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Autore: e m m e    24/12/2012    20 recensioni
È opinione comune che, dopo il suo finto suicidio, Sherlock torni da John nel giro di tre anni.
La verità, però, è che non se n’è mai andato. Non realmente.
[Per il Big Bang Italia]
Genere: Angst, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: John Watson , Mary Morstan, Nuovo personaggio, Sherlock Holmes
Note: What if? | Avvertimenti: Triangolo
Capitoli:
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Noticina: Prima di cominciare, visto che vi apprestate a leggere l’ultimo capitolo, ci tengo a dire principalmente questo: la mia Beta.
A volte mi chiedo come ho fatto a vivere senza una Beta per tanti anni. Gente fatevi una Beta perché le Beta sono un amore.
Quante volte sto ripetendo Beta? Tante, sì. La mia Beta mi direbbe di trovare un sinonimo. Io allora cancellerei la parola perché il sinonimo non ho voglia di trovarlo.
E probabilmente la punteggiatura di questa nota è un macello, perché io con le virgole ho dei problemi seri. Non andiamo proprio d’accordo.
Menomale che c’è la mia Beta.
Quanto è bella la mia Beta?
Ah, la mia Beta si chiama Geilie, ed è anche un’eccellente autrice, quindi filate a leggere le sue belle storie. <3

 

Capitolo VI

I successivi due mesi trascorsero rapidi e febbrili.
John e Sherlock si incontravano spesso durante la settimana, sempre fuori casa, sempre in posti affollati. Se John ci avesse riflettuto davvero si sarebbe reso conto che in tutto quel lasso di tempo non c’era stato un solo momento in cui fossero rimasti soli, davvero soli.
Aveva cercato di capire il perché di questa paura latente, il perché di questi passi leggeri in avanti quando tutti i muri da abbattere erano quasi distrutti, quando ogni barriera poteva essere superata con un piccolo salto, quando la rabbia aveva lasciato il posto all’accettazione e l’amicizia aveva ceduto all’amore.
Si era messo a pensare e aveva trovato una serie di motivi per cui la paura lo stava bloccando: Mary era sempre lì, pronta ad accusarlo – come nella realtà probabilmente non avrebbe mai fatto – di averla tradita, di non averla mai amata veramente; c’era quel panico buio e intenso che John non aveva cuore di sondare, quei primi mesi in cui l’unica certezza era stata la morte di Sherlock, c’erano tutte quelle cose non dette, le domande non poste, le risposte che non sarebbero mai arrivate. E infine c’era quella responsabilità immane che lo vedeva come primo ed unico amore di un sociopatico iperattivo. John non era proprio certo di saper gestire quel ruolo, non era proprio certo di riuscire a non fare del male a Sherlock e non era proprio certo che il suo cuore avrebbe retto.
Tra tutti i dubbi che potevano sorgergli riguardo a una sua possibile relazione con Sherlock, di certo nessuno aveva a che fare con Sherry, perché il bambino non era mai stato così tanto a suo agio con un adulto in tutta la sua breve vita.
John li vedeva impegnarsi in conversazioni al limite del logico, sugli argomenti più svariati, dalla fisica quantistica – ma davvero suo figlio capiva quella roba?! – al metodo migliore per avvicinarsi a un alveare senza essere punti dalle api.
Non era mai stato in grado di fornire al cervello di Sherry abbastanza nutrimento e Sherlock sembrava invece la persona adatta a quel compito. Certo era però che mai gli avrebbe lasciato in custodia il figlio, dato che entrambi erano capacissimi di dimenticarsi di mangiare per due giorni di seguito.
Fu un periodo caotico, dunque, in cui i due uomini girarono l’uno attorno all’altro in attesa di qualcosa che rompesse una staticità nella quale entrambi non riuscivano più a resistere, ma della quale non sembravano poter fare a meno.
Furono necessari un parto improvviso e inaspettato, una deduzione quanto mai fuori luogo, un bambino iperattivo e tutta la proverbiale pazienza di John per arrivare molto vicini alla fine di questa storia.

***

È domenica mattina e Sherlock sta finendo di esaminare una scena del crimine.
Ragazzo, quindici anni, rapporto sessuale non consensuale pre-mortem, soffocamento, rapporto sessuale post-mortem.
Tracce di liquore sulle labbra, abbordato fuori da un pub, troppo giovane per entrare, inizialmente era consenziente. Conclusione: l’assalitore è di bell’aspetto, giovane, meno di trent’anni, sposato a giudicare dai lividi sul collo della vittima.
« È il secondo omicidio di questo tipo in due settimane » dice Lestrade. Lui non guarda il cadavere, la Donovan non guarda il cadavere, nessuno dei poliziotti attorno a Sherlock ha il coraggio di guardare il cadavere.
John saprebbe mantenere il controllo, pensa Sherlock.
Si solleva dalla posizione accucciata che ha tenuto fino ad allora. « Bianco, tra i venticinque e i trent’anni, massimo trentadue, sposato, la moglie è in attesa di un figlio o in procinto di partorire. Viene da fuori città, un paesino nei dintorni di Londra, immagino. Sarò più preciso una volta analizzate le tracce dei pneumatici sulle quali avete provveduto tutti a camminare. »
La pelle del ragazzino è bianca e screziata di rosso, un contrasto crudele con la terra del cantiere edile dove è stato ritrovato. Sherlock cerca delle impronte mentre Lestrade si annota le sue parole. Inutile: il terreno è troppo secco, non piove da cinque giorni.
Sherlock osserva i riccioli ambrati del ragazzo – sostanza nera appiccicata ai capelli – pensa improvvisamente a Sherry, scuote la testa e torna a concentrarsi sulle cose importanti.
Il cellulare squilla. John.
« Ho bisogno di te. »
Parole che Sherlock vuole sentirsi dire da quando è tornato, ma in quel particolare caso il senso è un po’ diverso.
« Per cosa? »
« Sarah è entrata in travaglio con due mesi di anticipo. »
« E allora? »
« Devo andare in ospedale, Bill potrebbe avere bisogno di me. »
« Perché? »
« Perché... per un minimo di conforto, Sherlock! »
Tono indignato di quando le cose sono semplici e Sherlock non capisce, mentre è palese che le cose siano state trasformate da semplici in complesse.
« E allora? »
« Ho bisogno di qualcuno che badi a Sherry. »
Sottofondo: « Io non ho bisogno di qualcuno che badi a me! »
« Chiedi alla Signora Hudson. Sono impegnato. »
« La signora Hudson è fuori città, mia sorella è fuori città, la baby-sitter è fuori città, Molly è fuori città. Sono tutti fuori da questa benedetta città. »
« Tu hai paura che uccida tuo figlio. Non chiederesti mai a me. »
« Sono con le spalle al muro, Sherlock. »
Lancia un’occhiata al cadavere del ragazzino, Lestrade si sta spazientendo, non può deludere di nuovo John.
« D’accordo, dammi dieci minuti ».

