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Autore: Rowena    30/12/2012    7 recensioni
Cercando di prepararsi per convincere sua figlia ad accettare le nozze combinate, la regina Elinor si lascia sfuggire con suo marito che aveva dei dubbi sul proprio fidanzamento... Ma cos'è successo in realtà? La storia di come Fergus ed Elinor si sono innamorati... E di come è nato il regno di Dunbroch.
Genere: Guerra, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Angoletto dell'Autrice: Salve a tutti, vorrei fare una piccola premessa prima storia. Questa one-shot doveva essere abbastanza breve e soprattutto abbastanza comica. È venuta invece relativamente lunga, per i miei standard, e decisamente non fa ridere. Non tantissimo almeno. L'idea era scrivere dei famosi dubbi prima di sposarsi di Elinor, ma poi mi sono chiesta come i due fossero stati promessi e come Fergus fosse riuscito a unire i quattro clan e dei personaggi così diversi e complicati, sempre pronti alla rissa. Inoltre, non mi quadrava l'educazione di Elinor: per quanto abbia sposato un re, è difficile credere che di sua iniziativa sia diventata così legnosa e severa, specie nei confronti della figlia (e soprattutto visto com'è Fergus, che non corrisponde di certo alla nostra idea di re XDDDD). Ho voluto anche dare spazio a una tradizione tipica dei clan scozzesi e irlandesi, ossia l'adozione dell'erede: nel film i titoli sembrano passare normalmente da padre in figlio, ma in questa realtà era possibile anche preferire all'erede di sangue un altro membro del clan che fosse più meritevole. Non vi spoilero altro, però volevo solo dire che non me lo sono inventata. XD
Il titolo della storia riprende la ninna-nanna che Elinor canta in gaelico nel film, e vuol dire semplicemente "Bella fanciulla", però il gaelico ovviamente fa molto più figo, per cui perdonatemi questo vezzo.
Buona lettura e se volete farmi sapere come vi è sembrata, leggerò con piacere i vostri commenti.

Rowi




Dedicata alle Muse, che avrei voluto vedere un sacco giovedì.



La prima volta in cui apparvero i vichinghi al largo delle coste di Dunbroch, i clan erano divisi e isolati: ogni capo pretendeva la corona per dominare sugli altri e attaccava briga coi vicini per la minima scaramuccia, capitanati dai giovani tànaiste, i successori designati che volevano dimostrare di essere una buona scelta per il futuro. Questa generazione aveva preferito dare fiducia ai rispettivi figli facendo ereditare loro il titolo e le responsabilità, sebbene fosse possibile ignorare i legami di sangue e premiare il coraggio o la saggezza di un altro giovane appartenente allo stesso clan, e quindi imparentato alla lontana con il chief, se si fosse dimostrato meritevole di subentrargli.
I tre giovani eredi, sebbene non ancora saliti al potere, erano ormai profondamente coinvolti nella gestione dei loro domini e avevano sostituito i propri padri ormai anziani e deboli alla testa della loro armata, in previsione del futuro. Si apriva ora il periodo un po’ penoso in cui un ragazzo doveva aspettare la morte del genitore per occuparne il posto, e nonostante l’impazienza non riusciva ad augurare comunque il peggio al capo in carica solo per ambizione.
L’unico che ancora non aveva scelto il suo successore era proprio il signore di Dunbroch, rimasto senza figli maschi: malgrado fosse ormai in età avanzata, infatti, il chief Murdo sembrava ancora indeciso su quale dei vari bravi giovani del clan imparentati alla lontana fosse il più adatto a prendere su di sé le responsabilità della loro gente. Ma in tempo di pace era normale non correre su decisioni così importanti, per cui ancora non si aveva il nome del tànaiste e i giovani facevano del loro meglio per impressionare il capo, chi pescando, chi rubando bestiame, chi cacciando.
Fu in una battuta di caccia sulla costa che un gruppo di ragazzi individuò al largo alcune ombre che da tempo ormai erano simbolo di sventura e morte. Inquieti, i tre giovani fecero girare i cavalli e ripartirono al galoppo verso il castello di Dunbroch per far sapere a tutti cosa avevano scorto.
«Le abbiamo viste, le navi lunghe di cui si mormora da settimane!» tuonò Fergus figlio di Kenneth, il più grosso dei tre, una volta che riuscirono a entrare nella sala del trono, nonostante i soldati avessero cercato di fermarli a ogni posto di guardia.
«Calmatevi, calmatevi un momento», li richiamò Murdo con un cenno della mano. «Tra quanto tempo pensate che saranno qui, ragazzi?»
Alasdair, l’amico di Fergus che fino a quel momento era rimasto piegato sulle ginocchia per riprendere fiato dopo la lunga corsa, spiegò il punto in cui avevano visto le temute imbarcazioni dei nemici.
«Sono poco distanti dalla costa, dunque…», rimuginò il chief passandosi le dita nella folta barba bianca. «Dobbiamo richiamare la gente perché si rifugi nel castello e mettere in mare la flotta per un blocco navale. Chiudendo l’accesso alla baia guadagneremo del tempo, ma non sarà sufficiente».
