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Autore: wrjms    29/12/2012    3 recensioni
Fuori scoppiava la terza guerra mondiale? Sherlock era Sherlock. Se la sarebbe cavata comunque.
Malattie? Stanchezza? Fame? Dopo un anno e mezzo di vita con lui ormai aveva smesso di tentare di tenerlo al sicuro dalle insidie del mondo. Sherlock sembrava quasi immune a qualsiasi cosa, come se la natura lo avesse esonerato dalla fame o dal sonno, rendendolo straordinariamente bravo a ignorare i limiti umani e abile a cavarsela comunque egregiamente.
Anche John, alla fine, era stato costretto a cedere all’evidenza: Sherlock riusciva a badare a se stesso anche senza le sue sciocche premure.
Evidentemente si sbagliava.
[Terminally ill!lock, H/C, un accenno di parent!lock e parent!john.]
Genere: Angst, Drammatico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson , Sherlock Holmes
Note: OOC, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Spoiler!
- Questa storia fa parte della serie 'I don't have friends. I've just got one.'
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«Oh I feel overjoyed
When you listen to my words».

(Bastille - Overjoyed)
La malattia era arrivata impetuosa, inesorabile, furiosa come un esercito all’esordio della più sanguinosa delle battaglie. La cosa peggiore e quella per la quale Sherlock Holmes si torturava di più era stata la decaduta senza preavviso, il peggioramento della malattia senza nemmeno un segnale d’avvertimento: i primi e già durissimi sintomi erano arrivati da un giorno all’altro, con la stessa velocità con cui Sherlock avrebbe dedotto il più palese dei casi.
John Watson, intanto, medico militare decisamente frustrato per non aver notato i reali primi sintomi – perché dovevano esserci stati, il consulting detective doveva avergli mentito: nessuna malattia arrivava così, senza preavviso – percorreva per l’ennesima, milionesima volta in cinque giorni il corridoio del reparto, chiedendosi quante altre volte avrebbe dovuto percorrerlo e se mai sarebbe potuto uscire da quello stramaledettissimo ospedale con Sherlock.
Rabbrividisce all’eventualità che, probabilmente, sarebbe potuto uscire da lì definitivamente.
 Da solo.
Il magone era quasi inaggirabile.

