Libri > Harry Potter
Segui la storia  |       
Autore: RossaPrimavera    06/01/2013    2 recensioni
“Non avvicinarti, non toccarmi… Questa è una cosa che devo fare da solo"
“Ti sbagli, sai che puoi ordinami tutto ciò che ritieni opportuno, Mio Signore. Io sono il tuo Pugno di Ferro in un Guanto di Velluto”
Dal 1942. Il fiorire della giovinezza, dove un adolescente prende coscienza di chi è, e soprattutto, di ciò che è capace di fare.
Gli anni in cui la rabbia e l’ambizione di Tom Orvoloson Riddle divampano come fiamme, delineando un futuro di distruzione. Quegli anni di cui nessuno ha mai voluto parlare.
Eppure qualcuno c’era: qualcuno che conosceva, qualcuno che partecipava, qualcuno che lo accompagnava in ogni sua impresa. Qualcuno che ha eseguito più dei suoi ordini, occupando un ruolo che Lord Voldemort non ha mai più lasciato libero. Qualcuno che era più di una serva, e più di un' amante.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Nuovo personaggio, Tom O. Riddle
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Dai Fondatori alla I guerra, Più contesti
Capitoli:
 <<  
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
UN PUGNO DI FERRO CAPITOLO 6

Un Pugno di Ferro in un Guanto di Velluto

di Elle H.



CAPITOLO SESTO
Il Giorno in cui Nacque il Demonio


All the same take me away, we're dead to the world
Remaining, yet still uninvited
Those words scented my soul
Lonely soul, ocean soul
Heaven queen, cover me
Heaven queen, carry me away from all pain

Portami via lo stesso, siamo addormentati
Resto, anche se ancora non invitato
Quese parole fiutavano la mia anima
Anima sola, anima d'oceano.
Regina del paradiso, avvolgimi
Regina del paradiso, portami via da tutto il dolore"
[Dead to the World, Nightwish]



Uno dei giorni più ardenti patiti finora, forse addirittura il più caldo, il più snervante: non lo sapeva, non osava chiederselo.
I pensieri gli giocavano sempre strani scherzi in quel periodo dell'anno.

Eppure gli sembrava quasi di poter saggiare con la mano il calore di quella giornata, come fosse qualcosa di ben più palpabile dell'aria: insopportabilmente denso, quasi come una sostanza appiccicosa che si applicava inevitabilmente ad ogni centimetro della sua pelle.
La luce del giorno di certo non rendeva più accettabile la situazione. Da che aveva memoria non vi era mai stato neppure un paio di tende a riparare l’unica finestra di quella stanza, e un intenso bagliore illuminava invadente l’ambiente angusto, ferendolo agli occhi e obbligandolo a ripararsi il viso sudato.
Un numero spropositato di crepe sottili attraversava irriverentemente il soffitto da un capo all’altro, denotando tutti i trascorsi di quello che, un tempo, doveva essere stato un’imponente edificio.
Tom negli anni era stato portato dalla noia a conoscere ogni singolo particolare di quel luogo come il contenuto delle proprie tasche, giacché non gli restava nessun altro passatempo che non fosse sfogliare svogliatamente libri di incantesimi e magia, che conosceva in ogni caso perfettamente a memoria.
Ma quel giorno vi era qualcosa di diverso: la temperatura fuori dai limiti, promessa da chi aveva decretato quell’estate di guerra babbana come “una delle più calde del secolo”, lo aveva costretto ad una reclusione forzata in uno stato vegetativo, sdraiato immobile sul letto senza neppure la forza di tenere gli occhi aperti.
Eppure non dormiva, non riusciva a dormire nonostante la maggior parte delle sue notti fossero insonni, trascorse a contare ogni angosciante secondo che lo separava dal primo giorno di settembre, dall'agognata libertà.
Ma era proprio questo a privarlo del sonno e della serenità: la disperazione più totale di trovarsi separato a forza dal suo vero mondo, dai suoi simili, che ora gli apparivano lontani più che mai.
Non riusciva a credere che dopo tutto quello che era successo, dopo tutto ciò che aveva scoperto e realizzato, si trovasse ancora lì, in quel sudicio letamaio babbano.
C’erano momenti in cui non arrivava a far collimare le due immagini che aveva di se stesso: solo un mese prima era ancora lo studente più brillante di tutta Hogwarts, a capo del più perfetto piano di sabotaggio che quella scuola millenaria avesse mai visto. Aveva scoperto le proprie origini, aveva riacquistato una propria identità, aveva esaudito ogni suo desiderio, aveva ucciso secondo il suo criterio...
Ed ora era tornato ad essere un comune, patetico orfano londinese, relegato tra quattro spoglie mura nell’apparente condizione di babbano ordinario.
Era in momenti come quello, in cui si ritrovava a rimuginare sulla propria condizione, che con un segreto barlume di vergogna dedicava il proprio pensiero ad un luogo ancor più lontano, dove sicuramente qualcuno trascorreva i suoi giorni in modo totalmente differente.
Prometto che ti scriverò quest’estate, verrò anche a trovarti se lo desidererai”
“Non sei tenuta a farlo, Pearl. I gufi attirano troppa attenzione, ma in ogni caso non necessito minimamente del tuo conforto”
Idiota ed arrogante, ecco ciò che era stato quel giorno. Non poteva fare a meno di pentirsi amaramente per quella risposta sprezzante.
Anche solo intravedere una parola in quella sua minuta, affascinante scrittura avrebbe potuto fare la differenza, alleviare il suo calvario. E invece...

All’apice di una rabbia più nervosa e mal repressa che mai si alzò con uno scatto, consumando il limitato spazio della stanza in pochi passi nervosi. Lo sguardo gli cadde sullo specchio, annerito e scheggiato dal tempo e dall'usura; occhieggiò  disgustato l’immagine che gli rimandava: un viso pallido ed emaciato, imperlato da un sottile velo di sudore, con i capelli scuri sporchi e troppo lunghi; il tutto corredato da larghi e vecchi vestiti babbani che bastavano a colmarlo di imbarazzo.
Come poteva ogni anno permettere alla sorte di ridurlo a quel modo?
Ma a distrarlo dal proprio riflesso fu uno scalpiccio di passi infantili, seguito da un fievole sfiorar di nocche contro il legno della porta, chiaro sentore di un animo decisamente intimorito.
“Che cosa vuoi?!” chiese ad alta voce, con il tono brusco ed aggressivo che era solito utilizzare con qualsiasi altro abitante di quel luogo infelice.
Sin da piccolo era riuscito, più o meno volutamente, con parole o scoppi di magia, a creare attorno a sé una forte linea di separazione da tutti gli altri bambini, una sorta di alone oscuro che teneva a debita distanza persino la direttrice e i suoi delatori.
Anche dopo tanti anni, in cui a malapena rivolgeva la parola agli altri compagni, era ancora capace di incutere timore e rispetto con la sua sola presenza.

Ma quando la porta si aprì non rivelò uno dei suoi compagni di stanza, ma bensì il viso sporco e dai capelli arruffati di un bambino molto più piccolo, un volto infantile su cui mai si era degnato di posare lo sguardo.
E quale fu la sua sorpresa quando, alzando il capo, intravide dietro di lui una figura che quasi gli fece spalancare gli occhi dallo stupore, portandosi via in ogni caso tutte le sue parole.
“Sei stato molto gentile piccolino, ti ringrazio” disse Pearl dolcemente, chinandosi verso il bambino e lasciandogli cadere nella mano una manciata di monete, prima che scappasse via con improvvisa urgenza.
La ragazza si premurò di chiudere accuratamente la porta dietro di se, prima di voltarsi a rivolgere lo sguardo verso Tom, intuendo che un pensiero piuttosto simile doveva star attraversando entrambi.
Il viso della ragazza era di nuovo pieno e sereno, velato da un sottile accenno di abbronzatura e un lieve sorriso sulle labbra sottili; era pettinata con ricercatezza e vestita con un elegante abito bianco di chiara foggia babbana, un accorgimento inutile quanto apprezzabile: con estremo fastidio si accorse di trovarla più bella che mai.
“Gli abitanti di questo posto sembrano alquanto spaventati da te, Tom. Ho dovuto interpellare tre o quattro ragazzini prima di trovare l’unico disposto a mostrarmi quale fosse la tua camera, dietro compenso naturalmente; tra parentesi, mi devi cinque sterline” esordì Pearl, percorrendo con uno sguardo allarmato lo squallore dell’ambiente.
“Beh, possiamo dire che hai trascorso tempi migliori, non credi?”
Forse fu proprio l'ironia che avvolgeva quell'ultimo commento a far scattare qualcosa in Tom, facendolo riemergere dallo stato di stupore in cui pareva essersi trincerato.
“Come osi presentarti davanti a me, in questo modo, a parlarmi come se niente fosse dopo avermi lasciato a marcire per oltre un mese in questa lurida topaia?!” le domandò in un improvviso eccesso di rabbia, trattenendosi a malapena dallo scagliarsi dall'altra parte della stanza.
Ma Pearl non diede alcun segno di sorpresa, limitandosi a rivolgergli un'occhiata decisamente sprezzante.
“In tutta onestà meriteresti di restare sepolto qui per tutta l’estate, a giudicare dalla grazia con cui  hai rifiutato la mia gentilezza l’ultimo giorno di scuola” rispose, appollaiandosi sul letto dalle coperte sgualcite.
“E in ogni caso vedi di darti una calmata: il Tom che conosco io è abituato controllare i propri sentimenti… Non che ora gli assomigli particolarmente, sia chiaro” commentò pungente.
Solo a quell'affermazione Tom parve accorgersi di quanto il suo comportamento non fosse altro che la ciliegina sulla torta al suo aspetto desolante.
Ostentando un respiro profondo si sedette sul letto poco distante da lei, tentando un'ammirabile esercizio di autocontrollo.

