Disclaimers :
Capitolo I
Un nuovo inizio
Appartamento
del Capitano Harmon
Rabb
Hyde Park, Londra
Marzo 2005
La sveglia
suonò trillando allegra e lo squillo si diffuse
per l’appartamento semibuio. Fuori, la city aveva già cominciato la sua
frenetica giornata e la gente affollava le strade, i bus e i metrò.
Harm mise un
braccio fuori dalle coperte e assestò un
colpo deciso all’odiato aggeggio che smise di suonare. Aprì gli occhi e
scrutò
la penombra della camera da letto. Udiva il rumore attutito del
traffico cittadino
che gli ricordava dove si trovava: Londra.
In cucina
rumore di piatti e padelle che sbattevano e
armadietti che venivano prima aperti e poi chiusi. Si alzò e s’infilò
una
T-shirt sopra i boxer; scostò i pesanti tendaggi che oscuravano la
camera e guardò
fuori arricciando il naso in una smorfia di disgusto.
“Pioggia”
disse a mezza voce sbuffando, “ma lo sanno cos’è
la primavera o no?” Aprì la finestra per arieggiare la stanza.
Dalla cucina
arrivava profumo di pane tostato, bacon e
uova. Arricciò il naso ancora una volta.
“Ma questi
inglesi lo conoscono il caffè?” si chiese
dirigendosi verso la cucina.
“Ciao!” lo
salutò allegra Belinda e gli andò incontro
baciandolo sulla guancia ancora ispida.
“Ciao” la
salutò lui con affetto.
Lei tornò ad
occuparsi della teiera che cominciava a
fischiare. La pancetta friggeva e le uova strapazzate erano pronte.
Sulla
tavola facevano bella mostra di sé toast fumanti, marmellata di arance
amare e
succo d’arancia appena spremuto.
Si sedette un
po’ frastornato. Non era ancora abituato
alla tipica british breakfast, al massimo, quando era negli States, si
concedeva una tazza di caffè al volo prima di uscire di casa.
Ma ora non
era più a Washington e la sua vita era
completamente cambiata.
Guardò
Belinda che si muoveva con sicurezza come se quella
fosse stata da sempre la sua cucina e la sua casa.
L’aveva
conosciuta un paio di mesi prima ad una delle
solite riunioni con lo staff del Ministero degli Esteri. Era una
civile, la
segretaria di un qualche ministro di cui al momento gli sfuggiva il
nome. Lì
per lì non l’aveva colpito molto: non tanto alta, rossa di capelli e
con un
mare di lentiggini sul viso, assomigliava vagamente alla ex moglie del
principe
Andrea.
Tuttavia si
erano incontrati nuovamente ad un’altra
riunione e durante una pausa avevano incominciato a chiacchierare e tra
una
chiacchiera e l’altra lui le aveva detto di essere in cerca di
un’automobile
inglese d’epoca da acquistare. Belinda l’aveva notevolmente sorpreso
sfoggiando
una cultura in fatto di macchine, inglesi e non, davvero notevole.
Discretamente e con molta prudenza, l’aveva invitata per un drink (“Si dice un
the” l’aveva corretto lei) quella sera stessa per
continuare la conversazione.
Poi dal the era passato ad una cena, fino quando, appuntamento dopo
appuntamento
avevano finito col fare coppia fissa.
Belinda gli
piaceva, era socievole, cortese e dotata di un
sense of humour tipicamente inglese. Non solo, era anche intelligente
e, cosa
più importante, non aveva insistito per ritagliarsi uno spazio nella
sua vita.
Quando accadeva che si fermasse per la notte, e ultimamente stava
accadendo
molto spesso –tanto che lei aveva trasferito parte delle sue cose
nell’appartamento di lui-, non gli dispiaceva ritrovarla al mattino
addormentata accanto a sé oppure impegnata in cucina a preparargli la
colazione.
Stava bene
con lei, era un rapporto franco e sincero e
senza troppe complicazioni.
Le si sedette
di fronte e guardò sospettoso la tazza piena
di the fumante, annusandone l’aroma.
“Guarda che è
solo the, Harmon” gli disse Belinda con aria
canzonatoria. “Non ho intenzione di avvelenarti. È solo un sano e buon
Prince
of Wales tea.”
“Voi inglesi
siete strani, come facciate a bere questa
brodaglia a colazione, pranzo e cena ancora lo devo capire.”