Dieci minuti non sono nemmeno lontanamente sufficienti per risolvere quel caso. Non lo dice a Lestrade, ma per risolvere quel caso c’è purtroppo bisogno di un’altra vittima. La prima aveva ventitre anni, la seconda quindici e nemmeno un accenno di barba. Capire se si ha davanti uno stupratore seriale e necrofilo oppure un pedofilo e necrofilo.
Pensare a Sherry non aiuta. Pensare a Sherry e John è inutile e pericoloso, distrae, trascina via brandelli di cervello da utilizzare in modo proficuo. Suo fratello aveva ragione quando diceva che curarsi degli altri, soffrire, non è un vantaggio.
Ma ormai è troppo tardi, no?
I sentimenti sono un difetto chimico di cui adesso non è più in grado di fare a meno.
John apre la porta tre secondi dopo che Sherlock ha suonato il campanello. Già pronto per uscire, ansioso. Sherry è in piedi dietro di lui, è contento di vederlo ma arrabbiato col padre: non vuole essere controllato.
« Devo scappare » dice John e gli tocca un braccio stringendo appena le dita. Contatto fisico. Sherlock ne vuole ancora, ne vuole sempre ancora quando si tratta di John. Mai successo prima.
« Il pranzo è già pronto, basterà metterlo nei piatti. Siete in grado di ricordarvelo? »
Sherlock gli lancia un’occhiataccia. Non dovrebbe essere lì. Dovrebbe essere ad analizzare un cadavere all’obitorio, forse due cadaveri. Dovrebbe scoprire che cosa è la sostanza nera e vischiosa attaccata ai capelli rossi del ragazzino.
Passa una mano tra i capelli altrettanto rossi di Sherry mentre questo distoglie lo sguardo da John, senza salutarlo, imbronciato.
Gli piace, il bambino. Non si comporterà con Sherry nello stesso modo in cui Mycroft si comportava con lui, non lo allontanerà dalla sua parte più umana. Hanno lo stesso nome, ma sono diversi, in infiniti, infiniti modi.
« Vuoi sentire la mia musica preferita? » gli domanda Sherry all’improvviso. Sherlock alza gli occhi: è passata mezz’ora in cui né lui né il bambino si sono mossi, lui intento a navigare tra i suoi pensieri, il piccolo intento a sfogliare uno dei suoi libri sugli indiani.
« Sì » dice Sherlock, ma non ascolterà. Deve pensare: ha già visto quel colore nero, brillante, appiccicoso... se solo avesse potuto avvicinarsi e annusare, prenderne un campione.
La Sonata N°2 in LA minore di Bach si sparge in tutta la casa all’improvviso e all’improvviso è impossibile pensare al caso, perché quella è la musica che Sherlock ha lasciato per John.
Distrazione, distrazione, distrazione. Tutto è una continua fonte di distrazione, persino l’odore di John che aleggia per quella casa è una distrazione.
Si passa una mano sugli occhi e si distende sul divano, raggomitolando le gambe contro il petto, come un gatto.
Sherry gli è accanto in pochi secondi, la sua voce sovrasta la musica e interrompe l’incantesimo.
« Stai male? »
« No » e non è nemmeno una bugia. Non sta male, è solo un continuo infinito disagio, un pensiero fisso, un tarlo che scava nella sua mente.
« Vuoi che spenga? Non ti piace? »
No. Sì. No. Niente è chiaro, niente è più limpido. Le cose erano semplici quando John credeva ancora nella sua morte. Adesso a Sherlock sembra di camminare costantemente sulle uova e non riesce più a chiudere la mente nei suoi compartimenti stagni.
Sherry spegne la musica comunque e a Sherlock sembra di respirare un po’ meglio. Arriva un sms di Lestrade con le ultime novità. Niente che non avesse già notato. Noioso.
Il bambino lo guarda preoccupato e Sherlock gli restituisce uno sguardo apatico. « Sei triste » dice alla fine. « È per colpa di papà? »
E se c’è una cosa che Sherlock è arrivato a comprendere dopo sei lunghi anni è che no, non è colpa di John. Non è quasi mai colpa di John.
E quindi dice la verità: « Non è colpa di nessuno. »
Sherry si limita a guardarlo, poi gli prende la mano e la stringe tra le sue piccole dita. Un gesto che lui da bambino mai si sarebbe sognato di fare.
È stranamente confortante e questo lo preoccupa.
« Vuoi portarmi al parco? » gli domanda allora. « Ti faccio conoscere i miei amici. »
« Hai degli amici? »
Diversi sì, molto diversi.
« Solo una, ma ti piacerà... assomiglia un po’ alla mia mamma. »
Sherlock fa un sorrisetto e si solleva dalla posizione accucciata che ha mantenuto fino ad allora, la musica che risuona ancora da qualche parte nella sua mente. È in grado di chiuderla fuori adesso. Adesso ce la può fare.
Escono allora, e non pensava che un bambino avrebbe mai potuto indurlo ad accompagnarlo al parco, ma evidentemente ha ancora molto di cui stupirsi, nella vita.
Il pranzo, ovviamente, giace dimenticato sul tavolo della cucina, coperto dalla pellicola trasparente inumidita dal calore, e nessuno dei due Sherlock avanza l’ipotesi di mangiare qualcosa prima di uscire di casa.

Il parco alle tre del pomeriggio di una domenica di luglio è affollato di bambini e genitori. Palese che ci siano molti compagni di scuola di Sherry.
Sherlock si siede su una panchina e non raccomanda al bambino di non allontanarsi. È superfluo. Non lo perderà di vista. In pieno giorno non potrà succedere niente, ma è sempre bene essere prudenti. Buone probabilità che l’assassino sia ancora in città.
Sherry torna da lui dopo essersi avventurato nel parco giochi per pochi minuti e si porta dietro una bambina bionda e pallida con le trecce e l’aria felice. Si tengono per mano.
Sherlock non ricorda di aver mai tenuto per mano nessuno, tranne sua madre, forse.
« Lui è il mio amico, Sherlock Holmes » dice, appena sono abbastanza vicini.
« Ha il tuo stesso nome » commenta la bambina. Un particolare da cui si può evincere molto, e lei non sembra affatto in grado di farlo.
« Lei è la mia fidanzata » esordisce Sherry, evidentemente fiero di sé. « Si chiama Julia. »
La bambina allunga una mano, senza imbarazzo, e Sherlock si trova a stringergliela. Fidanzata.
« Da quanto tempo siete fidanzati? »
« Da sempre » spiega Julia con cipiglio regale. « Abbiamo anche un figlio. Ora non posso presentartelo, perché l’abbiamo appena sotterrato laggiù, come in un funerale. »
« Davvero interessante » commenta Sherlock.
« Adesso andiamo a studiare le formiche » lo informa il bambino con allegria. « Le cataloghiamo e scopriamo chi è la regina. »
Un pensiero inaspettato gli attraversa la mente: Julia è la “John” di Sherry.
Ed è quando i due bambini si allontanano, sempre mano nella mano, che il cellulare di Sherlock suona e lui si ritrova a leggere un messaggio di John.
“Siete ancora vivi?”
Risponde rapido, con un lieve sorriso sulle labbra. “Siamo al parco. – SH
Pochi attimi e giunge la replica: “Non hai risposto alla domanda. Mezz’ora e vi raggiungo. Dove siete di preciso?
Colonia di formiche – SH
Questo sì che è molto utile. Mi arrangerò.”
La conversazione si interrompe così. Lui riporta la sua attenzione sul bambino e lo scorge disteso a terra a pancia in sotto, le mani a sostenere il mento e gli occhi che seguono l’invisibile percorso di decine di formiche.
Sherlock si rilassa e lascia che la sua mente vaghi sul caso di omicidio. Il modus operandi non è nuovo e lui deve concentrarsi per riuscire a ricordare quando e dove è già accaduto.
Dopotutto, in mezz’ora che cosa mai potrebbe succedere?