Sherlock giaceva sepolto sotto diverse paia di coperte pesanti e - John ci avrebbe giurato - era ultimamente diventato così tanto magro che, se non fosse stato per la zazzera di capelli ricci e corvini che spuntava fuori dalle coltri di stoffa, probabilmente gli infermieri lo avrebbero perso fra le lenzuola. Il medico militare faticava quasi a stare lì a osservarlo, chiedendosi se lì sotto ci fosse davvero quell’uomo che lo trascinava a correre per Londra in piena notte senza stancarsi mai…
«Non volevo svegliarti».
John ovviamente non aveva bisogno di girare intorno al letto e vedere i suoi occhi spalancati per capire che Sherlock fosse sveglio. In cinque giorni ormai non c’era prova più schiacciante della sua rara insonnia del sospiro soffocato di sollievo che il consulting detective lasciava andare appena sentiva il suono dei passi di John vicino a lui, il suo profumo.
«Certo che lo volevi», sussurrò, e il suono della sua voce fu così debole e fievole da far sciogliere il cuore di John.
Lo aveva sempre, sempre, sempre sopravvalutato. Fin troppo, a dire il vero. Era rimasto contagiato dalla forte autostima che Sherlock Holmes aveva di sé, da quel suo modo di credere che, qualsiasi cosa sarebbe successa, l’investigatore sopraffino sarebbe comunque rimasto lì, pronto a trascinarlo via in qualche altro strano caso o suo vaneggiamento. Fuori scoppiava la terza guerra mondiale? Sherlock era Sherlock. Se la sarebbe cavata comunque. Malattie? Stanchezza? Fame? Dopo un anno e mezzo di vita con lui, ormai aveva smesso di tentare di tenerlo al sicuro dalle insidie del mondo. Sherlock sembrava quasi immune a qualsiasi cosa, come se la natura lo avesse esonerato dalla fame o dal sonno, rendendolo straordinariamente bravo a ignorare i limiti umani e abile a cavarsela comunque egregiamente.
Anche John, alla fine, era stato costretto a cedere all’evidenza: Sherlock riusciva a badare a se stesso anche senza le sue sciocche premure.
Evidentemente si sbagliava.
Sherlock rotolò su un fianco, cercando invano di trattenere la smorfia di dolore comparsa sul suo volto. «Che giorno è?».
John sospirò. Andava avanti da un po’: Sherlock Holmes, proprio colui che, come scritto sopra, non dormiva e mangiava quasi mai, ora non riusciva a sconfiggere quella bestiale e insostenibile sonnolenza.
«È il ventisette. Martedì», aggiunse, cercando di dargli qualche input. «Le nove».
«Ho dormito ventun’ore».
John tirò gli angoli della sua bocca a formare un sorriso, seppur palesemente finto, che potesse almeno leggermente confortare l’amico. Mentalmente era già preparato alla sua sequela di botta e risposta:
Sì, aveva dormito più di ventuno ore di fila.
Sì, era più della volta scorsa.
No, non credo che il numero di ore aumenterà ancora, arrivato a questo punto.
Sì, lo sto facendo per confortarti.
No, non morirai, te lo prometto.
Sì, ho paura anch’io.
«Me lo hai portato?», mormorò Sherlock ad un tratto, colto da un’improvvisa e nuova frenesia, guardandolo e ricercando in ogni centimetro della figura di John l’oggetto del suo interesse. Il dottore frugò nella sua tracolla per estrarne poi un giornale accartocciato, ingiallito dal tempo e odorante di biblioteca.
Gli occhi di Sherlock incontrarono il quotidiano lesionato dagli anni e, improvvisamente, il tempo sembrò fermarsi sotto gli occhi di John. Vedeva solo Sherlock, i suoi occhi luccicanti, il suo sorriso straordinariamente e paradossalmente entusiasta.
E non c’era più la malattia, non c’era più quel brutto ospedale, non c’era più quel sentimento iracondo che aveva pervaso il cuore del dottore e sembrava non avere intenzione di lasciarlo andare. Sherlock bastava a riempire il dannato vuoto che aleggiava per il ventre di John, lenendo le ferite come la migliore medicina in circolazione.
«È quello giusto?», chiese, piegandosi per sbirciare la pagina che il consulting detective – ex., ci teneva a precisare il suo cervello freddo e catalogatore, ma il suo cuore era di tutt’altro avviso – stava esaminando.
«Sì», rispose lui, eccitato. «È questo. Vedi? “Amore a prima vista per Jocelyn Right, disoccupata scozzese, che rapisce un operaio di Waterloo per poi richiuderlo nel proprio appartamento rendendolo vittima di ripetute molestie sessuali. L’operaio è riuscito a fuggire dall’edificio stamane, Jocelyn rimane tuttora scomparsa”», lesse, sorridendo di fronte alle analogie che il caso in questione e quello sul quale lavorava avevano. E sorrideva, sorrideva, sorrideva. Anche da malato grave riusciva comunque a fare centro in quel modo che avrebbe dato alla testa a tutti.
E se per l’appunto quasi tutti i suoi pochissimi amici erano caduti nella più totale depressione a causa delle sue instabilissime condizioni corporee, Sherlock era semplicemente arrabbiato, iracondo, colmo fino alle orecchie di collera.
Arrabbiato perché la malattia non poteva arrivare così nel bel mezzo di un caso, frustrato perché ammettere d’essere umano – umano? Puah, troppa dannatissima normalità!  - gli costava fin troppo.
Paura? Paura non ne aveva: la morte non gli faceva paura, era una cosa per la quale non aveva mai avuto il minimo terrore.
La paura di John – per John -… ecco, questo era un affare completamente diverso.
Questo lo fissò per la centesima volta, facendo per congratularsi…
Inutile. Sherlock era già ricaduto nel sonno, ancora.

