Film > Sherlock Holmes
Ricorda la storia  |      
Autore: Erinys    07/01/2013    3 recensioni
"Nel preciso istante in cui questa verità lo aveva colpito, aveva deciso che avrebbe dovuto rivedere John almeno un’ultima volta. Poi sarebbe scomparso per sempre, sommerso dalla terra scura e dai fiori, che Mrs. Hudson avrebbe portato una volta a settimana sulla sua tomba."
..
Post Reichenbach
Genere: Angst, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

You can trust me, John

 
 
 
 
 
 

Follow me
You can follow me
And I will not desert you now
When your fire’s died out
No one’s there
They have left you for dead
Follow me
You can follow me
I will keep you safe
Follow me
I will protect you
 
 
Muse

 
 
 
 
 
 
 
 
Sapeva che quello che stava facendo era sbagliato, ingiusto nei suoi confronti e nei confronti di sua moglie. Forse era colpa dell’alcol, forse era colpa della droga, ormai suoi inseparabili alleati per affrontare la sua vita da fuggiasco. Mycroft continuava a ripetergli che di quel passo sarebbe morto di overdose, ma a lui non importava: passare il resto della sua esistenza a nascondersi persino dalla sua stessa ombra, chi mai avrebbe desiderato condurre quel genere di vita? Sicuramente non lui. No, Sherlock Holmes avrebbe preferito morire, piuttosto che continuare a vivere sapendo di non poter più andare a teatro, di non poter più fare una passeggiata al parco al calare del sole, di non poter più catturare criminali, di non poter più rivederlo.
Dunque forse era soltanto colpa sua se adesso stava per compiere quel gesto? Sì, lo era.
Non lo avrebbe mai ammesso neanche a sé stesso, ma quel senso di vuoto lo stava inghiottendo giorno dopo giorno, trascinandolo in una voragine senza fine, destinandolo a marcire nel freddo e nell’indifferenza del mondo, che intorno a lui avrebbe continuato a correre frenetico, senza accorgersi della sua scomparsa.
Che poi, in realtà, del mondo non gli importava neanche un granché; a lui importava del suo mondo, del suo lavoro, dei suoi esperimenti, di John Watson.
Si sarebbe fatto sparare da Moran, pur di morire nella dignità di uomo qual era, impavido e virile, come un guerriero greco; aspettare che la morte lo cingesse con le sue ali nella camera degli ospiti, nella casa di suo fratello, avrebbe annientato il suo ideale di morte.
Lo avrebbe fatto, avrebbe cercato Moran e, una volta trovato, gli si sarebbe parato davanti, finché questo non lo avesse ucciso. Era un piano brillante, scaturito qualche giorno prima da un’iniezione di cocaina nel suo avambraccio destro.
Purtroppo non avrebbe potuto attuarlo subito, non dal momento che sapeva che, non appena fosse stato ad un passo dalla morte tanto agognata, si sarebbe pentito di tutto questo e che, a fargli pentire di un gesto tanto estremo quanto avventato, ci sarebbero stati i suoi occhi, che lo avrebbero guardato con lo stesso sguardo dell’ultima volta in cui si erano visti: con la stessa luce di incredulità, ma anche con  la stessa paura e la stessa consapevolezza del Reichenbach Fall.
Nel preciso istante in cui questa verità lo aveva colpito, aveva deciso che avrebbe dovuto rivedere John almeno un’ultima volta. Poi sarebbe scomparso per sempre, sommerso dalla terra scura e dai fiori, che Mrs. Hudson avrebbe portato una volta a settimana sulla sua tomba.
Allora era fuggito dalla stretta sorveglianza di suo fratello, travestito come meglio poteva, e si era tuffato in mezzo alla folla di prostitute e uomini ubriachi, che la sera erano soliti popolare le strade londinesi. Camminando, col cuore più pesante ad ogni passo, era giunto fino al 221b di Baker Street. L’idea di suonare al campanello lo aveva sfiorato già un paio di volte durante il tragitto, ma riuscì a trattenere l’impulso, una volta davanti al portone. Aveva alzato la testa, sicuro di trovare le finestre della camera di John illuminate, ma non fu così. Eppure doveva esserci.
Consapevole che neanche la sua mente geniale avrebbe potuto comprendere dove si trovasse John in quel preciso istante, si era incamminato di nuovo verso il suo nascondiglio, pronto a ricevere un lungo e noioso di discorso da parte di Mycroft su quanto fosse importante che restasse al sicuro dal mirino di Moran.
Ma che mi importa di morire?
Improvvisamente aveva cambiato tragitto, sospinto dall’inaspettato desiderio di passare per il parco lì vicino, dove prima dell’avventura di Moriarty era solito passeggiare al tramonto. Tutto era immerso nella calma più totale -soltanto il rumore degli alberi scossi dal vento la interrompevano di tanto in tanto-, visione idilliaca che Sherlock aveva apprezzato fin dalla prima volta in cui aveva visitato quel posto. La luna piena nel cielo rifletteva una luce argentea, illuminando fievolmente gli alberi e i prati. Sherlock si sentiva protetto in quello spazio ovattato di mondo, protetto da se stesso e da quel dolore immane, che, né ora né mai, lo avrebbe lasciato respirare senza donargli qualche fitta e la consapevolezza di essere irrimediabilmente vivo.
