gli occhi: -Mi ha detto lei di farla più spessa-. David girò la testa chiudendo l'occhio sinistro, quello destro non voleva più chiuderlo, con fare molto snob, altamente snob: -Sciocchezze!-. Mya, capriccioso com'era David, disse, molto pazientemente: -Va bene, lo strucco e lo rifacciamo, d'accordo?- e lui, credendo di sembrare superiore, mentre Mya cercava di tenergli fermo l'occhio sinistro che lui non voleva chiudere, esclamò: -Non abbiamo tempo, per oggi chiuderò un occhio-. Mya, al limite della sua pazienza, senza alcuna intenzione di essere comica: -Possibilmente quello che sto truccando, altrimenti sbavo-. Sì sentirono le risatine soffocate dello staff. Bowie, sentendosi offeso disse: -Che ridere. Cerchi di essere meno spiritosa e di rendersi utile facendo bene il suo lavoro, perché è per questo che la pago-.

A quelle parole i nervi percossero la schiena di Mya. “È per questo che la pago”. Lei che lavorava per lui da nove anni e che lo supportava da undici. Lei che non voleva essere pagata, lei che non lo faceva che per lui. Lui che la supplicò, all'epoca, di andare con lui altrove, di seguirlo, senza pensare al suo futuro, solo a quello di lui. E lei... lei lo fece. Era l'unica amica che aveva del resto. Se gli avesse detto no... gli sarebbe crollato il mondo addosso a quel poveretto.

Perciò, dopo un attimo di interdizione disse, cercando di non perdere la pazienza che aveva già perso: -Chiuda l'occhio- e lui, non capendo la situazione, in modo impertinente: -Oh, che seccatura!- e l'occhio non lo chiuse comunque. Lei, davvero stavolta al limite della sua pazienza che aveva già perso da cinque minuti che cercava di truccargli quell'occhio: -Mi spiega come faccio a truccarle l'occhio se non lo chiude? Vuole che le trucchi il bulbo oculare?-. E David si limitò solamente a dire:-Trevor, dopo lo show provvedi a licenziare questa dipendente inutile-. Inutile. Inutile. Lei inutile? Eppure non le sembrava che fosse così inutile quando lui piangeva tra le sue braccia, come un bambino tra le braccia della mamma. Quando lei passava dolcemente le mani tra i suoi capelli e lo consolava “La gente non ti capisce Davey, sei troppo per loro” gli diceva. E ora la definiva inutile. Trevor, di tutta risposta, in difesa dell'amica sempre gentile e cordiale con lui si oppose: -Ma mr. Bowie, che sta dicendo? È la m...- e lui, sbraitando letteralmente: -Taci, fa quello che ti ho detto!-. A quel punto Mya non resse più.

-Senta, qui lei è circondato da un sacco di gente, sa? Gente che ogni giorno, ogni ora, ogni minuto e ogni secondo che il loro contratto prevede e non, danno il massimo per soddisfare le sue esigenze, qualunque esse siano. Qui tutti lavorano duro per renderla una celebrità. Certo, nessuno di loro finisce sul giornale, ma tutti si fanno in quattro, in sei, in mille pezzi per farla finire sulla prima pagina di una qualunque rivista.- fece una breve pausa, guardandolo dritto negli occhi. Lui se ne stava lì con gli occhi sgranati e con la faccia di chi si dice “Oh, cazzo”.

Poi lei riprese, un po' più calma: -Ognuno di loro qui ha fatto e fa tutt'ora sacrifici immani per lavorare qui, non per farle da straccetto usa e getta. Qui dentro siamo tutti uguali, abbiamo gli stessi diritti e gli stessi doveri, poiché siamo tutti umani. Ci sono persone che lavorano qui da più di cinque anni. Jessie e Cassie, le due gemelle stiliste, sono con lei proprio da cinque anni. Jim, l'addetto all'acustica, è qui da sei anni. Per non parlare di Danny, Tim, Ivette e Alex, che sono qui dai tempi della sua Space Oddity.- Lui li guardava tutti, con i suoi occhioni glaciali, man mano che lei li nominava. Lei continuò: -C'è gente che è arrivata ieri, il mese scorso, un anno fa, non importa. Sono stati disponibili sin dal primo nanosecondo che hanno firmato il contratto. C'è gente che non lo fa neanche per soldi. E neanche per lei. Lo fanno perché a loro piace il loro mestiere, perché si sono conosciuti e vogliono mantenere intatta la loro amicizia, perché a loro piace viaggiare e conoscere nuove persone, perché vogliono imparare una nuova lingua, perché non possono tornare a casa. C'è anche qualche suo fan. C'è persino chi, poveretto, è innamorato di lei-.