Al risveglio di Sherlock, più di diciannove ore, dopo, John vegliava ancora al suo capezzale…
O quasi. Sherlock si soffermò ad osservare i suoi occhi chiusi dal sonno, la bocca leggermente aperta e le braccia cadute scompostamente sulla poltrona.
Era carino. Quasi… tenero?
Sherlock, cosa ti succede?
Pochi mesi fa non conoscevi nemmeno il significato della parola “amare”, e ora ti ritrovi a crucciarti per l’affetto che provi per lui? Per John?
Jawn. Il suo nome scatenò un fiume in piena d’emozioni nel cuore del consulting detective, un intramontabile e strano flusso di nuove sensazioni impossibili da fermare.
John, John, John. Sorrise al notare quanto le parole “suo” e “John” riuscissero a suonare con la stessa leggiadria d’un campanello d’argento.
E, rimuginando per la milionesima volta sui suoi sentimenti – sentimenti, cos’erano queste diavolerie giunte dall’inferno? – si trovò, affranto, a dover ammettere una cosa: forse non era solo quella alle malattie, alla fame e alla stanchezza l’immunità che la natura aveva deciso di smentire.
 
John aprì gli occhi dopo un lasso di tempo, seppur abbastanza lungo, fin troppo breve per Sherlock.
Abbandonò il viso di John con lo sguardo, affranto, timoroso d’essere scoperto.
«Sherlock», biascicò questo, sorpreso. «Da quanto sei sveglio? Dio santo, dovevi svegliarmi!».
«Mezz’ora, non troppo», mormorò. «Io avrò pur dormito diciannove ore, ma tu da quant’è che non dormivi? Lo meritavi».
«Cazzate», mormorò John, ma nel contempo si passò una mano davanti alla bocca per sbadigliare. Arrossì, lasciando scorrere lo sguardo sulla figura magra, fin troppo magra, fin troppo debole, fin troppo priva di entusiasmo del suo migliore amico.
«Cosa devi dirmi?», sussurrò, scrutando il viso di Sherlock. In passato forse doveva anche essere bravo a non mostrare i suoi pensieri, ma in quel momento sembrava così debole da apparire come un libro aperto.
«Sono orgoglioso di te, John», sorrise. «Non sono io quello debole per mascherare il proprio viso, sei tu ad essere diventato bravo. Quasi fin troppo. Potrei essere invidioso».
«Ma cosa dici?».
Successe tutto in un momento. Troppo rapido, esageratamente veloce: John non ebbe nemmeno il tempo di metabolizzare le parole di Sherlock, di fermare il magone che improvvisamente gli attanagliava la gola.
«Il medico mi ha parlato mentre dormivi», mugugnò fra i denti, improvvisamente cupo, serioso.
John lesse le sue parole nel suo sguardo.
I medici non avevano trovato una cura.
John arretrò, terrorizzato, senza smettere per un attimo di fissare Sherlock. Ma lui sorrideva, lo guardava senza rimpianto, come se la morte fosse pari orribile alla perdita di una caramella. «Jawn».
Avrebbe dovuto sembrare una cosa strana, anche fin troppo. Eppure John era lì, che lo fissava con gli occhi quasi trucidandolo nonostante il moro non avesse alcuna colpa.  «No, Sherlock, fanculo, fanculo! Tu non puoi andare via così, NON PUOI!».
Il consulting detective sorrise, senza allontanare il suo sguardo da sé, scorgendo gli occhi del dottore iniziare a luccicare di rabbia.
«John, voglio che tu faccia una cosa».
«Fanculo, Sherlock, non farò nulla. Tu… tu…».
«Domani voglio che chiami Lestrade», continuò, come se non avesse detto nulla. «Londra non può rimanere senza un consulting detective».*
Era troppo.
Il dottore si scosse dalla sua posa goffa, insultando se stesso per essersi lasciato andare così tanto, abbandonando lo sguardo gentile ed assolutamente inaspettato dell’amico. Il cuore gli doleva, gli occhi bruciavano, la gola implorava pietà, eppure John arretrò fino a toccare la porta con la schiena, desideroso di andarsene via da quello scenario così tremendo.
«Non posso, Sherlock», biascicò appena, fuggendo via dalla stanza.
Il flebile suono di un singhiozzo lo accompagnò mentre sbatteva la porta.