***

A John in effetti non occorse molto per capire quale parte del parco fosse  quella interessata dalla presenza di suo figlio e di un baby-sitter psicolabile.
Quella in cui stava avvenendo una rissa.
Si avvicinò praticamente correndo, chiedendosi perché – Signore Iddio, perché?! – avesse pensato di affidare Sherry a Sherlock Holmes. Doveva essere del tutto fuori di sé quando aveva composto il numero del detective.
Sherlock stava trattenendo Sherry per una spalla, mentre il bambino mostrava i pugni a un compagno più grande, fieramente eretto accanto a una signora in jeans e camicetta. Suo figlio aveva la maglietta sporca di terra e, oddio, sangue?
« Dovrebbe tenere a bada suo figlio, signore! » esclamò indignata la donna.
« Non è mio figlio » protestò laconicamente Sherlock. « E a essere onesti non è nemmeno stato lui a cominciare. »
« Ha distrutto il nostro formicaio! E ha fatto del male a Julia! » sbraitò allora Sherry, prendendo la rincorsa per saltare di nuovo addosso al bambino.
« Sherry! » gridò John incredulo davanti a quella scena.
Si voltarono entrambi verso di lui e per un attimo John non seppe chi dei due avesse lo sguardo più colpevole.
 « Papà! »
« John! »
« Ah... » fece la signora – John la conosceva di vista – spostando il suo sguardo adesso indagatore tra lui e Sherlock. « Sa che suo figlio ha quasi staccato un occhio al mio? »
« Ha cominciato lui! » ribadì il bambino incriminato, schiacciandosi contro Sherlock, come se lui fosse l’unico in grado di proteggerlo dall’ira paterna.
« Sherry... non- »
« Questo non succederebbe » lo interruppe una voce maschile, baritonale e secca per il troppo fumo, « se i bambini venissero cresciuti all’interno di famiglie equilibrate. »
« Oh, Edward... sei qui. Dì qualcosa tu per favore. »
Ed ecco che alla felice combriccola, oltre a tutti i curiosi raggruppatisi attorno,  si aggiungeva il marito della signora, nonché padre del bambino ingiustamente picchiato. Il quale, vista la presenza del padre, pensò bene di cominciare a piangere.
« Sei un piagnone! » gridò Sherry. « Picchi le bambine e poi piangi per un paio di pizzicotti! »
Sherlock fu lesto a piazzargli una mano davanti al volto, coprendogli praticamente tutta la faccia per evitare che aggiungesse ulteriori parole.
« Ecco » disse l’uomo, lasciando che la moglie prendesse il proprio piangente figlio tra le braccia e lo consolasse a dovere. « È esattamente questo che intendevo. Ecco perché non vi dovrebbe essere permesso di adottare. Non è un vero legame famigliare. »
« Credo » replicò John con tono freddo “che ci sia un malinteso”, “che abbia preso un granchio”, “che non abbia compreso la situazione”.
« Credo » riprese con più forza, « di essere io l’unico a potermi permettere di giudicare la mia famiglia. »
Sherlock si voltò verso di lui di scatto, come se lo avessero trafitto con un ago. I suoi occhi azzurri si ancorarono a quelli di John senza concedergli alcuna via di scampo. Se c’era bisogno di un’ulteriore prova, ebbene, era appena stata fornita a tutti.
« Inoltre » esordì la voce di Sherlock senza che i suoi occhi si spostassero dal volto contratto di John, « lei per primo non è in grado di giudicare quando un legame famigliare sia solido, visto che ha raggiunto qui la sua famiglia dopo aver tradito sua moglie con un'altra donna. »
Ci fu un attimo di silenzio e il brusio che li circondava si acquietò. Tutta l’attenzione era rivolta a lui e Sherlock si guardò intorno.
« Andiamo, anche un bambino l’avrebbe capito! » esclamò l’uomo, liberando finalmente Sherry dalla sua presa e iniziando a gesticolare. John stava per dire qualcosa, imporgli il silenzio, evitare di peggiorare la situazione, ma qualcosa nel volto dell’irreprensibile Edward-omofobo-padre-di-famiglia glielo impedì.
« Ha gli abiti sgualciti, come se si fosse rivestito in gran fretta » iniziò a spiegare stancamente Sherlock, sordo alla debole protesta allibita che l’uomo aveva iniziato a rivolgergli. La moglie lo osservava con le labbra strette a contratte. « Sul colletto della camicia è ben visibile una macchia di rossetto, è fresca, non più di due ore fa. Potrebbe essere stata lasciata da sua moglie, certo, ma sua moglie in questo momento non porta il rossetto. Potrebbe esserselo tolto, ma allora perché è possibile vedere una macchia di rossetto più vecchia, sbiadita, ma indubitabilmente di un colore diverso rispetto a quella più recente? Le donne non cambiano facilmente colore di rossetto e sua moglie sembra una signora abitudinaria, dato che porta sempre vostro figlio a giocare nello stesso parco ogni domenica. Dunque, due macchie di rossetto di colori diversi? Due donne, chiaro. E a giudicare dall’espressione di sua moglie... la cosa non le è nuova signora, mi sbaglio? Dunque non venga a parlare a noi di legame famigliare, quando la sua stessa famiglia è sull’orlo della rovina. »
Poi si voltò verso John con un sorrisetto, aspettandosi il consueto sguardo di approvazione e orgoglio, sentimenti che – era più che evidente – John sentiva montare dentro di sé insieme a un indescrivibile, incontenibile desiderio di baciarlo, lì, subito, davanti a tutti.
Ma quel momento di distrazione da parte di entrambi diede al signor Edward il tempo e il modo di scaricare tutta la propria rabbia e frustrazione in un pugno che andò a colpire in pieno il volto di Sherlock. L’ennesimo che il detective si trovava ad incassare da quando era ritornato alla vita.
Sì, decisamente quello era il modo migliore per insegnare a tutti i bambini le fondamentali regole della convivenza civile e della non violenza.