«Lord Dunbroch, permettici di prendere le armi e cacciarli via come cani: manderemo via gli invasori del Nord e di questa impresa si canterà per i secoli a venire!» gridò uno degli amici di Fergus, un giovane magro di nome Donald.
A quella richiesta, nella sala scoppiò un boato di approvazione da parte di tutti i guerrieri del clan, sebbene il capo fosse rimasto in silenzio e pensieroso sul da farsi.
«Siamo troppo pochi: se come si dice ogni nave porta una trentina o più di vichinghi, non sapremo tenere loro testa a lungo», esclamò il ragazzo che aveva dato l’allarme, mantenendosi stranamente calmo.
Alto, robusto e con un’incredibile zazzera di capelli rossi, nonostante i suoi sedici anni Fergus figlio di Kenneth era già un guerriero famoso e stimato tra la sua gente. Indossava sempre sui suoi abiti una spessa cappa d’orso, che aveva ricavato dalla bestia che aveva ucciso da solo un paio d’anni prima. Nonostante il suo valore, però, molti dubitavano che il ragazzo potesse essere un buon capo, perché in genere sembrava timido, s’incespicava con le parole, oltre a essere un po’ tardo sulle questioni pratiche più semplici. Un leader doveva saper impugnare una spada, dicevano le vecchie del castello, ma anche saper dividere equamente la terra tra le famiglie che contavano su di lui o quando fosse il momento giusto per seminare… Per quanto fossero belligeranti e amassero vantarsi delle proprie imprese, anche gli scozzesi amavano la pace più della guerra. Nonostante questo, con i nemici gli animi si scaldarono molto in fretta.
«Fergus, come osi mettere in dubbio le nostre capacità? Solo perché tu sei grande e grosso e hai già ucciso un orso…»
«Sono realista: l’orgoglio non ci difenderà dalle loro spade, fratelli miei. Non è un insulto riconoscere che ci serve aiuto, se questo metterà in salvo la gente e le colture», ribadì il guerriero con la mano già sull’elsa della spada. «Ma non capite? Abbiamo sentito di cosa sono capaci i vichinghi: prendono d’assalto i villaggi e i castelli, bruciano tutto e rubano gli animali e le scorte alimentari, uccidono gli uomini e stuprano le donne, per venderle poi con i bambini come schiavi sul continente».
«Contegno, ragazzo, davanti alla figlia del tuo chief
tutti gli occhi a quel punto si spostarono sulla giovane donna che sedeva compostamente a fianco del capoclan, su quel seggio che era stato di sua madre, e che non si era persa una sola parola della discussione. Vestita sobriamente di verde, Elinor era un’osservatrice attenta e la più riverita consigliera del padre, malgrado i suoi sedici anni. Era anche a causa sua, dicevano le anziane, se il chief non aveva ancora risolto la questione della sua eredità: era norma che il vincitore dei giochi, e con essi della mano della ragazza, assumesse il titolo di capo, eppure Murdo sembrava titubare perché desiderava vedere ben maritata la sua unica figlia.
Fissò Fergus, bene attenta a non mostrare debolezza o vergogna, e la sua severità fece sentire a disagio l’altro. Il ragazzone arrossì, sentendosi in imbarazzo e temendo di aver insultato la giovane, ma non si lasciò zittire: «Beh, è bene che non solo la figlia del chief, ma che tutto il clan mi senta: tutti devono conoscere i pericoli che incombono su di noi, o siamo perduti in partenza. Stiamo andando incontro a una guerra, amici miei, non a una gazzarra con i Dingwall per un furto di bestiame».
«Cosa suggerisci, Fergus?» domandò allora il capoclan con sincero interesse.
«Dobbiamo mandare un messaggio agli altri clan, forgiare una nuova alleanza contro il nemico comune» rispose il giovane senza pensarci due volte. «Noi saremo i primi a subire le razzie, ma presto i vichinghi si sposteranno anche nei loro territori. È un accordo che porterà benefici a tutti e…»
Le ultime parole furono coperte dalle grida e dai fischi degli uomini nella grande sala del trono, come Fergus del resto si era aspettato. Da troppi secoli i quattro clan si combattevano per pensare che tutti accettassero una simile proposta, ma il pericolo incombente era troppo grande per lasciarsi frenare da vecchi conti familiari.
«I Macintosh ci devono ancora le dieci pecore che rubarono a mio nonno!» tuonò un guerriero di mezza età che stava vicino al camino acceso.
«E i MacDuffin…»
«Volete capire che rimanendo fermi a queste sciocchezze moriremo tutti? E allora non ci saranno più pecore da rubare, o pozzi sul confine per cui bisticciare su chi abbia diritto ad attingervi l’acqua, o giochi tra clan!»