Sherlock era affranto, desolato, inesorabilmente ed esageratamente malinconico. Aveva tentato, disperatamente tentato di sistemare tutto, di mettere il puntale alla sua vita prima che cadesse a pezzi, ma evidentemente lo sforzo non era stato abbastanza.
John. Se prima pensare al suo nome cancellava ogni sorta di depressione o di collera, ora anche solo provare a pronunciare quel paio di sillabe non faceva che bruciargli il petto, schiacciargli il cuore senza dargli l’opportunità di respirare.
John, John, John. Dove sei? Perché non sei qui con me a urlarmi contro per aver fatto esplodere la cucina con i miei esperimenti? Perché non mi stai spaccando il violino in testa dopo che l’ho suonato per tutta la notte?
E Sherlock pianse. Lo fece, pianse, perché i sentimenti erano una mostruosità orribile e non avrebbe mai voluto immergercisi dentro. John era arrabbiato con lui, John era triste, John non lo voleva più, John, John, John.
Sherlock, improvvisamente, decise. Doveva farlo. Doveva mettere a posto le cose una volta per tutte, cancellare via le macchie dai vetri, a qualunque costo.
Afferrò la flebo e, in uno scatto repentino, la scaraventò sulle piastrelle immacolate. La vena del braccio sanguinava? Poco male, avrebbe smesso prima o poi.
Sherlock si puntellò sui gomiti, tentando disperatamente di alzarsi nonostante la sua debolezza. Tutto gli doleva e i muscoli urlavano per poter tornare sul letto, ma lui non voleva, doveva alzarsi
Ahi. Faceva troppo male.
Posò un piede sul terreno freddissimo, poi un altro, ignorò le palpebre tremolanti verso il basso e si spinse verso l’alto.
Ugh. Un barcollio, fitte alla testa, altre ai muscoli. Male. Sonno. Voleva dormire. John.
No, no, no.
Mosse un passo, un altro. Non era difficile, no?
Doveva solo camminare… camminare. Per John. John, John, John.
Ce la faceva. Sorreggendosi a tutto quello che si trovava appresso, ma ce la faceva.
John, John.
Male, male, male. Ahi. Una fitta più potente delle altre lo obbligò a staccare le mani dal comodino per tenersi la testa…
E poi cadde.
John john john john john john johnjohnjohnjohnjohnjohnjohnjohnjohnjohnohn JOHN!

La vita faceva schifo. Ecco l’unica cosa che John aveva imparato in quegli ultimi giorni. Ti da un biscotto, lascia che tu apprezzi il regalo e inizi a gustartelo per poi tirarti un calcio negli stinchi e riprendersi il biscotto mentre ti contorci sul terreno.
Ciclicamente.
Il biscotto alla fine non doveva essere per forza Sherlock: il biscotto era semplicemente la felicità. No, neanche la felicità: la soddisfazione, la mediocrità… ma evidentemente John non si meritava nemmeno quello. Potersi tenere per un po’ il suo migliore amico dopo averlo cercato per anni e perso per un pazzo squilibrato maniaco dell’esibizionismo era chieder troppo, giusto? Oltre al trauma della guerra, a sua sorella, alla finta morte di Sherlock e alla malattia che aveva dovuto sopportare ci doveva essere anche la morte, quella vera?
Avrebbe voluto essere lui quello a morire.
E alla fine John continuava a sentirsi in colpa, perché alla fine Sherlock stava morendo e lui l’aveva trattato come se fosse stato lui quello stronzo, come se la colpa di tutto ciò che era successo fosse tutta sua.
Ma in realtà Sherlock faceva tanto, troppo. John cosa aveva mai fatto per lui? Gli aveva comprato il latte? Aveva contribuito al piano segreto di Mrs. Hudson con lo scopo di riuscire a fargli mangiare qualcosa almeno una volta alla settimana?
Sherlock lo aveva salvato da sé stesso, lo aveva salvato dalla guerra, dalla depressione, dalla solitudine, da Moriarty, dal proiettile che avrebbero fatto partire i suoi cecchini se non si fosse buttato giù da quel palazzo. Sherlock aveva fatto tutto, tutto. Si sarebbe suicidato per lui, ma John, John…
Sei tu quello stronzo, John, realizzò.
E John si lasciò scappare una lacrima, proprio quando, a sorpresa, dei medici iniziavano a correre nella stanza di Sherlock urlanti e agitati.
«Sh-SHERLOCK!».