***


« Quante volte ti ho detto che non devi fare a botte con gli altri bambini? » disse John un’ora dopo, quando tutti e tre erano comodamente seduti sul taxi e il labbro di Sherlock aveva smesso di sanguinare. Tra lui e il bambino sembrava che avessero fatto visita a un mattatoio, ma quando John aveva scoperto che il sangue sulla maglietta di Sherry era praticamente tutto del suo avversario si era tranquillizzato.
« E tu... si può sapere come ti è venuto in mente di sparare a zero in quel modo? »
« Non ho sparato a zero, ho detto solo la verità. »
« Cristo Santo, Sherlock... credevo che ormai avessi capito quando è il caso di stare zitto. »
« Siamo una famiglia adesso? » domandò Sherry a voce alta.
Il bambino era seduto tra di loro ed entrambi abbassarono gli occhi su di lui, per poi guardarsi, imbarazzati.
« No » disse Sherlock. « Niente del genere. »
« Oh... ok. »
Rimasero in silenzio per il resto del viaggio, John guardava fuori dal proprio finestrino e dal riflesso sul vetro capì che anche Sherlock stava facendo lo stesso. Sherry in mezzo a loro osservava la punta delle proprie scarpe come se in essa fosse racchiusa chissà quale verità.

Entrarono in casa quando il sole stava tramontando e John spedì immediatamente Sherry al piano di sopra, affinché iniziasse a prepararsi per il bagno. Evidentemente il bambino aveva capito di essere nei guai, perché non aspettò che il padre ripetesse l’ordine e si avviò a testa bassa lungo le scale.
John si portò due dita a massaggiare le tempie, sfibrato e stanco.
« Vado » disse Sherlock, dietro di lui. Non aveva ancora chiuso la porta e John lo fece al posto suo: strinse le dita sopra quelle del detective ancora aggrappate alla maniglia e accompagnò la porta.
« Non avresti dovuto fare a pugni. »
« Non ho fatto a pugni, John. »
« No, sei solo stato picchiato pesantemente da un idiota. Vieni, ho del disinfettante. »
Sherlock scosse la testa. « Non è necessario, » disse, ma poi lo seguì comunque, nella penombra della cucina.
Ci volle poco a John per recuperare dalla propria borsa l’occorrente. Il labbro di Sherlock si stava gonfiando e doveva far male, ma a lui non sembrava importare.
« Faccio da solo. »
« Non essere sciocco, non ci sono due bagni in questa casa e non ho altri specchi a portata di mano. »
Sherlock si appiattì al muro quando John si avvicinò con il cotone imbevuto di disinfettante. Stava per ordinargli di sedersi, e per imporre a se stesso un minimo di contegno – era un medico, accidenti! La priorità era curare il paziente, non baciarlo! – quando Sherlock domandò: « Ci credi davvero? »
« A cosa? » fece John, lieto che ci fosse qualcosa di concreto a cui pensare che non fossero le labbra di Sherlock, gli occhi di Sherlock, i capelli di Sherlock.
« A ciò che hai detto a quell’uomo. »
« Che cosa avrei detto? »
Credo di essere io l’unico a potermi permettere di giudicare la mia famiglia.
« Lo sai, John. »

Lo vide stringere gli occhi quando il cotone gli toccò il taglio su labbro e, distogliendo lo sguardo dal suo volto, rispose: « Sei il più grande investigatore del paese. Potresti dedurlo. »
« Non sono più in grado di dedurre niente quando si tratta di te. »
John si bloccò.
L’ultima, sottile, leggerissima barriera crollò con le parole di Sherlock. Lasciò cadere a terra il batuffolo di cotone e con estrema lentezza posò entrambe le mani ai lati del volto di Sherlock. La punta delle sue dita si nascose tra i capelli dell’uomo, i palmi aperti sulla pelle calda. Avrebbe potuto avere la febbre se non fosse stato così pallido.
« John... non- »
« Zitto. »
Voleva che stesse zitto, voleva solo avere tutto il tempo per immergersi in quel nuovo universo di sensazioni. Si sentiva come se un’attesa spasmodica fosse finalmente giunta al termine, come se alla fine di una lunga, interminabile corsa stesse ad aspettarlo il più dissetante bicchiere d’acqua esistente.
Fece piano, un po’ per il taglio, un po’ perché a lui stesso piaceva così, il sapore del sangue, quello del disinfettante e quello proprio di Sherlock. Quel sospiro che lui rilasciò, come se fino ad allora avesse trattenuto il fiato, la mano di John che si arrampicò tra i sui capelli, per portarlo più vicino a sé, e la lingua di Sherlock, tiepida e tremante, un uccellino tra le sue mani. Come, come, come aveva potuto aspettare fino a quel momento? Come era riuscito a trattenere il desiderio di toccarlo, di averlo?
Tenne gli occhi aperti, e vide quelli di Sherlock chiudersi piano, come se si stesse abbandonando a una marea troppo a lungo attesa, lo sentì appoggiarsi ancora di più al muro, rilasciare un morbido mugolio che saliva dal petto, voleva-
« Papà! »
I passi di Sherry, leggeri eppure così vicini, risuonarono per le scale e John si tirò indietro in tutta fretta. Sherlock sgranò gli occhi e rimase immobile, fissando la porta alle spalle del padrone di casa.
« Sherlock » disse il bambino entrando nella stanza. La scena doveva risultare alquanto anomala: loro due in sostanza al buio, John teso come una corda di violino e Sherlock praticamente aggrappato al muro, con le dita contratte sull’intonaco.
Sherry si fece avanti a piedi nudi con solo le mutande addosso e John si accorse, grazie a un fascio di luce, che sulla schiena del bambino iniziavano a formarsi dei lividi. Sospirò.
Il piccolo si avvicinò a Sherlock e gli prese la mano, poi lo guardò dal basso all’alto e chiese: « Fa così tanto male? »
L’uomo riportò lo sguardo verso John e rispose: « Non è quantificabile. »