«Silenzio, tutti quanti» gridò Murdo alzandosi dal suo scranno. «Fergus, io sono convinto che tu abbia ragione, e non solo perché la mia saggia figlia mi ha consigliato la stessa cosa stamattina», disse guardando con affetto Elinor al suo fianco. «Erano giunte voci che i vichinghi si stessero avvicinando e ci siamo chiesti cosa fare in caso di un attacco, anche se in cuor mio speravo di avere più tempo».
La ragazza senza timore prese la parola, tenendo le mani giunte in grembo e la schiena dritta: «Tutti noi conosciamo la storia dell’antico regno perduto, e di come la brama di un principe distrusse un paese che fino ad allora aveva conosciuto la pace e la prosperità. Noi non commetteremo l’errore di essere così ciechi da lanciarci da soli in battaglia per non chiedere aiuto».
Nonostante la giovane età, Elinor conosceva a fondo le storie e le leggende del clan ed era molto portata per le questioni diplomatiche, tanto che spesso Murdo la portava con sé quando doveva discutere con i suoi vicini degli altri clan e aveva bisogno di un consigliere meno belligerante dei suoi guerrieri.
«Mio lord, non voglio mancare di rispetto a tua figlia, che è l’orgoglio dei Dunbroch con la sua saggezza, ma nessuno dei clan si schiererà con noi», si lamentò l’uomo che aveva nominato la vecchia disputa sulle pecore con i Macintosh. «Anche se mandassimo loro un messaggero, non risponderanno».
«Non possiamo rinunciare senza almeno tentare», continuò Fergus ringalluzzito dal sostegno del chief. «Grande capo Murdo, io mi offro per recarmi dai tuoi pari e offrire loro la tua proposta di alleanza».
«Parti subito, Fergus figlio di Kenneth, e torna prima che sia tardi con quanti più uomini riesci a trovare. Noi ci prepareremo a respingere i vichinghi il più a lungo possibile», rispose il capoclan con un sorriso. «Se riuscirai nell’impresa, ti nominerò mio tànaiste e ti darò in sposa mia figlia».
Fergus s’inchinò in segno di rispetto, e se provava gioia od orgoglio per quella decisione del capo non lo diede a vedere. Dal canto suo, la promessa sposa si voltò a fissare il proprio padre con sorpresa e stupore, ma non disse nulla. La sua educazione le impedì di protestare davanti all’intero clan, così lasciò che il suo fidanzato proponesse alcune misure per ritardare lo sbarco dei vichinghi.
Oltre al blocco navale, su suggerimento di Donald, avrebbero reso le spiagge impraticabili con fosse, picche e grandi palle di foglie di cardo, che le vecchie avrebbero messo sapientemente insieme con le loro dita abili: i nemici non conoscevano le insidie che le piccole piante delle Highlands nascondevano. Con un piano complesso che richiedeva l’impiego di tutta la popolazione di Dunbroch, i guerrieri esultarono dell’imminente scontro e brindarono, pronti ed entusiasti all’idea di una guerra che sarebbe stata cantata a lungo.

***

«C’era proprio bisogno di promettergli la mia mano?», tuonò Elinor una volta che la seduta fu sciolta e lei e il padre si erano ritirati nei loro appartamenti personali. Si tirò via la cuffia in cui era solita nascondere i suoi lunghi capelli bruni, com’era consono per la figlia di un capoclan e la lasciò cadere su una sedia senza cura, scrollando il capo per dare una forma meno schiacciata alla sua chioma.
Murdo si sedette a capotavola ridacchiando: «Nessuno sarebbe più meritevole di sposarti di chi si dimostrerà capace di riappacificare i quattro clan, Elinor. Fergus come te ha capito il problema e si batterà per risolverlo: sarà un grande capo e al suo fianco tu sarai non solo la moglie del lord di Dunbroch, ma diventerai regina di tutti i clan».
Elinor rimase per un attimo interdetta a quelle parole, incredula: «Regina?»
«Se riunendo i clan sconfiggeremo i vichinghi, dalla nuova alleanza si creerà un regno mai visto e la corona andrà a chi prima di tutti avrà saputo vedere oltre le piccole scaramucce che da secoli ci dividono».
«Io e Fergus, dunque», concluse Elinor mentre le domestiche servivano il piatto preferito di suo padre, l’haggis con cardi stufati.
«Ti preoccupa qualcosa, mia cara? Temi forse che sia un matrimonio azzardato?»
La ragazza ci pensò su mentre tagliava il primo boccone d’interiora ripiene: Fergus non era il giovane più bello del clan e alle feste era timido quanto sapeva essere impetuoso a caccia o in battaglia. Lo si vedeva raramente danzare e le cameriere lo prendevano in giro perché in genere balbettava quando tentava di corteggiarle.
Non era bravo con le parole, eppure quel giorno si era espresso con chiarezza e lucidità, pronto a difendere la sua casa.
