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Autore: Kukiness    29/12/2012    4 recensioni
«Bene.» Lei sembrò spiazzata per un momento, tanto che ripeté, «Bene.» L'alone demoniaco si ritrasse appena, come una fiamma disturbata dal vento, e la donna che era scostò lo sguardo, che fece scorrere per tutta la stanza, tutto quel grigio e tutto quel marrone. «Che cazzo di posto.»
Castiel sorrise. «Già.»
[Raccolta di roba Meg/Castiel]
Genere: Erotico, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altro Personaggio, Castiel
Note: Lime, Raccolta | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Ottava stagione
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Il sarcasmo e ora questo



Gli avevano assegnato la stanza numero 6, cosa che Castiel trovò carina a suo modo, così lo disse anche alla cameriera che gli aveva aperto la porta.

«È un numero mistico e ambivalente,» disse, seguendo il profilo della pancia d'ottone del 6 infisso alla porta. «È il numero dell'equilibrio e dell'ordine perfetto, predispone all'unione con il divino, ma allo stesso tempo può generare confusione, turbamento e illusione.» Si voltò verso la cameriera ispanica che lo fissava con una faccia strana. «Come la Stella di Salomone, no?»

«Le servono altri asciugamani?» chiese la cameriera.

«No, sto bene così.»

La stanza era leggermente più piccola rispetto a quelle che aveva abitato con i Winchester, ma probabilmente dipendeva dal fatto che c'era un solo letto, non due, il che era piuttosto logico, visto che lui era da solo. Chi viaggia da solo occupa meno spazio. Si chiuse la porta alle spalle dopo aver salutato la cameriera ispanica – Maria, trentasette anni, divorziata, due figli a carico, uno dei quali aveva preso la brutta abitudine di tornare troppo tardi la sera – e si diresse verso la finestra.

La stanza era delle tonalità del marrone e del grigio. Moquette grigia, armadio marrone. Copriletto grigio, letto marrone. Quadro di mare in tempesta grigio, cornice marrone. Carta da parati un tempo marrone, ora grigia. Guardando fuori dalla finestra – tendine marroncine dai bordi bruciacchiati – si poteva ammirare il parcheggio. Grigio.

Dean lo avrebbe definito un “cazzo di posto”. Sam avrebbe detto che “avevano visto di peggio”. E Dean avrebbe cercato il frigobar. Castiel cercò il frigobar. Ma non c'era.

Era un cazzo di posto davvero.

Castiel non dormiva, perciò non aveva bisogno di un letto, ma stare con i Winchester gli aveva lasciato il bisogno di un letto addosso. Letto come “posto dove mollare le armi e guardare i porno quando voialtri due sfigati levate le tende” (per dirla alla Dean) e “raccogliere le idee e riposarsi un po', non puoi aspettare cinque minuti per i porno?” (per dirla alla Sam). Non aveva particolare interesse nemmeno per le armi e i porno, ma gli piaceva l'idea di avere un posto dove tornare.

Gli piaceva anche l'idea del riposo, ma sapeva che non c'entrava il letto.

Ci si buttò sopra comunque.

Le molle del materasso cigolarono sotto il suo peso. Dalla stoffa del copriletto si levò uno sbuffo di polvere di vite passate. Il sudore di Joe che aveva passato tutta la giornata a guidare. Il correttore di Molly che si era spalmata in faccia più trucco del necessario per sembrare più grande. Lo sperma di Rick colato dalla pancia. I capelli di Andrea. Castiel inspirò a pieni polmoni, fino a che da qualche parte nel naso, conficcato in profondità fino a sfiorare il cervello, non percepì una punta di Meg da qualche parte.

Si mise seduto dritto e guardò verso la porta prima che qualcuno bussasse.

«Servizio in camera!» trillò Meg.

Castiel torse il polso verso sinistra senza alzarsi. La porta si spalancò di scatto. Meg era appoggiata alla ringhiera che si gettava sul parcheggio interno, con le braccia incrociate, il sorriso sbilenco e dei vestiti non suoi addosso.