“Avrai notato che non ti ho scritto neppure una volta... come da te richiesto” esordì Pearl.
“Eppure ora hai deciso di presentarti qui, sbucando dal nulla” ribatté Tom.
“Tecnicamente il nulla sarebbe proprio questo posto: sai, non immagini quanti orfanotrofi ci siano a Londra, ma devo dire che tu hai avuto la sfortuna di capitare nel più squallido tra tutti”
“Allora penso tu possa comprendere da te perché volessi così tanto rimanere ad Hogwarts” concluse laconico.
Pearl cercò il suo sguardo, ma lui preferì evitarla; per la prima volta da quando si erano conosciuti, Tom Riddle  assaporava la sensazione di sentirsi inferiore a lei.
Già conosceva la vergogna del suo stato di sangue, ma sperimentare del disagio persino per le sue condizioni fisiche e di vita andava decisamente oltre le sue previsioni.

Tuttavia in risposta udì solamente un sospiro.
“Non sei uscito neanche una volta per fare un giro a Diagon Alley?”
La risata totalmente priva di allegria del giovane fu una risposta più che eloquente.
“E come di grazia, Pearl? Credi abbia davvero voglia di mostrarmi a tutti in questo stato? Ti prego, preferisco non espormi al pubblico ludibrio” ribadì con amarezza.
Per lunghi attimi il silenzio si dilatò tra loro, frammentato dalle grida infantili degli altri abitanti dell'orfanotrofio, intenti a giocare nel cortile.
“Non vuoi chiedermi perché ho deciso di venire qui quest'oggi?” chiese infine Pearl, con un tono infinitamente più dolce.
“Perché tu possa guardarmi e burlarti di me? Per questa volta ti è più che concesso direi”
Ma Pearl scacciò quell’ultima frase con un’occhiata esasperata al soffitto.
“Sull'ultimo punto hai senz'altro ragione: la tua autocommiserazione è così patetica che potrei vomitare.  Ma per il resto ti stai sbagliando, anzi sono qui per l'esatto contrario” disse sfoderando un sorriso più che autentico.
Si alzò in piedi, gettando uno sguardo disgustato tutt’intorno.

“Forza, raccogli le tue cose e fai i bagagli” sentenziò decisa.
“Che stai dicendo?”
“Sto dicendo che la sola idea di te rinchiuso qui mi ripugna profondamente, ragion per cui esigo che tu abbandoni questa lurida topaia e mi segua, adesso. Tutto chiaro?” ordinò perentoria, sollevando con la punta  della scarpa una camicia sdrucita mezza infilata sotto al letto.
Nonostante il suo entusiasmo il ragazzo si limitò a risponderle con un basso sospiro.
“Credi che se avessi potuto andarmene non l’avrei già fatto? Sono obbligato a vivere qui sino al compimento dei diciott'anni, è la stupida legge babbana”
“E io secondo te ho aspettato un mese per fare cosa? Non crederai che non abbia un asso nella manica!” rispose la giovane allusivamente.
Quando poco dopo i due ragazzi scesero le scricchiolanti scale dell’orfanotrofio, con il pesante baule di Tom al seguito, trovarono un signore ad aspettarli all'uscita, il quale appena li vide rivolse loro un largo sorriso.
La prima cosa che Tom pensò del signor Ballantyne fu che certamente una volta doveva essere stato molto attraente, e tuttora conservava una traccia della propria passata bellezza; ma qualcosa, che fossero gli anni o i dolori incontrati nel corso della vita vita, parevano averla logorata.
Alto e dalla figura ancora imponente, il viso era attraversato da una sottile rete di rughe, e gli stretti occhi grigi apparivano quasi opachi e spenti, solcati da sopracciglia che tendevano ormai al grigio ferro, proprio come i capelli.
Ma la sua espressione era luminosa, e li accolse con un ampio gesto della mano quando gli furono accanto.
“Deduco che questo bel giovanotto debba essere Tom! Pearl mi ha parlato a tal punto di te da essere riuscita a coinvolgermi in quest’estremo atto di salvataggio” esordì gioviale, sorprendendo il ragazzo quando estrasse la bacchetta e fece evanascere il suo baule, del tutto incurante del luogo in cui si trovavano.
“Questo ci sarà solo d’impiccio durante il viaggio. Permettimi ora di presentarmi, Damocles Ballantyne”
Il ragazzo parve finalmente riscuotersi, la mano che scattò immediatamente in alto in una stretta che tentò di essere salda e forte.
“E’ un piacere fare la sua conoscenza signore”
“Il piacere è mio ragazzo. Forza, è ora che ti troviamo una sistemazione che ti si addica” lo esortò con un cenno del capo, uscendo in strada.
“Ma signore, Io non posso…”
Ma il padre di Pearl lo interruppe prontamente con un tocco gentile sulla spalla.
“Hai l’aria intelligente Tom, e le parole di Pearl non fanno che confarmelo. Penso tu possa benissimo intuire come la magia faciliti spesso la vita di un mago” concluse sibillino, facendogli nuovamente cenno di uscire in strada. Il suo viso era pieno di quieto calore, sulle labbra il sorriso che aveva donato alla figlia, sottile ed impenetrabile.
Lentamente, con un crescente senso di incredulità, Tom si avviò nel calore londinese, e guardando la grigia prigione della sua infanzia rimpicciolire sino a sparire alla vista, per la prima volta in vita sua si sentì veramente libero.
Rivolse lo sguardo a Pearl, cogliendola nel compiere la stessa azione.
“Cos'hai mangiato stamattina per colazione?”
“Del porridge”
“Dimenticatelo, da oggi potrai assaggiare piatti migliori. Questa sarà l'estate più piacevole della tua vita”
E lo sarebbe stata.


“By the turnstile beckons a damsel fair
The face of Melinda neath blackened hair

Dal cancello fa cenno un dama fiabesca
Il volto di Melinda sotto capelli scuri “





“Scacco matto”
Tom sorrise assaporando l'esito vittorioso di una partita particolarmente impegnativa, mentre  il viso di Barron assumeva una curiosa smorfia contrariata, tanto simile a quella della sorella maggiore.
“Posso concederti la rivincita, se te la senti” suggerì con tono fintamente premuroso, deridendolo.
“Tom ti sarei riconoscente se la smettessi di seviziare mio fratello” lo ammonì Pearl, intenta a leggere morbidamente adagiata su di un divanetto poco distante da loro, abbastanza vicina al confortante calore del caminetto.
“Lascialo fare, esigo la rivincita!” protestò Barron infervorato, costringendo le pedine a rioccupare svogliatamente le proprie postazioni.
“Hai sentito, Pearl? Il ragazzo vuole che io mi faccia gli artigli su di lui” concluse Tom con un un sorriso al suo indirizzo.
Ma nonostante lo scambio di battute scherzose, quella sera, come tante altre d'altronde, lo sguardo del ragazzo usava soffermarsi sulla figura della giovane.
Vivendo a stretto contatto con lei e la sua famiglia, condividendo il suo stile di vita e conoscendo ormai a memoria le sue passioni ed interessi, aveva ormai compreso come quella ragazza possedesse un lato del carattere  inguaribilmente triste.
Non doveva faticare per coglierla spesso e volentieri con lo sguardo sospeso nel vuoto, come distaccatosi dalla realtà, e in quei casi non gli serviva far sfoggio di legilimanzia per capire di che tonalità fossero i suoi pensieri.
“Sai Tom, non passa giorno in cui non pensi almeno una volta a quella ragazza, Mirtilla... A volte è un attimo che dura un secondo, eppure non riesco ad impedire ai sensi di colpa di tormentarmi” gli aveva confidato pochi giorni prima, in una solitaria passeggiata nel parco illuminato dagli ultimi raggi del sole.
Oramai era più di un mese che si trovava ospite della famiglia Ballantyne, e per quanto normalmente trovasse la sua vita ad Hogwarts particolarmente agevole, quell'estate trascorreva come sospesa in un sogno, una dimensione parallela a sé stante.
Per la prima volta in vita sua sperimentava la sensazione di vivere nel lusso più sfrenato, dove ogni comodità era a portata di mano ed ogni sua richiesta prontamente esaudita.

I primi giorni aveva faticato ad abituarsi agli innumerevoli elfi domestici che schizzavano nei corridoi nella fretta di svolgere i propri compiti, pronti a sbucare silenziosi e all'improvviso in qualsiasi stanza si trovasse, ma ben presto iniziò a provare il tipico, inebriante piacere dell'essere serviti e riveriti.
Ciò che ogni giorno riceveva superava ogni sua aspettativa, che fossero le coltri riscaldate in cui si coricava la sera, gli straordinari piatti dal sapore ricercato che gli venivano proposti ad ogni pasto, gli abiti eleganti che gli erano stati donati...  Per non parlare delle giornate sempre piene di eventi: persino una fredda giornata di pioggia, di quelle che all'orfanotrofio lo facevano meditare sul tema del suicidio, in compagnia di Pearl e dei suoi familiari risultava interessante e coinvolgente.

