Storie originali > Romantico
Segui la storia  |       
Autore: HappyCloud    09/01/2013    6 recensioni
Cecilia Molinari ha ventun anni, frequenta l'università a Verona e vive in simbiosi con un pesce rosso, l'unico componente della sua famiglia che la comprenda.
Matteo Maestri ha ventidue anni, frequenta l'università a Verona tra una partitella a calcio e un'altra e trascorre la propria esistenza cercando di sfuggire dalle grinfie di Gisella e Melissa.
Non si conoscono, nonostante s'incrocino quasi ogni giorno nei corridoi della Facoltà di Lettere. Ma se ci si mettono una festa in maschera, la strana proprietaria di un ancor più strano negozio e un orribile paio di scarpe, nessuno è al sicuro.
Una rivisitazione in chiave moderna e stravagante della fiaba di Cenerentola.
(Storia che avrebbe voluto partecipare al contest "Un mondo di fiabe" indetto da IoNarrante, ma che, come al solito, è arrivata in ritardo).
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

 

Capitolo VII

 


Cecilia correva. Correva talmente veloce e da così tanto che le gambe sembravano ormai andare per conto loro, mentre i polmoni le bruciavano, a corto d’aria, ma la ragazza non dava cenni di volersi fermare, né tanto meno di rallentare. Doveva arrivare a casa di Lisa a tutti i costi e al più presto possibile, e il footing mattutino le era parsa la scusa migliore.
Aveva passato la notte precedente quasi insonne, rigirandosi tra le lenzuola, controllando in continuazione la sveglia sulla scrivania, nella speranza che segnasse finalmente un orario accettabile per alzarsi, infilare le scarpe da tennis e fare una corsetta per le vie di una Verona appena accarezzata dalle prime luci dell’alba. Quando erano state le sette, aveva indossato un paio di pantaloncini e una felpa non troppo pesante, aveva sgranocchiato una barretta energetica e aveva preso il cellulare e l’i-pod dalla scrivania. La musica la rilassava, l’aiutava a tenere il ritmo, a non pensare allo sforzo e a continuare a correre. Quella mattina, però, era tutto fuorché rilassata ed era stata una sofferenza raggiungere il cancellino dell’abitazione di Lisa, che pure non distava che un paio di chilometri dalla sua. Ogni passo le era costato una fatica immensa, perché le doleva ogni dannato singolo muscolo, era stanca, il cattivo riposo le faceva percepire le gambe pesanti come macigni, ma non si voleva arrendere. Non era da lei rinunciare a qualcosa che desiderava, salvo ricevere schiaffi in piena faccia, come il disprezzo malamente nascosto da Matteo Maestri, ad esempio, che le spezzava le gambe, il fiato, il cuore.
Cecilia strinse con una mano una lancia del cancello di casa Zanin e con quella si sorresse, nella testa la voce del professore di educazione fisica delle medie che le ricordava che il fisico recupera molto più in fretta, se si sta in piedi. Forse erano soltanto idiozie, lei voleva solo sdraiarsi sul marciapiede e dormire, ma s’impose di allungare un dito e raggiungere il campanello. Stava per premere il pulsante, quando l’occhio le cadde sull’orologio da polso.
Merda, 7.15.
Avrebbe fatto venire un infarto a tutta la famiglia, oltre che procurarsi una scarica d’insulti. Ignorò il professor Golia e si sedette sul gradino che dava accesso al vialetto: perché cavolo non ci aveva pensato prima?
Prese il cellulare e mandò un messaggio a Lisa, sperando che fosse sveglia o che almeno avvertisse il rumore dell’arrivo dell’sms.
Sono sotto casa tua. Ti va di fare colazione insieme?
Dio, quanto doveva suonare disperata! Stazionare fuori dalla porta della casa della propria migliore amica di venerdì mattina, praticamente all’alba, con il cuore che batteva all’impazzata – e non solo per la corsa –, per raccogliere uno straccio d’informazione sull’appuntamento, conclusosi nemmeno quarantotto ore prima. D’altronde, non sapeva che altro fare.
Rimase immobile su quel gradino per tutti i venti minuti che Lisa impiegò ad affacciarsi alla finestra, nonostante la pelle d’oca per il freddo sulle gambe scoperte dai pantaloncini e la frequenza cardiaca che faticava a normalizzarsi.
- Sei ubriaca? Che cavolo ci fai qui? – le urlò dal secondo piano.
Cecilia si alzò con un balzo e le sorrise.
- Volevo fare due chiacchiere.
La Zanin alzò sospettosa un sopracciglio e cominciò a ragionare: sette di mattina. Ceci. Chiacchiere. Appuntamento… No. No. No. Mannino. No.
- Santissimo Legolas Verdefoglia. Porta il tuo culo disgraziato in casa. Adesso.
L’amica non ebbe neppure il tempo di chiedere il motivo di tanto disappunto, perché Lisa chiuse la finestra sbattendola, e un secondo più tardi le aprì il cancello. Cecilia entrò in casa e salutò un’assonnata signora Zanin, intenta a preparare la moka del caffè. Lei le rispose con un cenno della mano e sparì in camera.
- Sai quanti sono gli abitanti dell’Europa? 819.263.819. – Lisa comparve dal bagno in una vestaglia verde militare, ciabatte di Homer Simpson e capelli arruffati. E un evidente malumore. – Ammesso che la popolazione sia per metà maschile e metà femminile, ci sono 409.631.909 uomini e altrettante donne. Togliendo i tuoi parenti, all’incirca centocinquanta, otteniamo 409.631.759 persone. Sottrarrei un 65% tra sposati, fidanzati e simili, perciò… tre col riporto di due, sette per quattro, ehm… 143.371.115, più o meno. Eliminando i troppo giovani e i troppo vecchi, direi il 70%, restano… 43.011.334 maschi.
Cecilia la guardò senza capire, in religioso silenzio, sedendosi davanti al tavolo della cucina.
- Quindi…? – chiese, nella speranza che l’altra si spiegasse meglio.
- Scusa, errore mio. 43.011.333 maschi.
Beh, ora è tutto molto più chiaro, pensò la biondina.
- Quindi…? – riprovò.
Lisa sbuffò contrariata, infastidita e anche un po’ stupita dalla poca perspicacia dell’amica.
- Quindi, – le disse, cercando di mantenere la calma, nonostante né la situazione né il fatto di non aver ancora mangiato nulla la stessero aiutando, – esci di qua e accoppiati con uno di quei 43.011.333 uomini. Espatria, se necessario. Utilizza pure le 409.631.909 donne. Vai ad un appuntamento con un procione. Fatti suora. Tutto quello che ti pare. Ma non osare rimetterti con l’unico essere non adatto a te.
Cecilia la fissò stralunata, finalmente cominciando a riordinare le idee e leggendo tra le contorte righe di Lisa.
- Niccolò?
- No, mio padre, – le rispose l’altra sarcastica, mentre si avvicinava al fornello per spegnere la fiamma sotto la caffettiera. Prese due tazze da un armadietto e le appoggiò sul tavolo.
- Peccato, ho sempre pensato fosse un tipo affascinante, – scherzò, provocando una smorfia di disgusto sulla faccia dell’amica. – Comunque, non c’è pericolo che succeda altro tra me e Mannino: non lo rivedrò mai più. Non dopo che mi ha baciato a tradimento.
Lisa smise di versare il caffè nelle tazzine e sbatté la moka sul tavolo, facendo fuoriuscire delle gocce del liquido scuro, che macchiarono la tovaglia.
- Lo sapevo! – urlò. – Tu di certo non l’hai dissuaso, chiedendogli uno strappo a casa... A proposito, che ti è saltato in mente?
- V-volevo solo fare ingelosire un altro ragazzo che era nel locale, un tizio del corso di Storia greca, – si era premurata di citare uno dei corsi che frequentava da sola. – Probabilmente ero solo brilla.
- Comunque, nulla toglie al fatto che sia un idiota! Quello non si arrenderà nemmeno quando avrai la fede al dito e cinque marmocchi a cui badare.
- Tu, piuttosto? – Cecilia cambiò bruscamente argomento. – Com’è andata con Maestri?
Le tremò per un attimo la mano, mentre pronunciava quel nome e afferrava la tazzina che l’altra le stava porgendo allo stesso tempo. Il suo cellulare prese a suonare proprio in quel momento all’interno della tasca della felpa.
- È un bravo ragazzo. Ma non rispondi? – Lisa le fece un cenno per indicare il telefonino, dopo il terzo squillo.
La biondina appoggiò il malefico affare sul tavolo, sbirciando chi fosse il possessore di un tale tempismo e buon senso da chiamare alle 7.45, oltretutto nel bel mezzo di una conversazione su Matteo.
- È Gianluca, risponderò dopo. – Rimise il cellulare nella tasca, sperando di poter proseguire il discorso in pace. – Dicevi?
- Ci siamo divertiti, però… ti prego, rispondi! La tua suoneria mi dà sui nervi!
- Che c’è, Gianlu? – Lamberti prese a parlare così forte e veloce che per un attimo Cecilia si chiese se non si fosse trasformato in uno di quei cinesi sul treno che conversano fitto per ore, rendendoti nolente partecipante di chiamate intercontinentali. – Calmati, non ho capito nulla!
- Un disastro, Ceci, un disastro!
Gianluca le fece un rapido riassunto di come lui e il suo degno compare fossero tornati a casa ubriachi alle 5 dopo un shot party universitario e si fossero accampati nella taverna di casa Rastrelli, svegliati due ore dopo dai latrati del cane. In mezzo ad una pozza rosso sangue. Purtroppo era risultato che non avevano tentato di ammazzarsi a vicenda in una competizione tra galli, ma avevano solo fatto cadere una bottiglia di Bolgheri Sassicaia del 1997, di proprietà del padre di Carlo, il cui valore di mercato – secondo alcuni siti specialistici – si aggirava attorno al mezzo migliaio di euro. Che i due pirla ovviamente non avevano.
- Non vedo cosa potrei fare, ma sì, venti minuti e arrivo. – Riattaccò e guardò sconsolata Lisa. – Scemo e Più Scemo hanno combinato un pasticcio, come al solito. E ora chiamano me per risolverlo, come al solito.
La Zanin sorrise soddisfatta.
- Mi vesto e vengo anch’io.
Cecilia le restituì un’occhiata dubbiosa: che interesse poteva avere lei ad aiutare i due Teletubbies? Soprattutto Carlo, con cui da sempre era in atto una faida.
- Sicura?
- Rastrelli ha fatto un casino, vorrai mica che perda l’occasione di prenderlo per il culo, no?
Come non detto. Mentre aspettava che l’amica si vestisse nella camera al piano di sopra, la biondina s’imbatté nel padrone di casa, protagonista involontario di una battuta qualche minuto prima. Naturalmente, stava scherzando; il signor Zanin era quasi del tutto calvo e aveva da sempre una pancia pronunciata che sporgeva dalla cintura dei pantaloni, tanto che Lisa da bambina andava dicendo che lui stava per dare alla luce un bimbo. Questo, ovviamente, le aveva dato spunto per fare una ricerca sulle gravidanze maschili sulla rete e cominciare a raccontare aneddoti ad amici scettici e parenti scandalizzati.
- Buongiorno, – lo salutò. – Non ha una bella cera, sa?
L’uomo, infatti, aveva un colorito pallido e malaticcio e dava l’impressione di dover rimettere da un momento all’altro.
- ‘Giorno Cecilia, – bofonchiò, una mano sullo stomaco, come a trattenere tutto ciò che il suo corpo pareva intenzionato a voler espellere per vi orale. – Il cinese di ieri ha messo l’intera famiglia ko.
- Oh, mi dispiace. Lisa, però, mi è sembrato stesse bene.
- Ha preso qualcosa stanotte per digerire. Avrei dovuto imitarla.
Detto ciò, si precipitò in bagno ad abbracciare il water, avendo almeno la premura di chiudere la porta. Purtroppo la casa non aveva i muri insonorizzati.
Lisa giunse in tempo per storcere il naso davanti all’espressione schifata dell’amica.
- Sicura di star bene? – le domandò Cecilia.
- Non c’è miglior medicina che aiutare gli amici. E ridere di loro.