“Noi inglesi
non siamo strani, siete voi americani quelli
fissati col caffè a tutte le ore!” ribattè divertita.
Risero e
terminarono la colazione.
Dopotutto
quella nuova vita non era poi così male, si
disse mentre la baciava prima di uscire.
Magari potrei anche impegnarmi
in qualcosa di più serio
con lei, pensò chiudendo la porta di casa.
Quel nuovo
inizio non gli dispiaceva davvero.
Palazzo di
Lord e Lady Belhaven
Londra
Molte
teste si voltarono all’ingresso della
donna in sgargiante abito rosso.
Il
ricevimento che quella sera, nel palazzo di
Lord Belhaven, inaugurava la stagione londinese, era diverso dai soliti
cui
l’aristocrazia inglese era abituata.
Si
trattava, infatti, di un ballo in maschera,
voluto dalla stessa Lady Belhaven per sfoggiare
l’abito che aveva acquistato in Italia poco più di un mese prima,
durante il
Carnevale di Venezia.
Lady
Amanda Belhaven si era invaghita di quella
mise
mascherata fin dal primo momento in cui l’aveva vista nel negozio di
Piazza S. Marco e aveva convinto il riluttante marito a comperargliela.
Lord
Belhaven non ne vedeva la necessità: dopotutto, per la festa di
Carnevale cui
erano stati invitati, era sufficiente fare come tutti gli altri ospiti
ed
affittare un abito adatto all’occasione in una delle varie sartorie che
da
tempo avevano intrapreso quell’usanza. Del resto era più che
comprensibile che gli
aristocratici italiani preferissero affittare ogni anno un abito
diverso, pur
pagandolo una discreta somma, piuttosto che spendere cifre da capogiro
per
costumi favolosi che avrebbero usato una sola volta. In quel modo
potevano
devolvere la stessa cifra per toilettes
che avrebbero potuto sfoggiare per lo
meno due volte nel corso della medesima stagione.
Lord
Anthony aveva tentato inutilmente di
convincere sua moglie ad evitare quell’inutile acquisto, ma lei, pur di
soddisfare il proprio capriccio, lo aveva abilmente convinto che
l’abito
avrebbe potuto usarlo almeno un’altra volta. Lord Belhaven, nel
domandare
ingenuamente dove e quando l’abito avrebbe fatto bella mostra di sé,
mai
avrebbe immaginato che “dove” sarebbe stato in casa propria e “quando”
avrebbe
significato “a breve”, ossia ad appena due settimane dal loro rientro
in
Inghilterra!
Rassegnato
all’inevitabile, aveva acquistato
l’abito per la moglie, evitando di dirle quanto le conferisse un’aria
ancora
più imponente di quella che già aveva, altrimenti era certo che i soldi
sarebbero stati buttati al vento. Lady Amanda, tutta felice, aveva
sfoggiato
l’abito alla festa del carnevale veneziano e quindi, rientrata in
patria, aveva
organizzato un ricevimento in maschera appositamente per farsi ammirare
dalle
sue amiche.
Nonostante
la reale motivazione che aveva dato
origine all’idea del ballo in maschera, Lord Belhaven doveva
riconoscere che la
pensata di sua moglie era stata davvero astuta e, soprattutto, accolta
con
entusiasmo dall’alta società londinese, sempre alla ricerca di
occasioni più o
meno valide per indire o per partecipare ad un serata mondana.
Quella
sera, nella loro sala da ballo, oltre
duecento invitati facevano sfoggio con allegria di abiti in maschera:
erano
soprattutto le signore ad avere le creazioni più stravaganti, come
ovvio; ma
egli aveva notato anche diversi uomini in costume, segno che l’idea era
davvero
piaciuta e aveva soprattutto divertito. Dal canto suo si era limitato
ad
indossare una maschera che gli celava ben poco il volto, lasciando i
riflettori
puntati sulla sua esuberante consorte.
Seguendo
lo sguardo ammirato di parecchi
uomini, nonché quello incuriosito e indagatore di molte signore, Lord
Belhaven
si voltò verso l’entrata del salone e per un attimo si fermò anch’egli
ad
ammirare la giovane donna che aveva appena fatto il suo ingresso.
La
dama in questione era davvero molto bella:
indossava un abito provocante, che scopriva ampiamente le spalle e
metteva in
risalto il seno generoso, molto più di quanto la moda pudica di quegli
anni avrebbe
permesso.