***

Il telefono squilla quando sta comunicando a Lestrade che il loro uomo è goloso di liquerizia.
Non è un pedofilo quello con cui hanno a che fare, ma uno stupratore seriale: nessuna differenza tra uomo e donna, morto o vivo.
Lestrade ha arrestato un tipo sotto sua precisa richiesta, e i suoi residui organici lasciati sulle vittime lo hanno naturalmente inchiodato. Padre di famiglia, un figlio e un’altra in arrivo, trentun anni, incensurato, impiegato statale.
Sherlock si è fatto assumere come commesso nel migliore negozio di caramelle che vende quella precisa marca di liquerizia. Ci sono voluti tre giorni prima che il suo uomo si facesse vivo e comprasse una quantità tale di dolciumi da pensare che fosse in effetti proprio lui.
La paternità lo stressa, ha detto. Aveva bisogno di distrazioni dalla moglie incinta, ha detto.
Sherlock lo ha guardato in faccia per qualche secondo prima di andarsene e dimenticarlo per sempre. Non c’era un minimo di metodo nel suo modus operandi, nessuna attenzione ai dettagli, niente di interessante da ricordare di quel caso.
John ideerebbe uno dei suoi titoli assurdi come “Il mistero delle stecche di liquerizia” o roba simile, ma John non è più il suo blogger.
Ecco, se la mente è giunta fino a quel punto, tanto vale farsela, la fatidica domanda: che cos’è John?
Non si sono più visti né parlati dopo l’incidente del parco.
Non è mai successa una cosa simile prima di allora, mai ha desiderato il corpo di qualcun altro, mai il suo organismo ha iniziato a disobbedirgli in quel modo, mai si è trovato tanto in difficoltà con i suoi stessi desideri.
Se ne è andato praticamente correndo dalla casa di John, senza voltarsi indietro, senza prendere quello che voleva. Non avrebbe mai dovuto permettere che i sentimenti entrassero in modo così rilevante nella sua vita. Non riesce più a vedere chiaro, come se davanti a lui ci fosse sempre un banco di nebbia e lui si stesse muovendo a tentoni su di un sentiero sconosciuto e impervio.
Forse sarebbe più semplice se ci fosse qualcuno a tenergli la mano, forse dovrebbe lasciare che John lo conduca laddove deve essere condotto.
« Allora, Sherlock! Vuoi dirmi come hai fatto a capire che sarebbe andato in quel negozio? »
« Liquerizia » risponde stancamente Sherlock: non ci sta più pensando, ha altre cose per la testa, cose importanti.
« Cosa? »
Lestrade lo guarda stupito ed è allora che il telefono squilla. È John.
« Sì? » risponde, ignorando Lestrade senza pensarci un attimo.
« Ciao... ho qualcosa da dirti. »
Lo lascia parlare per qualche attimo e poi domanda: « Hai un cosa?! »
E si può effettivamente dire che non è affatto facile stupire Sherlock Holmes.

***

« Per favore Sherry, cerca di non rompere niente. »
« Sì, papà. »
« E cerca di non far capire alla gente che conosci tutti i loro segreti. »
« Sì, papà. »
« Non essere sgarbato, e non dire “perché io sono intelligente e tu no”, nemmeno ai tuoi amici. »
« Sì, papà. »
Quello che di certo non si poteva dire di Sherry era che fosse un bambino impaziente. Ascoltò suo padre fino in fondo, con gli occhi attenti e le labbra corrucciate, come se si stesse veramente concentrando nel rispondere a tono.
Ovviamente John sapeva perfettamente che il figlio non gli avrebbe mai dato retta e ancora si domandava perché sprecasse tempo con quelle inutili raccomandazioni. Inoltre, mistero ancora più grande, non riusciva a spiegarsi come la madre di Julia avesse trovato il coraggio di invitare il bambino a casa propria. D’accordo che si trattava di un varicella-party, ma la sua generosità nell’invitare quella peste di suo figlio era al di là di ogni logica.
« Non porti il tuo orso? » domandò alla fine, quando l’ora in cui Martha sarebbe venuta a prendere il bambino era ormai prossima.
« No » rispose Sherry mesto, come se abbandonare il suo pupazzo – il pupazzo di Sherlock, ricordò John all’improvviso, sorridendo – fosse la cosa più difficile da fare al mondo.
« Perché no? Non hai mai dormito senza... »
« Gli altri mi prenderebbero in giro. »
« Da quando in qua ti preoccupi degli altri, tesoro? »
« Da quando mi hai detto che non devo picchiare gli altri bambini. »
John non tentò nemmeno di nascondere la sorpresa, ma uno sguardo rapido di Sherry gli fece comprendere che quella non era la vera ragione e che per qualche motivo suo figlio appena seienne si vergognava di mostrare a Julia di essere legato a un pupazzo di peluche. Trovò la cosa inquietante, perché quello era un comportamento che avrebbe potuto tenere come minimo un decenne. Così tentò una soluzione rapida: « Facciamo così, lo infilerai in fondo allo zaino e non lo tirerai mai fuori, così nessuno saprà che ce l’hai ma lui ti proteggerà lo stesso. »
« Non sono stupido papà » replicò il bambino con stizza. « Non è un animale vero, non mi proteggerebbe comunque. »
John si passò una mano sugli occhi. Odiava camminare sul terreno realtà-fantasia insieme a suo figlio, non voleva che dimenticasse così presto che cosa vuol dire essere bambini, ma non voleva neanche dire cose che lo avrebbero contrariato perché troppo infantili per la sua strana e adulta mente.
« Però è bello pensarlo, è bello fingere che sia vero » si risolse a dire alla fine.
Sherry lo osservò, dubbioso, ma poi il suo volto si aprì in un sorriso e cacciò a viva forza l’orso dentro il proprio zaino, senza replicare.
In quel momento suonarono alla porta e il bambino corse verso l’ingresso saltellando.
« Salve Martha! » esclamò John, lieto di rivedere quella donna indomita e coraggiosa che aveva avuto il fegato di fornire un letto a suo figlio. « Come sta Julia? »
« È praticamente impossibile farla smettere di grattarsi, ma spero che con un po’ di compagnia possa distrarsi. »
Sherry guardò la signora per un attimo e chiese: « Fa molto male? ».
John si stupì, perché il bambino si era documentato a lungo sulla varicella e probabilmente ne sapeva molto più di quanto ne sapesse John stesso, ma vide gli occhi di Martha addolcirsi e capì quale sarebbe stato il gioco di suo figlio.
Una mente criminale, senza dubbio.
« Non fa male, tesoro... è solo- »
« Sherlock! » ululò il bambino, ignorando allegramente le parole della signora e puntando il suo sguardo alle sue spalle.
« Sherlock? » domandò John allungandosi in avanti per controllare che fosse davvero lui. Non lo sentiva né lo vedeva da quando era arrivato a tanto così da strappargli tutti i vestiti di dosso. Cercò di non pensarci, cercò disperatamente di non pensarci.
« Che cosa ci fai qui? » domandò, stupito di quella visita improvvisa, e pensò di riflesso alla signora Hudson.
« La signora Hudson sta bene » lo rassicurò Sherlock, leggendogli la domanda sul volto. Martha si spostò per farlo entrare osservandolo incuriosita. « È stato lui a chiamarmi, dal tuo cellulare. »
Tutti nella stanza spostarono gli occhi su Sherry una volta che l’altro lo ebbe indicato con un cenno della mano e lui aprì il suo visetto tondo in un sorriso. Un sorriso calcolatore, avrebbe detto John, se Sherry non fosse stato troppo piccolo per avere davvero un sorriso calcolatore.
« Ho pensato che, visto che non ci sarò per tutta la notte, papà avrebbe potuto sentirsi solo. »
John arrossì suo malgrado, Sherlock rimase impassibile, Martha spostò lo sguardo su entrambi e poi sorrise.
« Allora noi andiamo, eh, Sherry? »
« Sì » rispose il bambino, ubbidiente, e afferrò la mano che la donna gli porgeva.
« Buon divertimento » esclamò John, affacciandosi alla porta.
Con orrore osservò Martha fargli l’occhiolino e rispondere: « Anche a voi. »
Ed era successo tutto talmente in fretta che quando chiuse la porta e si voltò l’odore di Sherlock quasi lo colse di sorpresa.