 

Matteo allungò una mano sul comodino per spegnere l’odioso rumore che da dieci minuti gli stava disturbando il sonno. Fece per premere il pulsante, ma si accorse che la sveglia non era inserita. Alzò la faccia dal cuscino e rimase in ascolto: l’odioso rumore era una dannata voce femminile! Di nuovo una di quelle cornacchie pettegole amiche di sua madre alle… 8 di mattina, lesse sull’orologio, mentre grugniva contrariato. L’unica nota positiva era che portavano sempre qualcosa da mangiare per lui: biscotti, brioches fresche di pasticceria, torte fatte in casa… non lesinavano su nulla, perché sapevano che in quel modo si sarebbero guadagnate il diritto di sottoporlo ad almeno un paio delle loro domande.
Maestri fece pipì, si lavò faccia e denti, indossò pantaloni e felpa della tuta e provò a sorridere allo specchio, in preparazione al terzo grado per il quale non si sentiva mai davvero pronto. Ma per una brioche al cioccolato, questo e altro.
Restava solo da capire l’identità della comare in questione. C’erano quattro possibilità, ciascuna con un diverso grado di pericolosità: livello uno, Annamaria. Malata di shopping, lo squadrava da capo a piedi per controllare che anche il suo colore di capelli non stonasse con l’abbigliamento. Lo costringeva a cicliche sedute di acquisti compulsivi, atti a fargli comprare più roba inutile possibile. Al momento, Maestri possedeva due sombreri, un paio di pantofole provenienti con tutta probabilità dalla collezione privata di Flavio Briatore, degli stivali pitonati, una casetta per uccelli e dei paradenti fluo, perché Anna aveva stabilito fossero degli accessori indispensabili. Non aveva mai capito se lo pensasse davvero o avesse solo dei seri problemi a tener chiuso il portafoglio, oltre che la bocca.
Livello due, Rosita. Di lei, Matteo ricordava svariati episodi dell’infanzia, quando per disgrazia sua madre lo aveva abbandonato – perché era così che si sentiva – a casa sua e quella donna gli aveva messo lo smalto sulle unghie per fare pratica. Adriana aveva riso, inconsapevole del grandissimo trauma che il piccolo Matteo avrebbe potuto riportare e, ancora oggi, lui era convinto che se mai avesse avuto una minuscola parte omosessuale di sé – l’avevano detto in tv, ma era certo che la cosa non lo riguardasse. Lui era un uomo vero! –, quella gli doveva essere stata inculcata da quella pazza ossessionata dalla nail-art.
Livello tre, assolutamente Martina. L’unica parola che gli venisse in mente per descriverla era: cougar. A quarant’anni suonati, lei ancora vestiva come una ventenne e, soprattutto, rincorreva ragazzi che a quel punto potevano essere tranquillamente i suoi figli. Per questo, con lei non si sentiva mai troppo sicuro; dopo il venticinquenne brasiliano Pedro, temeva di essere la prossima preda.
Livello di allarme assoluto numero quattro, Venera. Adriana gli raccontava spesso di come la sua amica avesse in origine pensato di farsi suora. Era una decisione presa all’età di otto anni, poi a tredici, tornando dal catechismo domenicale, aveva trovato per terra vicino ad un cassonetto un calendario pieno di nudi maschili, e lì aveva avuto una visione: no, non la Madonna, ma un modello ariano che gli aveva parlato con i propri addominali. In quel momento, Venera si era resa conto di aver appena ricevuto una vocazione più grande della precedente. Non poteva rinchiudersi in un posto in solitudine, quando tanti poveri uomini con muscoli tonici e pochi vestiti avevano bisogno di lei! Ed ecco che aveva aperto una piccola agenzia di moda a Milano, dove, guarda caso, le sue amiche organizzavano mensili brunch per offrire consulenze gratuite.
Questi quattro soggetti erano la ragione per cui Matteo aveva paura di svegliarsi ogni mattina. Pregava che ci fosse Annamaria con i muffins o Rosita con i biscotti, Martina che gli dava tutte le brioches perché lei era in perenne dieta, ma non Venera, che era solita mangiarsi il regalo destinato a lui ancor prima di varcare la soglia di casa Maestri.
Matteo si fece coraggio ed entrò in salotto, dove, di fronte a sua madre, c’era una schiena sconosciuta.
Oh, no.
Fin troppo conosciuta.
- Che cazzo ci fai qui?
Adriana lo guardò come un’ancora di salvezza dopo anni di pericoli, ma si costrinse comunque a rimproverarlo per il linguaggio. L’ospite però sovrastò la sua voce.
- Matti! – Melissa Cedreo si voltò sorridente verso di lui. – Stavo giusto dicendo a tua madre della nostra imminente uscita!
Dov’erano le amiche di sua madre, quando lui ne aveva bisogno?

 

