Luoghi e personaggi, presenti in questo racconto,
appartengono a Gonzo e a chi ne detiene i diritti. Non scrivo a scopo di lucro e
nessuna violazione del copyright è intesa.
Per citare, riprendere, tradurre
questa storia in parte o in toto dovete avere il mio esplicito
permesso.
All’ombra delle pure stelle
di Kanchou
Amor,
illuminatio mea
Sophia procede sull’interminabile striscia purpurea del
tappeto che, di sala in sala, di corridoio in corridoio, accompagna il suo
passo. Le piccole scarpe ricamate d’oro scivolano come se lei non avesse peso.
Eppure la veste candida, lo strascico verde che l’allunga come la coda iridata
di un serpente, la corona doppia dei regni unificati, Anatore e Disith, le
gravano addosso, la schiacciano, insieme a tutto il resto, il rango, il dovere,
la politica. E lei non ce la fa. Non ce la fa più. E’
sfinita.
Anche il Comandante camminava come non toccasse terra,
anche lui scivolava sul pavimento. Ma lui sembrava alleggerito, scarnificato e
poi sublimato dalla sua stessa sofferenza, come un monaco
asceta.
Per lui, sul ponte di decollo della Silvana, la
cornamusa ha suonato il lamento fiero e malinconico degli antichi eroi. Quando
il canto si è spento nel silenzio del cielo, nessuno ha parlato. A parte il
drappo di seta che sventolava come l’ala di un falco ferito. Il drappo con
l’insegna della nave messo a coprire la bara di Alex.
La giovane imperatrice cammina solitaria nelle sale
vuote del palazzo immenso, tra le file di ritratti di persone morte, i suoi
antenati, sangue del suo sangue, per i quali non prova alcun amore né loro
possono per lei. Passa sotto vetrate antiche di secoli sopravvissute per
miracolo ai bombardamenti, che sulla sua pelle bianca, di latte e di rosa,
distendono la luce cangiante delle lastre verdi, rosse, azzurre, giallo oro. A
volte anche il colore e la luce sono cupi come l’ombra, pensa
Sophia.
A volte anche l’ombra risplende come le pure stelle.
Come il corpo e l’anima del comandante Row.
E Sophia continua a camminare lungo il percorso che fa
fatica a ricordare a memoria. Sulla Silvana, invece, avrebbe potuto camminare
bendata.
Il passo non fa alcun rumore, tranne che dentro di lei.
Nel suo cuore rimbomba e la sgomenta. Sophia, la giovane imperatrice, non ha mai
avuto paura delle cannonate e nemmeno del cigolio della nave colpita. Ma il
ritmo dei passi, ora, la terrorizza. I suoi passi sono quelli di una persona
sola. Chi vive sopra a tutto è il più solo del mondo. Come ti comprendo, Alex. Ora, come non
mai.
Sophia si blocca. Laggiù, in fondo all’ultimo corridoio,
c’è la sala del consiglio. La porta mezza in ombra piantonata da due corazzieri
dallo sguardo vitreo è chiusa. Oltre la porta, c’è un immenso tavolo. Intorno al
tavolo, i membri del consiglio riunito. L’attendono, tutti uomini, tutti molto
più vecchi di lei. Discuteranno la spaventosa crisi di potere che sta uccidendo
la pace a poche settimane dalla conquista dell’Exile. Di nuovo, Anatore contro
Disith, Disith contro l’imperatrice perché appartiene ad un altro popolo,
Anatore contro l’imperatrice perché è donna e troppo giovane, e infine i
frammenti impazziti della Gilda che seminano terrore e ribellione. Il nuovo
mondo, il grande sogno, si sgretola tra le mani come una palla di argilla secca.
Il mondo per il quale sono morti a migliaia. Il mondo della libertà nato con
l’esplosione di luce che si è portata via Alex.
Sophia sospira dal profondo del petto. E’ perché sono debole, che ho paura? E tutto
quanto, le lotte, i sacrifici, le troppe, troppe morti, doveva portare a questo?
A questa paura? A questa
miseria?
Riprende a camminare, regalmente suo malgrado, ma con la
lentezza di una vecchia.