«Dolcezza. Non ti alzare, ti prego, non sono mica una signora.» Sciolse l'intreccio delle braccia e si spinse via dalla ringhiera. Varcò la soglia affondando i tacchi nella moquette grigia. La maglietta rossa, i jeans blu elettrico e gli stivali neri lucidi spezzarono la monotonia bicromatica del grigio e del marrone.

Castiel chiuse la porta con un movimento del dito. «Non mi stavo alzando.»

«Lo so, dicevo tanto per dire.» Meg avanzò fino ai piedi del letto e si piazzò le mani sui fianchi. «Beh? Non dici niente?» Sgranò gli occhi in una finta espressione sorpresa. «Occielo, Meg cara,» disse con voce profonda. «Temevo che fossi morta! Come sei sopravvissuta a quei cattivoni che ti hanno portata via strappandoti brutalmente dalle mie braccia?»

«Io non parlo così,» disse Castiel.

«Era una rivisitazione, Clarence.» Sfilò la sedia da sotto la minuscola scrivania incastrata tra l'ingresso e l'armadio, la ruotò su se stessa e si sedette con lo schienale contro il petto. «Allora? Tutto qui? Nemmeno un po' sorpreso di vedermi?»

Castiel ci pensò su. Qualcosa, dentro di lui, che identificò vagamente come ciò che restava del corpo di Jimmy e delle reazioni umani incrostate dentro di lui, avrebbe voluto alzarsi dal letto. Disse solo, «Sì,» sbattendo velocemente le palpebre. «Un po' sì.»

«Ah, ecco, mi pareva.» Meg sorrise. «Dai, Clarence, non farmi fare tutto da sola.» Incrociò le braccia sulla spalliera della sedia e appoggiò il mento ai polsi, con i capelli lunghi e scuri che le cadevano come tende ai lati della faccia. «Come hai passato le vacanze?»

«Quali vacanze?»

Meg rise. «Mi sei mancato un sacco, Cassy.» Schioccò la lingua contro il palato. «Il Purgatorio. Poi parliamo di me, che è il mio argomento preferito.»

Castiel ci pensò su un attimo. «Non è stata una vacanza.»

«Mi basta come commento.» Meg alzò la testa dalle braccia. Lo fissò. «Come cazzo ci sei riuscito?» disse, scuotendo appena la testa in un lento movimento incredulo. «Tu e quei due deficienti avete più culo che anima. Quante volte sei tornato dalla morte certa, sei? Sette?»

«Tre,» replicò lui. E pensò che se fossero state davvero sei sarebbe stata una coincidenza carina.

«Ti confondo sempre con quello stupido dei Winchester.» Lo fissò di nuovo, con un sorrisetto che le aleggiava sulle labbra, mentre ad ogni loro respiro cigolavano le molle del materasso o le gambe della sedia. «Ti credevo andato,» disse dopo qualche istante.

«Anch'io ti credevo... “andata”,» disse lui.

«Non è mica così facile liberarsi di me, dovresti saperlo.» Meg si spinse contro la spalliera. «Due miseri demoni contro di me? Va bene servitori di Crowley e tutto quanto... ma per favore.» Alzò eloquentemente le sopracciglia e si alzò.

Castiel la seguì con lo sguardo, con le braccia abbandonate contro le gambe e la voglia di seguirla per la stanza. «E dove sei stata tutto questo tempo?»

«In giro.» Meg scrollò una mano come per frullare l'aria. «Un po' qui e un po' lì. Crowley porta rancore, Cassidy, come se non lo sapessi.» Era voltata verso la finestra, ma quando disse questa cosa sbirciò al di sopra della spalla verso di lui.

«Sì, lo so.» Castiel ci pensò su. Alla fine si alzò. «E cosa sei venuta a fare qui?» Allargò appena le braccia. «Questo non è esattamente il posto più sicuro del pianeta. E se è stato facile per te trovarmi...»