Perché in fondo era quello che Tom, neppure troppo segretamente, ammirava sopra ogni altra cosa: assaporare per la prima volta l'autentico calore di una famiglia, riservata ma infinitamente premurosa.
Nonostante tenesse ad ostentare una patina di cortese disinteresse, non riusciva a nascondere del tutto la sua gratitudine nei confronti di Pearl, ricompensandola con un malcelato buon umore che le strappava fastidiosi sorrisi pieni di malizia.
Tuttavia il fiume dei suoi pensieri venne interrotto dal sordo suono di un libro che si chiude, e riscuotendosi notò subito come fosse passato in netto svantaggio nei confronti del giovane Ballantyne.
“Non hai altro modo per divertirti, Pearl?” le chiese con finta noncuranza, ritrovandosela accanto al tavolo da gioco con un sorriso di crescente compiacimento.
“Sei pensieroso stasera Tom?” gli chiese, prendendolo in giro.
“Beh, potrei dire lo stesso di te, non credi?” ribatté prontamente lui, rivolgendole un'occhiata più che eloquente.
I loro occhi si incrociarono per un lungo attimo, attimo che aveva osato verificarsi piuttosto freqentemente in quelle ultime settimane; Barron si mosse a disagio, simulando un lieve accenno di tosse.
“Perché piuttosto non rivolgi le tue attenzioni alla partita? Io sono stanca, buonanotte ragazzi” concluse la giovane riscuotendosi, improvvisando un sorriso altezzoso prima di scompigliare i capelli al fratello minore e dileguarsi lungo il corridoio.
Non appena Pearl fu scomparsa, al serpeverde bastarono poche mosse per ribaltare la situazione e aggiudicarsi la vittoria.
“Era meglio se Pearl fosse rimasta qua” borbottò irritato l'avversario, mentre riacciuffava le pedine intente a scappare lontano dalla sua presa.
“Pensi forse che tua sorella possa pregiudicare una mia vittoria?” chiese Tom divertito, appoggiandosi meglio allo schienale della poltrona.
“Non lo so, a volte mi sembrate così... intimi” mormorò Barron, osservando la sua reazione.
Il sorriso bendisposto di Tom rimase per un attimo come sospeso sul suo viso.
In quel periodo aveva avuto l'opportunità di conoscere meglio il minore dei fratelli Ballantyne, intuendo sin da subito la presenza di un’intelligenza acuta e minuziosa, con una capacità di analisi molto simile alla sua. Che anche in quel frangente non tardava a mancare.
“Bisognerebbe chiarire il significato di questa parola, non credi?” lo esortò con tono cauto.
Ma Barron preferì abbandonare il discorso, sollevandosi e lasciando chiaramente intendere, con una certa irritazione di Tom, di voler andare a letto.
“Lascia stare Tom, davvero... Magari mi sono solo fatto influenzare da Schneizel, sul serio non è nulla. Buonanotte” concluse il ragazzino frettoloso, percorrendo la biblioteca a passi veloci, come se si sentisse inseguito.
Rimasto solo il ragazzo si lasciò sfuggire un sospiro stanco, lo sguardo concentrato sulle fiamme guizzanti.
Il suo soggiorno sarebbe stato certamente più sereno se non fosse stato costantemente turbato dall'esistenza di Schneizel Ballantyne; nonostante talvolta trovasse divertente ribattere alle sue provocazioni, il grifondoro aveva la spiacevole abitudine di non tacere mai, nemmeno durante i pasti o nei momenti che condividevano con il capofamiglia.
Non riusciva a spiegarsi come in una famiglia composta e riflessiva come quella fosse potuta nascere una tale testa calda.

Papà dice sempre che Schneizel è esattamente come è stato lui in gioventù. Sai, anche mio padre è appartenuto a Grifondoro” gli aveva raccontato un giorno Pearl, mentre percorrevano un corridoio al primo piano, in cui vi erano appesi una serie infinita di ritratti dei suoi antenati.
“E tua madre?” aveva chiesto Tom, osservando il ritratto di una donna dall'aria nobile che sorrideva con aria annoiata e un lieve cenno di sfida.
“Lei non è mai stata ad Hogwarts” si era limitata a rispondere la giovane, osservando il profondo veto di parola riguardo l'affascinante e misteriosa figura di Desdemona Vasquez.
Un altro quadro che la ritraeva era appeso nella biblioteca, e anche ora lo sguardo di Tom corse ad osservarlo: straordinariamente somigliante a Pearl, aveva però qualcosa di inquietante nella freddezza dello sguardo, nella piega delle labbra pietrificate nel tempo, che più che un sorriso talvolta gli ricordava un ghigno.
Ogni tanto la sorprendeva a sbadigliare con aria annoiata, ma neppure una volta l'aveva udita proferire parola.

“E' molto bella vero?”
Colto di sorpresa il ragazzo voltò il capo di scatto, individuando la figura del padrone di casa fermo sulla soglia semichiusa, lo sguardo puntato verso il ritratto.
“Buonasera signore” rispose rigidamente, mentre il signor Ballantyne avanzava appoggiandosi ad un bastone che utilizzava soltanto in casa, quando non si sentiva costretto a mantenere un'aria di ferreo contegno.
“Buonasera a te Tom. Perdonami se ti ho spaventato, non era mia intenzione”
Quando lentamente preso posto nella poltrona di fronte a lui, quel viso illuminato dalle fiamme gli parve più stanco e antico che mai, rivelando una tristezza profonda che raramente era riuscito a scorgervi.
“Signore, se preferisce me ne vado” indugiò per un attimo, incerto su cosa dire.
“Non importa Tom, non importa... Resta qui a far compagnia ad un povero vecchio” rise l'uomo, appoggiandosi allo schienale con una mano premuta sul cuore, come se un improvviso dolore l'avesse colto.
“Non troppo vecchio signore” tentò di sdrammatizzare il ragazzo, osservando uno degli elfi domestici strisciare silenzioso al cospetto del padrone, sospingendo sul tavolino un vassoio corredato di calici e bottiglia.
“Non parlo degli anni ovviamente, certo che no... Ma degli avvenimenti. Sono quelli a farti invecchiare Tom, ci rendono vecchi dentro, se mi intendi” sospirò, riempiendo un bicchiere e passandoglielo, lasciando cadere le parole nel silenzio.
“Mia moglie assomigliava molto a Pearl, non trovi?” chiese dopo un lungo momento, distaccando a fatica gli occhi dalle fiamme, le labbra che ancora non aveva sfiorato il bicchiere.
“Molto signore... Sono davvero identiche” convenne Tom.
“E al contempo così sorprendentemente diverse... L'ambiente in cui nasciamo pregiudica sempre il nostro carattere, Tom”
“Se posso permettermi signore.... Pearl mi ha detto che sua madre non ha mai frequentato Hogwarts...” esordì facendosi trasportare dalla curiosità, ma senza dimenticare la dovuta prudenza, saggiando il terreno con una voluta esitazione nella voce.
Ma forse ciò che davvero l'uomo desiderava era lasciarsi trascinare dai ricordi.
“Ed è la verità. Mia moglie non era una donna come le altre, né tanto meno una strega comune...  Era nata nella brughiera irlandese, cresciuta nelle lande più buie. Da subito mi misero in guardia da lei, mi dissero che discendeva da una famiglia dedita alla magia più oscura, che aveva avuto parentele fin troppo ingombranti... ma nulla poté farmi desistere dal mio piano"
Sospirò, il capo rivolto al ritratto.
"Quando mi accorsi che i miei sentimenti erano ricambiati, fu il giorno più bello della mia vita. Ma con il tempo tutto andò a rotoli... Penso Pearl ti abbia accennato alla sua morte” raccontò con un sospiro profondo, come se ogni parola avesse il potere di ferirlo e logorarlo.

Il giovane si limitò ad annuire, l'espressione rapita.
“Era la creatura più bella che avessi mai visto in tutta la mia vita, ad Hogwarts non c'erano ragazze come lei, né in tutta l'Inghilterra a dirla tutta... Raramente trovavo la forza anche solo per staccarle gli occhi di dosso. Ma mi resi conto troppo tardi che nutriva per la sua bellezza una devozione esagerata. All'improvviso non vi era giorno in cui non temeva di vedersela strappare dallo scorrere del tempo. E a questo non vi fu rimedio... non potei niente per fermarla”
La voce dell'uomo si affievolì sino a sparire, sprofondando in un silenzio gonfio di angoscia e un dolore di vecchia data, antichi eppure sempre nuovi.
“Mi dispiace signore” sussurrò il ragazzo, realmente costernato di fronte a quell'uomo addolorato, ma ancora pieno di tanta dignità.
“Ti chiederai perché ti sto rivelando le memorie di un povero vecchio... Vedi Tom,  talvolta Pearl mi ricorda eccessivamente sua madre, in una maniera che mi sconcerta e sì, spesso mi spaventa. Mi rifiuto di credere che in un futuro neanche troppo lontano voglio tentare la sua stessa strada” disse l'uomo poco dopo, recuperando l'uso della voce e rivolgendogli un'occhiata limpida e piena di serietà.
“Tu sei suo amico, e avete legato molto in quest'anno. Ti prego, promettimi di vegliare su di lei”
Tom accolse la richiesta dell'uomo con occhi attenti e consapevoli, il viso poggiato su una mano con fare meditativo. Riconosceva la richiesta di un'anima disperata, e su quella non v'era dubbio; si aspettava quasi di udire una supplica imbellettata con una frase gentile... Che non tardò ad arrivare.
“Sappi che ti sarei infinitamente riconoscente Tom... E un uomo d'onore ripaga sempre i suoi debiti” sussurrò Damocles Ballantyne, osservando il viso impassibile del ragazzo aprirsi in un tenue sorriso.
“Signore, non dovreste neppure chiedermelo. Tengo molto a Pearl, non permetterei mai che le accadesse nulla di male” recitò alla perfezione, la voce divenuta una perfetta parodia di preoccupazione e dolcezza. I suoi occhi non rivelarono l'improvvisa bramosia che l'aveva animato al solo udire la parola “debito”, le sue parole non tradirono il desiderio di imporsi su quell'uomo, la necessità di ottenere ciò che andava cercando da tempo.
“Tuttavia signore... no certo, non voglio sembrarvi inopportuno con questa richiesta, che sciocco parlarne ora” esordì, commovente quasi in tutta la sua esitazione.
Il padrone di casa sgranò gli occhi, quasi non credesse di poter ricambiare così presto la gentilezza di quel giovane così compito e beneducato, che trovava una compagnia più che ideale per la sua giovane figlia.
“Tom ti prego sei mio ospite, non farti alcun genere di scrupolo” lo esortò.
La voce del ragazzo tremò impercettibilmente, scossa da una profonda aspettativa.
“Vede signore, lei sa che sono orfano... ma sono alla ricerca del mio passato e della mia famiglia, e desidererei tanto cercarla, o perlomeno localizzare le mie radici. Crede che potrebbe aiutarmi?” chiese, in una fedele imitazione di una voce sull'orlo delle lacrime.
“Ma ragazzo mio, non vedo dove sia il problema! Così come tu ti sei impegnato con me, sarà un piacere aiutarti a ritrovare le tue origini. Sai per caso qualcosa, un riferimento, un nome magari?”
Tom sorrise intensamente, una gioia maligna che si propagava dentro di lui come veleno.
“Gaunt, signore. Il nome della mia famiglia materna è Gaunt”
E mentre il signor Ballantyne gli assicurava tutto il suo aiuto e la partecipazione, Tom si limitò ad annuire e ringraziare, conscio che sarebbe stata solo una questione di pochi giorni prima che la sua sete di notizie venisse saziata.
E in ogni caso, a tempo debito, avrebbe cancellato anche la sua memoria.