Una lunga pausa. Lui la guardò dritto negli occhi, convinto che lei stesse alludendo a sé stessa. Lei capì e scosse la testa. L'aveva colto alla sprovvista. Nessuno lo aveva mai umiliato in quel modo. Poi lo guardò con i suoi occhi glaciali, ma glaciali davvero e fu lui a spaventarsi. Lei abbassò lo sguardo che si addolcì. Poi proseguì: -Quante ragazze ho sentito piangere la notte a causa sua. Per la sua scortesia. Quanti ragazzi erano amareggiati per i suoi comportamenti. Persone che la amano e che la prendono per ciò che è e persone che si ammazzerebbero per il suo piacere. Quanti ne ho consolati e quanti di loro erano inconsolabili e poveri loro, illusi. Sa che cosa dico a tutte queste persone?- Lui, ormai nelle sue mani, scosse la testa, come un ebete . Lei gli rispose: -“Pazientate, sarà un brutto periodo per quella povera anima. Starà avendo problemi, non vuole far vedere che un cuore ce l'ha, perché forse qualcuno glie l'ha spezzato tempo fa. Passerà, passerà”-.

Abbassò lo sguardo per un attimo e si interruppe bruscamente. Poi tornò a fissarlo gelidamente negli occhi. Non era mai stata così con lui. Andò avanti: -Sinceramente ho smesso di crederci anch'io da un sacco di tempo, forse non passerà mai più. Lei sbaglia, mio caro, lei sbaglia. Fingere di non avere un cuore non la rende più forte, anzi, la rende più vulnerabile. Non starò qui a dirle tutti i suoi difetti e neanche suoi pregi, potrei fare un corposo elenco in entrambi i casi. Lasci solo che le dica una cosa: si guardi intorno-. Lui la guardò con l'aria di chi si dice “Ma parli sul serio?”. E lei, indicandoli: -Avanti, su. Guardi quanta gente che c'è qui-. Lui girò lentamente con la sua sedia girevole. Lei continuò a parlare: -Li guardi tutti e pian piano diventi consapevole che loro, tutti loro, chi più, chi meno, chi in un modo, chi in un altro, lavorano per lei. E tutti loro, lo può notare in ogni sguardo, anche di chi cerca di nasconderlo, chi in un modo, chi in un altro, ci tengono a lei-.

“Ci tengono a me” si ripeté in testa David. E si girò di nuovo verso Mya. I suoi occhi parlavano per lui, che non si muoveva per risparmiare le energie necessarie a respirare. Dicevano “Davvero? Ci tengono a me?”. In quel momento l'espressione gelida che aveva caratterizzato per la maggior parte del tempo lo sguardo mi Mya, lasciò posto ad una dolcezza unica: -Sono tutti qui per lei. Sa cosa, soprattutto, li tiene qui?-. Lui ebbe l'impressione di essere lontano dal capirlo, lei gli tolse immediatamente il dubbio: -Ciò che li tiene tutti qui è l'amore. L'amore sotto qualunque forma, verso chiunque o qualunque cosa, non importa. L'ho detto prima e lo ripeto: qui hanno tutti gli stessi diritti e gli stessi doveri. Loro hanno il dovere di lavorare, che è anche un diritto, lei ha il dovere di rispettarli tutti, dalla ragazza che le porta il caffè al suo manager. Lo guardi, lo guardi il suo manager, a cui appena qualche minuto fa ha ordinato sbraitando di tacere-. Lui si voltò a guardarlo, lei andò avanti con il suo discorso: -Sa che cosa ha pensato in quel momento? Uh? Lo sa?- David scosse la testa, Mya lo guardò e addolcì il tono: -Ha pensato “Ma guarda tu, io mi ammazzo per questo. Io lascio mia moglie e i miei figli la mattina presto, mentre dormono e li rivedo la notte, mentre dormono. E questo mi ripaga così. Ma che m'importa, è solo lavoro”. Eppure in cuor suo sa che non è così. Sa che infondo a questo ventinovenne dai capelli rossi vuole un sacco di bene. E sta zitto. Loro, tutti loro non sono venuti qui a fare gli schiavi per lei e non se lo meritano neanche, dal momento che tutti qui le portano un rispetto che non si porta neanche ad una madre, ad un padre, al proprio Dio-. Mya si interruppe e guardò David negli occhi con un'espressione dolce e triste, tipo da “Riesci a capirlo?”. Poi proseguì, con tono più fermo del precedente: -Ora stia fermo, in silenzio e mi lasci fare il mio lavoro, dal momento che, come ha giustamente detto prima lei, vengo pagata per lavorare.- Quelle parole, “pagata per lavorare”, le disse con una tale acidità... poi ritornò al tono fermo: -Dato che lì fuori c'è della gente che aspetta di vedere il proprio idolo, dopo aver affrontato tante stancanti ore di viaggio e aver pagato somme esorbitanti. E faccia attenzione all'immagine che trasmette ai giovani lì fuori, che crescono con il suo esempio, se un giorno sbaglieranno gli effetti si ritorceranno gravosamente contro di lei, dal momento che la gente spesso fraintende le buone intenzioni.- Con lo sguardo abbassato e con il tono di chi l'ha provato sulla propria pelle: -Non glie lo auguro proprio-. Poi riprese normalmente: -E ora chiuda quel benedetto occhio e finiamola qui-. E riprese a fare il suo lavoro. David la guardava, la fissava, la studiava, la ammirava, forse se la stava mangiando con gli occhi, anzi, con l'occhio. Lei era a pezzi, aveva il cuore in pezzi. Da troppo tempo ormai le cose tra loro due andavano a rotoli. Dai tempi di Ziggy e gli Spiders non si concedevano del tempo per loro. Non erano amanti, no, non lo erano affatto. Erano l'uno il migliore amico dell'altra. E poi... lui iniziò ad essere Ziggy e iniziò a trascurarla sempre di più, fino a scordarsi di tutto quello che avevano passato insieme. Mya pensò a tutto questo e quasi pianse. Si dedicò infine alle labbra, le sue bellissime labbra. Dopo un minuto si rivolse all'uomo: -Ecco fatto. Può andare, maggiore Tom- disse facendolo alzare, poi continuò: -Prenda le sue pillole proteiche e si metta il casco, controlli l'accensione e che, davvero- si interruppe e gli accarezzò il braccio, guardandolo con gli occhi di chi ti sta dicendo addio e poi, con tono di chi è giunto alle sue ultime parole gli disse: -Dio l'assista-. Poi si voltò, chiuse fulminea il tutto e se ne andò fuori, senza voltarsi a guardarlo per l'ultima volta. Perché per lei quella sarebbe stata davvero l'ultima volta.