Meg si voltò verso di lui con le braccia incrociate. «E dove altro potevo andare?»

«Dove sei stata finora.»

«Sì.» Lei ridacchiò e inclinò la testa da un lato. In qualche modo, Castiel capì che non era divertita. «Nascosta sotto i sassi e nelle fogne. Circondata da trappole che al primo respiro sbagliato avrebbero staccato la testa a me. Aggrappata agli stomaci dei topi e dei cani e degli scarafaggi. Sì, Clarice, che spasso. Forse dovevo starmene lì.»

Castiel non trovò nulla di intelligente da dire.

«E tu perché sei qui?» Gli si avvicinò di un passo. Aveva l'odore di un corpo umano non suo, come lui, qualcosa che c'era ma che non era di sua proprietà, come se annusasse due cose contemporaneamente. La vera faccia di Meg aleggiava sopra quella dell'umana, un'impronta scura e simile alla polvere, che aveva tuttavia una sua bellezza, simile a quella dei precipizi e dei burroni.

Castiel strisciò il piede contro l'orlo del precipizio. «Dove altro potevo andare?»

Lei fece spallucce. «Da Cip e Ciop.»

«Immagino tu intenda Dean e Sam,» disse lui dopo un secondo.

«Sì, immagini giusto.»

Castiel prese un respiro che non gli serviva. «Mi chiameranno loro quando avranno bisogno.»

Meg abbozzò un sorriso. «Giusto. Il cavalier servente.» Gli passò accanto con le braccia incrociate, strusciando la manica della giacca di cuoio contro quella del suo soprabito, lasciandogli una traccia di zolfo sul gomito, e si sedette dove si era seduto lui, sul bordo del letto, nella stessa avvallatura tiepida del materasso, e Castiel si chiese se sentisse anche lei tutta l'umanità che c'era passata sopra. «Non ti stanchi mai di correre dietro a quei due come un cane?»

Lui rimase lì, a metà strada tra la finestra e il letto, a riempire l'assenza di lei. «Glielo devo.»

Meg rise. «Glielo devi.» Scosse forte la testa, e la sua vera forma si gonfiò come un alone nero sulle spalle e sui fianchi sottili della donna che aveva rubato. «Allora devi qualcosa anche a me, non trovi?»

«Sì. Lo so.»

«Bene.» Lei sembrò spiazzata per un momento, tanto che ripeté, «Bene.» L'alone demoniaco si ritrasse appena, come una fiamma disturbata dal vento, e la donna che era scostò lo sguardo, che fece scorrere per tutta la stanza, tutto quel grigio e tutto quel marrone. «Che cazzo di posto.»

Castiel sorrise. «Già.»

§*§

La stanza doppia non era molto diversa da quella singola, solo un po' più grande, un po' come quelle che prendevano di solito i Winchester. Due letti singoli con i copriletto grigi, l'armadio marrone, la moquette grigia, e il dipinto di un bosco un po' marrone e un po' grigio là dove avrebbe dovuto essere verde. La numero 8. Bel numero, ma preferiva il 6.

«Avremmo potuto restare di là,» disse. «Tanto a me il letto non serve.»

«Nemmeno a me, Cassidy,» disse Meg, buttandosi su quello più vicino. «Ma perché non prenderci una piccola comodità, visto che possiamo?»

Castiel non sapeva come rispondere a quella domanda, perciò ne fece un'altra. «Cos'hai addosso?»

Meg si rigirò nel letto e si stese sul fianco, mettendo in risalto l'avvallamento curvo dei fianchi tondi della donna che la ospitava, e sorrise con aria furba. «Un completino di pizzo rosso, nuovo di pacca, comprato ieri per l'occasione. Vuoi vedere?» E si uncinò la scollatura della maglietta con l'indice della mano destra, tirandola verso il basso.

Castiel sbatté le palpebre. «No?» scosse la testa. «No. No. Il pizzo non... Io non intendevo... Volevo...»