«No, è che tutti si aspettavano gli inviti ai giochi per conquistare la mia mano», mormorò lei chinando il capo. «Le tradizioni…»
Murdo ridacchiò ancora, colpito e intenerito una volta di più dalla forza che sua figlia traeva dalla storia del loro popolo: una volta di più si convinse che aveva fatto la scelta giusta. Al fianco di Fergus, sarebbe stata una magnifica regina, che nemmeno gli altri capoclan avrebbero osato sfidare.
«Elinor, le tradizioni sono importanti ma, come ha detto Fergus, bisogna pensare a come sopravvivere, se non vogliamo che le nostre usanze muoiano con noi. Il nostro campione riunirà i clan, e allora nessuno alzerà la voce per opporsi alla mia promessa».
Era un piano molto ben congeniato, ammise la principessa: in ogni caso il suo destino era già segnato, o sposa di Fergus o schiava dei vichinghi… No, nel caso avrebbe rubato una spada e si sarebbe tolta la vita pur di non dover affrontare un misero destino: lei era la figlia di un lord, signora del castello di Dunbroch. Non sarebbe mai andata a scaldare il letto di un brigante del mare, mai.
«Sei pensierosa, mia cara», si rese conto Murdo. «Se il matrimonio non ti sembra adatto, quando sarà il momento, spiegheremo al nostro campione che hai bisogno di tempo e che non sei pronta per le nozze».
A quelle parole Elinor sorrise, ben consapevole di quale fosse il suo posto: le veniva data una scelta che poche donne potevano avere nella vita, ma lei avrebbe onorato la parola del lord come ci si aspettava da lei. Tuttavia, avrebbe voluto che suo padre ne parlasse con lei prima di decidere del suo futuro in quel modo. Aveva bisogno di stare sola, almeno per una sera, così da riflettere e accettare il suo destino con la serenità e la dignità che si confacevano al suo rango.
«Non ce ne sarà bisogno, padre. Scusami, vado a prendere il dolce, la cameriera si deve essere dimenticata di servirlo».
Le spiaceva lasciare il genitore da solo, con una scusa per di più, ma aveva bisogno d’aria, così sgattaiolò nelle cucine, dove ormai la cuoca doveva aver finito di rassettare e di mettere in ordine, per una tazza di tè e un dolcetto da consumare in silenzio rimuginando sui propri pensieri, quando un rumore la allarmò. Scese gli ultimi gradini con fare più circospetto, chiedendosi chi potesse essere a quell’ora, ma quando varcò la soglia rimase stupefatta.
«Fergus!»
Il ragazzone si alzò d’istinto dalla dispensa, in imbarazzo. «Perdonatemi, mia signora: non sto rubando, vostro padre mi ha detto di fare in fretta e a me servono provviste per il viaggio… Il vostro attendente ha detto che potevo prendere ciò di cui ho bisogno».
«E non avevate nulla in casa vostra?» domandò la giovane perplessa.
«No, devo ammetterlo: contavo di sfamarmi per qualche giorno con il ricavato della caccia di oggi, ma le navi ci hanno fatto dimenticare la nostra preda, un cervo magnifico».
«Oh… Fate pure, allora», disse Elinor senza altre domande da fargli.
Era colpita: Fergus era solo tonto o aveva davvero messo la sopravvivenza di Dunbroch davanti al proprio stomaco? Pochi uomini erano così dediti alla propria gente, molti avrebbero preferito inseguire il cervo, ucciderlo e poi dare l’allarme in attesa che finisse di dissanguarsi, giusto in tempo per metterlo sul fuoco.
Sempre un po’ intimidito dalla presenza della fanciulla, il guerriero mise nella sua borsa alcune fette di carne e di salmone sotto sale, con delle mele e una grossa forma di pane croccante.
«Spero di non recarvi disturbo», si scusò ancora con le guance rosse.
«Affatto, il pane si può sempre rimettere in forno prima di colazione domani mattina… Ma non sarà poco, per il viaggio?»
«Non vi preoccupate, questa è una scorta per qualche giorno: quando l’avrò finita, andrò a pesca nei ruscelli, oppure mi ciberò di bacche», raccontò con occhi sognanti Fergus. «Conosco bene la foresta, mia signora, e non avrò difficoltà a cavarmela».
«Non ho dubbi», ammise Elinor. «Davvero hai ucciso l’orso a mani nude?»
«Che, questo qui?» domandò Fergus tirando avanti un lembo della sua cappa. «Sì, avevo finito le frecce e l’orso mi aveva strappato via la spada, per cui gli sono saltato sulla schiena, gli ho cinto il collo con le braccia», spiegò mimando la scena in ogni dettaglio, «e ho stretto finché non ha smesso di dibattersi».
«E non hai avuto paura?»
Per un attimo, lui pensò di rispondere come faceva davanti al fuoco nelle sere di festa, quando gli veniva chiesto di raccontare del combattimento con l’orso, ma lo sguardo penetrante di Elinor gli fece ammettere la verità con un tono semplice e modesto: «Be’, ero solo e disarmato, solo un folle non avrebbe temuto per la propria vita, però io non volevo morire. Ero più determinato dell’orso, quel giorno, come disse mio padre».
