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Autore: Perla_Nera    10/01/2013    4 recensioni
Jackie è a Londra, scappata da una claustrofobica situazione familiare, che, pian piano, la stava consumando come fosse cenere. Nella moderna metropoli si ritrova ad affrontare quelle che sono le difficoltà e le insicurezze che una giovane donna incontra tra i propri passi quando riconosce il cambiamento della crescita. Dopo che la vita, in passato, le ha insegnato solo razionalità e cinismo incontra qualcuno pronto a scombussolare i suoi fasulli equilibri. Un qualcuno che le svela il suo mondo, le spiega che i sogni non feriscono e, anche se su di lui incombe la più grande ombra di follia, le mostra le scelte che ognuno di noi può prendere in considerazione. Jackie si ritrova, così, sul precipizio di una cascata costretta dal suo cuore e dalla sua mente a decidere se tornare indietro o tuffarsi nel vuoto.
Genere: Generale, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Il principe di Londra

Capitolo 3



Nonostante fosse trascorsa una settimana dalla rapina in caffetteria Mike era ancora agitato e, quando il suo umore non era dei migliori, non era facile stargli accanto. Fortuna, però, che quello era il mio giorno di festa.

Grace era all’università così decisi di andare a fare un giro al parco vista quella rara e calda giornata di sole. La primavera era ormai alle porte e l’aria sembrava già acquistare il dolce profumo dei fiori. Le panchine di ferro battuto erano disposte in senso circolare intorno a quella che era una grande aiuola centrale, ricca di svariate piante. Il resto del parco consisteva in sentieri di pietra, tra le ampie distese di verde, ancora però, ricoperte di foglie qua e là. Il violento odore di smog tuttavia non risparmiava neppure quel luogo dedicato alla natura. Solo una lieve brezza portava un po’ di purezza all’aria.
Una donna sfilò fiera davanti a me che me ne stavo seduta e rannicchiata quasi nella mia giacca. Aveva lunghi capelli lucidi e curati di un energico color caramello. I suoi occhi erano coperti da grandi lenti da sole scure e le labbra erano tinte di un peccaminoso rosso ciliegia. La sua camminata decisa riproduceva il suono ritmico dei tacchi alti,  che indossava e portava con alterigia. Una delle mani era occupata a tener su la borsa da giorno incastonata da dettagli oro, mentre, l’altra, reggeva all’orecchio un telefono di ultima generazione.
- Si, me l’ha chiesto! Ci sposeremo a fine mese. Sono così emozionata Diana…
Le sue parole volarono tra il vento nella manciata di secondi durante i quali attraversò quel tragitto che mi era vicino. La guardai con invidia, un’invidia buona e malinconica.
Il matrimonio a me spaventava. La mia testa non riusciva proprio a capacitarsi del perché la gente decideva di sposarsi nonostante conoscesse perfettamente le conseguenze di quell’unione. I fidanzati sono amanti, coloro sposati, invece, sono conviventi. Non potevo fare a meno di pensarla in quel modo. Il matrimonio sembrava corrodere tutto ciò che negli anni o nei mesi precedenti si era costruito con amore. Entrava in ballo la diffidenza, la gelosia, l’egoismo e l’esasperazione. E ciò che era peggio, è che non si poteva tornare indietro. Non era, per me, una coronazione dell’amore, ma una condanna vera e propria, che portava alla frantumazione del rapporto e all’autodistruzione.
Si, lo so, la mia opinione al riguardo era alquanto pessimista ma, dalla mia esperienza, non riuscivo a vederla diversamente. Era stato forse il matrimonio dei miei genitori a farmi avere questa negativa considerazione dell’argomento. Le persone cambiano e purtroppo,  quando si è vincolati in un legame del genere, non si può mollare tutto, nonostante la persona al tuo fianco non sia più la stessa.
Fu alla locanda londinese di mio padre che si incontrarono i miei genitori. Mia madre, Eliza, era in viaggio con un’amica e, durante una sera estiva, incontrò questo alto e affascinante Hank. Si innamorarono e mia madre dopo diversi viaggi di andata e ritorno decise di rimanere in città. Nacque Fiona, mia sorella e solo dopo il matrimonio decisero di dare alla luce un'altra figlia, cioè io. Ricordo gli anni a Londra come i migliori. Un’infanzia felice, spensierata e alquanto agiata. La locanda di mio padre aveva successo e i guadagni erano sempre molto buoni. Mia madre poteva permettersi di restare a casa ed occuparsi delle faccende domestiche nonostante lei stessa, però, non riuscisse a stare senza far nulla. Il rapporto con mio padre era speciale. Lui mi coccolava, mi raccontava la favola della buonanotte e mi proteggeva. Era il mio gigante buono e io ero per lui un piccolo fagotto da difendere dal mondo esterno. Ricordavo ancora le lunghe passeggiate quando mi portava con lui a lavoro oppure quando, con la sua vespa, mi accompagnava a scuola ogni mattina. Ero la sua bambina anche all’età di tredici anni. Smisi però di esserlo a quattordici.