Lentamente si era trascinato fino alla panchina di fronte al laghetto, dove era solito sedersi per osservare i passanti e tracciarne un identikit basandosi sulla loro camminata, sul vestiario e sul gesticolare.
Aveva socchiuso gli occhi, deciso ad abbandonarsi, forse per la prima volta nella sua vita, all’illogicità e al sentimentalismo di tutta quella storia.
Dopo qualche minuto, aveva sentito il rumore di alcuni passi farsi sempre più vicino, ma non gli aveva dato peso: probabilmente era qualche ubriaco o qualche uomo catturato dalla solitudine della notte, proprio come lui.
«Sherlock.»
Aveva spalancato gli occhi e subito il suo cuore aveva preso a correre furiosamente nel suo petto, nel vano intento di superare la velocità del flusso dei suoi pensieri, che scorrevano veloci attraverso la sua mente, confusi e accatastati. Parole, frasi salivano sino alla sua gola, sembravano tutte giuste e tutte sbagliate; era restato in silenzio, confuso e sbalordito.
«Sherlock…» la voce di John si era improvvisamente abbassata.
Ognuno scrutava gli occhi dell’altro, e Sherlock non era potuto restare che mi ammirato dal colore degli occhi di John come se si fossero incontrati per la prima volta. Non lo ricordava così… bello, così umano, nel suo rigore di soldato.
«Sì, John, sono io» il tono roco della sua voce lo aveva sorpreso. Era davvero così agitato? Si notava così tanto?
«Come puoi essere tu? Tu sei morto…» aveva mormorato confuso John.
Sherlock, non appena aveva sentito quelle parole, aveva avuto l’impulso di alzarsi in piedi. John lo credeva morto, sotterrato sotto metri e metri di terra fredda: non poteva accettarlo, non adesso che era lì, così vivo ed umano davanti ai suoi occhi.
«No, non lo sono. Ho finto di esserlo, ma non lo sono.»
John aveva continuato a guardarlo confuso, quasi vedesse in lui un fantasma, il fantasma di Sherlock Holmes.
Sono qui, John. Sono davvero io, devi credermi.
«No, tu sei morto. Io ti ho visto morire, io ero al tuo funerale quel giorno di tre anni fa… Tu sei morto, Sherlock. Smettila di tormentarmi!» il tono di John era alterato, squillante. Era arrabbiato con lui, perché gli aveva mentito, perché gli aveva fatto credere di essersi ucciso insieme a Moriarty, perché lo aveva abbandonato alla sua solitudine di uomo fuoriposto.
Quelle parole avevano colpito Sherlock, facendolo affondare ancora di più dentro la sua voragine. Istintivamente si era slanciato verso John, ma questo lo aveva colpito con un pugno sul viso, facendolo crollare a terra.
«Per me sei morto, Sherlock Holmes!» gli aveva gridato «Sono andato avanti, ho oltrepassato tutto questo mentre tu ti nascondevi. Vattene! Vai-» un singhiozzo gli aveva impedito di continuare.
Sherlock si era alzato da terra, la mano a tamponarsi lo zigomo destro sanguinante. John si era voltato dall’altra parte: non voleva apparire debole ai suoi occhi, sarebbe stato una vergogna per il suo orgoglio di soldato. Sherlock gli aveva preso i fianchi, facendolo girare nuovamente verso di sé. Lo aveva guardato per qualche istante, indeciso sul da farsi.
Ma adesso sapeva quello che avrebbe fatto. Gli prese delicatamente il volto, rigato dalle lacrime, tra le mani e lo avvicinò al suo; John non oppose alcuna resistenza. Lentamente le labbra di Sherlock iniziarono a baciare il viso dell’altro per trascinare via le lacrime, poi, una volta giunte all’angolo sinistro della bocca, si fermarono. Temeva quello che sarebbe potuto succedere se le sue labbra si fossero posate su quelle di John: baciarlo avrebbe potuto significare il perdono, oppure la fine, per sempre.
Allora fu John a premere le sue labbra contro le sue. Sherlock, annebbiato dalla sensazione di calore che si diffondeva dentro il suo corpo, si lasciò andare contro di lui.
«Non abbandonarmi più, Sherlock» sussurrò John, quando si lasciarono andare.
«Farò di tutto per non farlo, John. Puoi fidarti di me.»
Le loro labbra tornarono le une contro le altre, con l’urgenza di chi non poteva fare a meno dell’altro.
Sherlock sentiva la voragine dentro al suo petto scomparire lentamente, colmata da qualcosa di ancora grande della disperazione, qualcosa di caldo e terribilmente piacevole. Di colpo il desiderio di uccidersi sembrava essere stato sommerso dalla voglia di vivere, dalla voglia di poter baciare per sempre quelle labbra, dalla voglia di John.
Ti amo, John.
 
   
 
Leggi le 3 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Film > Sherlock Holmes / Vai alla pagina dell'autore: Erinys