Meg sospirò. «Massì, massì, tranquilla, Cassandra. Avevo capito.» Il dito che aveva uncinato la maglietta si immerse tra i seni e ne cavò fuori un ciondolo simile a un grumo di pietra e ferro. «Ho i miei talismani. Un paio di graffi sulle ossa. E ovviamente i miei tatuaggi. Sono in un posto molto interessante, vuoi vedere?»

«Sì,» disse senza pensarci. Poi ci pensò, «No, Meg. È una cosa seria. Ne va della tua vita.»

«Ne va della mia sanità mentale!» Gettò le braccia al cielo, lasciandosi cadere di schiena. «Che senso ha tatuarseli se poi nessuno vuole vederli!»

«Potevi tatuarteli in faccia, così li avrebbero visti tutti.»

Meg ruotò la testa verso di lui. «Ah! Ma questo è sarcasmo! Ti lascio solo al purgatorio qualche mese, e mi torni che sai fare del sarcasmo!»

Castiel sospirò e si diresse verso la finestra. «Comunque, è meglio disegnare qualche sigillo, per sicurezza.»

Meg emise un verso affermativo e nascose la faccia nel cuscino.

Castiel si ficcò le mani nelle tasche dell'impermeabile e ne cavò fuori un gessetto polveroso. Scostò le tende e tracciò un cerchio di gesso sul muro tra la finestra e l'armadio, del raggio di un braccio. Sentì Meg muoversi alle sue spalle, le molle del materasso cigolare, i piedi nudi, scalzati degli stivali di vernice, affondare nella moquette.

«Ma ti vesti sempre così?» gli disse rivolta alla schiena.

Lui annuì. «Perché dovrei cambiarmi?»

«Puzzi.»

«Non è vero.»

«Puzzi di noia.»

Castiel sorrise, chiudendo il cerchio e cominciando a scrivere l'incantesimo enochiano. «Non è vero.»

«Come no.» La sentì afferrare la stoffa all'altezza delle scapole e affondare il naso in quello che c'era in mezzo, la fronte appoggiata alla colonna vertebrale, i capelli lunghi che frusciavano contro la stoffa del soprabito. Inspirò forte contro la sua schiena. «Noia.»

«Non riesco a scrivere se mi tieni così.»

Meg lasciò la presa sulla stoffa. Le braccia gli circondarono il petto, i polsi sottili gli si incrociarono all'altezza del quarto bottone della camicia. Il naso venne sostituito da una guancia tiepida. «Così?»

Castiel si accorse di aver smesso di scrivere. Aveva anche abbassato il naso per seguire con lo sguardo le dita di lei scivolare sulla stoffa del soprabito e poi su quella della giacca e poi su quella della camicia. Sollevò la mano libera, quella che non stringeva il gessetto che teneva ancora premuto contro la carta da parati, e la chiuse su quelle intrecciate di lei. Le scoprì piccole.

Riprese a disegnare.

§*§

«Ma quindi cosa stiamo facendo?» gli chiese Meg, quando uscirono dalla stanza qualche ora dopo.

Castiel si diresse verso le scale e si voltò verso di lei. «Camminiamo?»

Meg sospirò talmente forte che le si sollevò un ciuffo di capelli. «Cosa stiamo facendo qui. In questa città. Non so, stai cercando qualcosa? Devi uccidere qualcuno? Ci stiamo nascondendo? O ammazziamo solo il tempo finché Stanlio e Ollio non avranno ancora bisogno di te?»

Castiel riportò lo sguardo sulle scale. Dodici gradini fino al pianerottolo del piano terra. Nelle ultime ventiquattr'ore erano stati calpestati da diciotto persone, sedici delle quali non si conoscevano tra loro né mai si sarebbero conosciute, ma per una strana coincidenza si erano trovati a calcare gli stessi passi, ad evitare spontaneamente la stessa macchia dall'aria sospetta al terzo gradino, a sfiorare lo stesso corrimano un po' appiccicoso, sul quale erano rimaste impresse le loro impronte digitali.