«Sei stato molto coraggioso», ammise lei davvero ammirata, per la sincerità e per l’impresa in sé. Gli orsi erano la piaga di Dunbroch, anche quelli più piccoli e meno malvagi di Mor’du.
Fergus arrossì di nuovo, rendendosi conto solo in quel momento che la ragazza era passata a un tono meno formale. Non aveva problemi a lanciarsi nella mischia o a fare a pugni, ma con le donzelle era davvero una frana.
«Mi signora, spero che la decisione di vostro padre non vi abbia indisposto», riuscì a balbettare. «Voglio dire che… Molti prenderebbero la parola del capoclan per legge, ma se dobbiamo sposarci… Desidero che avvenga solo se voi lo desiderate quanto me».
«Io desidero sposarti», rispose lei con la stessa caparbietà con cui aveva affrontato il proprio padre. «Come da tradizione, accetterò la decisione del mio chief».
Con un estremo atto di coraggio, per un giovane che osava affrontare gli orsi a mani nudi ma che temeva le ragazze più degli spiriti maligni, Fergus le si avvicinò e le sollevò il mento delicatamente.
«Ma tu non sposerai la tradizione, Elinor, sposerai me».
Colta di sorpresa, la principessa arrossì a sua volta e distolse lo sguardo: era stata cresciuta sapendo che avrebbe dovuto sposarsi per dovere e per garantire al clan un’alleanza, eppure ora l’uomo che suo padre aveva scelto per lei le offriva quella scelta che in teoria la vita non le aveva concesso. E stranamente, sentì che improvvisamente voleva conoscere meglio Fergus, e scoprire se si sarebbe mai tolto quella timidezza di dosso, o se sapesse dare un bacio a una ragazza. Forse suo padre aveva visto giusto, a individuare in quello strano tipo il marito adatto per lei.
«Mia signora?», la chiamò Fergus, preoccupato che non avesse più detto una parola.
Sentendosi rivolgere quel titolo di nuovo formale, Elinor si riscosse e tornò a essere la figlia del capo. Se voleva avere la possibilità di conoscere meglio il ragazzo che le stava di fronte, doveva fare quanto poteva perché lui riuscisse nella missione che aveva ricevuto da suo padre.
«Fergus, posso darti un consiglio?», gli chiese con fare serio e solenne.
«Certamente!»
«I chief sono permalosi, tutti: sono così cocciuti che se lord MacDuffin sapesse che hai parlato con lord Macintosh prima che con lui, probabilmente rifiuterebbe di riceverti, perfino, e così gli altri. Chiedi loro di vederti tutti insieme presso i menhir, in un luogo sacro e intriso di magia come quello non faranno le solite bizze», gli propose con un sorriso, ricordandosi quello che le aveva detto sua madre molti anni prima.
Il ragazzo non sembrò particolarmente impressionato: «Il cerchio di pietre? Speravo che avessi un’arma segreta per tenerli a bada più efficace della… Magia».
Elinor si scostò un poco, sentendosi offesa da quella mancanza di fede.
«Fai male a non crederci», rispose voltandosi a guardare la luna, «la nostra terra è sacra: è da sciocchi rifiutare i poteri che essa nasconde».
«Non volevo insultarti», si affrettò a spiegare Fergus notando quanto le sue parole avessero infastidito la ragazza. «Io sono un guerriero, sono stato cresciuto a tenere la spada e la lancia, e a scagliare le mie frecce il più lontano possibile. Non so molto di magia».
«Credimi, in certe situazioni il rispetto delle tradizioni è l’arma più potente che uno abbia a disposizione…» replicò ostinata Elinor, che non era abituata a rinunciare all’ultima parola.
Era testarda come sua madre, diceva sempre Murdo, ma la ragazza era certa di aver preso la cocciutaggine da entrambi, sebbene non l’avrebbe mai ammesso.
Fergus la fissò per un attimo e amò il suo cipiglio serio, l’espressione determinata, le mani sui fianchi sottili… L’aveva sempre ammirata, fin da quando erano bambini e lei lo sfidava a chi lanciava le pietre più lontano nell’acqua. Magari Elinor non si ricordava delle sue scorribande quando ancora non aveva cominciato la sua educazione da giovane lady, ma lui la vedeva nitidamente, piccola ma intrepida e spavalda, con un sorriso generoso. Ora la figlia di Murdo era sempre attenta e composta, ma lui avrebbe dato qualunque cosa per rivedere quello stesso sorriso.
«Farò come mi hai consigliato, mia signora», ammise alla fine sinceramente, anche perché per il momento non aveva alcun piano su come convincere gli altri clan a unirsi a lui: conosceva di vista i giovani di tutti e tre i gruppi, se non altro perché almeno una volta aveva fatto a botte con ognuno di loro, ma non era sicuro che sarebbe riuscito a farsi ascoltare dai capi. Elinor aveva molta più esperienza di lui nelle questioni diplomatiche. «Ora è meglio che vada, con i vichinghi in arrivo è meglio non perdere neanche un istante. A presto».