L’esile
collo era evidenziato dall’acconciatura
raccolta, dalla quale sfuggivano piccole ciocche di capelli neri.
Lunghi guanti
rosso fuoco, dello stesso colore dell’abito, coprivano le braccia,
facendo
risaltare maggiormente la pelle delle spalle e del decolleté. Non un
gioiello
adornava la donna, ma non ce n’era bisogno: era talmente seducente con
quell’abito che nessun gioiello avrebbe potuto renderla più
affascinante.
Una
mascherina in velluto nero le copriva gli
occhi, mentre un velo in pizzo, anch’esso nero, le velava il volto,
conferendole un’aria misteriosa e intrigante che attirava ancora di più
gli
sguardi dei signori e l’invidia delle signore.
Lord
Anthony avrebbe voluto poter esprimere a
sua moglie il suo pensiero di quel momento, ma sapeva che, se lo avesse
fatto,
la sua serata sarebbe stata irrimediabilmente rovinata: Lady Amanda si
sarebbe
offesa per il suo commento ed egli avrebbe dovuto dire addio alla pace
in
famiglia come minimo per una settimana. Tuttavia, osservando
l’affascinante
sconosciuta, non poteva fare a meno di pensare che, nonostante gli
sforzi
intrapresi dalle altre signore (alcune delle quali molto graziose) per
trovare
un costume originale o particolarmente appariscente, nessuna di loro,
neppure
sua moglie che indossava il costoso abito veneziano, era stata in grado
di
suscitare tanta ammirazione com’era riuscita a fare la bellissima donna
appena
arrivata semplicemente con un abito rosso fuoco ed una mascherina nera.
Si
domandò chi fosse la nuova invitata e decise
che avrebbe trascorso la serata ad osservarla fare strage di cuori
maschili. Si
divertiva parecchio durante i ricevimenti mondani ad osservare come gli
uomini,
spesso annoiati dai tentativi di parecchie signorine di attirare
l’attenzione
di un buon partito, diventassero istantaneamente interessati al ballo e
al
corteggiamento quando all’orizzonte si profilava una dama
particolarmente bella.
E
la signora in rosso era davvero molto bella ma,
soprattutto, molto intrigante.
Lord
Anthony sorrise tra sé e si disse
compiaciuto che la serata sarebbe stata più divertente di quanto
avrebbe mai
osato sperare.
Dopo
aver consegnato l’invito al maggiordomo
dei Belhaven, Lady Sarah Jane Montagu si fermò per un attimo ad
osservare lo
spettacolo che aveva davanti agli occhi prima di entrare nel vivo della
festa,
senza rendersi conto che, proprio fermandosi, non faceva altro che
attirare
maggiormente gli sguardi su di sé.
Alla
fine era contenta di aver deciso di
prender parte al ricevimento: l’ultimo anno era stato davvero difficile
e aveva
bisogno di godersi una serata in allegria. Il ballo in maschera di Lady
Belhaven era l’occasione adatta per rilassarsi, senza dover essere
costretta a
rispondere a domande fastidiose o a sentirsi fare nuovamente le
condoglianze
per il lutto che l’aveva recentemente colpita. L’anonimato della
maschera le
garantiva la privacy che le serviva per divertirsi, evitando di
sopportare le
noie della vita di società che a volte detestava cordialmente.
Si
guardò attorno: il salone risplendeva di
luci e colori; le signore facevano sfoggio di costumi davvero
appariscenti,
nonché originali, ed erano adornate di gioielli e in alcuni casi anche
parrucche,
per rendere i travestimenti più credibili.
Vi
erano principesse egizie, con tuniche e
tiare dorate e nobildonne in abito settecentesco, che volevano
ricordare la
regina Maria Antonietta; affascinanti corsare e seducenti gitane,
principesse
orientali e domini colorati… era impressionante osservare come la
fantasia delle
nobildonne inglesi si era lasciata trascinare dall’entusiasmo,
scordando
persino il pudore vittoriano che caratterizzava quegli anni, pur di agghindarsi per una
serata in maschera.
Gli
uomini erano più sobri, ma non mancavano
anche alcuni costumi maschili davvero originali. Nonostante il
travestimento riconobbe
facilmente alcuni degli invitati, mentre per altri l’impresa fu più
ardua,
tanto le loro toilettes erano molto convincenti.