Lui era lì. Fermo. Non si muoveva. C'era chi si chiedeva se respirasse ancora. Le guardie del corpo lo scortarono in prossimità del palco, dove riprese coscienza e si rese conto che, tutto impupato, stava per salire su di un palcoscenico. Bevve un bicchiere d'acqua e poi si mostrò alla folla che, già in delirio di suo, strillò e lo acclamò.

Mentre il concerto andava e lo staff intero era lì a goderselo, Mya era appoggiata alla porta di ingresso riservata allo staff, guardando le stelle e ascoltando il Duca cantare. D'altronde non poteva andare da nessuna parte senza le sue cose. Mentre pensava a neanche lei sapeva bene cosa, forse se c'è vita su Marte, le si avvicinò Trevor: -Ciao- le disse. -Ciao Trevor- rispose lei con lo sguardo ancora alle stelle e subito proseguì: -Hai da fare?- e lui, con la faccia da punto interrogativo: -No, perché?-. Mya sospirò impercettibilmente e poi disse con un filo di voce, come per paura che qualcuno la sentisse: -Vorrei parlare delle mie dimissioni-.

Trevor era letteralmente a bocca aperta. Non sapeva che dire. Per un momento pensò che stesse scherzando, ma poi ripensò al modo in cui gli si era rivolto e capì che non stava né scherzando né mentendo. Parlava sul serio, la mora: -N-non avrai preso sul serio quello che ti ha detto David, vero?- e lei, con tono amareggiato: -No, è una decisione che ho preso da un po' di tempo, avrei comunque dato le dimissioni oggi. Le carte sono qui- e glie le porse: -Copie dei documenti necessari, eccetera. Ho fatto fare i conti a un buon ragioniere, per questo mese non desidero essere retribuita. Dobbiamo solo firmare. Nient'altro-. Dopo queste parole la mascella inferiore di Trevor era, in breve, arrivatagli ai piedi. Non voleva crederci. Dopo undici anni al suo fianco, Mya voleva lasciare David a sé stesso e al suo successo che, già da tempo, lo stava consumando.

Non aprì bocca, sapeva che sarebbe stato inutile tentare di convincerla a restare. Entrarono nel camerino delle coriste e, con fare sbrigativo, Trevor tirò fuori una penna stilografica nera. Firmò e anche lei firmò. Fu un istante e Mya non faceva più parte dello staff di Bowie.