“No joy would flicker in her eyes
Brooding sadness came to a rise
Words would falter to atone
Failure had passed the stepping stone
She had sworn her vows to another

Nessuna gioia tremolerebbe nei suoi occhi
Sorge una tristezza covata
Le parole vacillerebbero ad un espiazione
Il fallimento ha passato il limite
Lei ha fatto i suoi voti ad altri”
[Face of Melinda, Opeth]






Nel Derbyshire la stagione estiva non conosce la clemenza. Il gelo dei Pennini e l'umidità delle Midlans giunge sino al cuore della regione, aggiudiandosi la capacità di raggelare persino una serata di metà agosto.
Quando quel giorno Pearl raggiunse Tom nella sua stanza era ormai l’imbrunire, la luce del mondo che si esiliava con lentezza esasperante oltre la linea dell’orizzonte.
Entrambi i ragazzi indossavano di comune accordo capi pratici, scuri e pesanti; i loro occhi celavano una risoluta decisione.
“Ufficialmente siamo appena usciti”
“Hanno fatto domande?”
“No”
Tom annuì soddisfatto, il tono pragmatico di Pearl esaudiva le sue aspettative: tutto stava procedendo secondo i suoi piani.
“Le indicazioni di tuo padre sono state eccellenti: Little Hangleton non dista molto dalla cittadina di Stockton-on-Tees, poco lontano dalla linea ferroviaria; con due orette di volo dovremmo esserci”
Pearl si appoggiò al davanzale, l'ultimo tiepido raggio di sole che gli sfiorava il viso.
“Gli hai già cancellato la memoria, vero?”
“Naturalmente”
Si lasciò andare ad un lungo sospiro, conscia che il suo dissenso non rientrava negli interessi del compagno.
Eppure si trovava lì accanto a lui, pronto a seguirlo anche in capo al mondo se fosse stato necessario.
Il momento in cui era ancora proprietaria della possibilità di tirarsi indietro apparteneva ormai al passato:  si era addentrata fin troppo nella conoscenza di Tom per poter anche solo ipotizzare di abbandonarlo, considerando inoltre che lui non l'avrebbe permesso mai e poi mai.

Fu per questo che, nonostante l'inquietudine e il vago sentore di una tragedia imminente, quando uno dei suoi elfi domestici varcò silenziosamente la stanza per porgerle le scope, l'afferrò senza il benché minimo cenno di esitazione.
“Impaziente di partire vedo” le fece notare il ragazzo quando furono entrambi sul davanzale della finestra, osservando il paesaggio dinnanzi a se, verdi lande ormai sprofondato nel buio.
“Via il dente, via il dolore” ribatté la ragazza impassibile, dandosi la spinta con i piedi.
Ma solo quando furono in volo fu evidente che nessuno dei due era preparato a intraprendere viaggi di estesa lunghezza: ad entrambi pareva di languire nel buio, e smarrire l'orientamento era fin troppo facile, facendo apparire come una massa identica le città sottostanti.
Un freddo infido e sottile si infilava attraverso gli abiti, serpeggiando lungo i loro corpi, stordendoli e costringendoli ad abbassarsi pericolosamente di quota per un numero imprecisato di volte. Svariati furono gli sguardi insicuri, i malcelati tentativi di conforto, le continue soste a mezz’aria per cercare di orientarsi con l’ausilio dell’incantesimo quattro punti.

Ma infine, dopo quelle che parvero diverse ore di crescente tensione,  riuscirono ad atterrare più o meno furtivamente in quello che pareva essere un crocevia tra due strade di terra battuta.
Entrambi restarono per un attimo immobili, intenti a sfregarsi le braccia gelide ed intorpidite, attendendo con placida impazienza che i loro occhi si abituassero alla penombra orlata dalla luce della luna.
Gettandosi uno sguardo tutt'intorno individuarono a pochi metri da loro un alto cartello di legno, semi intrappolato tra i rovi del lato sinistro della strada: indicava a vaghe lettere mal abbozzate “Great Hangleton, 5 miglia” verso le loro spalle, e “Little Hangleton, 1 miglio” dritto davanti a loro.
“Da qui in avanti sarà meglio camminare” suggerì Pearl, quasi a sua volta fosse intimorita di infrangere quell'atmosfera vellutata, sussurrando un “lumos” alla sua bacchetta.
Il silenzio profondo era colmato solamente dai quieti fruscii prodotti dal vento che si infilava tra le ampie siepi, l'unico elemento del paesaggio che fu visibile per lungo tempo.
Solo quando la strada piegò a sinistra, e iniziò a seguire il ripido fianco dell'altura, un’intera valle si parò dinnanzi ai loro occhi: Pearl distinse la moltitudine di fievoli luci di un villaggio, senza alcun dubbio Little Hangleton, annidato tra due erte colline; la chiesa e il cimitero si riuscivano a distinguere chiaramente anche con il buio.
Più in alto, sulla collina che dominava la cittadina, vi era una grande dimora elegante, circondata da un ampio parco alberato.

Ma entrambi sapevano di non doversi dirigere al villaggio, e non si stupirono affatto quando procedendo scorsero uno stretto viottolo scosceso tuffarsi tra le siepi, in quel punto particolarmente alte e selvatiche. Stretto e pieno di sassi e buche, scendeva giù per la collina diretto verso una macchia di alberi scuri, non troppo distante da loro. Solo quando vi si trovarono dinnanzi riuscirono a distinguere, incuneata tra gli alti faggi secolari, una costruzione: chiamarla casa sarebbe stato inverosimile, l'aspetto così decrepito e pericolante da scoraggiare qualsiasi visitatore. I muri erano ricoperti da ampi strati di muschio e il tetto era quasi del tutto privo di tegole, tanto che era possibile intravedere le travi interne.
Per un attimo Pearl si chiese come fosse possibile che quel rudere fosse ancora abitato, e fu tentata di convincere Tom a desistere dall'intento di entrarvi; ma lo sguardo del giovane era fermo e risoluto contro quelle finestre sporche e annerite dal fumo. Vi sarebbe entrato ad ogni costo.
“Seguimi” si limitò a ordinare un attimo dopo.
Avanzarono lentamente, accompagnati dal sordo scricchiolio di strati e strati di foglie secche accumulati nel tempo. Vicino all’ingresso era posato un lume vecchio ed annerito, che Tom considerò più prudente utilizzare, accendendolo con un tocco di bacchetta.
“Stai indietro” le intimò lapidario, senza voltarsi.
“Cosa?”
“Se davvero qui dentro vive ancora qualcuno, stai indietro: non voglio che ascolti”
Pearl azzardò una protesta, ma il ragazzo la ignorò, aprendo la porta con un sonoro cigolio e affacciandosi nel buio di quella dimora sconosciuta.
La ragazza avvertì immediatamente un'ondata di panico travolgerla non appena la porta si chiuse con un tonfo dietro il passaggio di Tom, mentre dall’interno dell'edificio proveniva un chiaro urlo.
“TU!” udì abbaiare una voce rauca e maschile, accompagnata dallo sbatacchiare e dal tintinnio di quelle che parvero diverse bottiglie di vetro picchiate tra loro.
Poi improvvisamente più nulla, solo nuovamente un opprimente silenzio.
Pearl alzò la bacchetta dinnanzi a sé, avvicinandosi a tal punto all'uscio da potervi incollare l'orecchio, tentando di recuperare un minimo di autocontrollo ma risultando così nervosa da essere incapace di trattenere il tremito alle gambe.
Rimase immobile e con il capo teso in ascolto per quelli che le parvero minuti infinitesimali, finché non udì provenire dall’interno un gemito e il rumore sordo di un corpo che cade al suolo.
Immediatamente afferrò la porta e non senza fatica riuscì a spalancarla, infilandosi nella stanza con incredibile prontezza. Ma quello che le si parò davanti le fece spalancare la bocca dallo stupore: al centro di un sordido tugurio sporco e dall’odore nauseabondo, un uomo era riverso a terra di fronte allo sguardo indifferente di Tom.
“Cosa diavolo è successo?” sussurrò la ragazza, osservando quell’ammasso di stracci e lunghi capelli sporchi abbandonato a terra, con ancora un pugnale e una bacchetta stretti tra le mani.
“Pearl, permettimi l'onore di presentarti mio zio, Orfin Gaunt” proferì Tom con tono teatrale pieno di sarcasmo.
Con un calcio improvviso rivoltò il corpo, rivelando un viso quasi del tutto nascosto da una barba scura, annodata e cespugliosa.