***

Sanno entrambi che cosa succederà.
Non ci vogliono le incredibili capacità deduttive di Sherlock per capire che tutti e due hanno l’impellente necessità di un rapporto sessuale; e tuttavia si studiano, si girano attorno come gatti, così come hanno sempre fatto dacché il loro strano, contorto rapporto ha avuto inizio.
Sherlock registra tante piccole cose inutili: hanno mangiato minestrone, John si è fatto la doccia e ha usato uno shampoo nuovo, il sottile strato di polvere sulla libreria indica che è talmente impegnato da non avere tempo per le pulizie, il bambino ha disegnato tutto il pomeriggio sul tappeto con gli acquarelli. I capelli di John si muovono al ritmo del suo respiro, i suoi occhi lo seguono, lo guardano, lo ammirano, lo vogliono.
Sherlock non si è mai trovato in difficoltà davanti ad una novità – scoprire il mondo e il suo funzionamento è sempre stato un modo per interrompere la banale routine dell’esistenza – e tuttavia in quel caso non è la noia a spingerlo verso John, a cercare un lembo qualsiasi della pelle di John, il sospiro di John su di sé. Quello che lo spinge è il bisogno crescente di voler appartenere a qualcuno. Per la prima volta in vita sua vuole che qualcuno rivendichi una proprietà su di lui, e l’unico al mondo in grado di farlo è John. Non dicono niente – non c’è niente da dire – prima o poi doveva succedere e basta. Sherlock si fa condurre al piano di sopra e la sensazione è la stessa di quando è sul punto di risolvere un caso particolarmente impegnativo. L’adrenalina danza nelle sue vene, gli occhi di John non lo perdono di vista, Sherlock non ha alcuna intenzione di andarsene, stavolta.  Non ha alcuna intenzione di andarsene, mai più.
Pelle su pelle, labbra su labbra, saliva contro saliva, odori nuovi e vecchi mescolati insieme, il pavimento è crepato in due punti diversi, le ciglia di John gli solleticano gli occhi, il sangue pompa nelle orecchie – può sentirlo? – le mani cercano lembi di pelle, le unghie graffiano – le unghie di chi? – passano tre, quattro, sei macchine e i vetri della finestra rilasciano lampi di luce nella stanza in penombra. Il respiro di John sul collo, le sue mani che gli fanno scivolare a terra la camicia, il maglione si solleva, di più, di più, morso, Sherlock chiude gli occhi, calore improvviso alla bocca dello stomaco, il sangue rimbomba contro i polsi.
John lo spinge sul letto e Sherlock obbedisce, il silenzio è talmente violento che ogni loro fruscio equivale al crollo di una montagna. Le dita di John sono come passi di ragno sulla pelle, gliela percorrono a piccoli tratti, seguite dalle sue labbra, lingua, denti. Disegna una mappa sulle sue braccia, il petto, lo stomaco. Slaccia i pantaloni, piano, non c’è fretta, ogni cosa è come rallentata, il soffitto è macchiato di muffa in cinque punti, le coperte sono ruvide e morbide e calde e fredde. Sherlock stringe i denti; non è la prima volta, ha fatto esperimenti, ha avuto e preso altri corpi, ma non c’era niente di tutto questo, non c’era l’eccitazione violenta, non c’erano gli occhi di John che lo percorrono come se lo volessero mangiare vivo, non c’era la consistenza morbida dei capelli di John sotto le dita, non c’era niente di vero, niente di reale.
Lo sente allungarsi sopra di lui, scalciare via le scarpe – una cade a destra, una a sinistra, un po’ sotto il letto – lo osserva liberarsi dei pantaloni e della biancheria, scarica elettrica, una, due, tre volte, John ansima sulle sue labbra e lo bacia di nuovo, Sherlock si apre per lui, mente, anima, corpo e cuore.
« Non farà male » dice John, da qualche parte sopra di lui.
Non avrebbe fatto male comunque: l’ha voluto troppo per permettere al dolore di avere la meglio.
È come perdersi e ritrovarsi, è come lo stordimento della droga, ma mille volte diverso e mille volte migliore, è il sapore di John sulla lingua, l’avvolgersi l’uno nell’altro come bambini bisognosi di calore, è inseguirsi, raggiungersi, prendersi, stringersi, non mollarsi più.
E arriva il momento in cui Sherlock può dire di essere stato spogliato completamente, di essere lacero e scoperto, un involucro di carne e sangue senza pensieri logici, un qualcosa che solo John è in grado di ricomporre. E lui lo fa, lo fa con lentezza, con gesti misurati e mosse delicate, con frasi sussurrate nelle orecchie e gocce di sudore che si infrangono sulla pelle e la parola « Sherlock, Sherlock, Sherlock » che perde di significato e va ad acquisirne uno nuovo, qualcosa di mai visto, di incredibile e meraviglioso che ottiene tutto il senso del mondo solo quando anche le sue labbra riescono a pronunciare « John, John... ».
Sono le uniche parole, gli unici suoni che gli escono dalle labbra, il resto è corpo, il resto è sangue, il resto è tutto attorno a lui, come una spirale infinita di dolore, piacere, dolore, piacere, dolore, piacere.
« John... ».