Mya si alzò, prese il suo trench marroncino, la sua borsa e le altre sue cose, poi si avvicinò a Trevor: -Grazie Trevor, grazie mille, non solo per questo, ma per tutto quello che hai sempre fatto per tutti noi. Grazie. Mi assicurerò di lasciare ogni cosa relativa allo staff alla reception dell'albergo. È stato un piacere lavorare con tutti voi. Vi auguro il meglio-. Trevor era in procinto di piangere, e tutto ciò che riuscì a fare fu abbracciare la ragazza e augurarle il meglio. Mya si allontanò salutando Trevor con la mano. Poi si bloccò e gli gridò: -Saluti allo staff e ai musicisti!- e poi, dopo un ultimo cenno della mano svanì nella fredda Parigi di quel 18 maggio 1976.

Mya prese un taxi, il primo che si fermò. Salì e chiese di portarla all'albergo nel quale alloggiava. L'autista annuì e, accelerando, accese la radio. Cercò una buona stazione radio e, dopo vari tentativi, ne mise una a caso. E, neanche a farlo apposta, ancora quell'odiosa canzone: “The Fool On The Hill”. Mya prese a chiedersi se quella sera le stazioni radio ce l'avessero con lei. Chiuse gli occhi e cercò di non pensarci. Non ci volle molto, il tassista prese una scorciatoia e arrivarono dopo appena dieci minuti all'albergo. Mya scese velocemente dal taxi e, molto cordialmente, pagò l'autista che, appena ricevuti i soldi e aver salutato, sfrecciò via alla velocità della luce.

Mya, ancora sul ciglio della strada, si voltò lentamente: era lì, silenzioso come non mai, l'albergo dove lei, il Duca Bianco e tutto lo staff alloggiavano. Si diresse verso l'ingresso. Il portinaio, cordialmente, le aprì la porta: -Buonasera, signorina, è in anticipo stasera- le disse l'uomo sulle trentacinque anni. -Oh, sì, ho finito prima stasera- e così dicendo lo salutò con un sorriso e andò a prendere le chiavi della sua stanza, poi si dileguò verso le scale.

Guardò in alto, verso le altre scalinate, e si ricordò che a separarla dalla sua stanza vi erano cinque piani. Già, proprio come nel film “L'uomo che cadde sulla terra”, in cui aveva recitato David, nel ruolo principale. Si disse “Ah, dannazione, avrei potuto prendere anch'io l'ascensore!” e poi proseguì per le scale, non le andava di tornare indietro. Preferiva farsi quei cinque piani di scale che sembrare una persona che non sapeva cosa fare. Perché ormai era come una bambina persa in un enorme centro commerciale: spaventata e indifesa. Cercava la mamma. Ma Mya, in quel momento, non lo sapeva neanche lei che cosa cercava. Forse un nuovo lavoro. Sì, quella sarebbe stata la priorità, cercarsi un lavoro e una casa. Una casa fissa. Pensando a tutto ciò non sentì neanche il peso di quei cinque piani, che si trovò a dover infilare la chiave nella serratura. Aprì la porta, entrò e se la richiuse alle spalle.

Lasciò il suo trench sull'attaccapanni, i suoi occhiali da sole e la borsa sul tavolino. Non si sedette sul letto, non voleva rovinarlo, tanto, aveva deciso, se ne sarebbe andata quella sera stessa. Non poteva sopportare l'idea di stare nello stesso albergo in cui alloggiavano gli altri. E David, l'albergo in cui alloggiava David.

Perciò prese le valige e le mise sul tavolo. Ci ripose quelle poche cose che aveva uscito: qualche pantalone, due o tre camicie e cose così. Decise di lasciare fuori solo la borsa, gli occhiali e le sue décolleté nere. In più uscì della biancheria intima nera, un pantalone nero, una maglietta nera e un altro trench, nero stavolta. Non aveva proprio intenzione di sembrare allegra. Uscì inoltre tutto quello che riguardava il suo lavoro. Cioè, meglio, il suo ex lavoro. Lo lasciò sul tavolo, promettendosi che li avrebbe impacchettati più tardi. Poi si spogliò, mise gli indumenti che aveva addosso nella valigia, ad eccezione della biancheria intima, che mise nel cesto della biancheria. Chiamò per telefono una delle donne che si occupavano della pulizia della camera e del resto, le disse di lavarle quello che c'era nella vaschetta e che la mancia, per il buon servizio svolto nel corso dei tre giorni di permanenza lì, era sul tavolo.