E fece un leggero inchino, prima di incamminarsi verso la porta che dava sul cortile, dove avrebbe raggiunto le scuderie e il suo splendido stallone che lo attendeva.
La ragazza, però, aveva ancora una richiesta prima di lasciarlo andare: «Fergus, devi promettermi una cosa: se riuscirai a riunire i clan, potrai chiedere ogni cosa a mio padre, e tu farai in modo che lui non scenda in battaglia. È anziano e non gli resta molto da vivere… Non voglio che chiuda gli occhi in mare o riverso su una collina».
«Gli toglierei il suo onore, è compito del capo proteggere la sua gente» rispose perplesso Fergus, titubante.
«Sarà il solo dei quattro capi a combattere, gli altri se ne staranno a casa loro, al sicuro», continuò Elinor con un certo astio. «Per favore…»
Il giovane sorrise e tornò verso la figlia di Murdo, prendendole le mani.
«Farò quello che posso, ma sarà difficile: tuo padre è testardo quanto te» concluse schioccandole un bacio a tradimento sulle labbra. «Arrivederci, mia signora, spero tanto che accetterai di sposarmi al mio ritorno!»
E ridendo più sguaiatamente, Fergus scomparve nella notte, lasciando Elinor basita da sola nelle cucine del castello. La ragazza si sedette e si portò le dita al volto, ancora elaborando cosa era appena accaduto. All’esterno sentì la voce del suo promesso che incitava il cavallo al galoppo, e poi il rumore di zoccoli che rapidamente si perse in lontananza.
Altro che timido, aveva osato baciarla! Di certo non gli mancava il fegato, si disse tornando verso le sue stanze, ormai dimentica del padre che probabilmente la stava ancora aspettando a tavola.

***

La guerra durò più a lungo del previsto, o meglio, come gli stolti che avrebbero voluto andare in battaglia senza allearsi con gli altri clan non avevano messo in conto. Ci vollero mesi a far desistere i vichinghi, che non volevano ritirarsi a tutti i costi: bloccati prima a lungo sull’acqua, dalle navi di Dunbroch e di Macintosh, erano stati fermati poi subito dopo lo sbarco. Avevano finto più volte di ritirarsi, solo per tornare con più navi e più uomini, sperando di riuscire a fiaccare gli avversari. Gli uomini del nord erano testardi e decisi alla conquista, tanto più che il loro comandante temeva cosa sarebbe successo se fosse circolata la voce che qualcuno aveva osato sfidarli: avevano troppe colonie per mettere in pericolo la loro supremazia sui mari settentrionali. E nonostante la loro determinazione, gli abitanti delle Highlands si erano dimostrati perfino più tenaci e stranamente uniti, in quell’alleanza forgiata nel momento del bisogno… Su cui molti non avrebbero scommesso neanche una ghianda, e che eppure funzionò.
Fergus seguì il consiglio di Elinor, incontrando i tre tànaiste presso i menhir, e si rese conto che la sua promessa sposa aveva avuto l’intuizione giusta: tuttavia, in maniera quasi sacrilega visto il luogo in cui si trovavano, una volta che tutti furono giunti all’appuntamento mise da parte ogni forma di diplomazia. I quattro giovani decisero di unirsi con una sonora scazzottata, una scelta che probabilmente avrebbe fatto inorridire la figlia di Murdo, ma che si rivelò vincente: dopo due ore, i quattro caddero a terra nel cerchio di pietre, esausti e pesti, ridendo.
«Tutti i nostri clan sono forti e combattivi, come noi», esclamò Fergus dando una buona pacca sulle spalle degli altri tre, «per cui pensate cosa potremmo fare insieme. Uniti, cacceremo via i vichinghi e li convinceremo a non tornare mai più!»
Una dimostrazione rozza, ma efficace: l’ormai erede di Dunbroch attese che gli altri futuri capi tornassero a casa e mobilitassero le proprie forze, quindi tornò con loro dal suo chief, seguito dalle navi di Macintosh via mare.
I vichinghi non si erano aspettati una simile difesa e continuarono a combattere strenuamente, con un’ultima sortita al castello nella speranza che prendendo il palazzo avrebbero messo in fuga gli uomini.
Elinor, quando si rese conto che un drappello di nemici aveva eluso le difese e stava dando l’assalto alla sua casa, capì che forse la gentilezza di Fergus nel proteggere suo padre si sarebbe rivelata un’arma a doppio taglio.
Ne ebbe la certezza quando vide Murdo estrarre la spada e fronteggiare i nemici alla porta del suo castello: i vichinghi risero di lui, sotto lo sguardo disperato della ragazza, loro che non sapevano neanche chi fosse quell’uomo canuto che osava sfidarli, né quanto bene avesse fatto per la sua gente. Per loro era solo un vecchio, un debole, un ostacolo ridicolo.
Prima chiunque potesse intervenire, due grossi omaccioni nerboruti lo scagliarono contro la parete come se fosse un sacco di mele, facendogli sbattere la testa contro la pietra scura.