Per
se stessa aveva volutamente puntato sul
mistero: nessun costume particolare per attirare l’attenzione, soltanto
una
maschera che le avrebbe permesso di nascondere la sua identità e
passare
inosservata.
Quello
sarebbe stato il suo intento, ma non
aveva tenuto conto di un particolare: l’effetto che faceva il suo
fisico
strepitoso inguainato nel provocante abito rosso.
Non
appena si decise ad entrare nel salone,
immediatamente fu attorniata da alcuni signori, più o meno giovani, che
si
prenotarono per un ballo.
Dopo
pochi minuti il suo carnet
era pieno e
stava già volteggiando tra le braccia del suo primo cavaliere,
travestito da
capitano della Marina britannica (o lo era davvero?).
Decise di godersi la festa e le attenzioni degli uomini sui quali, evidentemente, aveva fatto colpo. Per un breve istante la sua mente ritornò ad un altro uomo, col quale molto tempo prima e in un luogo lontano aveva danzato, ma immediatamente s’impose di scacciare quel ricordo dalla mente, prima che l’umore peggiorasse e si ritrovasse con gli occhi pieni di lacrime.
Uffici del JAG
Falls Church, Virginia
“Colonnello”
la salutò Vukotic incontrandola nell’atrio
del JAG al piano terra.
“Tenente”
rispose un po’ freddamente Mac.
Presero
l’ascensore e salirono al piano senza dirsi una
parola. A Mac Vukotic non piaceva, lo considerava troppo spavaldo e
superficiale nella gestione del lavoro, ed era per questo motivo che,
in più di
un’occasione, non l’aveva voluto come partner nella conduzione di
questa o
quella indagine, preferendogli sempre più spesso Bud.
Quando aveva
espresso le sue perplessità all’Ammiraglio,
questi le aveva risposto che il giovane Tenente gli ricordava un po’
Rabb agli
inizi della carriera.
Mac aveva
replicato che “Harm era
spavaldo e cow boy, ma sapeva
darsi un freno”, Vukotic no. Si impicciava troppo di
affari che non erano suoi
nel tentativo di ingraziarsela.
Dentro di sé,
ma questo all’Ammiraglio non l’aveva detto,
pensava che il tenente non avrebbe mai raggiunto il livello di bravura
del suo
predecessore.
Le porte
dell’ascensore si aprirono e Mac si diresse verso
la sua stanza senza nemmeno prendere un caffè. Ma ormai l’abitudine del
caffè
l’aveva persa da quando Harm non c’era più.
Com’era
difficile abituarsi alla sua assenza! Ancora
adesso, dopo quasi quattro mesi, quando aveva un dubbio su un caso e
desiderava
un consiglio, oppure quando aveva voglia di discutere di un qualcosa,
si alzava
e solo quando arrivava alla porta dell’ufficio si ricordava che la
stanza
attigua era occupata da Sturgis.
Tuttavia si
era adattata abbastanza bene a questa nuova
vita cercando di vederne il lato positivo: senza Harm le cose erano
infinitamente più semplici. Sotto ogni punto di vista.
E poi c’era
Clay. In tutto quel tempo le era sempre stato
accanto facendole una corte abbastanza serrata, ma non insistente o
noiosa:
cene nei più eleganti ristoranti di Washington, prime teatrali, viaggi
e
week-end in posti sempre diversi e bellissimi. E tutto questo senza
forzarle la
mano a prendere una decisione. Sembrava che volesse solo starle accanto
ed
amarla.
All’inizio si
era sentita in imbarazzo, ma poi, con il
passare dei mesi, aveva incominciato ad apprezzare tutto quello che lui
le
offriva. Sapeva che era un tentativo di chiederle scusa per la loro
storia
passata dopo il Paraguay, e Mac era più che disposta ad accettare
quelle scuse.
Clay era un uomo buono e dolce, bastava grattare sotto la scorza della
spia, e
alla fine si era convinta che la felicità con lui era possibile. Le
offriva una
vita agiata senza pretendere che rinunciasse alla carriera, l’amava, la
voleva
e glielo dimostrava. Cosa desiderare di più?
E la sera
prima, a casa di lei, dopo una cena molto
romantica aveva ceduto a lui, gli si era donata e aveva fatto l’amore
con Clay
con tutto il trasporto di cui era capace.
“Perché no?”
si disse mettendo finalmente mano al lavoro.
“Perché negarsi la felicità inseguendo una chimera?”