Male. Faceva male.
Dov’erano gli occhi? Dov’era il suo corpo? Non capiva più nulla.
Male, male, ancora male. La testa. Ahi.
Staccatemi la testa!
John.
John, John, John. Dov’era John? Aveva promesso che sarebbe stato con lui, ma ora non era lì.
Il suo profumo… mancava il suo profumo. E i suoi occhi. E i suoi capelli chiari. John, ti prego, ti prego, vieni. Sgridami, insultami, odiami, ma torna. Torna.
Ho bisogno di te.
Da solo non ce la faccio.
«Sherlock».
Era lì. John era lì. Non lo aveva abbandonato, era lì, era lì e piangeva. John non lo odiava. John era lì, John era lì.
Sono qui, avrebbe voluto dire. Jawn, mi senti?
Non importa se muoio.
Basta che mi dici che mi ami, poi sarò così felice che nemmeno la morte potrà spegnere il suono del mio battito accelerato.
E cosa importava dei suoi sentimenti nascosti per così tanto tempo, del modo in cui sarebbe rimasto umiliato dopo una tale confessione, della sua solita durezza mandata a quel paese?
John. Aveva bisogno di John, solo di John.
E, come per magia, eccolo lì. Era appannato, devastato dalle lacrime – sia quelle di Sherlock che gli impedivano una buona visione, sia le proprie che gli sfiguravano le guance perfette -, le occhiaie profonde e penetranti che sembravano estendersi così tanto sul suo viso da strisciare per terra.
E poi, appena in tempo perché l’unica visione che Sherlock avesse di lui fosse quella del suo sguardo distrutto, il dottore sparì di nuovo. C’erano solo luci al neon oltre ai suoi occhi, ora, luci bianche che scorrevano lasciando un alone di macchie chiare sul soffitto e che sembravano non volersi fermare più.
«Continua a ripetere il suo nome».
«Sherlock, sono qui, sono qui».
Lo stava facendo davvero? Lo stava chiamando? Sherlock non riusciva a controllare le sue labbra. Voleva lui, lui, lui. E lui ritornò, ancora lì per lui, ancora lì a salvarlo.
Era un soldato, sì, ma aveva la faccia di uno che non aveva mai visto nulla di peggio di quello che stava provando in quel momento. La sua faccia era sofferente, stanca, devastata, sembrava quella di un uomo che lottava contro sé stesso mentre il suo corpo era sul punto di un mancamento.
«V-va tutto bene, J-Jo-hn».
Non andava tutto bene, no. John si lasciò sfuggire una, due, tre lacrime.
E Sherlock, per la prima volta nella sua vita, divenne empatico. Pianse anche lui. A lui non importava di morire, a lui importava di John. John non poteva essere triste. John doveva essere felice.
«John… devi… felice», biascicò, stanchissimo, desiderando di avere più forze per dire a John tutto quello che provava. Avrebbe voluto suonare al violino per lui, dirgli che la forza di risolvere ogni santissimo caso gliela davano i suoi sorrisi, scusarsi per tutte le volte che lo aveva fatto arrabbiare e ringraziarlo per tutto, soprattutto per esserci stato sempre. Tuttavia le palpebre tremolavano verso il basso con una forza disarmante, come se la gravità le stesse spingendo a chiudersi su sé stesse per compensare quel sonno che logorava Sherlock e gli appannava la mente.
No. Sherlock non doveva dormire. John glielo aveva ripetuto migliaia di volte in quei giorni: non doveva dormire, doveva cercare di non chiudere gli occhi, ogni giorno le ore di sonno aumentavano mostruosamente e lui doveva essere forte e lottare. Ma la tentazione era forte, forte, e Sherlock non aveva altro motivo di combattere se non di farlo per lui.
«Sherlock, Sherlock, continua a parlarmi, ti prego», pregò John, aggrappandosi alla barella e faticando per starle dietro. Era così carino, e sembrava un pinguino.
«John».
«Sì, Sherlock, sì».
E Sherlock sorrise. I medici erano quasi arrivati alla sala operatoria, ma lui sapeva benissimo che non sarebbe servito a niente. Era finita lì, sarebbe finita non appena avrebbe chiuso le palpebre. E allora decise di sorridere, sì, sorridere, proprio perché un sorriso era tutto ciò che aveva da offrire a John.
E, sfinito, pronunciò a lui le ultime parole.
«Ti amo, John. Sii felice».
E nonostante il silenzio scioccato di John mentre i dottori trascinavano la barella nella sala operatoria, spingendolo via per farlo rimanere fuori, Sherlock affondò i suoi occhi chiari in quelli del suo migliore amico e lo capì dal suo sguardo: lo amava anche lui.