«Mi stai ascoltando?»

«Sì.» Spostò lo sguardo su Meg ed evitò la macchia dall'aria sospetta. «Ammazziamo il tempo.»

Meg ruotò gli occhi al cielo. «Come immaginavo. E cosa fai di solito per ammazzare il tempo?»

Le impronte digitali degli esseri umani erano affascinanti labirinti. Gli esseri umani adoravano trovare in giro prove della loro unicità e della loro esistenza. Davano nomi alle cose. Si cercavano addosso orme da lasciare in giro, e poi non si curavano di quelle lasciate dagli altri.

«Penso,» disse. «Cammino. Esploro.»

«Wow,» disse Meg senza entusiasmo.

Proseguirono fino all'atrio, dove si trovava la macchina per il ghiaccio, due distributori automatici e la porta che conduceva alla reception, dove un ometto dietro a un vetro antiproiettile – Kamal, cinquantotto anni, arrivato in America da trentasei, rapinato diciotto volte – li guardò per un attimo prima di immergersi nuovamente nella lettura del giornale.

Castiel si diresse verso il parcheggio esterno.

«E cosa esploriamo oggi?»

«Non sei obbligata a venire con me. Potevi restare in camera. È un posto sicu...»

«E se andassimo a fare compere?» Meg gli batté una mano sul braccio, un po' troppo forte. «Potresti comprarti dei vestiti nuovi.»

«Mi vanno bene questi.» Ci pensò su. «Erano di Jimmy.»

«Chi?»

«Jimmy.» Si infilò le mani nelle tasche dell'impermeabile. Un tempo si trovava il peso confortevole del portafogli di Jimmy e delle sue chiavi di casa. Adesso erano vuote. «Non importa.»

«Io ho bisogno di vestiti nuovi,» disse Meg. Si guardò attorno. Fuori dal parcheggio c'era una fermata dell'autobus. La prima via commerciale si trovava almeno a venti minuti di cammino da lì.

«Quelli che hai non vanno bene?»

«Oh, senti, se hai idee migliori su come passare il pomeriggio... e non dire “pensare” o “esplorare”, perché me ne vado.»

Castiel la guardò. «Pensare. Esplorare.»

Meg spalancò la bocca. «Sarcasmo. Di nuovo. Non so se essere orgogliosa od offesa.»

§*§

«E quindi oggi non hanno avuto bisogno di te.»

Ore più tardi si erano ritrovati di nuovo nella stanza del motel. Meg lo aveva costretto ad acquistare da mangiare. Take-away cinese. Due borse gonfie come zucche di scatole di cartone simili a lanterne rovesciate. Il pollo sguazzava ancora nello stomaco di Jimmy, nel sugo viscido e salato di bambù e mandorle.

Castiel era sdraiato sul letto a sinistra e osservava il soffitto, dove un ragno stava zampettando con determinazione verso l'angolo della finestra, dove aveva tessuto con pazienza una tela delle dimensioni di un palmo umano. Meg era seduta a gambe incrociate su quello di destra, con una birra in mano.

«Intendi di nuovo i Winchester,» disse Castiel, girando la testa verso di lei. «No. Oggi no.»

«Ed è sempre così? Chiamate di cortesia mai?» Meg bevve un sorso di birra. L'alone demoniaco si arricciò con piacere.

Castiel rimase a fissarla per qualche istante. «Ultimamente no.» Poi aggiunse, «Ma sono impegnati. Salvano il mondo.» Non specificò come.

«Anche tu.»

«Nemmeno io faccio chiamate di cortesia.»

Meg sorrise. Appoggiò la birra al comodino, poi si alzò, facendo cigolare lamentosamente le molle del materasso. «Spostati.»