Per troppo
tempo si era cullata con l’idea di trovare
l’uomo perfetto, per troppo tempo aveva sperato in Harm, poiché in lui
vedeva la
realizzazione di ogni suo ideale. Ma ora era tempo di voltare pagina.
Harmon
Rabb jr le aveva fatto perdere di vista la concretezza e il lume della
ragione.
Certo il rapporto che c’era stato fra di loro era stato un qualcosa di
unico
che non avrebbe mai avuto eguali, ma questo non significava
necessariamente che
non avrebbe potuto vivere qualcosa di altrettanto bello e diverso con
un’altra
persona. Clayton Webb, per esempio.
Un nuovo inizio,
pensò sorridendo alla fotografia di
quello che ormai era diventato il suo compagno.
Ufficio di
Clayton Webb
Langley, Virginia
Marzo 2005
Clayton Webb
fissò il panorama che si distendeva sotto i
suoi occhi dalla vetrata del nuovo ufficio che occupava.
Direttore
Generale delle operazioni in Medioriente: ecco
il suo incarico. Un posto di responsabilità che avrebbe comportato una
sensibile diminuzione delle missioni sotto copertura, e, come
conseguenza, più
tempo da dedicare a Sarah.
“Sarah”
mormorò mentre un sorriso impercettibile piegava
gli angoli della bocca. Ne era innamorato da sempre, sin da quando
l’aveva
conosciuta, ma lei non aveva fatto altro che spasimare per
quell’arrogante
presuntuoso di Rabb, rovinandosi la vita per attirare la sua attenzione.
Ma adesso lui
era fuori gioco, lontano migliaia di miglia
e Sarah era tornata da lui. Finalmente.
Non aveva
voluto forzarla, la decisione era totalmente
dipesa da lei, anche se questo gli era costato un notevole sforzo. Più
di una
volta aveva dovuto trattenersi, ma quell’attesa snervante alla fine
aveva dato
i suoi frutti e la sera prima aveva potuto fare l’amore con lei
nuovamente.
Che
soddisfazione poterla avere fra le braccia mentre la
baciava e lei rispondeva con ardore e passione alle sue carezze e ai
suoi baci!
Quasi quasi avrebbe voluto scrivere due righe a Rabb per informarlo
dell’accaduto, ma poi ci aveva ripensato.
C’erano altri
modi per vincere. Invitarlo a nozze, per
esempio.
Perché lui
Sarah Mackenzie l’avrebbe sposata, anche se lei
ancora non lo sapeva.
“Un nuovo
bellissimo inizio” si disse soddisfatto voltandosi
e chiamando la segretaria.
Palazzo di
Lord e Lady Belhaven
Londra
Appoggiato
ad una colonna la osservava
affascinato volteggiare leggera tra le braccia di un ridicolo Lord
Gladstone
travestito da principe egiziano. Neppure l’attempato e notoriamente
misogino
Conte di Mondevale era stato in grado di resistere al fascino della
seducente
dama in rosso.
Da
quando era arrivata era stata travolta da
inviti di quasi ogni uomo presente in sala. Alcuni avevano persino
sopportato
gli sguardi irritati delle rispettive mogli, ben consapevoli che vi
sarebbe
stato più tardi anche un seguito a quelle occhiate, pur di poter
ballare almeno
una volta con lei. E lei danzava civettuola con ognuno dei suoi
cavalieri, ma
non concedeva mai a nessuno un secondo ballo.
Era
davvero molto bella: quell’abito rosso
fuoco le stava d’incanto e la maschera che le velava il volto la
rendeva più
intrigante di qualunque altra dama presente quella sera.
L’uomo
sorrise pigramente al pensiero di avere
tra le braccia quella bellissima donna, ma decise che non avrebbe
danzato con
lei in quel salone, sotto gli sguardi di tutti. Avrebbe atteso quando
certamente si sarebbe appartata un momento in giardino e poi l’avrebbe
invitata
a danzare con lui alla luce soffusa della luna.
Quella
sera di metà marzo, insolitamente
tiepida per il clima inglese, sembrava fare al caso suo: Lady Belhaven,
approfittando dell’insperata concessione del tempo, aveva fatto aprire
il
giardino e molte signore ne avevano già approfittato per prendere una
boccata
d’aria fresca, accompagnate dai gentiluomini che si erano concessi
volentieri
un sigaro.