Cecilia si prese il tempo di passare da casa per farsi una doccia veloce e mettersi qualcosa di più comodo e caldo, prima di raggiungere casa Rastrelli insieme a Lisa. Carlo e Gianluca le accolsero con una smorfia di dolore e panico, la chiazza rossa ancora sul pavimento chiaro e l’odore intenso del vino che riempiva la stanza. E Lisa che scattava una foto.
I tre la guardarono in cagnesco.
- Che c’è? – brontolò lei. – Mica è colpa mia se voi siete talmente idioti da non aver neanche pulito nel frattempo! E poi questa situazione urla ricatto. Rastrelli, la prossima volta che mi rompi le palle, questa fotografia finisce dritta dritta nelle mani di tuo padre…. Sempre ammesso che non scopra il danno prima.
- Lisa, da’ loro un po’ di tregua, – la ammonì Cecilia, ma lei fece spallucce.
- Carlo, a proposito di tuo padre. Non sai se ha qualche amico vaginologo – rise sotto i baffi del rossore che colorò le guance dei due ragazzi, – che faccia al caso mio? Perché vedi, ho un certo prurito…
Si stava molto prodigando affinché le guance di Tinky Winky e Dipsy raggiungessero le tonalità di un bel tramonto serale.
- Prova con un veterinario, Zanin, – rispose piccato Rastrelli.
Gianluca s’intromise subito: la situazione era già abbastanza tragica, non voleva aggiungere del sangue vero al macello già sulle piastrelle.
- Carlo, non mi sembri nella posizione di fare dell’umorismo. E tu, Lisa, se non hai intenzione di aiutare, puoi anche evaporare, grazie.
La ragazza bofonchiò un suscettibili! a denti stretti, avendo cura di farsi udire. Cecilia si sentì stranamente fiera di Lamberti, che una volta tanto si era dimostrato maturo.
- Fingiamo un furto! – esclamò subito dopo, smontando uno ad uno i complimenti che affollavano i pensieri dell’amica.
Lisa si guardò attorno e individuò ciò che stava cercando; si avvicinò a Gianluca e gli mise in mano un panno.
- Comincia a pulire, genio. Qui dentro c’è una puzza nauseabonda. Bleah.
Si coprì il naso con una mano e si appoggiò con il sedere al tavolo in legno massiccio che occupava gran parte della taverna. Il tanfo intenso del vino rovesciato le stava facendo rivoltare nello stomaco gli involtini primavera e il pollo alle mandorle della sera precedente, conditi con il caffè della mattina.
I ragazzi e Cecilia, però, non le stavano prestando attenzione, i primi intenti a salvare il possibile e la seconda ad impedire loro di strizzarsi le spugne in bocca per assaggiare il vino.
- È una bottiglia da cinquecento euro da buttare, almeno lasciaci sentire com’è! – Gianluca provò a perorare la causa, ma Cecilia stroncò sul nascere ogni protesta.
- Vi rendete conto che questo liquido è sul pavimento da ore? Non potete nemmeno accampare la scusa dei tre secondi, perché è tutto talmente antigienico che mi fa venire i brividi.
Carlo avrebbe voluto aggiungere che una volta aveva mangiato uno scarafaggio morto da giorni e non gli era successo niente, ma qualcosa lo dissuase: in qualche modo, non credeva che la cosa avrebbe convinto l’amica a far loro bere il vino da terra. E come mai la Zanin non li aveva ancora presi in giro per questo?
Alzò lo sguardo verso la ragazza e la trovò pallida come un cencio, gli occhi spalancati, non proprio uno dei suoi momenti migliori. Stranamente gli venne da sorridere.
- Se stai per morire, dillo subito. Vorrei fare una foto.
Lisa fece in tempo ad indirizzargli un assai raffinato dito medio, prima di correre verso il piccolo bagno che ricordava ci fosse nello scantinato. Cecilia la raggiunse dopo qualche istante, aiutandola a reggersi i capelli sulla testa, mentre vomitava.
- Meglio? – le chiese, sorridendo comprensiva.
- Vo-voglio andare a casa, – sussurrò l’altra.
- Mi sembra un’ottima idea.
La biondina le cedette la propria giacca e fece sedere Gianluca e Carlo sul divano per istruirli, affinché sistemassero almeno fisicamente il disastro in sua assenza; avrebbe accompagnato l’amica a casa e poi sarebbe tornata a raccogliere i cocci. Tanto era certa che i due si sarebbero messi a giocare alla playstation, non appena lei avesse chiuso la porta di casa.
Si sbagliava: Rastrelli recuperò i joystick da dietro il cuscino ancora prima che lei finisse di parlare.
- Certo che la Zanin poteva pure evitare di venire; è arrivata solo per rompere i coglioni e vomitare, – si lagnò Carlo, ridacchiando.
- Beh, capiscila. – gli rispose Gianluca distrattamente.
- Capire cosa?
- Non l’hai capito? Uffa, Rastrelli, non capisci mai un cazzo. A noi non ha detto niente, ma forse è perché vuole che rimanga un segreto, perciò non diremo nulla. Però il prurito, il ginecologo, il vomito… Lisa è incinta.

 

Paleografia latina. Mh, interessante… qualunque cosa fosse. Sembrava essere interessante e sembrava anche l’ultima possibilità per Matteo Maestri di incontrare Lisa Zanin. Aveva già controllato tutti gli altri corsi opzionali, ma della ragazza nessuna traccia. Perciò, doveva essere paleografia latina. Non riusciva a pensare ad una lezione meno attraente, ma non vedeva soluzioni alternative.
Ripensandoci, dopo quarantacinque minuti di disquisizione sulla scrittura in caratteri latini colta e svariati tentativi di datazione e interpretazione delle principali forme di testimonianze manoscritte in alfabeto latino, qualcosa gli sarebbe venuto in mente. Qualsiasi cosa.
Quasi gli venne da piangere dalla contentezza, quando la professoressa annunciò la tanto agognata pausa. Aveva rintracciato la testa di Lisa nelle prime file dell’aula, decisamente lontano dalla sua posizione, molto più defilata, nei pressi della porta. Aspettò che si alzasse e che fosse nelle sue vicinanze e poi la salutò, fingendo stupore.
- Oh, ciao Lisa. Che coincidenza, anche tu frequenti paleologia?
La ragazza aggrottò la fronte e, naturalmente, non lasciò correre.
- Paleografia, Maestri. Non sapevo l’avessi scelto anche tu, non ti ho mai visto a lezione prima d’ora.
- Mi sto guardando intorno, – la fece breve. – Ti va un caffè?
Lisa annuì, uscì dall’aula e si girò verso l’agognata area macchinette, dando un’occhiata alla fittissima folla che la circondava. Cercò di farsi largo tra la massa eccitata di genitori, amici, nonni, zii, fidanzati, bisnonni centenari, prozii provenienti dall’America e tutto il restante e variegato parentado, accorso a festeggiare la laurea dei propri cari… e ad intasare corridoi, bagni, chiostro, spazi vitali degli altri studenti.
Odiava le sedute di laurea: l’università era gremita, puzzava di fiori e colonie delle nonne, le persone tendevano ad urlare, dimentichi di non essere al circo né tanto meno ad un matrimonio in Africa.
Matteo seguì la scia di Lisa, che come un carro armato stava abbattendo chiunque le fosse d’intralcio. Non riuscì a fermarla e la vide inserire una moneta per entrambi.
- Dovevo sdebitarmi per il gelato, – disse laconica lei, intuendo il disappunto di lui. – Caffè o tè?
- Caffè amaro, grazie. – Le sorrise e soppresse la volontà di ribattere, ormai aveva cominciato a capire qualcosina di Lisa e sapeva che se avesse osato dire qualsiasi cosa a riguardo, si sarebbe innescata una disputa infinita su una sua presunta misoginia e lui non era interessato. Almeno non a quello.
Gli consegnò il suo bicchierino di plastica in mano e selezionò il tasto del tè caldo al limone per lei.
- Lo sapevi che nel 1700, il re Gustavo III di Svezia prese due gemelli da una prigione e li costrinse a bere rispettivamente tre tazze di caffè e tre di tè? Invecchiò meglio il gemello obbligato a bere tè, morì a 83 anni.
A dire il vero no, Matteo non lo sapeva, ma non poteva davvero affermare di essere interessato. Nemmeno a quello.
- Beh, potevi dirmelo prima che bevessi il caffè! – le mostrò il bicchierino vuoto, che ben presto terminò nel cestino, insieme a tutti gli altri.
Lisa si limitò a scrollare le spalle, fissando in cagnesco la folla, che non accennava a fluire verso l’esterno, nonostante fosse una bella giornata e i primi neolaureati stessero già uscendo dalle aule. La Zanin si soffermò a contemplare un padre particolarmente apprensivo che, preso dalla foga del momento, era deciso ad immortalare la figlia – con tanto di corona d’alloro appena lanciatale in testa da un’amica – davanti alla porta del bagno degli uomini. Perché andare in giardino o in chiostro quando puoi avere un molto più che suggestivo sfondo in legno scadente e una piccola insegna con un omino stilizzato, prontamente trasformato in donna da qualche bontempone?
Matteo la vide assorta nei suoi pensieri e decise di agire: era il momento di farle la fatidica domanda. Semplice, chiara, diretta, dritta al punto.
- Allora… tutta sola stamattina?
Ecco, magari meglio partire con un giro più ampio.
- Sì, Cecilia non frequenta questo corso.
- Oh, giusto, Cecilia… – disse distrattamente, ringraziando che fosse stata lei a tirare fuori l’argomento. – Come sta?
- Potrebbe stare meglio, soprattutto se Mannino le girasse più lontano.
Oh Lisa, così gli stava rendendo tutto così facile!
- Hanno litigato?
Matteo si stava sforzando di risultare naturale e disinvolto, celando il suo più che evidente interesse col tentativo di fare una banalissima conversazione.
- Non me ne intendo molto di queste cose, ma credo che quando uno ti spezza il cuore, tu nutra del risentimento nei suoi confronti.
- … spezzato il cuore?
Matteo rimase in fremente attesa della risposta: desiderava che lui l’avesse ferita, che l’avesse fatta soffrire, perché sapeva che Cecilia lo meritava. O forse perché in quel modo lei avrebbe lasciato Mannino.
- L’ha tradita, – gli spiegò Lisa. – In più di un’occasione. E lei non l’ha perdonato, ovviamente, anche se finge di averlo fatto. Ma Niccolò non è uno abituato ad arrendersi, perciò ora le sta addosso come un koala. Ceci non sa più come dirgli di tenere manacce e boccaccia al loro posto. Questa storia è durata anche troppo.
Maestri si prese un attimo per riflettere; gli sfuggiva ancora qualcosa.
- Però l’altra sera al Firefly è stata lei a chiedergli un passaggio…
- Ha parlato di voler far ingelosire un tizio del corso di Storia greca… a quanto pare avete qualcosa in comune: un amante segreto.
Il ragazzo sorrise debolmente.
- Già. Quindi tra lei e Mannino…?
Lisa bevve l’ultimo sorso di tè dal bicchiere di plastica, che finì coll’essere accartocciato dalla sua mano, nello stesso modo in cui avrebbe fatto con la testa di un certo Niccolò.
- Credo che stavolta la questione sia chiusa definitivamente. Torno in aula.
Il ragazzo la guardò andarsene, spintonando un gruppo di amici eccitati attorno ad una neolaureata trasformata in mucca della Milka. Era un po’ stordito, non sapeva cosa dire e soprattutto cosa fare: Cecilia si era sbarazzata di Niccolò, il che significava che ora era single. Ma lui non poteva dimenticare ciò che era successo, il suo orgoglio si rifiutava categoricamente di metterci una pietra sopra e fingere che di non sentirsi ancora umiliato.
E la lezione di paleoqualcosa non l’avrebbe aiutato a fare chiarezza: capiva del latino quanto ne capiva di donne.
Nulla.