Senza sapere come vi fosse arrivata, Elinor si ritrovò al suo fianco per sincerarsi delle sue condizioni, quando sentì le risate e la parlata in una lingua sconosciuta, dura, alle sue spalle che non faceva presagire nulla di buono. Di nuovo, mossa dall’istinto e dimentica di tutte le buone maniere e le convenzioni che la perfetta figlia di un lord doveva rispettare, la giovane donna afferrò la spada lasciata cadere da suo padre e si preparò a fronteggiare i due avversari, che schernirono anche lei. Non li capiva ma poteva immaginare i loro commenti: una femmina che vuole combattere! Beh, avrebbe reso loro la vita difficile almeno.
«Uomini di Dunbroch!», gridò Elinor senza lasciarsi spaventare. In un attimo, la guardia del castello disarmò i due sbruffoni che avevano attaccato Murdo e li ridussero in ginocchio, prima di scagliarsi contro gli altri vichinghi: sebbene fossero pochi e alcuni già in età avanzata, la brutalità con cui avevano colpito il chief aveva scatenato in ognuno una rabbia cieca e un desiderio feroce di difendere la propria casa dai truci invasori.
Sempre con la spada in mano, la ragazza invece richiamò alcune delle domestiche che si erano nascoste in cucina e con loro trasportò il padre in una delle camere del pianterreno, dove potesse riposare. Perdeva molto sangue, il povero Murdo, e la figlia non sapeva cosa fare per aiutarlo. Lasciò cadere l’arma sul pavimento con orrore, quasi si fosse resa conto solo in quel momento di quanto aveva osato pur di difendere l’anziano che rantolava vicino a lei: non aveva mai desiderato impugnare un simile strumento e non sarebbe mai più successo.
Rimase al fianco del padre, pregando perché ce la facesse e sperando che fuori gli uomini riuscissero a trattenere i vichinghi per il tempo necessario al ritorno di Fergus. Era ancora sola con lui, quando Murdo spirò: aveva un sorriso sulle labbra e alla figlia parve che le avesse augurato una vita felice con il suo erede, ma forse se l’era solo immaginato.
Potevano essere passati minuti o anche ore, quando finalmente udì i corni e le cornamuse. I rumori della battaglia si fecero più forti per un attimo, poi nella grande sala del trono piombò il silenzio, prima del ruggito degli uomini di Dunbroch che chiamavano Fergus a gran voce.
«Elinor, dove sei?»
Sentendo urlare il proprio nome, in qualche modo la ragazza riuscì a tirarsi su dal pavimento dove si era accasciata e uscì dalla stanza in cui si era rifugiata: camminava lentamente, quasi fosse in trance, ma quando si trovò di fronte al giovane guerriero e a tutti i suoi alleati si riprese istantaneamente.
Fergus la fissò terrorizzato, vedendo le sue mani e la veste sporche di sangue e si avvicinò e le toccò il volto e le braccia per capire se fosse stata colpita, in barba a ogni etichetta: «Sei ferita?»
«No, è sangue di mio padre», rispose lei con voce stanca e spezzata dal dolore. «Murdo di Dunbroch è morto».
Mentre i mormorii nel salone si spargevano sempre più forti e inquieti, Elinor si permise di osservare meglio il suo futuro sposo: era cambiato in poco tempo, sembrava più adulto, come secondo le vecchie del castello spesso avveniva dopo una vera battaglia. La morte e il sangue tempravano i giovani più di ogni cosa, eppure Fergus era ben lungi dall’essere spezzato: nonostante ciò che aveva appena affrontato e la notizia della morte del chief, lui non riusciva a fare a meno di sorridere, felice di vedere che la donna che amava era sana e salva, anche se profondamente scossa dal lutto.
Elinor lo fissava e si sentiva contagiata da quell’allegria per essersi ritrovati, sebbene fosse fuori luogo, e provò il desiderio di abbandonarsi nell’abbraccio di lui, perché era certa l’avrebbe consolata come nient’altro al mondo, ma era pur sempre la figlia del capo.
«Anche se non è stato reso ufficiale, ogni uomo di Dunbroch ha udito mio padre proclamare che, se Fergus figlio di Kenneth fosse riuscito a riunire i clan e a scacciare l’invasore, egli sarebbe stato eletto a tànaiste del nostro clan e avrebbe avuto la mia mano. Mio padre è morto, ma io intendo onorare quella promessa», esclamò con un tono più saldo e uno sguardo fiero, come a sfidare chiunque a mettere in dubbio le sue parole. «Onore a Fergus, nuovo capo del clan Dunbroch!»
«Onore a Re Fergus» ripeterono tutti all’unisono.
Proprio come aveva predetto suo padre, si disse Elinor nascondendo il proprio sconforto.
Rapidamente nella sala scoppiò la voglia di festeggiare: i cadaveri dei vichinghi furono trascinati via, i prigionieri ancora in vita condotti nelle segrete, in attesa di decidere cosa sarebbe stato di loro. Le donne andarono a occuparsi dei feriti e dei defunti, con particolare riguardo per la salma di Murdo, che avrebbe riposato come meritava con i suoi antenati.