Quasi
gli avesse letto nel pensiero, la vide
congedarsi da Lord Gladstone, rifiutare l’invito del visconte di
Kesington ad
accompagnarla, e dirigersi verso una portafinestra.
Aveva pensato di
attendere qualche minuto
prima di raggiungerla, ma l’impazienza di esserle accanto ebbe la
meglio su di
lui: uscì sul terrazzo, giusto in tempo per scorgerla scendere i
gradini che
conducevano al giardino.
Rapidamente
la seguì.
Mentre
dalla sala da ballo le giungevano le
note dell’orchestra, Lady Sarah passeggiò lentamente tra le aiuole
abilmente sistemate
dai giardinieri di Palazzo Belhaven, cercando di restare nella parte di
giardino dove erano state sistemate gaie luminarie. Sapeva bene che non
tutti i
sentieri erano illuminati e non voleva incontrare coppie che stavano
cercando
un po’ d’intimità nel buio della notte. Non si era fermata sulla
terrazza solo per
evitare di essere costretta ad intrattenersi con qualcuno, soprattutto
quando aveva
riconosciuto Lord e Lady Lyttelton che stavano parlando con Lord
Palmerston.
Lady Lyttelton era nota come una delle peggiori chiacchierone di Londra
e lei
non aveva alcuna intenzione di essere intrattenuta dalla anziana
nobildonna.
Aveva
appena aggirato un’alta siepe di bosso
quando, all’improvviso, si trovò di fronte un uomo in costume da
pirata.
Lo
sconosciuto, molto alto e di corporatura
atletica, la stava osservando con insistenza. Indossava pantaloni neri
aderenti
e una camicia candida, ampia e parzialmente aperta sul torace
muscoloso. Una
benda nera all’occhio destro e un fazzoletto, anche questo nero e
legato sul
capo alla maniera dei pirati, gli conferivano un aspetto un po’
pericoloso.
Lady
Sarah ricambiò lo sguardo e all’improvviso
pensò di avere una specie di deja-vu: se non fosse stato per la folta
barba scura
che ricopriva totalmente il volto del “pirata”, avrebbe quasi potuto
scambiarlo
per…
No.
Ma che andava a pensare? Non poteva essere
lui.
Doveva
smetterla di vederlo in ogni uomo alto e
bruno che le capitava di scorgere, anche solo da lontano.
Mentre
lo osservava, egli si accese un sigaro,
chinando la testa da un lato e riparando con le mani la fiamma; poi
tornò a
guardarla, mentre lentamente aspirava la prima boccata.
Con
un breve cenno del capo lei fece per
andarsene, ma la voce dello sconosciuto la fermò.
“Siete
bellissima…”
Turbata
da quella frase, si voltò bruscamente
verso di lui, con il cuore in gola: erano le stesse parole che, in
un’altra
vita, un altro uomo le aveva sussurrato mentre la prendeva tra le
braccia per
ballare.
Il
“pirata” la stava osservando intensamente,
quasi a volersi imprimere nella mente la sua immagine. Anche quello
sguardo la
turbò.
“Desidererei
moltissimo danzare con voi,
Milady…” aggiunse lui, porgendole il braccio.
Lady
Sarah rimase immobile, ancora sconvolta
dai ricordi che lo sconosciuto aveva risvegliato in lei: la voce era
diversa,
il timbro più basso, addirittura un po’ cavernoso… e poi mancava
dell’accento
francese che tanto l’aveva intrigata. L’uomo che aveva di fronte in
quel
momento parlava in perfetto inglese, privo d’inflessioni di sorta, come
si
conviene ad un nobile ben istruito.
Ma
quelle parole… e quel “Milady”…
Era
pazza, lo sapeva! Come si aspettava che le si
rivolgesse un gentiluomo inglese se non come “Milady”, non sapendo chi
lei
fosse?
Eppure…
eppure era bastato quell’appellativo,
lo stesso con cui le si rivolgeva prima che l’intimità tra loro gli
facesse
mormorare il suo nome con quel tono di voce sussurrato e appassionato
che le
faceva venire i brividi… era bastato quell’appellativo per farle salire
le
lacrime agli occhi.
Soffocando
a stento i singhiozzi, si voltò di
scatto e prese a correre verso il palazzo, per sfuggire allo
sconosciuto che le
aveva sconvolto la serata con una semplice e innocua frase.
Per
quanto tempo ancora il suo cuore si sarebbe
spezzato al solo ricordo di André François D’Harmòn?