 

La taverna di Rastrelli odorava di ammoniaca e di un fragile retrogusto di pesca nocchiera. Nonostante le numerose ore passate a strofinare il pavimento e a spruzzare deodoranti per ambienti nell’aria, quello scantinato puzzava di Bolgheri Sassicaia del 1997. Ormai, i tre ragazzi avevano esaurito le idee per rimediare al danno; Cecilia – E se confessassi a tuo padre? – era stata tacciata di essere troppo responsabile. Gianluca – E se comprassimo solo la bottiglia e la riempissimo di Tavernello? – era stato invitato a chiudere il becco, possibilmente per sempre. Carlo – Fuggiamo all’estero! – si era premurato di risultare inutile come di consueto.
- Facciamo finta di nulla, okay? Fingeremo di non aver mai visto quel vino – propose infine Rastrelli, dopo estenuanti ore di trattative.
- Tuo padre ha milioni di bottiglie, vedrai che neanche se ne accorgerà! – gli diede corda Lamberti.
Cecilia si rifiutò di rispondere. Aveva la sensazione di aver speso gli ultimi quattro giorni a parlare con un muro, implorandoli di fare le persone mature per una volta e di prendersi le loro responsabilità.
Loro le avevano risposto con una pernacchia.
- Bene, visto che avete raggiunto una così brillante conclusione, io me ne andrei, – li informò.
Sul viso di Carlo comparve un’espressione dispiaciuta.
- No, non puoi! Dobbiamo fare le prove, prima! – la guardò con degli occhioni da cucciolo bastonato. – Tu fai mio padre, va bene? Gianlu fa Gianlu e io… io faccio io.
Lei li osservò, sperando che fosse uno scherzo, ma naturalmente, quando si trattava di quei due, sulle idiozie non scherzavano mai.
- Ti prego… – la implorò Lamberti, in ginocchio e con le mani giunte.
Cecilia riappoggiò sul divano la borsa che aveva appena raccolto da terra, in previsione di andarsene. Si sedette a sua volta sul sofà, conscia di aver ceduto alle stupide pretese dei suoi amici.
- Buongiorno, figlioli, – esclamò, cercando di imitare la voce del signor Rastrelli.
- Mio padre non dice ‘figlioli’… – brontolò Carlo.
- Sta’ zitto e recita.


Al primo piano del polo Zanotto di via San Francesco, Matteo Maestri era rimasto apparentemente solo, in mezzo a centinaia di sconosciuti. Mancavano ancora cinque minuti alla fine della pausa di metà lezione, e lui non aveva ancora deciso se tornare in aula per altri quarantacinque minuti di tortura latina, o per raccogliere le proprie cose e andare a casa a dormire.
Non appena avvertì una morsa arpionargli un braccio, capì di non avere più scelta. L’anello grosso quanto una palla da golf che svettava sulla mano che lo stava stringendo apparteneva solo ad una persona, la stessa che aveva sbattuto a fatica fuori casa quella stessa mattina: Melissa Cedreo.
- Ciao, tesoro! – gli stampò un bacio sulla guancia, lasciandogliela appiccicaticcia di un nauseante lucidalabbra alla fragola. Matteo si ripulì in fretta con il dorso della mano e si liberò dalla presa. – Allora, quando mi porti a cena?
- Melissa, ti ho già detto di non insistere. Smettila, non costringermi a diventare maleducato.
Sì, aveva deciso. Paleografia latina. La cultura era l’unico mezzo a sua disposizione per combattere la sorella più piccola delle Cedreo. Chissà, magari anche la materializzazione a sorpresa davanti a loro di Filippo Franzoni poteva rivelarsi utile allo scopo.
- Oh, guarda guarda chi c’è! – ridacchiò il nuovo arrivato, in un impeccabile spezzato, completato da dei guanti che lo rendevano un perfetto gentiluomo del 1800.
Melissa improvvisamente si fece mesta e composta.
- Franzoni, che diavolo ci fa qui? – Maestri si strofinò gli occhi con le dita, rimpiangendo le amiche di sua madre: almeno loro gli portavano i dolci, prima di rovinargli la giornata!
- A quanto pare una vecchia prozia di cui non conoscevamo nemmeno l’esistenza si laurea oggi. – Filippo si sistemò meglio i gemelli su entrambi i polsi. – Meglio coltivare le parentele, non credi? Così quando morirà, si ricorderà del caro nipotino che è venuto a sentirla discutere la tesi.
- Il tuo attaccamento alla famiglia è lodevole, – lo canzonò Matteo. – Ora scusatemi, ho una lezione.
- Fermo dove sei, – lo bloccò l’altro, – devo parlare con entrambi.
- Non ho alcuna intenzione di parlare con te.
Franzoni fissò con disgusto il vestiario di alcuni passanti: 100% poliestere, di sicuro. La cosa lo scosse fin nei boxer di cachemire.
Invece lo farai, - ribatté, finita la radiografia, – visto che ancora mi sfugge il motivo per cui hai smesso di farlo. Ti ho lasciato del tempo per sbollire la rabbia e anche perché mamma dice che è poco aristocratico essere il primo a farsi sentire dopo un litigio. Melissa, – si rivolse alla ragazza, insolitamente zitta, – poi toccherà a te.
- M-m-me? – tartagliò lei, con un risolino isterico. – Per quale assurdo motivo cerchi me? Cosa avremmo da dirci io e te, eh? Niente!
Franzoni raccolse le idee per qualche istante, cercando di ricordare le parole esatte da pronunciare a Melissa.
- Ho lottato contro la mia volontà, le aspettative della mia famiglia, l’inferiorità delle tue origini, il mio rango e il patrimonio, tutte cose che voglio dimenticare e chiederti di mettere fine alla mia agonia…
- Allora sparati, Franzoni, – gli rispose lapidaria.
Dannazione, era convinto che citare la dichiarazione di Orgoglio e pregiudizio avrebbe steso la sua preda. E invece era la sua preda a volerlo steso. Morto, però.
D’accordo, Filippo, disse a se stesso, forse è meglio passare a qualcosa di più pragmatico.
- Perché non mi hai chiamato dopo la festa a casa mia? – piagnucolò senza ritegno.
- Avrei dovuto? – urlò lei, scansandolo con una mano. – Ora scusaci, ma io e Matti abbiamo un appuntamento.
Purtroppo per lei, Maestri non era dell’idea di portarla da alcuna parte, ma era parecchio curioso di sapere cosa ci fosse stato di preciso tra Franzoni e la Cedreo.
- Che è successo a casa di Fil? – domandò sospettoso.
- Melissa ed io ci siamo baciati in bagno.
Maestri strabuzzò gli occhi, spalancò la bocca e scoppiò a ridere. La stessa reazione non si poté leggere sul viso di Gisella Ferris, sopraggiunta con la borsa di Melissa, insieme ad un possibile mancamento.
- Cosa? – pronunciò con un fil di voce.
- Quindi eravate voi due!
Matteo li indicò senza smettere di ridacchiare e cominciò a percorrere un filone di ragionamento chiaro solo a se stesso: dunque, ora era a conoscenza di tre membri su quattro del piccolo party privato avvenuto nel bagno di Villa Franzoni. L’unica incognita era il tizio che si era dato da fare con Lisa, il responsabile del prurito intimo che tanto lo aveva fatto arrossire durante l’appuntamento.
- Se tu hai baciato Franzoni, – rifletté a voce alta Gisella, – allora Matti è mio.
E che cavolo! Si era fatta remore e aveva addirittura accantonato – temporaneamente – il proprio diritto sul ragazzo in questione, ma una pomiciata in toilette ribaltava le carte in tavola!
- Scordatelo, – Melissa le si avvicinò con intenzioni bellicose, – lui mi appartiene!
- Prova a ripeterlo, gallina!
Qualcuno avrebbe potuto ritenersi onorato di scatenare tanto fervore in due giovani donzelle, ma ciò che Maestri provava in quel momento di fronte a quella scena era uno strana sensazione di paura, perché entrambe possedevano un certo grado di follia omicida negli occhi e ciò era sufficiente a renderlo inquieto. Perciò, spinto da puro spirito di autoconservazione e amore per il prossimo, afferrò per un braccio Franzoni e lo portò con sé dietro l’angolo, al riparo da capelli tirati e appellativi degni di Jersey Shore.
- Questo significa che siamo di nuovo amici? – gli chiese l’altro, sistemandosi il punto della giacca in cui Matteo l’aveva toccato, sgualcendo la preziosa stoffa.
L’altro ignorò la sua domanda, arrivando dritto al punto che più gli premeva.
- Alla festa, hai visto che sono stato quasi tutto il tempo con una ragazza.
Franzoni sbuffò, contrariato all’idea di spendere tempo, fiato e parole per discutere di una così insignificante persona.
- Sì, la Molinari.
- Perché non mi hai detto che stava con Mannino? – sbottò Matteo.
- Non credevo t’interessasse, – si difese Filippo, intuendo dove l’altro volesse arrivare, ma continuando a sperare che fosse tutto un gigantesco malinteso.
- Lei m’interessa! – si era sforzato di mantenere la calma e un tono di voce basso, ma di fronte a quell’affermazione di Franzoni, non era riuscito a contenersi.
- Che pessimo gusto, Matteo, – commentò l’amico. – Ad ogni modo, dal momento che ci tieni, ti dirò quello che so, che ad essere onesti è molto poco. Si sono messi insieme al quarto anno di liceo, credo, hanno fatto coppia fissa per un po’, baci e abbracci, sai, quelle cose da plebei, fino a quando lui non ha preso a frequentare corpi altrui…
Filippo era molto più che poco informato, si nutriva di gossip come le classiche vecchie vicine di casa impiccione e pettegole. Era necessario, per tenere sotto controllo il popolo, per carpire in tempo l’arrivo di un’eventuale e insopportabile rivoluzione della plebaglia. Non si era mai troppo all’erta con i poveri.
- Sì, d’accordo, basta… – l’interruppe Matteo, pentendosene subito, – no, aspetta, lui l’ha tradita quattro anni fa?
- Lo sapevano tutti al Maffei. Beh, tutti tranne lei.
Per la prima volta, Maestri si sentì completamente dispiaciuto per Cecilia.
- E lei ha continuato a stare con lui, nonostante lui si sia sempre fatto i suoi porci comodi?
- Non sono esattamente il fan numero uno della Molinari, ma di due cose sono convinto: la prima è che sia una borghese della peggior specie, i nuovi arricchiti; l’altra è che sia abbastanza intelligente da non farsi mettere i piedi in testa da un imbecille come Mannino.
Dispiaciuto e felice.
- Che stai cercando di dirmi, esattamente?
- Dopo la scoperta del tradimento e soprattutto dopo aver saputo che l’intera scuola ne era al corrente, ha strisciato lungo i muri come un fantasma per un po’ e un giorno è tornata quella di sempre.
Dispiaciuto, felice e speranzoso.
- Quindi non stanno insieme?
- Non ne ho la certezza assoluta, ma direi proprio di no.
Dispiaciuto, felice, speranzoso e felice. L’aveva già detto?