Castiel la guardò. C'era qualcosa nella sua aura demoniaca che assomigliava alla tela del ragno vicino alla finestra. Vischiosa, pensò. E poi si corresse. Sottile, tremula, fragile. Si scostò verso sinistra. Lei gli si sdraiò accanto.

Era calda. Aveva l'odore dello zolfo e del cibo cinese che avevano diviso e della birra. Era un misto che il sistema limbico di Jimmy non era in grado di archiviare con successo né come piacevole né come sgradevole, ma l'intensità di quella sensazione si tradusse in una scossa bassoventrale che lo costrinse a irrigidirsi.

Voltando la testa verso di lei, la punta del naso sfiorava i riccioli scuri, scuri come l'alone demoniaco che le vibrava intorno, come un velo, come un pizzo sfilacciato, e lui ebbe voglia di tuffarci le mani dentro, come di buttarsi da un precipizio.

«Sei bella,» disse, mentre l'alone demoniaco si arricciava su se stesso come un'onda e poi si distendeva in schiuma scura, si levava e vibrava come un muscolo, e si ripiegava sul corpo della donna che la ospitava. «Come Roma in fiamme. Come una ragnatela. Come le impronte digitali sul corrimano.»

Lei si voltò e lo guardò con occhi terribili. Lo guardò a lungo, poi si tirò su, puntellandosi con il gomito contro il cuscino, con i capelli tenebrosi che le colavano su una spalla come una tenda. «Lo sai che non mi piace la poesia,» disse in un sussurro, con l'aura demoniaca che pulsava con le parole, come se avesse la gola in vista. «Fa' qualcosa o sta' zitto.»

Meg aveva centomila e centododici capelli in testa. Ne stava lasciando quattro sul cuscino. Aveva usato lo shampoo alla camomilla offerto dal motel per lavarseli. Li aveva arrostiti con l'aria bollente del phon elettrico attaccato allo specchio del bagno, mentre lui contava per la settima volta le frange dell'abat-jour sul comodino, fingendo che quell'odore non gli interessasse. La prima volta che si erano incontrati le aveva dato fuoco e i capelli si erano accartocciati sulla testa. Non c'era nessuna traccia di quelle bruciature. Il solo pensiero di quei capelli addosso accendeva nervi del corpo di Jimmy che gli riempivano la testa di fuochi d'artificio.

«Cassidy,» sbuffò Meg. «Sei ancora tra noi?»

Castiel alzò la mano e la prese per i capelli sulla nuca. Strinse finché le dita non furono ricolme di riccioli folti e scuri, finché non riuscì a sentirli tutti, e poi la tirò contro di sé, contro la bocca che aveva ancora il sapore viscido del pollo, e si riempì di quello della legna bruciata, dello zolfo, del fuoco.

Chiuse gli occhi, mentre il peso di Meg gli si rovesciava addosso, le gambe si incastravano e anche l'altra mano trovava la via per i suoi capelli, che al tatto sembravano una nuvola in tempesta e gli lasciarono una traccia elettrica sulle dita.

Lei emise un mugolio sorpreso, che si abbassò velocemente in una specie di ringhio soddisfatto, che gli vibrò fino in gola e poi lungo la spina dorsale. Castiel inarcò furiosamente la schiena contro il materasso, dando il via a un concerto di molle.

Si separarono con un vago suono di risucchio. Meg gli si sistemò a cavalcioni, con i capelli in piena rivoluzione, e l'alone demoniaco gonfio come non ne aveva mai visti, elettrico, che si espandeva dal suo corpo frizzando come le bollicine dello champagne. Lo afferrò per il bavero della giacca e lo tirò seduto con uno strattone.