“Come vedi la mia famiglia si è un po’ lasciata andare col tempo”
Pearl si avvicinò, osservando il bel volto del giovane che nulla aveva a che vedere con i tratti grevi e volgari dello zio, che parevano seguire linee ,male azzardate, quasi fossero stati disegnati per capriccio.
“Perché l’hai schiantato?” chiese, lo sguardo che cadde incuriosito su una di quelle mani sudice, che recava ad un dito un anello d'oro finemente lavorato, con una grande pietra nera al centro.
“Perché sto per compiere un incantesimo su di lui, e considerando che è tutt'altro che semplice persino per me, ho bisogno che tu ora mi ascolti attentamente ed esegua alla lettera quanto sto per dirti”
Prima che Pearl potesse anche solo voltarsi stupita, il ragazzo l’aveva già presa per le spalle e conficcato gli occhi nei suoi, quasi volesse assicurarsi della sincerità della giovane nel momento in cui avrebbe assentito; risposte negative non erano più ovviamente contemplate.
“Prima, quando stavamo venendo qui, abbiamo intravisto una grande villa sulla collina.  Sono certo tu l’abbia vista, hai occhio per le belle cose” esordì il giovane, più freddo e deciso che mai.
“Sì certo, ma non capisco cosa...”
“Voglio che tu ora prenda la scopa e ti diriga là, il più velocemente possibile. Sono stato chiaro?”
Per un attimo Pearl faticò a sostenere il suo sguardo, tanta era l'intensità del comando che le stava per impartire.
“Che cosa devo fare?” chiese infine.
“E’ semplice: voglio che tu faccia la conoscenza dei miei ultimi parenti in vita, i miei nonni paterni e mio padre in persona” concluse perentorio, sorridendo lievemente come pregustando un imminente piacere.
Pearl spalancò gli occhi in un lampo di comprensione, e non fu necessario che Tom si chinasse al suo orecchio per sussurrare il suo unico chiarimento.
“Scopri come mia madre sia riuscita a sposare quell'uomo. E poi mi sembra corretto permettergli di scambiare due parole con qualcuno, prima che io li uccida”
Pearl indietreggiò lievemente, sfuggendo la sua presa quasi volesse sottrarsi a quel dovere, prima che lui le afferrasse il mento per imporsi nuovamente.
“Tempo fa, se ben ricordi, hai giurato che mi avresti ubbidito... Non costringermi a diventare più persuasivo” ringhiò quasi, stringendo la bacchetta.
“Avevo anche detto che avrei seguito la mia volontà, quello che tu stai facendo è...”
“Un ordine, che tu eseguirai senza fiatare. La tua volontà non esiste Pearl, è solo una tua sciocca idea per convincerti di essere ancora capace di distinguere tra bene e male, tra ciò che tu vuoi e io voglio”
Sciolse la stretta, consapevole che mai e poi mai la ragazza sarebbe fuggita, come infatti accadde: rimase lì dinnanzi a lui, ferita nell'orgoglio ma prevedibilmente piegata al suo volere.
“Ora vai, ti raggiungerò a breve”
Pearl si limitò a voltargli le spalle, afferrando la scopa, ma prima di infilare la porta gli lanciò un ultimo sguardo in tralice.
“Se ciò è quanto desideri, lo farò. Solo vedi di non metterci troppo tempo: se i tuoi parenti sono come te, non sarà un gran piacere rivolgergli la parola” concluse in un eroico tentativo di colpirlo e sfogare il proprio malcontento.
Tom le rivolse un sottile sorriso sardonico.
“Non temere Pearl: presto inizierai ad apprezzare che ogni cosa abbia il suo tempo.”




“Why am I loved only when I'm gone?
Gone back in time to bless the child
Think of me long enough to make a memory
Come bless the child one more time
How can I ever feel again?
Given the chance would I return?

Perché vengo amato solo quando non ci sono più?
Indietro nel tempo per benedire il bambino
Pensami abbastanza a lungo da farne un ricordo
Vieni a benedire il bambino ancora una volta
Come posso ancora provare dei sentimenti?
Tornerei se mi fosse data la possibilità?”
[Bless the Child, Nightwish]