A volte, di notte, quando si chiude nella stanza da
letto troppo vasta e inutilmente lussuosa, sente che una parte di quella paura
scaturisce dal vuoto che la morte del comandante le ha aperto nel cuore. Nel
letto per sempre senza amore, stringendo le lenzuola tra i denti per non
piangere, sente che il dolore la divora, la scava da dentro, voracemente, come
un verme, la svuota delle forze, della voglia di vivere, di lottare.
Non ha mai veramente sperato di avere il suo amore. E la
consapevolezza che almeno un poco di lui, la sua parte più nascosta e viva,
provasse per lei un sentimento profondo non abbandonava mai il presentimento,
quasi la certezza, che lui non avrebbe fatto nulla per sopravvivere alla guerra
contro la Gilda.
Ma la sua presenza era la colonna intorno alla quale
Sophia ha fatto crescere la parte più tenera della propria anima. Se non nel
corpo, Alex l’ha resa donna nel cuore.
Spesso, poi, Sophia pensa che il resto di quella paura
abbia radici lontane. Il mondo le è sempre sembrato troppo, inutilmente
complicato. La differenza tra il bene e il male una certezza troppo sfuggente. E
questo la angoscia, la tormenta.
Se fossi nata
uomo, sarebbe stato tutto più semplice. Non sarei stata tanto incerta. Tanto
debole. Forse.
Sarei stata
come Alex. Così avrei voluto.
Questo pensiero le dà un brivido, una vertigine, perché
la colpisce a tradimento.
Eppure,
nemmeno per lui deve essere stato facile affrontare la paura, capire ciò che
fosse giusto o sbagliato. Dei suoi dubbi Sophia non ha mai saputo niente. Tutto
il cammino di Alex sembrava diritto e preciso come la scia di una nave
marina.
A quale prezzo, però. La quotidiana lotta contro il
dolore che abbatte, che svuota. L’emergere di emozioni non volute, le scaglie di
sentimento che affiorano dal naufragio del cuore, che sviano dalla meta
terribile. La lotta contro l’oblio della memoria, che sbiadisce gli affetti
perduti e logora la fedeltà alle promesse.
No, nemmeno per lui è stato facile. Anche lui avrà
lottato con la propria debolezza. Anche lui era fatto di carne sotto la corazza
nera che lo avvolgeva. Questo rivelava, in fondo, quando, illanguidito dall’insonnia, troppo stanco
per lottare contro la dolcezza che il suo vice-comandante generosamente gli
offriva, cercava il contatto con lei, con il suo corpo di donna, e le parlava
con le labbra troppo vicine, per sentire il suo respiro, per cogliere il suo
alito caldo, pieno di promesse, quasi il sapore della sua bocca dischiusa, e poi
ravvedendosi si allontanava, più irraggiungibile, più glaciale di
prima.
Oh Alex! Anche
questo, io lo comprendo soltanto ora. Ti sono stata accanto, e ti ho lasciato
solo. Persino io. Eppure sarebbe
bastata una parola, una soltanto.
L’impulso di piangere sgorga dal petto e le stringe la
gola, spietatamente. Sophia vorrebbe cedere, abbandonarsi alle lacrime, persino
accucciarsi contro il muro con la testa tra le braccia, e sparire dentro la
liberazione del pianto. Come sarebbe stato stringersi al petto di lui e
seppellire tutte le angosce dentro il suo abbraccio? Come sarebbe stato per lui,
assaporare una volta l’amore immenso che fluiva da lei?
E’ quasi arrivata alla sala del consiglio, ormai. La
porta chiusa è a pochi passi, sorda, ottusa alla confusione di sentimenti della
giovane donna che si avvicina. I corazzieri scattano nel saluto. Non hanno idea
di ciò che tormenta l’imperatrice. Sono come la porta chiusa.
Ma Sophia, miracolosamente, continua a camminare.
E’ riuscita a richiamare le lacrime, come ha fatto tante volte negli ultimi mesi.
Come quando il cannone della Silvana ha distrutto la nave di
Delphine.