«Oh, Cassandra,» disse, vagamente ansante. Lo fissò famelica, con gli occhi velati di nero, e quello sguardo gli fece montare qualcosa di feroce nel petto. La afferrò per i fianchi, bloccandola contro il proprio bacino e strappandole un altro urletto tra lo stupefatto e il sorpreso. «Cassandra! Prima il sarcasmo e adesso... questo

Gli infilò le mani sotto le spalle dell'impermeabile e glielo sfilò con uno strattone secco. Castiel si ritrovò ingarbugliato nelle maniche di tre diversi strati di indumenti. Si dibatté per qualche secondo per liberarsi del soprabito e della giacca, che rimasero intrappolati comunque sotto il suo sedere, abbandonati sul materasso come un altro strato di coperte, mentre Meg si sfilava la giacca di pelle con una grazia che faceva pensare che non avesse fatto altro che spogliarsi in tutta la sua vita. La giacca finì per terra con un poff sordo, lasciando lei in maglietta rossa a maniche lunghe e un largo sorriso.

«Via questa roba,» cantilenò con tono sempre vagamente ringhiante, aggrappandosi alla cravatta di Jimmy. Castiel emise un verso rauco e le afferrò i lembi della maglietta che tirò su fino a scoprire l'addome piatto, l'ombelico simile a un bottone infossato, la peluria quasi invisibile della pancia che si arricciò in un brivido deliziato contro i suoi polpastrelli.

«Braccia,» ringhiò con una voce che non riconobbe, e Meg obbedì all'istante, lasciando la presa sulla cravatta, ormai sciolta, e facendo scattare le braccia verso l'alto per lasciarsi sfilare la maglietta dalla testa.

Intimo di pizzo rosso. Come aveva detto.

La lampadina dell'abat-jour esplose con un forte crack.

Meg sobbalzò sul suo grembo. Guardò le scintille della lampadina svolazzare nell'aria elettrica e fumante attorno al comodino e riportò gli occhi su di lui. L'alone demoniaco ruggì di piacere. «Aspetta di vedere quello che c'è sotto, Clarence,» trillò, prima di cimentarsi con la fila di bottoni della camicia di Jimmy.

Castiel fissò lo sguardo sulle spalle magre, l'infossatura tesa delle clavicole, i ciondoli tiepidi che le pendevano tra i seni e sobbalzavano ad ogni movimento.

La luce in bagno sfarfallò.

Le mise le mani dietro la schiena, alla ricerca del gancetto del reggiseno. Con le dita incontrò qualcosa di metallico tra il pizzo. Meg chinò la testa e gli slacciò il terzo bottone e il quarto. Si ritrovò con il naso affondato nei lunghi capelli scuri, avvolto dall'aura elettrica e scura.

Strappò la chiusura del reggiseno, che si afflosciò sulle braccia di lei, e il neon del bagno esplose in una pioggia di scintille.

Meg esalò un ansito sorpreso, raddrizzando la testa di scatto. Lo guardò un istante negli occhi prima di far saltare tutti i bottoni di ciò che restava da slacciare della camicia sul pavimento.

«Voglio farti esplodere l'intero palazzo,» disse. E lo baciò di nuovo mentre lui si dibatteva per liberarsi dei polsini della camicia.

§*§

«Altra birra?»

Sam sollevò la propria bottiglia, che ne conteneva ancora una buona metà, e la agitò in direzione di Dean. «A posto.»

«Minchia se bevi lento,» fu il commento di Dean nei pressi della scrivania. Lo sentì aprire il frigobar e frugare alla ricerca di qualcos'altro da bere, contenuto probabilmente in bottigliette delle dimensioni di un mignolo.

Sam sbuffò e allungò le gambe davanti a sé, lasciando scivolare la schiena contro la testiera imbottita del letto. «Sei tu che bevi troppo veloce. Secondo me non sai neanche che sapore ha, la birra.»

Dean alzò la testa dal frigobar. «Di birra,» disse con una smorfia, e riprese a cercare. «Vodka... vodka... whiskey! Ah, no, altra vodka. Ma cos'è, lo finanziano i russi 'sto motel di merda?»

«Vuoi la mia birra?»

«Con i tuoi microbi sopra?» Dean si girò verso di lui e inarcò un sopracciglio. Allungò la mano. «Massì, passa, dai.»