Le piccole mani si torcevano tra loro nervose, gli occhi saettavano da un capo all'altro della sala analizzando l’ambiente circostante in un vano tentativo di distrarsi: mobili di legno massiccio, velluti a profusione, argenteria in bella vista, quadri dalle cornici intarsiate d'oro...
L’unica “casa” babbana che aveva avuto l'occasione di ammirare fino a quel momento era stata l’orfanotrofio londinese di Tom, ma nulla poteva esser più diverso e lontano da quel luogo.
La famiglia paterna di Tom era ricca e senz'ombra di dubbio nobile. E totalmente, indiscutibilmente babbana.
Avvertiva il lieve peso della bacchetta più ingombrante che mai nella propria tasca, quasi dovesse esser lei a determinare vita e morte degli abitanti di quella dimora.
Perché colui che le aveva aperto la porta di casa altri non era altri che Thomas Riddle, il nonno di Tom, con cui spartiva una vaghissima somiglianza.
Ma per il restante appariva come un uomo ordinario e straordinariamente burbero, che non aveva esitato a trattarla sgarbatamente sin da quando le aveva rivolto la parola; in quel momento si limitava a lanciarle continue occhiate sospettose da dietro un giornale, utilizzato quasi con la stessa funzione di uno scudo.
“Signorina, dicevo... eravamo diretti a cena e non ci aspettavamo ospiti. Mi spiace non poterle offrire un rinfresco, ma come vede oggi i domestici hanno deciso di prendersi un giorno di pausa” commentò l'uomo a mezza voce, con aria più che contrariata.
“E non sai quanto dovresti esserlo, non sai quanto” pensò Pearl a malincuore, considerando tuttavia la fortuna di non avere scomodi testimoni.
In quel momento avvertì alle proprie spalle un rumore di passi attutiti, e voltandosi vide comparire sulla soglia del salottino una donna anziana e un uomo sulla mezz'età.
Il signor Riddle si alzò a sedere con uno scatto ansioso, osservando con sollievo i nuovi arrivati.
“Eccovi! Signorina, questi sono mia moglie Marilina e mio figlio Tom” addusse con un gesto nervoso.
Sin da subito Pearl avvertì su di sé lo sguardo rapace della donna: alta e secca, i capelli grigio ferro stretti in una crocchia e gli occhi che la esaminavano con freddezza.
Occhi scuri, occhi di tenebra; gli stessi occhi di Tom.
“Che cosa vuole?” chiese immediatamente, gelida e perentoria con il tono di chi è abituato a comandare.
Prima che il marito potesse anche solo nominarla, Pearl lo precedette.
“Il mio nome è Pearl Ballantyne, signora. Sono qui per parlare con voi di un qualcosa che forse dovrebbe stare maggiormente a cuore a suo figlio” esordì con un'improvvisa baldanza di cui rimase stupita.
“Mio figlio? Che cosa c’entra mio figlio, lei chi è?” domandò ancora, evidentemente oltraggiata da quella mancanza di rispetto.
“Calmatevi madre, vi prego non scaldatevi. Sediamoci e ascoltiamo ciò che ha da dire questa ragazza”
Colui che offriva ancora il braccio alla donna in modo tanto ufficioso era chiaramente il padre di Tom: la loro somiglianza era sconvolgente. Se non fosse stato per gli anni di differenza, le rughe sottili attorno alla fronte e una leggera tendenza alla pinguedine, sarebbero stati pressoché identici.
“Mi perdoni se le domando nuovamente chi è lei, e con quale diritto è entrata in casa mia” disse a sua volta, stupendo la giovane persino con la tonalità della voce, tanto simile a quella del figlio.
Periva però del tono di comando così tipico di Tom, e anzi Pearl provò una sottile soddisfazione nell'accomodarsi meglio sul divano, accavallando le gambe e guardandolo quasi con sfida.
“Vede, con tutto il rispetto chi io sia non ha la benché minima importanza. Ciò che dovrebbe premerle è quanto io so... Sarò diretta, signor Riddle: il nome Merope le ricorda nulla?”
Non riusciva a capacitarsi del suo tono arrogante, dell'insolente capacità di improvvisazione appena acquisita, ma gioì segretamente nell'osservare il viso dell'uomo divenire bianco come un cencio.
Per un attimo aprì e chiuse la bocca senza proferire alcun suono, limitandosi infine a crollare a sedere sul divano, accanto ai genitori egualmente attoniti.
“Vedo che a quanto pare ho riscosso la sua attenzione”
“Lei che diavolo sa di…” chiese l'uomo recuperando l'uso della parola, ma Pearl non esitò ad interromperlo.
“…Di sua moglie? Suppongo non si sarà disturbato ad annullare il matrimonio, quindi fino a prova contraria sarebbe ancora sua moglie. Se solo non fosse morta, ovviamente”
Un incredulo stupore si dipinse sul volto della signora Riddle.
“Quella donna orrenda è morta?”
Pearl le rivolse un'occhiata di profondo disprezzo.
“Merope Gaunt è morta di stenti sedici anni or sono, la notte del 31 dicembre 1926, probabilmente nell’esatto momento in cui voi stappavate una bottiglia di champagne per brindare al nuovo anno”
Improvvisamente si sentì cogliere da una profonda rabbia nei confronti di quelle tre persone, una collera legata a doppio filo a qualcos'altro, un sentimento su cui non riusciva a far chiarezza, faticando persino a trovargli un nome.
“Come si permette di rivolgersi a noi in questo modo? Se ne vada!” proferì la signora Riddle, alzandosi nel tentativo di apparire più imponente.
Ma a riscuotere maggior effetto fu la bacchetta istantaneamente comparsa nella mano di Pearl, puntata contro di loro senza che ci fosse neppure il bisogno di alzarsi dal divano.
Il viso dei due anziani rispecchiò per un attimo lo sconcerto, ma il figlio si schiacciò fulmineo contro lo schienale, quasi desiderasse solo allontanarsi il più possibile da lei.
“Vedo che qualche ricordo di Merope le è rimasto, signor Riddle” disse Pearl, sorridendo per la prima volta.
“Se non vuole che le rinfreschi la memoria, ordini a sua madre di tacere e tornare a sedersi”
“Quale ricordo? Che cosa sta facendo, Tom?” chiese il padre allarmato, prontamente interrotto da un secco gesto del figlio.
“Madre sedetevi, per l'amor di Dio” rispose il signor Riddle terrorizzato, con gli occhi puntati sulla bacchetta, incerto se alzare le mani in segno di resa come di fronte ad un’arma da fuoco.
Nella stanza cadde il silenzio, e per la prima volta Pearl assaporò la sensazione di imporsi a sangue freddo su qualcun altro, utilizzando unicamente il potere ottenuto mediante la minaccia.
“Io vorrei capire signor Riddle come'è possibile che Merope Gaunt sia potuta morire da sola, e per di più in incresciose condizioni, quando era ancora sua moglie” esordì, roteando la bacchetta su di lui.
“E per essere più chiara: esigo una risposta”
Osservò l'uomo deglutire, gli occhi che saettavano attraverso la stanza, ma senza mai staccarsi per più di un secondo dalla bacchetta.
“Io e Merope ci eravamo lasciati” borbottò a disagio.
“E quindi ha trovato giusto abbandonarla a sé stessa?”
“Lei non era stata sincera con me…”
“In che senso? Non la sento signor Riddle, alzi la voce” comandò seccamente, alzando la bacchetta.
Tom Riddle era chiaramente a disagio, le mani che si sfioravano tra loro nervose come se cercasse di trovare, creare, carpire le parole. Era evidente che fosse la prima volta che veniva costretto ad affrontare quell'argomento.
“Lei era pazza di me, ma non mi aveva mai detto... Insomma, io non volevo... Mi aveva fatto qualcosa! Non sarei mai scappato con una donna del genere di mia spontanea volontà, era sgradevole, e per di più povera! Ma non era ciò che sembrava... mi aveva stregato” l'ultima frase la sussurrò con un filo di voce, completamente braccato da ricordi che dovevano risultargli incresciosi.
“Così lei ha abbandonato sua moglie quando ha scoperto che possedeva poteri magici?” chiese Pearl nauseata.
“Poteri magici? Tom per l’amor del cielo, cosa diavolo sta dicendo?” intervenne la madre esasperata, accolta da una gelida occhiata della giovane.
“Mi pare di averle chiesto di stare in silenzio. Signor Riddle, quando lei ha abbandonato Merope, era al corrente che fosse incinta?” domandò infine, raggiungendo il punto saliente della conversazione.
Questa volta fu il padre a tentar di intervenire, ma a  Pearl bastò solamente sollevare la mano in un gesto di comando.
“Devo per caso ripeterle la domanda?”
“Sì...”
Il signor Riddle chinò la testa, passandosi una mano sulla fronte come se stesse sudando freddo.
“Sì cosa?” lo incalzò Pearl.
“Sì, sapevo che aspettava un bambino”
Per un attimo i due coniugi si guardarono come istupiditi, quasi non riuscissero a credere a quelle parole.
Ma infine a infrangere il silenzio fu la rabbia di Pearl, che esplose con una violenza tale che costrinse il signor Riddle a rattrappirsi su sé stesso.
“E ha osato lasciarla ugualmente! Ha abbandonato a sé stessa una donna incinta e senza mezzi!  Che razza di uomo è lei?!”
“Io ero troppo giovane e... avevo delle responsabilità, un nome da difendere!” tentò di giustificarsi vanamente.
“Il suo buon nome l’ha perso nell’esatto momento in cui ha abbandonato sua moglie e suo figlio! Ma si guardi: alla sua età ancora vive ancora con i suoi genitori, nonostante abbia sulle spalle un peso che nessuna loro moina potrà mai cancellare” disse sollevandosi, dominandoli nonostante l'esigua altezza, come se la collera le avesse donato parecchi centimetri in più.
“Mi guardi! Io sono una strega, esattamente come sua moglie, ed esattamente come suo figlio. Perché sì, nonostante i suoi ammirevoli sforzi per condannarlo a morte, lui è sopravvissuto” lo accusò ansimando, scossa da un tremito rabbioso.
“E sono sicura che dopo quanto ho saputo sarà più che felice di scambiare due parole con lei” aggiunse sprezzante.
“Su questo ci puoi giurare”
Le teste dei presenti si voltarono come un corpo solo verso la porta del salotto, e lo spiraglio che l'aveva sino ad ora lasciata socchiusa si spalancò sino a consentire la vista di Tom, intento a rimirare la scena con glaciale freddezza.
“Non è stato difficile trovarvi Pearl, il tuo ardore per la mia causa si udiva sin dall’atrio” si limitò a dirle, rivolgendole appena lo sguardo.
 Pearl indietreggiò istintivamente, lo sguardo di chi presagisce un'imminente catastrofe e prova la curiosa sensazione di voler seguire e nascondersi al contempo.
“Salute, padre” disse Tom avanzando a larghi passi, fronteggiando il proprio genitore.
Era impossibile non rimaner colpiti dalla straordinaria somiglianza: faccia a faccia erano l'uno l’esatta coppia dell’altro, solo con diversi anni di differenza e labbra incurvate da un sorriso di perfidia
Gli occhi neri di Tom, identici a quelli del padre, gridavano vendetta, mentre quel viso tanto simile al suo era animato dallo sgomento.
“Tu sei...”
“Tuo figlio, Tom. Persino il tuo nome ho ereditato, assieme alla sciagura del tuo sangue”
Poi senza indugiare oltre voltò il capo verso i due anziani.
I signori Riddle sembravano entrambi paralizzati dallo stupore, gli occhi che oscillavano dal figlio a quell'inaspettato nipote con un misto di curiosità ed orrore.
Parevano aver perso l'uso della parola e sussultarono quando Tom si rivolse a loro.