 

Il momento di serenità e spiegazioni esclusivamente maschile finì nel momento stesso in cui Melissa e Gisella si resero conto che il loro amato ragazzo dei sogni le aveva abbandonate all’area macchinette, sole e spettinate in mezzo a sconosciuti che le stavano fissando come fossero state animali da circo. C’impiegarono diversi minuti, prima di individuarlo, abbattere la folla circostante e raggiungerlo, cercando di ostacolarsi a vicenda.
- Matti, scegli me! – gli gridò la Ferris sull’orlo delle lacrime.
Matteo, in risposta, le rifilò un’occhiata gelida. Non era necessario possedere una mente eccelsa per comprendere da chi fosse partito il gigantesco malinteso che aveva coinvolto Cecilia, Mannino e lui stesso; era sufficiente una buona memoria. Era stata Gisella a mettere in piedi tutta quella sceneggiata e lui era stato così cieco, stupido e ingenuo da crederle.
- Girami a largo per almeno un anno.
- A-ha, te l’avevo detto che avrebbe scelto me! – gioì Melissa.
- Che ho fatto? – finse di piangere l’altra.
Matteo le concesse l’ultima opportunità per essere sincera, ma Gisella era troppo presa dall’inscenare un piagnisteo memorabile che mancò l’unica chance di uscire da quella situazione perlomeno in modo dignitoso.
- Cecilia sta con Mannino? – le chiese piano, affinché il criceto eremita nel suo cervello potesse elaborare bene le parole.
- Sì! – tentò disperata Gisella.
- No!
La voce di una donna adulta svettò su quelle degli altri, facendo voltare i visi sbigottiti degli astanti nella sua direzione. Era una signora bassa e cicciottella, con un imponente medaglione dalla fantasia floreale al collo. Solo uno tra loro la conosceva. Più o meno.
- Prozia Fatima!
Filippo le si avvicinò con un sorriso smagliante e le braccia teatralmente aperte. Non era certo che fosse lei – e chi cavolo l’aveva mai vista? –, ma il libricino rilegato che fuoriusciva dalla borsa di maglia aveva tutto l’aspetto di una tesi. Quante vecchie potevano laurearsi in quella giornata?
La donna gli restituì un saluto tiepido, con due pacche sulle spalle.
- E lei cosa ne sa?
Lo stridore nella voce di Gisella tradì un’eccessiva dose di apprensione, che non passò inosservata.
- Ne so più di te, signorina! – la riprese Fatima. – Conosco Cecilia e so che è innamorata di un ragazzo. E non sto parlando di Niccolò.
Melissa comprese tutto prima degli altri. Doveva essere per via di quell’acutezza che l’aveva sempre distinta.
- OMG! – gracchiò. – La Molinari è innamorata di Franzoni! Posso twittarlo?
Matteo e gli altri guardarono prima lei, poi Fatima, aspettando di ricevere un’illuminazione su quel groviglio nebuloso creatosi alla festa in maschera.
- Flora, Fauna e Serenella, aiutatemi voi! – implorò la donna, rivolta la cielo. O, meglio, al soffitto. – No, tesoro, non si tratta di Filippo.
Okay, non è nemmeno Franzoni, si ripeté Maestri, allora chi cavolo è?
Per un attimo smise di respirare: merda, il tizio del corso di Storia greca. Ecco chi era.
Si sentiva talmente demoralizzato che non si accorse neppure che Lisa stava ringhiando in mezzo al corridoio, chiedendo silenzio.
- Ehi, volete stare zitti? C’è chi vorrebbe fare lezione qui! – urlò arrabbiata, ma subito si distese, riconoscendo la proprietaria di Sale in zucca. – Fatima?
Un campanello d’allarme risuonò nella mente di Filippo Franzoni. Arrampicatrice sociale, cacciatrice di dote ed eredità, plebea all’attacco della vecchia! Non valeva, lui era arrivato prima!
- Conosci la prozia? – si affrettò a chiedere alla ragazza, senza aspettare però che rispondesse. – Ti prego, cara zietta, di considerare il fatto che io sono venuto per te, pur non conoscendoti. Ogni tipo di ricompensa sarà accetta.
Ma Fatima ormai stava già accorrendo verso la Zanin per abbracciarla con i suoi soliti modi di fare materni, che naturalmente stavano mettendo a dura prova quel ghiacciolo di Lisa.
- Oh, raggio di sole, come stai? – le chiese.
Matteo tentò di non essere scortese, ma aveva esaurito ogni scorta di pazienza quella mattina stessa a casa sua, quando aveva cacciato Melissa dalla porta.
- S-scusate se interrompo questa rimpatriata, – disse con dolcezza, – ma stavamo cercando di capire di chi cavolo è innamorata Cecilia.
Doveva saperlo. Che fosse il nerd sfigato e brufoloso – era ovvio che il tizio in questione fosse brutto e pure antipatico – di Storia greca o il cantante dei Duran Duran, lo doveva sapere.
- Perché parlate di Ce’? – s’informò Lisa.
- Tu sei uscito con la stracciona e non vuoi uscire con me? – gracchiò Melissa al culmine dell’indignazione.
- Io voglio uscire solo con Cecilia! – urlò Matteo esasperato.
Lo gridò talmente forte che l’intero corridoio si voltò verso il gruppetto, in assoluto silenzio. Lui arrossì come mai in vita sua, mentre i suoi amici reagivano con mille diverse espressioni facciali e verbali. Solo Fatima sfoderò un largo sorriso gongolante.
- Bene, Matteo, – gli disse, strizzandogli le guance. – E allora credo dovresti dirglielo, tesoro.
- E il tizio di Storia greca? – chiese sconsolato.
- Conosci mica un certo Pino? Perché avete la stessa testa di legn… dura, testa dura.

 

Meno di un minuto dopo, Matteo Maestri veniva spedito quasi a calci nel sedere sul ballatoio delle scale della facoltà di Lettere. Fatima gli aveva messo in mano la sua borsa con tutti i libri e la giacca lasciate nell’aula di Paleografia, Lisa gli aveva scritto il numero di Cecilia sul braccio – perché non avevano tempo di cercare il cellulare – e Franzoni si era limitato al nobile gesto di tenergli aperta la porta mentre veniva spronato con cori da stadio a correre.
E lui stava correndo alla macchina, per gettare i quaderni alla rinfusa sui sedili posteriori, per trovare il maledetto telefonino nelle tasche – perché di nuovo non aveva il tempo per cercarlo –, per chiamarla e parlare con lei. Ovviamente non ricordava neanche dove fossero le chiavi dell’auto. Appoggiò tutto sul tettuccio, i libri caddero insieme alle penne, ma non gliene fregava nulla in quel momento. Frugò dappertutto, finché non le scovò sul fondo della tracolla, incastrate in quello strappo della fodera che sua madre avrebbe voluto riparare da tempo, ma che lui aveva sempre rifiutato, sbagliando. Adriana aveva sempre ragione, dannazione. Tirò forte, fino a quando non senti la stoffa cedere ulteriormente e fu libero di trarre le chiavi da quel disordine di fogli e block notes spiegazzati. Raccolse i libri e li gettò in macchina, già cominciando a cercare il cellulare. Grazie al cielo, era nella tasca dei pantaloni. Lesse frenetico il numero che Lisa gli aveva scritto sull’avambraccio e lo digitò veloce.
Rispondi, rispondi, rispondi.
La voce gentile di una signorina gli annunciò che il cliente chiamato non è al momento raggiungibile. Lui riattaccò e ci provò di nuovo, ma rispondeva solo la segreteria. Al decimo tentativo fallito, Matteo mollò provvisoriamente la spugna. Non avrebbe potuto reggere un’altra volta la tizia della compagnia telefonica che lo informava che Cecilia non era disponibile. Perché ora, mia cara signorina, Cecilia era disponibile; finalmente lontana da Mannino. Ma anche da ogni campo di ricezione.