In meno di un’ora, le cucine cominciarono a sfornare piatti meravigliosi, mentre qualcuno si mise a suonare e si composero le prime canzoni sui fatti eroici degli ultimi giorni: non si erano mai visti tanti tartan diversi nella sala di Dunbroch, notò qualcuno, e i nuovi amici cominciarono a conoscersi meglio nella ritrovata pace, dopo aver condiviso il fango, le armi e il mare.
Anche se Elinor avrebbe dovuto sovrintendere tutto ciò, eppure per una volta si estraniò rapidamente dalla folla e tornò alla sua stanza sentendo il disperato bisogno di lavarsi e cambiarsi d’abito. Doveva togliersi di dosso il sangue di suo padre, non poteva sopportarlo ancora…
Si sollevò il vestito sopra la testa e lo lanciò in un angolo, poi cercò il suo catino e si sciacquò il viso, prima di immergervi a lungo le mani per pulirle: nell’acqua si disegnarono rapidamente complessi ghirigori rossastri e lei rimase a osservarli, incredula per quanto era accaduto.
Era orfana. Suo padre era morto, forse per causa sua, visto che Fergus l’aveva lasciato al castello per dare retta a lei. Ma su una nave o un campo di battaglia sarebbe stato peggio, si disse, non sarebbe sopravvissuto neanche in scontro aperto…
Sconvolta da quei pensieri, Elinor si lasciò cadere sul letto, sentendo i primi singhiozzi che la scuotevano: prima che si abbandonasse al pianto, però, qualcuno bussò alla porta.
«Posso entrare?» udì chiedere. Fergus.
«Ma certo», rispose senza pensare a quanto fosse sconveniente rimanere da soli in una camera, con lei che indossava solo la sottoveste, per quanto fosse di spessa lana.
La cosa però non passò inosservata, perché il suo fidanzato arrossì: «Non volevo disturbarti, solo sapere se stai bene davvero».
«No, non sto bene», Elinor sentiva ormai gli occhi pieni di lacrime. «Non posso stare bene, adesso».
Nel vederla così sconvolta, per quanto fosse prevedibile, Fergus tossicchiò imbarazzato: poteva fronteggiare mille nemici in un giorno, ma una donna che piangeva lo metteva profondamente in crisi, perché non sapeva come comportarsi.
«Mi dispiace molto per tuo padre», disse avvicinandosi un poco, dopo aver chiuso la porta. Ed era vero, per quanto avesse da guadagnare dalla morte di Murdo, perché il defunto capo era stato un uomo incredibile e una grande guida per il clan e sarebbe stato difficile essere all’altezza. «Posso sedermi?»
Elinor fece segno di sì, guardandosi le mani ancora umide: doveva avere un aspetto terribile, i capelli scarmigliati e il viso arrossato e bagnato dalle lacrime, ma non vi badò. E quando Fergus le mise un braccio sulle spalle per confortarla, la ragazza si strinse al suo petto, ormai incapace di controllare le proprie emozioni.

***

In seguito, di quella notte trascorsa insieme abbracciati mentre di sotto si festeggiava la minaccia sventata e si celebrava la veglia di Murdo, raccontando aneddoti sulla sua vita e bevendo alla sua salute, i due sovrani delle Highlands non avrebbero mai parlato, neanche ai loro figli: raccontarono prima a Merida e poi ai tre gemelli, quando diventarono abbastanza grandi, della gloriosa morte del nonno materno e di come qualche mese dopo loro si erano sposati in presenza di tutti e quattro i clan.
Era un segreto da tenere per loro che avessero sempre considerato il matrimonio celebrato ben prima, e che da quel momento di nascosto i due avessero sempre dormito insieme, anche se Elinor avrebbe dovuto rispettare il lutto per il padre. L’abbraccio di Fergus era la sola cosa che riusciva a rincuorare la giovane donna, così come la facevano ridere le sue domande sul fatto che fosse davvero davvero convinta di volerlo prendere per marito. Era sempre un uomo grande e grosso, il suo orso, e apparentemente rude e rozzo, ma nascondeva un cuore come una montagna e sarebbe stata sciocca a rifiutarlo.
I dubbi e le preoccupazioni per quell’unione furono presto dimenticati, e ben presto la nascita di una primogenita benedì la giovane coppia.
Solo quando tornò umana dopo la sua avventura da orso, Elinor cominciò a pensare di raccontare tutta la storia a sua figlia, sapendo che probabilmente avrebbe spiegato molto meglio di tante altre parole perché aveva pensato che sarebbe potuta essere felice anche con un matrimonio combinato.
Lei e Fergus si erano scelti, in ogni caso, a prescindere dalla decisione di suo padre.
Chissà come avrebbe reagito Merida scoprendo che neanche sua madre era sempre stata la perfetta principessa di cui Elinor aveva tanto cianciato!


   
 
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