***

Sherlock dormiva, il suo respiro leggero e tiepido si infrangeva leggero sulla pelle di John come una lenta carezza, ricordo di quello che era appena successo, di quello che avevano appena fatto succedere.
John aveva gli occhi sgranati nel buio, la mente che lavorava alacremente, persa a rimuginare su se stessa, su problemi che fino ad allora – quando tutto ancora era un gigantesco interrogativo, quando il sapore di Sherlock sulla lingua era una sensazione e non una certezza – l’avevano lasciato indifferente.
Provò a fare ordine nella sua testa, ma riusciva solo a pensare che adesso erano tutti in pericolo, lui, Sherlock e ancora di più Sherry.
Se con Moriarty era bastata una minaccia di morte a qualcuno che era un semplice amico per convincere Sherlock a sparire per cinque anni, adesso che in ballo c’era molto di più di un semplice rapporto di amicizia – adesso che in ballo c’era Sherry, Cristo santo! – che cosa avrebbe impedito a tutti i criminali di Londra di bussare alla loro porta mattina e sera, far del male a loro per distruggere Sherlock?!
Non sarebbe mai andato a vivere nel loro vecchio appartamento, e se Sherlock avesse iniziato a vivere con loro sarebbe stato come sventolare una bandiera rossa davanti a mille tori infuriati.
Si stava gettando a braccia aperte proprio nel luogo in cui aveva promesso a Mary di non addentrarsi mai: un luogo in cui Sherry non sarebbe stato al sicuro.
« Smetti di pensare a questo, John. »
John sussultò, ma avrebbe dovuto immaginare che, il fatto che Sherlock avesse gli occhi chiusi e la respirazione tipica di un dormiente, non significava certo che dormisse.
« Non sto pensando a niente. »
« Ti prego! Dovresti conoscermi abbastanza per evitare- »
« D’accordo! » sbottò alla fine. La testa di Sherlock sussultò a causa del movimento brusco, ricadendo sulla sua spalla. « D’accordo » ripeté più piano, passandogli una mano tra i capelli.
« Scusami, John. »
Se non fosse stato certo di averlo udito, John avrebbe potuto credere di essersi appena addormentato e di stare vivendo un sogno particolarmente vivido.
« Per cosa? » domandò,  senza nascondere la sua sorpresa.
« Avrei dovuto evitarti tutto questo... avrei dovuto obbligarmi a non tornare più. »
« Che cosa stai dicendo? »
« Speravo di non dovertelo dire, che tu potessi capirlo da solo, ma evidentemente in questo caso – come in molti altri – ho sopravvalutato le tue capacità. Non mi hai mai visto fare qualcosa di generoso in tutta la mia vita. No, no... so che è così, e so anche perché mia madre è venuta a parlarti, quello che ti ha detto che io ho fatto in questi anni... » Fece una pausa e John attese, gli occhi piantati nel soffitto, il cuore che martellava nel petto. « L’amore è veramente uno dei sentimenti più egoistici che io abbia mai sperimentato. Mi chiedo come l’umanità possa essere ancora in piedi dopo tutti questi millenni in cui l’amore è stato millantato come qualcosa di indispensabile. E invece è la cosa che, più di qualsiasi altra, è capace di creare disordine, caos e morte. »
Lentamente John capì dove voleva andare a parare. Non glielo avrebbe mai detto di persona, probabilmente, ma Sherlock stava tentando di dirgli che non era più in grado, sia fisicamente sia mentalmente, di separarsi da lui e che, per quanto ci avesse provato, alla fine la propria sopravvivenza era risultata più importante della sopravvivenza di John.
Per un attimo non seppe che cosa rispondere, non seppe come affrontare quel groviglio ingarbugliato di sentimenti che Sherlock gli tendeva, affinché lui riuscisse nel miracolo e sbrogliasse finalmente la matassa, ma alla fine sorrise, intrecciò le gambe tra quelle di Sherlock, che non si spostò di un millimetro, e disse: « Quando ti ho conosciuto non c’è voluto molto per capire che tu eri una delle persone più egocentriche, presuntuose, megalomani ed egoiste che avrei mai incontrato in tutta la mia vita. »
Ci fu un attimo di silenzio in cui John immaginò Sherlock riflettere su quelle parole, aspettò una sua risposta e infatti, come tutte le volte in cui l’altro non riusciva a capire, il tono che lo raggiunse poco dopo fu stizzito: « Non ha alcun senso, John! »
« Purtroppo è così. Non c’è un briciolo di senso. Ma questo non mi ha impedito di innamorarmi di te come un povero idiota. »
Questo non spiegava niente, era palese. Non spiegava come mai, nonostante questa consapevolezza, John stesse rimuginando su come avrebbe potuto preservare la vita del proprio figlio e non spiegava affatto perché avrebbe dovuto accettare che ogni singolo gesto compiuto da Sherlock in quegli anni fosse stato dettato da un mero desiderio di possesso su di lui, un mero desiderio di sopravvivenza.
« Il fatto è, Sherlock » concluse, posandogli le labbra su una tempia e rimanendo lì, con le parole bloccate contro la sua pelle, « che anche io sono uno schifoso egoista. »
« No. No, non credo affatto che sia così. In tutta la tua vita non hai mai fatto niente che potesse dirsi anche solo vagamente egoistico. »
John sbuffò, le mani di Sherlock che si muovevano piano sul suo petto; era un movimento inconscio e rilassante, e già non poteva nemmeno pensare di farne a meno.
« Lo sto facendo adesso, Sherlock, mettendo avanti la mia felicità rispetto alla sicurezza di Sherry. »
« Non permetterò che tu e Sherry corriate dei rischi. »
« Oh, questo è davvero molto romantico. »
« Strano, perché voleva essere una semplice costatazione. »
John ridacchiò. « Menomale... credevo di aver perso il vecchio Sherlock per sempre, ormai. »
Sherlock si alzò a sedere all’improvviso e si voltò verso di lui chinandosi in avanti.
Bloccò la sua lenta discesa solo quando la sua fronte si fu poggiata su quella di John, in un contatto più intimo di qualsiasi altro.
Non credeva che gli occhi di Sherlock potessero dire così tante cose contemporaneamente, e gli sembrò che dentro l’uomo che aveva sopra di sé si fossero aperte all’improvviso decine e decine di rubinetti arrugginiti che avevano lasciato uscire tutta l’acqua sporca, riversandola all’esterno e liberando quella fresca e pulita solo per lui.
Gli afferrò entrambe le mani stringendo con forza e sussurrò: « Mai più, John ».