“Devo dedurre che voi due siate i miei nonni paterni... Non nutro alcun genere di sentimento nei vostri confronti, ma ritengo che sia più conveniente eliminarvi” disse incolore, gettandogli appena uno sguardo colmo d'indifferenza.
Prima che uno dei due potesse anche solo capire l’entità di quell'ultima frase, Tom mosse la bacchetta in una sferzata, pronunciando per la prima volta un incantesimo che, lo sapeva, sarebbe presto diventato il suo prediletto.
“Avada Kedavra!”
La figura del vecchio signor Riddle scivolò a terra con un tonfo senza emettere alcun lamento.
Due suoni succedettero un istante dopo: dapprima l’urlo della moglie, subito mozzato dal medesimo incantesimo prima ancora che avesse compiuto il suo arco; e l'altro fu il gemito d’orrore scaturito come di sua spontanea volontà dalle labbra di Pearl.
Le mani le erano subito corse alla bocca, quasi volesse riappropriarsi di quel verso e ricacciarlo dentro la propria gola, ma i suoi occhi rimasero ugualmente fissi e stupefatti sulla scena.
“Non scaldarti troppo Pearl, stai per farci l’abitudine”
Lo sguardo di Tom era fisso sul padre, e l'intensità che emanava fece intuire a Pearl che il peggio doveva ancora arrivare.
Il signor Riddle aveva assistito alla scena con l'orrore dell'impotenza, ma in quel momento, osservando quegli occhi identici ai suoi appuntarsi su di lui, parve recuperare un minimo di autocontrollo, che lo spinse ad indietreggiare abbandonando il punto della sala in cui si trovava.
“Stai lontano da me, non osare avvicinarti!” lo avvisò scosso dal terrore, suscitando il riso del figlio.
Perché Tom rideva, una risata totalmente priva di allegria, talmente agghiacciante che Pearl si sentì prendere dal panico quasi fosse lei stessa la vittima.
“Ma come papà, dopo tutto questo tempo non sei felice di rivedermi?” chiese Tom, ostinandosi ad avanzare verso di lui, la bacchetta che volteggiava dolcemente dinnanzi a sé in un balletto di finte e morte.
“Vattene, stai lontano da me, mostro! Tu non sei mio figlio!”
A quell'ultima frase Tom parve arrestarsi, la risata interrotta pronta a disciogliersi.
“Credimi, neanch'io vorrei essere tuo figlio, ma guarda... ora possiamo pareggiare i conti” proseguì con uno scatto d'ira.
Con una smorfia di improvvisa comprensione, l'uomo intuì l'esatta dinamica di quanto stava per succedere, e con un incredibile slancio mosso da disperazione riuscì a raggiungere la porta, cogliendo di sorpresa suo figlio.
Fu solo questione di una manciata di secondi. Pearl vide la figura dell'uomo muoversi, afferrare la porta, infilare il piede oltre la soglia... e sentì le proprie labbra dischiudersi, ancora una volta quasi rispettassero una propria volontà.
“Impedimenta!”
Il signor Riddle cadde a terra come un corpo morto, gli arti paralizzati ad arte da un incantesimo di ostacolo.
Pearl abbassò lentamente la bacchetta, osservando incredula il suo operato.
Tom l'osservò sorpreso, rivolgendole dopo poco un largo sorriso compiaciuto.
“Vedo che stai imparando, Pearl” disse, avvicinandosi alla porta e chiudendola con un calcio.
Ma fu solo per un attimo: lo sguardo tornò sulla sagoma del padre; sulle labbra ancora un'ombra di soddisfazione, gli occhi implacabili.
“Crucio!”
L’uomo iniziò a contorcersi senza controllo, sempre più furiosamente man mano che i secondi passavano, mentre le urla si facevano sempre più strozzate e venate di disperazione.
Pearl rimase attonita di fronte alla scena, gli occhi che saettavano da quel corpo impazzito al bel viso di Tom deformato dalla rabbia, la mano che  muoveva la bacchetta con tale ferocia da parere quasi un pugnale.
“Perché l’hai sedotta e abbandonata?” e la bacchetta vibrò nell'aria con una violenta stoccata.
“Perché con il tuo sangue meschino mi hai condannato al destino di un bastardo mezzosangue?” e fu una seconda stoccata.
“Perché mi hai lasciato a marcire per tutta la vita in quel buco? Perché?!” e fu una terza; e poi un'altra e un'altra ancora, fino a quando Pearl perse il conto, fino a quando credette che l'uomo sarebbe probabilmente morto smembrato dal dolore: gli arti erano piegati in strane angolazioni, degli occhi si intravedeva solo il bianco della cornea.
E finalmente sentì che il senso di orrore superava ormai ogni altra cosa, qualsiasi altro dovere o sentimento, e inorridita si gettò contro il compagno.
“Tom, Tom, basta! Per favore, smettila!” gridò Pearl, afferrandolo per il braccio nel tentativo di fargli abbassare la bacchetta.
Il ragazzo sembrò distrarsi a fatica dal corpo malandato, ancora scosso da brividi e gemiti, che era ora suo padre, e parve persino stupito di trovare lì Pearl, come se in quegli attimi intensi si fosse dimenticato della sua presenza.
“Ti prego Tom... per favore” sussurrò Pearl, gli occhi velati da una cortina di lacrime.
Ancora ansimante, come se avesse compiuto una lunga corsa, rivolse un lungo sguardo al suo operato, sentendosi gonfiare di una sensazione indefinita, un misto di piacere e disprezzo che gli dava un vago senso di nausea.
“Morirà comunque, lo sai”
“Ma c'è un altro modo per ucciderlo...”
Furono solo quei grandi occhi scuri imploranti a spingerlo a valutare la figura accasciata sul pavimento e a darle il colpo di grazia.
Pearl chiuse gli occhi, la luce verde della maledizione senza perdono che le perforava le palpebre, e non indagò oltre mentre il ragazzo faceva lievitare i tre corpi disponendoli in una posizione più composta.
“Beh, deduco che ora possiamo andare” concluse Tom con la medesima calma di prima.
La prese per un braccio con un tocco straordinariamente gentile, premendola contro di sé.
“Torniamo a casa, Pearl”
E la giovane si lasciò finalmente condurre lontano da quella casa degli orrori.



“I wanna love you but I better not touch
I wanna hold you, but my senses tell me to stop
I wanna kiss you but I want it too much
I wanna taste you but your lips are venomous poison
You're poison, running through my veins
You're poison, I don't wanna play these games


Voglio amarti ma é meglio che non tocchi
voglio possederti, ma i miei sensi mi dicono di fermarmi
voglio baciarti ma lo voglio troppo
voglio assaporarti ma le tue labbra sono maligno veleno
sei veleno che scorre nelle mie vene
sei veleno, non voglio giocare a questi giochi
[Poison, Alice Cooper]


 
Il buio della notte che premeva contro i vetri delle  finestre quella notte era di una violenza inopportuna.
Un gelo sottile penetrava attraverso le quattro mura di quella casa, ma Pearl era perfettamente a conoscenza che il freddo, rimastole appiccicato addosso come una seconda pelle, nulla aveva a che vedere con il clima.
Non riusciva a capacitarsi di quanto fosse accaduto quella notte.
Più camminava avanti e indietro per la sua camera nel tentativo di scaldarsi, più si scopriva incapace di prendere atto di ogni singolo gesto compiuto. Nella sua testa era tutto un vorticare di immagini, riprese di attimi che non facevano altro che confonderla maggiormente, gettandola in uno sconforto tale da renderla persino incapace di piangere e sfogarsi.

E di ciò fu grata, poiché nonostante la tarda ora sentiva la terribile urgenza di affrontare quella notte, di confrontarsi con lui, di capire cosa dannatamente sentiva o avrebbe perlomeno dovuto sentire in quel momento.
Percorse i corridoi della sua dimora in religioso silenzio, raggiungendo la camera di Tom e colpendola in uno sfiorar di nocche; non dubitava fosse ancora sveglio, e quando infatti aprì la porta di uno spiraglio, lo intravide immobile seduto sul letto.
“Sapevo saresti venuta” sussurrò non appena si fu chiusa la porta alle spalle.
“Cosa te l'ha fatto pensare?”
Tom rise appena, lanciandole uno sguardo derisorio.
“Sei un tale libro aperto, Pearl... Il senso di colpa ti di dipinge sul viso in modo delizioso”
La ragazza gli si avvicinò, dondolando le braccia come se fosse stata incerta su quanto dire.
“Questa volta credo sia diverso”
“Ah sì? Non stai quindi piangendo sulle nostre mani lorde di sangue?”
“Non credo di sentirmi come dovrei”
“Tu non ti senti mai come dovresti, Pearl”
Il ragazzo sospirò e Pearl tacque, rimuginando.
“E tu invece come ti senti?”
Tom inclinò la testa, osservandola con sguardo divertito.
“Vuoi davvero sapere come mi sento? Mi sento bene, mi sento esattamente come sapevo che mi sarei sentito: meravigliosamente bene” rispose in un soffio, riconoscendo l'implicita sfida posta nella domanda.
“Quindi deduco che tu sia straordinariamente privo di sensi di colpa”
“Non osare farmi la morale Pearl, tu sei colpevole quanto me!”
La giovane tacque ancora, gli occhi posati sull'anello finemente lavorato che Tom portava al dito, un gioiello che certamente prima non possedeva.
“Lo so. So quello che ho fatto, so che questa volta l'ho voluto io” disse infine, cogliendo un certo stupore nello sguardo del ragazzo.
“Io ho deciso di accompagnarti. Io ho parlato con i tuoi parenti. Io ho bloccato tuo padre. Io, io e sempre io. E' solo che... questa volta penso di non sentirmi così in colpa. Non mi pento di ciò che ho fatto” concluse infine, evitando il suo sguardo.
Ma dopo un lungo momento si accorse che Tom l'osservava quasi ammirato.
“Beh, questo sì che è una sorpresa” commento. “Non ti sarai forse votata alla mia causa?”
“Il modo in cui parlavano, come tuo padre si è comportato con tua madre... Penso solo che in fondo se la sono cercata”
Quella frase strappò un sorriso al giovane, un sorriso che prestò mutò in un riso silenzioso e autentico.
“Non c'è niente di divertente!” lo redarguì lei.
“Ma certo che c'è, Pearl! Ti sei forse eletta a paladina della giustizia?”
Ma pearl non sorrideva, anzi si sentiva animata da un'improvvisa rabbia per la reazione del compagno.
“No mi spiace, quello lo lascio a te. Questo non è l'ultimo omicidio che commetterai, vero?”
La risata svanì così com'era comparsa, e Tom tornò serio di colpo.
“Perché mi domandi un'ovvietà?”
“Non mi sembrava fosse così ovvio”
“Percorrere questa strada significa metterlo in conto, Pearl”
Pearl si avvicinò di un passo appena, l'espressione insicura di chi è consapevole di sa di star compiendo il passo più lungo della gamba.
“E tu desideri ancora che io sia presente su questa strada?”
I loro occhi si incontrarono, calcolandosi a vicenda con la stessa attenzione di due animali che si fronteggiano; Pearl vi scorse decisione, Tom vi intravide arrendevolezza.
Ed entrambi sentirono chiaramente qualcosa accendersi, arpionargli le viscere come in una morsa, ricordando ad entrambi una notte rimasta in sospeso, tanti mesi prima.
“Sì. E tu?”
"Da quando ti interessa la mia opinione?"
Tom si alzò con improvviso impeto dal letto, prendendola per le spalle e attirandola facilmente a sé.
"Da adesso"
Un accenno di sorriso si disegnò sulle labbra sottili di Pearl.
"Sì"
L'afferrò per la vita, stringendola e baciandola con una passione tale che poco differiva dalla violenza, sentendola fremere per un attimo quasi volesse divincolarsi e fuggire.
Ma Pearl non si sarebbe sottratta per nulla al mondo a quella presa, e anzi si ritrovò a rispondere con altrettanta convinzione.
Entrambi sapevano perfettamente che tutto era diverso da quella lontana sera d'ottobre: nessuna costrizione, nessun divieto veniva loro imposto in quel momento; diversi erano i sentimenti, le priorità, i desideri.
Ed accettarono con sorprendente docilità che tra loro, nel corso di quei mesi intensi, fosse maturato qualcosa.