 

- Proviamo così. Ehm… vedi papà, la verità è che quella bottiglia non è mai esistita. È sempre stata solo ed unicamente nella tua mente.
Cecilia ascoltò scettica l’ultima trovata di Rastrelli e si decise di aver sopportato anche troppo. Si era ripromessa di rimanere solo mezzora, ma i Teletubbies l’avevano convinta a restare per le due ore seguenti e ciò che avevano concluso era lo zero assoluto.
- Bene, dopo questa io me ne vado, – esclamò. – Devo passare in università e mi avete già fatto perdere troppo tempo.
Gianluca si alzò dal divano ed espresse con dovizia di particolari cosa sarebbe andato a fare in bagno, senza che i presenti peraltro fossero minimamente interessati. Cecilia lo guardò procedere con la sua andatura strascicata e si domandò se mai sarebbe cresciuto e, soprattutto, se mai avrebbe incontrato qualche ragazza votata al martirio così intrepida da prenderselo. La risposta era no: già la signora Lamberti era una santa, lui non poteva essere così fortunato da averne due nella vita.
- Aspetta, Ce’. – Carlo la bloccò sulla porta. – Ma Lisa sta bene?
Lei si girò e si chiese se per l’ennesima volta la volesse costringere a stare con loro.
- Penso di sì, perché?
Rastrelli si strinse nella spalle, facendo il vago. Ci mancava solo che ora facesse il misterioso!
- No, curiosità.
- Dimmi la verità. – Lo guardò sospettosa.
- Gianlu mi ha detto una cosa…
Cominciò a fissarsi con insistenza le punte dei piedi e a giocherellare con le dita delle mani.
- Cosa? – lo incalzò Cecilia.
- Non posso dirtela, – si affrettò ad aggiungere.
- E allora perché mi hai detto che ti ha detto una cosa, se non puoi dirmela? – Il ragazzo fece una faccia confusa. – Lascia perdere, Carlo. Cercate di non rompere nient’altro, e se lo fate, non chiamate me!

 

Quando finalmente mise il naso fuori da quel tugurio dall’odore di vino, Cecilia dovette attendere qualche istante, prima che i suoi occhi si abituassero alle luce del sole. Era una splendida giornata, ventosa ma tiepida. C’erano migliaia di foglie sui marciapiedi, ai lati delle strade, nei parchi. Prese l’autobus, percorse qualche chilometro e poi cambiò idea, scese e decise di raggiungere l’università a piedi, con il fedele i-pod già nelle orecchie. Solo quando mise la mano in tasca, si ricordò del cellulare e lo controllò. Un messaggio. La segreteria la informava che un numero non presente in rubrica aveva cercato di contattarla, mentre lei era nella taverna di Rastrelli. Le era capitato più volte che sua madre non avesse credito e che la chiamasse col numero del fidanzato di turno, perciò non si stupì e premette il tasto di richiamata senza pensarci.
Udì una voce maschile dopo nemmeno due squilli.
- Cecilia?
La ragazza rimase interdetta; di solito, era Marina stessa a rispondere o, molto più di rado, l’uomo con cui si intratteneva, che puntualmente dimenticava il suo nome e le parlava con tono scocciato. Stavolta, invece, il tono era dolce. E il nome giusto.
- Sì? – disse cauta.
- Sono Matteo. Maestri.
D’istinto si fermò sul marciapiede su cui stava camminando. Nella sua mente iniziarono a profilarsi diversi scenari catastrofici per cui Matteo Maestri si fosse abbassato a chiamare lei: loro erano gli unici rimasti sulla Terra – ma era piuttosto sicura di essere circondata da altra gente –, a Lisa era successo qualcosa – ma le avrebbe telefonato qualcuno come i signori Zanin, Gianluca o Carlo –, oppure stava soltanto sognando – ma le pareva di essere del tutto sveglia.
- Sì… – l’unico monosillabo in grado di non compromettere la situazione.
- Possiamo vederci? Magari… ora?
No, era ufficiale: era un sogno che potenzialmente poteva trasformarsi in un incubo, a seconda di ciò che Maestri le avrebbe detto. Melissa, doveva c’entrare qualcosa Melissa. Ecco, aveva capito: la stava prendendo in giro. Quell’arpia della Cedreo aveva ragione quando le aveva spiattellato in faccia che sarebbe uscita con lui, e ora entrambi stavano ridendo di lei.
- C-certo. Dove?
Brava Cecilia, via il dente, via il dolore.
- Io sono appena uscito dall’università. Ho parcheggiato sul Lungadige Porta Vittoria. Ci vediamo lì.
- A tra poco, allora.
Pochi minuti e sarebbe giunta a destinazione. La tentazione di prendere un giro più lungo e arrivare dopo era forte, ma non le avrebbe comunque permesso di evitare la conversazione. Un incidente stradale però… Si diede della scema e cominciò a camminare più velocemente. Chi cavolo pensava di essere quel pallone gonfiato di Matteo Maestri per prendersi gioco di lei?
Si scorsero in contemporanea; lui era appoggiato alla sua macchina, dall’altro lato della strada, giocherellava nervosamente con le chiavi dell’auto e si guardava intorno come se stesse facendo da palo ad una rapina. D’altronde, lei non aveva specificato dove si trovava e lui non poteva sapere da che direzione sarebbe arrivata.
Lei aspettò che attraversasse la strada, dopo infiniti secondi in cui nessun automobilista sembrava intenzionato a fermarsi e farlo passare, nonostante fosse sulle strisce pedonali. Cecilia gli diede le spalle, si rivolse verso l’Adige, con quell’acqua torbida che però su di lei aveva sempre avuto un effetto rassicurante.
Maestri si mise accanto a lei, senza appoggiarsi al muretto, in attesa che si girasse. Quando lei lo fece, lui si accorse che il vento le stava scompigliando i capelli, glieli faceva incastrare nelle ciglia e tra le labbra. Matteo stette in silenzio; erano stati entrambi vittime di una rete di bugie, omissioni, incomprensioni e lui l’aveva allontanata, accusata ingiustamente di un doppiogioco che non era mai esistito se non nella testa bacata di Gisella Ferris e Niccolò Mannino. E ora che ce l’aveva lì davanti non sapeva cosa dirle e come. Avrebbe voluto soltanto baciarla, ma lei aveva bisogno di spiegazioni, gliele doveva.
- Ehi, – biascicò, grattandosi la nuca.
- Ciao. – Cecilia mantenne le distanze e lui esitò. – Allora?
Non intendeva essere rude o maleducata, ma se proprio dovevano sbeffeggiarla, che almeno lo facessero in modo rapido, perché non sarebbe stato di certo indolore.
- Allora… – iniziò lui.
- Sai una cosa? – lo interruppe aggressiva. – Risparmia il fiato, lo so già.
Non poteva fingere, non voleva. Non era abituata a nascondersi dietro un dito, quello era il modo di fare di Gisella e Melissa, non il suo. Questa storia si era protratta anche troppo e lei era immensamente stufa di sottostare ai loro stupidi giochetti.
- Lo sai già?
Matteo la guardò stralunato. Era evidente che qualcuno tra Franzoni, la Ferris, la Cedreo e Lisa le avesse raccontato quanto accaduto nel corridoio poco prima.
- Sì, me l’ha detto Melissa. – Melissa? Matteo avrebbe puntato tutto su Lisa. – So che uscirete insieme.
- Cosa? No! – La ragazza rimase con la bocca socchiusa per qualche istante. Se Maestri non doveva comunicarle quello, per quale altro motivo l’aveva cercata? – Cecilia, ascolta, ho sempre saputo che eri tu la dama vestita di blu della festa di Franzoni. Non sapevo il tuo nome, credevo ti chiamassi Lisa, ma questa è un’altra storia. Il giorno dopo, Gisella mi ha detto che eri fidanzata con Niccolò e che mi avevi solo preso in giro…
Lei restò ad ascoltarlo in silenzio, finché tutta la verità non venne a galla. Non riuscì a trattenersi solo dopo l’accusa infamante di aver giocato con i suoi sentimenti.
- Ma non è vero! – si difese.
- Ora lo so, però fino ad oggi, tutto mi aveva fatto credere il contrario, – le spiegò Matteo. – il vostro passato insieme e la sera al Firefly, tra Mannino che compare a sorpresa, tu che mi segui in bagno e poi te ne vai con lui…
- È per questo che hai chiesto alla mia migliore amica di uscire? – gli chiese brusca.
C’era un pizzico di rimprovero nel modo in cui Cecilia aveva puntualizzato sul termine migliore amica, ma Matteo era preparato.
- Sì. Sono stato avventato, stupido ed infantile, ne sono consapevole. Ero arrabbiato, umiliato e volevo vendicarmi. Se ti consola, sappi che non mi ha fatto sentire meglio e l’uscita con Lisa è stata una delle cose più imbarazzanti della storia. – Sorrise e non si lasciò sfuggire quello che le labbra di Cecilia avevano solo accennato. – Hai detto qualcosa?
Lei sollevò lo sguardo e ripeté ad alta voce.
- Ho detto che te lo meritavi. Però ti capisco, forse l’avrei fatto anche io, nei tuoi panni. Magari siamo partiti col piede sbagliato.
- Da quel che ricordo, eravamo partiti benissimo, io e te, – la corresse. – Sono gli altri che ci hanno messo i bastoni tra le ruote. Sai una cosa? Aspettami qui. E chiudi gli occhi!
- Cosa? – domandò lei sorpresa.
- Chiudi gli occhi! – le disse di nuovo, aspettando che lei obbedisse. – Così, brava.
Cecilia non poteva vedere nulla, ma aveva sentito chiaramente che quell’ultima frase era venuta da vicino, molto vicino; gliel’aveva quasi soffiata sulle labbra. Salvo poi sparire.
Rimase per un paio di minuti così, cieca, immaginando le facce stupite dei passanti e fregandosene completamente. Ebbe un po’ di paura quando due braccia la presero da sotto le ascelle e la issarono sopra il muretto; stava per aprire gli occhi, ma la mano di Maestri glieli coprì e lei riuscì solo ad intravedere il suo sorriso.
- Sta’ buona, dai. – la rimproverò. – Prometto di non buttarti giù.
Lei rise e decise di fidarsi, nonostante non fosse per nulla rassicurata dal fatto che lui le stesse allentando i lacci di una scarpa da tennis, prima di toglierla. Le fece indossare qualcos’altro, duro e scomodo.
Cecilia aprì di scatto gli occhi, quando realizzò cosa fosse.
- È veramente lo stivaletto più brutto che io abbia mai visto. – commentò Matteo, ridendo.
- Concordo, sono terribili! – gli rispose, osservando ciò che la Zanin l’aveva costretta ad indossare come calzature alla festa di Franzoni. – Però me li ha regalati Lisa, non posso buttarli…
- Non ti ho mai detto di buttarli, – fece una pausa e si sforzò di non arrossire come un cretino, – spero solo che indosserai dell’altro, quando ti chiederò di uscire.
Cecilia avrebbe potuto cogliere il significato dietro quelle parole, ma dopo il trattamento scostante e a tratti sgarbato ricevuto da parte di Maestri, non aveva alcuna intenzione di facilitargli le cose.
- Quando mi chiederai di uscire, ci penserò, – si limitò a dire, spostando lo sguardo altrove.
- Te lo sto chiedendo ora.
- Cosa? – fece la finta tonta.
Matteo capì che lei non avrebbe accettato a meno di una richiesta esplicita, cosa che lui non aveva mai fatto. Era sempre stato circondato da ragazze come Melissa e Gisella, che si preoccupavano di fargli comprendere le proprie intenzioni, a costo di sembrare petulanti e insistenti. Non era nato per fare il corteggiatore, ma in caso di necessità...
- Esci con me. Per favore, – le disse.
Non era il massimo del romanticismo usare un imperativo, ma Cecilia stabilì che si sarebbe accontentata, totalmente conquistata da quel dolcissimo per favore imbarazzato appena sussurrato.
Si alzò in piedi, gli afferrò due lembi della felpa e li tirò verso di sé. Matteo si lasciò trascinare contro il corpo di Cecilia e non aspettò neanche un secondo in più per appoggiare la bocca sulla sua, dopo settimane passate a provare a ricordarla, poi a maledirla, a dimenticarla. Strinse la ragazza a sé, mentre le dischiudeva gentilmente le labbra, mordicchiandole perché lei concedesse libero accesso alla sua lingua. Cecilia non si fece pregare, felice come non era da troppo tempo. Annullarono il mondo attorno a loro per brevissimi istanti o lunghi minuti, nessuno dei due se ne stava davvero preoccupando.
Si staccarono soltanto quando un gridolino di Cecilia la fece sussultare. Matteo, infatti, le aveva sollevato giacca e maglione sulla schiena, per poi spingerla contro il muretto. La pietra era troppo fredda per non far sobbalzare il corpo accaldato di lei.
Risero entrambi, imbarazzati e divertiti.
- Devo proprio passare in facoltà, – si ricordò lei, poggiando la fronte sul mento di Maestri.
- Mmm… – brontolò lui. – Io ho allenamento, – controllò l’orologio, – cinque minuti fa.
Barcellandi l’avrebbe ammazzato. Pazienza.
- Dobbiamo andare, – gli sussurrò lei.
- Lo so. Ma, a proposito di calcio, avrei una richiesta da farti, visto e considerato che reputo il tuo assalto nei miei confronti un sì…
- Reputi bene, Maestri. – gli disse, sistemandogli la giacca. – Spara.