Sam leccò tutto il collo e ci sputò dentro. «Teh,» e gliela porse.

«Che schifo, dai, la volevo!»

«Mica ho la lebbra, deficiente!»

«È comunque bava.» Gliela strappò di mano lo stesso e la pulì con la maglietta, prima di sedersi sul letto accanto. «C'è sempre quella di Castiel...»

«Ma sei proprio una fogna.» Sam pescò il telecomando dal comodino tra i due letti e accese la TV. «Sono tipo le... undici? Quand'è che l'abbiamo chiamato?»

«Le nove, tipo.» Dean bevve un sorso di birra. «Oh. Oh! Metti sul nove. Sul nove, c'è la replica della partita.»

«Palle.» E mise sul nove. Sullo schermo apparve un campo da football animato da quelli che sembravano dei pallini colorati in preda a una crisi isterica. Nell'angolo destro dello schermo, in un quadratino, la faccia del commentatore sportivo con addosso cuffie e microfono. «Dici che dovremmo preoccuparci? Per Cass, dico.»

Dean emise un grugnito.

«Possiamo richiamarlo. Magari era occupato. Magari sapeva che era solo per una birra e aveva cose più importanti da fare in quel momento.»

«Magari.» Dean appoggiò la birra sul comodino, si schiarì la voce, tirò su col naso e strinse le mani in segno di preghiera. Strizzò gli occhi e abbassò la testa. «Oh Castiel, Castiel, angelo del giovedì. Degnaci della tua presenza per una birra, brutto paccaro di merda.»

Si sentì un fruscio di ali, e Castiel apparve vicino all'ingresso.

«Ah, eccoti!» esclamò Sam, raddrizzandosi contro la testiera del letto. «Ti abbiamo tenuto in fresco una birra. Di' a Dean che non ce ne frega niente della partita.»

Castiel sbatté le palpebre e guardò Dean. «Non ce ne frega niente della partita?»

Dean sbuffò. «Lo dici solo perché te l'ha detto lui. Dai, siediti, vado a prenderti la birra. Sam te la voleva bere.» Si alzò dal letto, che cigolò lamentosamente, e si diresse verso il bagno.

«Io? Lui!» Sam guardò Castiel. «Ma stai bene?»

Castiel era rimasto lì dov'era apparso. Non c'era niente di particolarmente diverso in lui: solito soprabito stropicciato, su giacca stropicciata, su camicia stropicciata. Aveva solo l'aria più arruffata del solito e uno sguardo che Sam avrebbe definito “sereno”, anche se gli sembrava un aggettivo strano, addosso a Castiel.

«Sì. Bene,» rispose lui, guardandosi attorno. «Voi?» aggiunse dopo un attimo.

«Bene?» replicò Sam, guardingo. «Ah, non hai la cravatta!»

«La che?» Castiel abbassò lo sguardo al proprio petto. «Oh.» Emise uno strano sbuffo, che Sam avrebbe quasi definito una “risata”, ma trattandosi di Castiel era meglio limitarsi allo “strano sbuffo”. «Già. L'avrà tenuta...»

«Chi l'avrà tenuta?»

«Ecco la birra!» Dean rientrò in camera con la birra di Castiel. «Scusate, ho approfittato per cambiare l'acqua al... pene.» Inarcò eloquentemente le sopracciglia, soddisfatto, e mollò la birra a Castiel, che si stava ancora fissando il petto. «Toh. Non l'ho leccata.» E si sedette sul letto. «Ti siedi o no? Mi fai venire ansia.»

«Castiel non ha la cravatta,» disse Sam.

Dean guardò prima l'uno e poi l'altro. «Grazie, Fashion Police. Possiamo continuare con la partita, ora?»

«Nemmeno le scarpe!» Sam indicò i calzini di Castiel, che abbassò di nuovo lo sguardo come se se ne rendesse conto solo ora. «Cass, ma stai bene?»

Castiel annuì e si sedette. «Mai stato meglio.» E sorrise.

   
 
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