Due mesi dopo
La lettera era arrivata assieme a un cesto in vimini coperto da un telo candido e immacolato che si contorceva sotto all’impazienza di qualcosa che si agitava fra i veli di tulle. John aveva fissato il vuoto davanti alla porta d’ingresso del 221B per minuti interi prima di rendersi conto che, chiunque avesse suonato alla porta, se n’era andato lasciando lì quel regalo.
Si era chinato, confuso, aggrottando le sopracciglia e inginocchiandosi davanti al cesto.
Vicino ad esso, la lettera citata.
Dentro ad esso, un orsacchiotto di pezza. Un braccialetto con l’incisione di un nome. La fotografia di un uomo fin troppo familiare.
E un bambino.
Un infante, piccolo, piccolissimo, avrà avuto poco più di sei settimane. Si contorceva e muoveva i piedini, scalciando e agitando i pugnetti, per poi lasciarsi andare in un gran sorriso sdentato quando John rimosse il telo poggiato davanti al suo viso.
John l’aveva portato in casa, sconcertato, prendendolo fra le sue braccia e soppesandolo. Era proprio piccino, magro, eppure dolce, con una spruzzata appena accennata di capelli scuri sulla testolina e gli occhi dannatamente, perfettamente azzurri.
A John quasi non servì leggere la lettera. Un po’ aveva già capito tutto.
Lesse attraverso la calligrafia tonda di Kate come Sherlock fosse andato a rifugiarsi da Irene durante i tre anni di lontananza da Baker Street, di come fosse successo, di come Irene avesse deciso di tenere per sé il bambino obbligando Sherlock a subirne le conseguenze, appena scoperta la gravidanza, per poi pentirsene ed abbandonarlo all’amante dopo poche settimane di maternità sfiancante.
“Non faceva per lei.”
John tornò a fissare il neonato, chiedendosi dove avesse trovato la forza di rifiutare una creaturina talmente dolce e perfetta.
“Il nome lo aveva scelto Sherlock.
E, carezzando il piccolo mentre dormiva, John abbassò lo sguardo sul braccialetto deposto con cura nella cesta. Era bello, fatto su misura per il polso di un bambino piccolo, con il nastro rosso e la targhetta in oro bianco con un’incisione in corsivo francese.
Hamish Holmes.
John rise.
 Felice.

S.d.A. [aka Sclero dell’Autrice] – Perché partorire sarebbe stato più semplice
SHERLOCKIANS!
Eccomi, eccomi qui! Chi mi scorge nella home del fandom di Sherlock di EFP avrà dedotto che io non so stare alla larga da questi meravigliosi uomini che ci ritroviamo a seguito delle creazioni delle perfetti menti di Doyle, Moffat e Gatiss, perciò… insomma, sì, ecco.
Sono qui ancora. Vostro disastro personale. Mi perdonate per le mie balordaggini, vero? Vero, vero?
Quindi. Sopportiamo il cervello bacato e tentiamo di parlare seriamente una volta per tutte.
La storia nasce grazie ai Bastille – ringraziamenti in diretta alla Mery che me li ha fatti conoscere, ciao. ♥ -e alla loro stupenda musica ispiratrice.
* L’asterisco posto a metà storia è un riferimento a Alone On The Water, ovviamente, e alla genialità di MadLori. Scusatemi. Dovevo onorare la sua mente perfetta in qualche modo.
Il titolo è una citazione dal Cantico di Salomone. La malattia di Sherlock... ok, me la sono inventata.
Ecco, insomma. È tutto. Spero che vi sia piaciuta. Io ne sono orgogliosa, anche se è una schifezza e avrei potuto impegnarmi di più. Chiedetemi tutto quello che volete, insultatemi perché fa pena, insomma… sono aperta a tutto.
A presto, e grazie mille per avermi letta. Dovreste essere santificati solo perché riuscite a sopportare i miei sfasi.
Vostra,
WJ

   
 
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