***

Si sveglia all’improvviso e la prima cosa di cui vorrebbe accertarsi è di non essere solo.
Non c’è bisogno di farlo, perché il peso di John al suo fianco è inequivocabile. Si crogiola per poco nel calore delle coperte, un calore non solo suo, chiude gli occhi di nuovo e il suo cervello è in pace. Gloriosa, infinita pace.
Dura così tanto che Sherlock quasi si preoccupa, ma alla fine il campanello suona e le sue cellule grigie si rimettono in moto, riattivando un sistema cerebrale che solo John era riuscito a spegnere.
Salta giù dal letto e indossa i pantaloni per evitare che il campanello suoni un’altra volta e svegli John. Per qualche strano motivo non vuole che si svegli: sa che a John piace dormire e ha appena realizzato che guardarlo dormire è una delle attività più interessanti in cui si sia mai cimentato.
Scende le scale velocemente senza curarsi di cercare la camicia, ma a sua difesa c’è da dire che trova inopportuno aprire la porta con addosso un semplice lenzuolo, o anche meno.
È in effetti una fortuna che indossi almeno i pantaloni perché davanti alla porta si trova la madre di Julia, puntuale nel riportare a casa Sherry entro le dieci.
« John, mi dispiace non ha voluto fare cola- »
Si interrompe, ovviamente, stupore e imbarazzo si alternano sul suo volto fino a che la sua espressione lascia intravedere tutto il divertimento. A Sherlock piace.
« John dorme » ci tiene a spiegare Sherlock, anche se è perfettamente intuibile che John dorma, visto che è sceso lui ad aprire la porta.
« Oh! Ah, comunque Sherry si è comportato benissimo. »
Il bambino lo sta osservando dal basso con occhi penetranti, lo stesso sguardo indagatore che utilizza lui stesso contro possibili sospettati.
Il momento di silenzio dura a lungo e Sherry sta ancora sulla porta, come se non si fidasse ad entrare in casa. La signora sposta il peso da un piede all’altro, a disagio. Sherlock solleva un sopracciglio: non sa bene che cosa dovrebbe fare...
Sherry all’improvviso lo toglie da ogni impiccio e salta letteralmente nell’ingresso, lasciando cadere a terra lo zainetto e voltando la testa in cui adesso si è aperto un enorme sorriso.
« Grazie per avermi portato a casa, signora! » esclama con voce squillante e felice.
Un attore consumato.
La signora comunque ci casca in pieno e sorride di rimando. Sherlock le ha già praticamente chiuso la porta in faccia quando lei tenta una risposta gentile e un saluto.
La serratura scatta e il sorriso di Sherry svanisce.
I due Sherlock si fronteggiano per qualche attimo, le espressioni che non dicono assolutamente niente, poi il bambino dice: « Ho fame. Preparami la colazione. »
« Non sai farlo da solo? »
« Ho solo cinque anni! » protesta immediatamente lui.
Sherlock si china un po’ su di lui arricciando le labbra: « È una scusa che può funzionare solo con chi non ti conosce, Sherry. »
Tuttavia si incamminano entrambi in cucina. Sherlock ascolta, ma dal piano di sopra non giunge alcun rumore.
Sherry si siede a tavola e si limita a fissarlo con occhi attenti e curiosi.
Lui attende con pazienza. Se non altro ha imparato che cosa vuol dire essere paziente, soprattutto quando si tratta di John e del bambino.
« Hai dormito con papà » constata alla fine Sherry, « vuol dire che avrete un bambino? »
Sherlock rotea gli occhi: non gli piace quella commedia.
« Sappiamo entrambi che questo non è possibile. Smettila di comportarti come se in questa notte il tuo cervello fosse regredito al livello dei tuoi coetanei. »
È un sorriso astuto quello che compare sul volto del bambino, ed è un sorriso che a Sherlock piace, qualcosa che è in grado di comprendere e di controllare.
Ma immediatamente dopo la sua faccia rotonda è di nuovo seria e concentrata.
« Hai dormito dalla parte della mamma? »
Ecco. Terreno pericoloso.
« Non prenderò il posto di tua madre » dice Sherlock. È una frase tipica, una frase che forse tutti i bambini vogliono sentirsi dire in una situazione del genere. E Sherlock si rende immediatamente conto che è una frase sbagliata.
« Non è quello che ho chiesto. »
« Ho dormito io dalla parte della mamma, tesoro » risponde John allora, facendo il suo ingresso nella stanza.
Quella lieve tensione che si era andata creando scompare istantaneamente a quelle parole e Sherlock si rende conto solo allora di aver tenuto le dita contratte contro lo schienale di un sedia.
Le flette per permettere alla circolazione di riattivarsi.
Sherry sorride e salta giù dalla sedia su cui si era appollaiato come un piccolo gufo in miniatura e prima ancora di andare a salutare il proprio padre si affretta a stringere una mano di Sherlock, come a volerlo rassicurare.
Strane creature, le famiglie.
« Se vuoi farti una doccia e indossare qualcosa questo è il momento adatto, perché dopo la colazione Sherry dovrà fare un bel bagno » aggiunge allora John, avvicinandosi a lui e posandogli una mano sulla spalla nuda. È un gesto nuovo e familiare al tempo stesso e Sherlock ne è deliziato.
Esce dalla stanza con la convinzione che sia successo qualcosa di bello e di incomprensibile al tempo stesso, qualcosa che forse lui nemmeno è tenuto a capire.
E per la prima volta nella vita gli va bene così.
Si chiude nel bagno proprio quando Sherry inizia a lamentarsi di non volere assaggiare nemmeno un boccone di porridge, quella mattina. John ciabatta davanti alla porta probabilmente in cerca di qualcosa che faccia venire appetito al figlio. Sherlock apre l’acqua lasciandola scorrere nella vasca: fuori le macchine rumoreggiano, qualcuno sta uccidendo qualcun altro, Sherry beve il suo latte e John sta preparando il tè.
Al suono di Londra che si sveglia attorno a lui – attorno a loro - chiude gli occhi, si immerge nell’acqua ed è felice.

***

La mamma non aveva mai pensato che lui e il papà sarebbero rimasti da soli dopo la sua morte. Una notte glielo aveva detto. « Sherlock » gli aveva detto, « vedrai che arriverà qualcuno a farvi compagnia... sii buono con papà, lui non ha nessuna colpa. »
Anche Sherlock – quello grande, quello intelligente, quello che aveva il suo stesso nome e che quando arrivava il suo papà sembrava svegliarsi da un triste letargo invernale – gli aveva detto che non era colpa di papà. « Non è colpa di nessuno » gli aveva detto.
E Sherry ci credeva, perché

Sherlock Holmes non era un bugiardo. Di quello Harriet poteva ben essere sicura. Al massimo teneva nascoste molte cose, per rivelarle alla fine, come in una commedia di quart’ordine.
E tuttavia, quando era ricomparso e si era portato via John, cuore, corpo e cervello, per un attimo aveva pensato di protestare, di indignarsi, di farsi valere per proteggere ancora una volta il suo fratellino.
Ma non ce n’era stato bisogno, perché negli occhi di John aveva visto – finalmente, finalmente! – un po’ di pace; e in quelli di Sherlock

la serenità che era sempre mancata al suo bambino. Non aveva mai chiesto nient’altro dalla vita: quando aveva capito di non poter aspirare a quel tipo di felicità, quando l’amore era sgusciato via dalle sue vecchie mani, trasformandosi in polvere, aveva sperato che i suoi figli non gettassero al vento la loro vita inseguendo una verità effimera. Mycroft era senza speranza, ovviamente, ma Sherlock era sempre stato il punto di riferimento per lei, e quando aveva incontrato per la prima volta John aveva capito – con tutto il sesto senso di una madre – che lui avrebbe potuto essere per Sherlock quella persona

inutile e superflua. Quella che alla fine dei giochi non permetterà a Sherlock di avere tutti e due gli occhi bene aperti, la distrazione continua, il continuo errore in un calcolo altrimenti perfetto.
Aveva cercato tutta la vita di risollevare suo fratello dai disastri in cui andava a cacciarsi, ci aveva provato anche nella faccenda con John, ma sua madre aveva ragione: Sherlock era uguale a lei, sensibile come lei, impossibile da guarire dal difetto chimico dei sentimenti, proprio come lei. E alla fine Mycroft aveva smesso di provarci, perché, dopotutto, preoccuparsi costantemente di qualcuno è stancante e noioso. Se Sherlock

aveva un disperato e continuo bisogno di John, se

John aveva un disperato e continuo bisogno di Sherlock,

qual era quel mondo che avrebbe potuto anche solo pensare di intromettersi in una sintonia – in una sinfonia – altrimenti perfetta?

 

Fine

 

Note (davvero) finali:
Oddio gente, è davvero finita.

Un po’ mi dispiace visto che ho questa storia tra le mani da quasi sette mesi, ma prima o poi doveva concludersi anche tutto ciò.
Non voglio fare la figa e dire che ho iniziato a pubblicare il tal giorno in modo da arrivare a concludere proprio il 24 di dicembre, ma visto che ci siamo posso dire che questo è il mio regalo di Natale al Fandom.
È un Fandom particolarmente bello, lo dobbiamo riconoscere. Particolarmente bello e pazzo, e io gli voglio particolarmente bene.
Quindi... auguri, care/i Sherlockians, tanta gioia e tanto amore, con la speranza che il 2013 ci porti tante belle cose, ma soprattutto tanto, tanto Johnlock.
Passo e chiudo.
Emme

  
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