Respira profondamente, cercando di staccarsi da se
stessa. Nella bolla di calma che ha creato, afferra l’inattesa immagine di un
ricordo. Quella volta
che…
Si lascia portar via dalla
memoria.
All’improvviso si ritrova sulla Silvana, nella cabina di
Alex. Un ricordo al quale non pensa da tantissimo tempo. Una sera lontana come
un sogno sbiadito, uno dei primi mesi sulla nave.
La cabina del comandante è in penombra, la sagoma scura
di Alex abbandonata sulla poltrona presso la finestra, lontana dal lago di luce
che inonda la scrivania. Alex, seduto come sempre sul trono della sua
malinconia, attende che gli parli. Lei gli sta davanti, in piedi, con le
braccia distese lungo il corpo, tesa, mortificata.
Sophia ha sbagliato ad eseguire un ordine, quel giorno.
Ha tracciato male la rotta, con l’effetto di far perdere alla Silvana ore di
navigazione. Non è stato un errore di incompetenza, ma di impulsività. Sophia ha
agito d’impulso nell’impazienza di far presto e di dimostrare la propria
capacità.
Ora Sophia parla, timidamente, e spiega l’errore al
comandante. A ogni parola vorrebbe sprofondare e liquefarsi dentro il metallo
della Silvana. Lo ha deluso, pensa, e con lui tutto
l’equipaggio.
Lui la guarda senza severità. Come sempre, misterioso,
quasi indifferente. Come lo specchio, che non deforma e non abbellisce, ma
raccoglie soltanto la spietata verità.
Infine, morendo sotto quello sguardo, Sophia dice: “Le
chiedo scusa, signore.” E china la testa,
attendendo le parole severe che sa di meritare.
La risposta di Alex, invece, la
sorprende.
“In questi casi, non è al comandante che bisogna
chiedere scusa, Sophia.”
Per un momento, distratta dalla carezza della sua voce
calma, profonda, crepuscolare, Sophia non coglie il senso di quelle parole.
“Chiedere scusa? All’equipaggio, forse?” si domanda
dentro di sé. Ma poi l’umanità del messaggio che il comandante le ha comunicato
la travolge con la sua folgorante bellezza. Sophia sente le gambe tremare, il
cuore battere di ammirazione.
E’ a te
stessa, che devi chiedere scusa. Questo
intende dirle Alex. Non al mondo deve dar conto, ma alla legge spietata del
proprio cuore.
“Credo di aver capito, signore” dice
Sophia.
Sa che con Alex ogni altra parola sarebbe superflua.
Nessuna smanceria, nessuno strascico personale. S’inchina in segno di ringraziamento e si volta verso la
porta.
“Sophia…”
A sorpresa, la voce di lui l’afferra da dietro le
spalle.
“Sì, signore.”
Alex la fissa stringendo lievemente gli occhi. C’è una
punta d’ironia in quello sguardo, Sophia ne è sicura.
“Il fatto che tu chieda scusa a te stessa, comporta che
dopo tu ti debba perdonare.”
Sophia muove un passo verso di
lui.
“E lei lo fa, comandante? Con se stesso,
intendo.”
Silenzio. Lo ha colto alla sprovvista. Alex indugia per
pochi istanti, incerto della risposta.
Poi risponde: “No. Ma spero che tu sia migliore di me,
Sophia.”
L’imperatrice ha raggiunto la grande porta, i corazzieri
di guardia, il momento che deciderà il suo destino e quello di tutto il suo
popolo.
Si ferma un’ultima volta. Ha la testa alta, il collo
diritto sotto la pesante corona, il viso fiero e dignitoso. Solleva lentamente
il braccio per spingere la porta. Sta per entrare.
Ma il braccio ricade.
Se tu fossi
vivo, dovrei essere degna di te. E ora che non ci sei, devo esserlo ancora di
più.
Sorride. S’immagina la risposta di lui.
“E’ di te stessa, che devi essere degna, Sophia. Di
nessun altro.” Così le direbbe il comandante.
Il sorriso è diventato una luce che le illumina il
volto.
“E solo così potresti amarmi, eh,
Alex?”
Spinge il battente. Entra col cuore che trema di
commozione e di amore. Ma non di paura.