Un qualcosa che spinse le mani di Tom ad inflarsi sotto la stoffa della camicia di Pearl, carezzando a piene mani quel corpo che si ritrovava a desiderare con un'intensità quasi dolorosa.
La spogliò maldestramente come un bambino spoglia una bambola, quasi fosse la prima volta che toccava il corpo di una ragazza, ma la vide sorridere quando la spinse sul letto, schiacciandola con il proprio peso.
“Stai arrossendo” constatò quando la scorse lentamente con gli occhi, avvampando di malizia nel delineare con le dita ogni piega della sua pelle.
“Che altro ti aspettavi da una ragazza purosangue?” chiese lei con un cenno di sfida, attenta a non distogliere lo sguardo neppure quando scostò le coperte e, con voluta lentezza, scivolò sopra di lei affondando il viso nell'incavo del suo collo.
“Non avevo considerato questo tuo lato tradizionalista... Devo quindi dedurre che hai intenzione di rimandare il tutto alla tua prima notte di nozze?” chiese divertito, prendendola in giro, le dita che giocherellavano quasi distrattamente sul suo petto.
Sorrise nell'udirla gemere, gli occhi semichiusi e un sottile tremito che le attraversava impercettibilmente le labbra.
“Mi stai forse dando la possibilità di cambiare idea?” ribatté Pearl, continuando a provocarlo, azzardandosi a cingerlo con le braccia e constatando che finalmente Tom si lasciava prendere, toccare.Ogni distanza tra loro era definitivamente calata.
E per un attimo Tom si chiese se sarebbe stato come tutte le altre volte, quando non si faceva mai scrupolo del dolore altrui e anzi si divertiva a mostrare tutta la sua cattiveria, a svuotare la sua rabbia sulla povera malcapitata.

Ma Pearl ricambiava il suo sguardo con lo stesso ardore che si ha prima di un duello o di una gara, quel tipo di sguardo che cela un'insensata fiducia nella bellezza del confronto che si attende.
Che senso aveva deturpare quell'attimo, dopo quanto era accaduto quella sera? Pearl gli apparteneva già.
“No, non credo proprio” sussurrò in risposta, chinandosi per tornare a baciarla.
Per la prima volta in vita sua si scoprì capace se non di dolcezza, di una sorta di delicatezza, di accorgimento nei confronti di un'altra creatura al mondo che non fosse unicamente se stesso.
Le loro mani si incrociavano, si rincorrevano, si respingevano, e all'improvviso sembrava tutto un gioco, un provocarsi irriverente, un rendersi impazienti oltre ogni limite possibile ed inimmaginabile.
Nemmeno quando Pearl lo sentì premere dentro di lei, causandole una stilettata di dolore che quasi le strappò un lamento di dolore, quell'insolita armonia si ruppe.
La ragazza chiuse gli occhi in uno strenuo tentativo di autocontrollo, Tom la strinse maggiormente a sé.
Erano così di comune accordo che si sarebbe potuto dire che il loro rapporto fosse così da sempre, anziché il contrario.

Non fu istantaneo, graduale: il dolore scemava, si dileguava per lasciare il posto al piacere, che strisciava sotto la loro pelle infilandosi in ogni vena e in ogni arteria; e infine fu solo un groviglio di mani e arti, di coperte sgualcite e labbra che rivelavano solo gemiti e sussurri.
Fino a quando anche quelli si spensero e calò il silenzio più totale.
Pearl aprì gli occhi nel buio e seppe che anche quelli di Tom dovevano essere spalancati, ma non parlò.
Non aveva effettivamente nulla da dire; sapeva solo che da quel giorno gli doveva molto più di quanto aveva potuto anche solo immaginare.



*******


“Voldemort”
Pearl aprì gli occhi di scatto, uscendo a fatica da un viscoso dormiveglia in cui era precipitata non appena lei e Tom si erano separati.
Morbidamente sdraiata accanto a lui, ancora seminuda tra le lenzuola, gli lanciò uno sguardo confuso.
“Che cosa hai detto?” borbottò con voce impastata.
“Voldemort”
La luce dell'alba penetrava dalle tende, illuminandogli fiocamente il volto: sorrideva, estatico.
“Che significa?”
Si voltò a guardarla, allungò una mano per sfiorarle una guancia con una carezza.
“E' il mio nome, Pearl”
La giovane si alzò appena, poggiandosi su un gomito del tutto ignara della propria nudità.
“Perché?”
Il ragazzo afferrò la bacchetta sul comodino: con pochi, semplici svolazzi nell'aria comparvero tre parole scintillanti.
“Tom Orvoloson Riddle”
Pearl osservò il suo sguardo incantato mentre il nome si scomponeva e le lettere vorticanti si disponevano in diverso ordine.
“Son Io Lord Voldemort”
Tornò a guardarla, osservando la tua reazione.
“Non crederai forse che dopo stanotte terrò ancora il nome di mio padre. E' ora di dare un vero nome alla mia identità, non credi?”
Ma Pearl trovava qualcosa di sordido e maligno in quel nome, un qualcosa ch vide dipingersi sul viso del compagno mentre le sorrideva.
“Tom Riddle" diventerà solo una gradevole maschera agli occhi del mondo, ma Lord Voldemort... questo nome è destinato a grandezza” mormorò sovrappensiero, gli occhi di nuovo persi nel vuoto, certamente tesi ad immaginare un futuro forse fin troppo vicino.
Pearl gli voltò le spalle, avvolgendosi più stretta nelle coperte; improvvisamente sentiva freddo.
Non vide Tom rivolgere alla sua schiena nuda, la pelle color del latte, uno sguardo soddisfatto.
Aveva Pearl. Quella notte così piacevole aveva cambiato tutto, lo sapeva. Chi avrebbe mai detto che tra loro si sarebbe creato quel tipo di legame?
Era indissolubile, ne era certo. Con lei sarebbe stato più facile arrivare in altro, trovarsi la strada già spianata.
E dopotutto, quella notte non aveva forse dimostrato di non essere solo un oggetto, ma una compagna fidata?
Sì quel nome era destinato a grandezza, se lo sentiva. Da quel giorno sarebbe andato tutto per il meglio.
“Vedrai Pearl, quest'anno ad Hogwarts sarà ancor meglio del precedente” concluse, chinandosi per sussurrarle quelle poche parole in un orecchio, prima di lambirlo giocosamente con le labbra.
Ma gli occhi di Pearl erano incupiti, sospesi nel vuoto.
Quel giorno era nato il demonio.





COMMENTO AL CAPITOLO
Forse fin troppo lungo, questo capitolo va a raccogliere l'intera estate che Pearl e Tom trascorrono insieme. Mi sono sempre chiesa come avesse fatto Tom, a soli sedici anni,  ad abbandonare Londra per dirigersi da solo a Little Hangleton, eh beh, questa è la mia personale versione della vicenda. Da solo avrebbe potuto fare ben poco.
Ho omesso alcuni particolari ovvi della storia, come l'utilizzo della bacchetta di Orfin Gaunt, considerando che la scena dell'omicidio è vista più dal punto di vista di Pearl; mentre per l'utilizzo della magia fuori da Hogwarts mi sono affidata alla spiegazione di Silente nel Principe Mezzosangue, quando spiega che non si può intercettare da chi è compiuto l'incantesimo, nonostante la minore età, fuori dalle mura della propria casa.
Spero di esser riuscita a rappresentare al meglio il bisogno di vendetta di Tom, la riconoscenza nei confronti di Pearl per averlo "salvato", il bisogno di lei di sentirlo più vicino.
E il finale... volevo che andasse così sin dal primo capitolo, ma spero sia chiaro senz'ombra di dubbio che non sarà MAI (purtroppo) una storia d'amore.
Per il resto spero sia tutto "al suo posto". Per la descrizione di Little Hangleton e il percorso verso casa Gaunt mi sono affidata al Principe Mezzosangue.
PS: è la prima volta che uso Nvu, visto che l'editor non sembra funzionare.... Spero di non aver combinato strani casini e che sia tutto leggibile ^^



COMMENTO DELL'AUTRICE
30 luglio 2012 vs. 6 gennaio 2013. All'inizio avevo pensato a profondermi in scuse su questo abnorme ritardo.... Poi mi sono resa conto che non è stato un ritardo, ma una pausa.
Vorrei poter dire che sono stata molto impegnata e portarvi millemila cause come prova, ma mi limito a dire che non riuscivo a toccare biro, foglio, tastiera.
A volte ci capita tra capo e collo un avvenimento così triste che ci ritroviamo a trascurare persino le attività che più ci stanno a cuore.
Mi auguro solo che questo brutto periodo si concluda al più presto, e considero la lunghezza di questo capitolo e il suo "finale amoroso" già un bel traguardo.
Mi scuso in ogni caso per quest'assenza temporanea.
Un grosso ringraziamento ad EvaAinen, Sylphs, silvia_arena e
ArgentoSangue per aver recensito, e a tutti coloro che hanno letto e inserito tra le seguite/preferite.
Come sempre sono a vostro giudizio, con la speranza che anche questo capitolo sia di vostro gradimento.
Buon anno e buon devastante rientro a tutti!


Elle H.





   
 
Leggi le 2 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<  
Torna indietro / Vai alla categoria: Libri > Harry Potter / Vai alla pagina dell'autore: RossaPrimavera