Poi schizzò sotto la doccia, con l'intenzione di farsi la doccia in meno di venti minuti. Cosa un po' impossibile, dato che i capelli le arrivavano sotto il seno e che erano tantissimi. Perciò aprì l'acqua: era calda, troppo calda. La mise gelida, così da sollecitarsi a fare alla svelta e iniziò ad insaponarsi tutta. Il suo sguardo era vuoto. Vuoto, nel vero senso della parola. Inutile dire a chi il suo pensiero fosse rivolto. Al Duca, mi sembra ovvio. Odiava ciò che era diventato, un'ombra di se stesso, un serpente che cambiava pelle continuamente, senza mostrare chi fosse realmente. Così freddo, spento, calcolatore. Sul palco così come nella vita privata. Le avevano detto che gli inglesi erano freddi di natura, ma lui non era come tutti gli altri. Almeno non lo era quando lo conobbe.

Prese a massaggiare energicamente lo shampoo sui capelli. Poi li sciacquò. Fece questa operazione per altre due volte, poi si diede un'ultima sciacquata generale e si strizzò i capelli. Prese l'asciugamano e se lo avvolse intorno al corpo. Ne prese uno più piccolo e ci avvolse i capelli, poi uscì dalla doccia.

Asciugatasi il corpo indossò la biancheria intima e poi il pantalone e le scarpe. Tamponò i capelli con l'asciugamano e poi li pettinò. Dopo di che li asciugò con il phon e la spazzola. Dopo aver terminato l'opera, si infilò la maglietta e passò al trucco.

Quella sera non voleva apparire. Anzi, non voleva mai apparire. Perciò stese la crema idratante sul viso, poi il correttore sulle poche imperfezioni cromatiche, poi un velo di fondotinta, un po' di blush rosato sulle gote. Del mascara sulle ciglia, una sottile linea di eyeliner, una base panna su tutto l'occhio, poi dell'ombretto molto naturale sulla palpebra mobile, dello champagne sull'arcata sopraccigliare e nell'angolo interno dell'occhio. Un balsamo idratante per le labbra, poi una matita marroncina per il contorno e un rossetto di una tonalità più chiara della matita, seguito da un gloss trasparente. Mise a posto tutto ciò che aveva utilizzato, si assicurò di non aver sporcato niente e poi uscì dal bagno, mettendosi un goccio di un anonimo profumo alla vaniglia. Poi andò verso il tavolino dove aveva lasciato il materiale riguardante il suo ormai ex lavoro.

Erano tutti lì: le magliette, i pennelli, tutti i cosmetici e le creme, gli accessori. Prese un pacchetto precedentemente comperato e ci mise dentro il tutto, molto velocemente, così da non sentirsi trafiggere il cuore dai ricordi. “E pensare che ho fatto così tanto per lui. No, non l'ho fatto per David Bowie, io l'ho fatto per David Jones. E David Jones, almeno per adesso, non so dove sia, se c'è ancora...” si diceva mentre sistemava le cose. Che rabbia, dannazione, che rabbia. Non ci pensò ulteriormente e chiuse il pacchetto. Si infilò il trench nero, prese la borsa, si infilò gli occhiali da sole, malgrado fosse quasi notte fonda, prese le valige e il pacchetto, prese le chiavi della stanza e, senza voltarsi a guardare, aprì la porta, uscì e se la chiuse alle spalle. Non era il tipo che si piangeva addosso per le proprie scelte, Mya. O almeno generalmente.

Scese in tutta fretta le scale, con l'acqua alla gola, poiché a breve lo staff sarebbe tornato all'albergo, non voleva vedere nessuno di loro prima di andarsene. E non voleva che nessuno di loro la vedesse, così debole, abbandonata a se stessa, lasciare in anticipo l'hotel, perché non sopportava più la vista di Bowie. In realtà non lo pensava neanche. Non avrebbe mai potuto non sopportare la vista di quello che, tanto tempo prima, era stato il suo migliore amico. No, non poteva. Gli voleva bene come un figlio. Lo trattava come fosse suo figlio, lo amava come fosse suo figlio e quella sera dovette sgridarlo proprio come fosse suo figlio. Così si diresse alla reception e, con fare sbrigativo, consegnò il pacchetto. “Per Trevor” c'era scritto sopra. Ovviamente l'unico Trevor che lei conoscesse e che sarebbe venuto a chiedere il famigerato pacchetto era il manager di Bowie, e questo lasciò detto. Disdisse la prenotazione per quella e le eventuali successive notti, sbrigò altre varie formalità e uscì frettolosa dall'albergo, senza voltarsi a guardare.

  
Leggi le 5 recensioni
Ricorda la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
   >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Fanfic su artisti musicali > David Bowie / Vai alla pagina dell'autore: MadnessInk