 

Non era mai stata al centro sportivo. All’apparenza sembrava il tipico luogo maschile: non troppo pulito, disordinato, pieno di testosterone. Matteo poteva averla convinta ad andare a vederlo giocare una partita, ma non sarebbe riuscito a farle mettere piede nello spogliatoio.
Le tribune erano abbastanza piene di genitori esaltati, qualche sporadica fidanzata annoiata attaccata al cellulare e amici pronti a prendere a male parole gli avversari anche gratuitamente. Cecilia si sedette in un angolo da sola, con un sorriso idiota stampato in faccia; il calcio non le dispiaceva, il tempo era clemente e, nonostante avesse trovato la proposta un po’ bizzarra per essere un primo appuntamento, in fondo non le importava più di tanto. Anzi, perlomeno era un’idea originale. E avere un pretesto per fissare un’ora e mezza Matteo era pura genialità.
Purtroppo, le luci del campo facevano pena e Cecilia non era sempre in grado di individuarlo, soprattutto quando erano tutti ammassati dietro al pallone, ma nulla le avrebbe rovinato la serata, nemmeno lo scadente impianto d’illuminazione.
Alla fine del primo tempo, la squadra di casa era sotto di due gol, però Maestri non sembrava particolarmente dispiaciuto. Al contrario, continuava a sbirciare verso un angolino della tribuna e a sorridere, benché il mister Barcellandi lo avesse invitato più volte – e con assai poca gentilezza – a guardare la stramaledetta porta.
- Maestri, che cazzo stai fissando, le farfalle?
Lui ci provava a concentrarsi su quei tre pali e la rete, ma il pensiero che ci fossero due occhi azzurri – quegli occhi azzurri – sugli spalti era sufficiente per distrarlo.
Durante l’intervallo, puntuale come un orologio svizzero, arrivò la strigliata di entrambi i coach. Amato fu più pacato, invitò tutti a tirare fuori l’orgoglio e a cercare di combinare qualcosa di positivo, un passo alla volta. Barcellandi li prese ad uno ad uno e quasi li appese al muro, nel tentativo di spronarli, pena un giro della vergogna nudi per il campo. Nessuno sapeva con certezza se avrebbe mai avuto il coraggio di farlo davvero, oltre che prometterlo, ma non vi era anima viva che ci tenesse a sfidare la sorte.
C’era anche Niccolò Mannino, seduto sulla panca, in disparte. Si era lamentato di avvertire ancora molto dolore, dopo il colpo subito in allenamento la settimana precedente. Naturalmente era una scusa per non dover alzare il fondoschiena, ancor più dal momento che stavano perdendo. Questo gli avrebbe dato l’occasione di poter dire che la squadra senza di lui non valeva nulla. Se ne sarebbe andato volentieri a casa, ma Amato lo teneva sott’occhio affinché imparasse i meccanismi della nuova squadra. Inutile dire che lui avrebbe preferito oliare i meccanismi della vecchia e cara Orpella.
Nella ripresa, le cose migliorarono lievemente: Matteo cercò d’impegnarsi di più e così fecero anche gli altri – le minacce di Barcellandi davano sempre i loro frutti – e in breve riuscirono a recuperare lo svantaggio. La partita finì con un pareggio.
Maestri entrò nello spogliatoio prima dei compagni. Aveva bisogno di una doccia subito, non aveva tempo per gli aggiornamenti settimanali delle misurazioni genitali.
Si lavò, vestì e pettinò come meglio poté e in fretta, ma non abbastanza da precedere Niccolò Mannino e il suo radar. Clara Orpella poteva tranquillamente aspettare, se c’era la possibilità di ritornare tra le gambe di Cecilia Molinari.
- Oh, pesciolino, che sorpresa! – le disse, avvicinandosi.
Lei alzò lo sguardo annoiata. Stava cominciando a detestare quel nomignolo, oltre colui che continuava a ricordarglielo.
- Ciao, Niccolò, – rispose per mera cortesia.
Ma lui aveva tutto un suo modo d’interpretare le cose: Cecilia stava palesemente facendo la preziosa e lei sapeva quanto tutto questo lo facesse andare su di giri.
- Mi stavi aspettando? Vuoi un altro passaggio?
Si fece ancora più avanti e si abbassò versò di lei, leccandosi le labbra, ma la biondina ci mise pochi secondi per sgusciargli via e alzarsi in piedi.
- Veramente stavo aspettando… – si sporse oltre la figura di Niccolò e incrociò lo sguardo di Matteo che stava arrivando sorridente, borsa in spalla, – lui.
- Maestri, – sbuffò l’altro. – Ma certo.
- Sai, Mannino, – aggiunse Matteo, – le bugie hanno le gambe corte. E quasi rotte. Mettiti di nuovo in mezzo tra me e lei e vedrò di far sparire il quasi.
Non aveva utilizzato un tono di voce molto minaccioso, anche perché quello non era il suo scopo: voleva che semplicemente lui lo vedesse insieme a Cecilia e che capisse che non sarebbe stato così fortunato da riuscire a separarli un’altra volta.
- Rilassati, Maestri, – ridacchiò Niccolò. – Me la sarei scopata una volta e te l’avrei restituita subito dopo. Non sono fatto per le cose serie.
Si premurò di fissare gli occhi di Cecilia mentre pronunciava quelle parole. Stava deliberatamente cercando di ferirla, di riportare a galla vecchie ferite del cuore e dell’orgoglio che sapeva lei aveva ancora difficoltà a digerire. Ma, al contrario, la ragazza sorrise: non poteva modificare il passato, non poteva tornare indietro e cambiare le cose; si era innamorata di lui, era stata con lui, era stata tradita da lui. Non esistevano formule magiche per cancellare quanto successo, e, a onore del vero, lei non le avrebbe nemmeno volute. Mannino era stato un errore necessario, per crescere, per capire cosa non desiderare in un ragazzo. Rappresentava l’uomo perfettamente sbagliato che ogni donna ha avuto almeno una volta nella vita, grazie al quale comprendi ciò di cui hai bisogno e ciò di cui puoi fare tranquillamente a meno. Cecilia ora sapeva di poter tranquillamente fare a meno di lui e vivere serena.
- E, invece, io vorrei che qualcosa di serio di noi ti rimanesse…
Cecilia fece un passo in avanti, gli appoggiò le mani sulle spalle, così come aveva fatto dopo il Firefly, e avvicinò la testa alla sua. Per un attimo, Matteo vacillò, confuso dall’espressione eccitata e di sfida di Mannino, ma quando udì il rumore secco del ginocchio della biondina che urtava l’inguine del ragazzo, non riuscì a trattenere una risata. Soprattutto per la smorfia di dolore sulla faccia dell’idiota.
- Ahia! Cazzo… porca… ah! – Niccolò si resse ad un albero, blaterando frasi senza senso, mentre Cecilia gli sussurrava in un orecchio.
Un danno permanente, ad esempio. Salutami Clara.
Lo lasciò lì, ad inveire sottovoce contro di lei, e raggiunse Matteo, che la osservava sbalordito, ma compiaciuto. Le circondò le spalle con un braccio, attirandola a sé.
- Sei piccola, ma picchi forte! – le disse, prima di posarle un bacio sui capelli. – Pensavo fossi il classico tipo che aspetta che il karma faccia il suo corso…
- Beh, qualche volta il karma ha bisogno di una mano. – O di una ginocchiata. – Tu, piuttosto, immagino sia un caso che il nostro appuntamento sia cominciato proprio davanti a Niccolò.
- Un caso, esatto, – si finse serio.
- Hai molte cose da spiegare, mio caro, – lo redarguì.
- Taci, Molinari, ti conviene. Mi devi ancora chiarire chi cavolo sia questo sfigato di Storia greca.

 

Quella settimana scorse rapidissima. Cecilia aveva programmato di cominciare ad informarsi per la scelta della laurea specialistica, ma l’unica cosa in cui si applicò tenacemente in quei sette giorni fu trovare il modo di saltare quante più lezioni possibili per trascorrere del tempo nel giardino o nel chiostro dell’università o semplicemente a ronzo per Verona. In compagnia di Matteo, s’intende. Ma anche quando si riprometteva di frequentare un corso, la sua testa era altrove. Persino Gianluca se ne era accorto e cominciava a lamentare una certa insofferenza a tanta felicità. Il suo problema, in realtà, era l’assenza di Carlo, in settimana bianca con la famiglia; quella, infatti, era stata l’idea finale che i Teletubbies avevano avuto per guadagnare altro tempo prezioso e sostituire la defunta bottiglia di Bolgheri Sassicaia: allontanare il signor Rastrelli. Carlo odiava la montagna, ma si era dovuto sacrificare per la causa. Ad ogni modo, quel giovedì sera sarebbe finalmente tornato. Gli altri lo stavano aspettando da quasi mezzora, seduti in un piccolo bar del centro.
Avevano chiesto al cameriere di ripassare più tardi già tre volte per attendere lui e Lisa ormai aveva un diavolo per capello: stava morendo di sete e quel cretino sembrava non arrivare più. Si chiedeva davvero perché dovessero sempre portarselo appresso… un barboncino sarebbe stato più bello da vedere e meno rompiscatole. La Zanin continuò a battere il piede sul pavimento, sbuffando, ma nessuno sembrava abbastanza attento per darle corda; Matteo e Cecilia si stavano lanciando sguardi diabetici dalle due estremità del tavolo e Lamberti si stava facendo una sigaretta con cartine e tabacco. Ebbe tutto il tempo di fumarla in tranquillità, di Carlo nemmeno l’ombra. Fu soltanto quando avvertirono il rumore di una Vespa scassata che stava risalendo il vialetto che capirono che Lisa poteva smettere di martellare i sanpietrini con la scarpa.
Rastrelli scese quasi al volo dal motorino e lasciò che cadesse, battezzando anche il lato buono, quello sul quale non aveva ammaccature da cancello e dissuasori stradali. Di sicuro una bella strisciata sul cemento avrebbe dato quel quid alla carrozzeria.
Cecilia e gli altri lo guardarono sbalorditi correre verso di loro, sganciarsi di tutta lena il casco e quasi lanciarlo nello stomaco a Matteo.
- Ma che cavolo…? – Lisa era già in prima linea per rimbrottarlo.
- Stai zitta, parlo io, – le urlò, stupendo tutti. – Sono pronto a prendermi le mie responsabilità. Non ti lascerò crescere il bambino da sola. Io ti ho messo in questo casino, io ti aiuterò.
Nessuno fiatò per i primi cinque secondi, poi ci fu solo un gigantesco marasma.
- Tu l’hai fatto con Carlo? Quando, dove, perché?
- Ecco chi era allora!
- Tu? Tu? TU? No. No. NO.
- Ditemi che lo chiamerete Gianluca!
- Silenzio!
Fu Rastrelli ad urlare disperato per cominciare a riordinare le idee, oltre il terzo grado di Cecilia, le scoperte di Matteo, i monosillabi di Lisa e le richieste idiote di Lamberti. Lui stava per diventare papà, e che cavolo! Lui, papà. In un primo momento aveva pensato di dirlo a suo padre, di chiedergli di visitare la Zanin, di aggiustare lei e la sua… capito, no?
- Come hai osato toccarmi con le tue manacce? – gli si scagliò contro proprio Lisa.
- Fermati! – le bloccò il polso. – Non arrabbiarti, pensa al bambino!
Carlo riuscì solo nell’intento di farla infuriare ulteriormente.
- Ma che bambino e bambino? Non sono incinta, imbecille! Avevo solo un prurito intimo!
Cecilia sbarrò gli occhi, quando per la prima volta nella sua vita vide Lisa Zanin in autentico imbarazzo. Era rossa come un peperone. Eh sì, la scoperta di essere stata a letto con niente meno della sua decerebrata nemesi, doveva fare davvero male all’orgoglio.
- Ma il vomito… Gianluca mi ha detto… – cercò di spiegare Rastrelli.
- Ehi, fratello, – lo interruppe Lamberti, che sembrava in uno stato catalettico peggiore del solito. Forse non era solo una sigaretta quella di poco prima… – calmati. Avrò toppato, che ti devo dire?
- Era solo cibo cinese avariato, – gli spiegò Cecilia bonaria.
- Quindi non diventerò papà?
Rastrelli non era mai stato particolarmente sveglio, perciò nessuno si stupì che avesse bisogno di rassicurazioni in merito all’improvvisa interruzione di gravidanza mentale.
- No, Carlo, – gli rispose Matteo.
- Allora offro da bere a tutti!
Il cameriere si affacciò da dentro il locale, attirato dalle voci concitate dei ragazzi. Mostrò loro una busta di cartone dalla quale spuntava un enorme fiocco dorato con delle stelline glitterate.
- A dire il vero, è appena passata una signora cicciottella con un medaglione strano e ha lasciato questo per voi.
Cecilia prese in mano il dono misterioso e lo sfilò dalla borsa. Strappò la carta regalo e scoprì una cassetta di legno. All’interno, vi era adagiata una bottiglia di Bolgheri Sassicaia del 1997.
Maestri – che era stato messo al corrente del fattaccio da Gianluca, alla ricerca di menti fresche per risolvere il problema – diede una pacca sulla spalla a Carlo.
- Sembra che sia la tua giornata fortunata, Rastrelli: non diventerai padre e non dovrai vendere un rene per ricomprare il vino.
Il mancato papà era troppo contento delle buone novelle, – chiaro segnale dell’esistenza di un nuovo dio di sua invenzione che aveva a lungo pregato –, per pensare di formulare la domanda più intelligente in quei casi.
- Ma chi l’ha mandata? – domandò al posto suo Lisa.
Cecilia trovò la risposta in un biglietto da visita nascosto sotto la bottiglia.

 

"Sale in zucca"

della Fata Turchina

Vicolo della Polvere della tua scrivania, lato sud-est

Quando avrai bisogno, verrò.

Fatima.
Cecilia guardò Matteo ridere con Lamberti, Lisa lanciare maledizioni a Carlo e sorrise: era tremendamente fortunata. Poteva avere dei genitori immaturi, una futura matrigna odiosa, due arpie e un ex fidanzato pronti a complicarle l’esistenza, ma aveva anche un pesce rosso saggio e muto, tre amici insostituibili, un angelo custode con uno strano medaglione e un Superman biondo strizzato in una tutina aderente.
La sua vita le piaceva da morire.
La perfezione meglio lasciarla alle fiabe.




Carrellata di note: Legolas è ovviamente un personaggio de “Il Signore degli Anelli”. Il Bolgheri Sassicaia è un vino esistente, scelto del tutto a caso tra i più pregiati d’Italia. “Scemo e  Più scemo” è un film del 1994 con Jim Carrey e Jeff Daniels. Le amiche della madre di Matteo NON sono assolutamente inventate e le potete trovare, secondo il grado di pericolosità qui: _CalineSYLPHIDE88,IoNarrantenes_sie. L’aneddoto sul re Gustavo III di Svezia è vero e indovinate dove l’ho trovato? La “dichiarazione” di Franzoni a Melissa è, come scritto, una citazione del film “Orgoglio e pregiudizio” del 2005 con Keira Knightley e Matthew MacFadyen. Flora, Fauna e Serenella (Serena) sono le tre fate madrine de “La bella addormentata nel bosco”. 
Detto questo, vi ringrazio di avermi accompagnato fino alla fine di questo strano esperimento, che credo rimarrà unico perché non ho in programma – per il momento – di scrivere altre storie del genere. Però sto già lavorando su parecchie cose, ma presto comincerà la sessione, ergo al massimo pubblicherò one-shot originali o fanfiction.
 
Bene, grazie delle recensioni (a cui ho già risposto), grazie a Nessie di aver betato e a Laura del bellissimo banner (che vedrete prossimamente) :)
 
Baci!
 
S. 

   
 
Leggi le 6 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Romantico / Vai alla pagina dell'autore: HappyCloud