La morte di mio nonno provocò in Hank, è così che poi cominciai a chiamarlo, un profondo dolore tanto da mutare il suo carattere, il suo atteggiamento e forse i suoi sentimenti. La sua famiglia era come scomparsa e tutta la sua vita cominciò a ruotare intorno a ciò che lo distruggeva giorno dopo giorno: l’alcol.
Vendemmo la locanda e dopo mesi e mesi, in cui mio padre si ostinava a non cercar lavoro, decidemmo di trasferirci ad Ennis, in Irlanda, dove mia madre riprese la piccola attività familiare. Se Hank non era sul divano oppure a letto, si trovava sicuramente in qualche bar. Non diceva buongiorno al mattino e salutava a stento quando si entrava in casa. Divenne burbero e accigliato. Il suo atteggiamento era lo stesso tutta la giornata. Allontanò mia madre, allontanò Fiona e allontanò me. Io, d’altronde, non capivo il perché. Non capivo perché si comportasse in quel modo quando proprio per un dolore così intenso, quale la perdita di una persona cara, avrebbe dovuto cercare l’affetto e l’appoggio della sua famiglia. Noi provavamo a spiegare o chiarire, lui sbraitava e mia mamma piangeva. Io, per quel che mi riguardava, mi arrabbiavo. La rabbia era talmente forte da scappare di casa per un giorno o due, ma non potevo lasciare mia madre da sola ad affrontare tutto questo, non potevo non provare a renderla felice con quel che potevo.
Passai le dita sotto agli occhi per asciugare la pelle dalle lacrime che volevano venir fuori prepotentemente. Ricordai di avere dei fazzoletti in borsa che cercai di afferrare tra il caos di cianfrusaglie che c’era.  Ripulii dal mascara colato gli occhi, aiutandomi con uno specchietto e prima che potessi rimettere tutto a posto nella borsa, un husky dal pelo bianco e grigio cominciò a saltare sulle mie gambe scodinzolando. Per la sorpresa mi volò via lo specchietto. Adoravo gli animali ed in particolar modo i cani, quindi non potei fare a meno di accarezzarlo e concedergli le coccole che mi chiedeva.
- Ciao cucciolo… - dissi intenerita dai suoi occhi ghiaccio.
Aveva un guinzaglio nero al collo che penzolava tra le sue zampe. Mi guardai attorno per cercare il presunto padrone che se l’era fatto scappare rigettando in borsa lo specchietto.
- Jack! Jack bello dove sei? Jack!
Mi alzai di istinto afferrando il guinzaglio di quello che capii chiamarsi Jack. Cominciai a guardarmi intorno quando con mia sorpresa avvistai il padrone.
- Non ci posso credere…
- Mi sa che è destino allora!
Harley si avvicinò lentamente e prima che potessi cedergli il guinzaglio si calò a salutare il suo cane con delle carezze.
- Jack è affettuoso. – disse rivolgendosi a me come a giustificare il gesto del cucciolo.
- Nessun problema, adoro i cani! – risposi con un sincero sorriso, passando nelle sue mani il guinzaglio mentre si rialzava da terra.
- Credo che tu gli piaccia parecchio! – disse divertito osservando Jack farmi le feste.
- E’ davvero meraviglioso. Quanto ha?
- Il prossimo mese farà un anno e mezzo.
- E’ un cucciolo… - sussurrai mentre Jack si lasciava accarezzare dalle mie dita che sprofondavano nel suo pelo.
- Come mai qui? Aspetti qualcuno?
- No, no. Sono sola. Avevo voglia di stare un po’ all’aria aperta.
- Ti va di… passeggiare?
Harley quella mattina pareva più bello del solito. Forse era la luce del sole che sembrava illuminargli gli occhi. Il suo volto era solare e le sue labbra sempre distese in un caldo sorriso. Avvampata da un leggero imbarazzo abbassai lo sguardo.
- Si, perché no!
Iniziammo a camminare lungo i sentieri del parco, seguendo Jack che schizzò avanti entusiasta.
- Come va alla caffetteria? L’ultima volta che ci siamo incontrati per caso, era accaduta quella sfortuna…
- Mike, il titolare, è ancora sotto shock. Lui è un tipo abbastanza suscettibile e questa cosa ancora non gli passa!
La luce brillante del sole filtrava tra le foglie degli alberi ancora un po’ ingiallite, creando un magico gioco di colori. Qualche fiore qua e là cominciava a spuntare tra l’erba fitta, tinteggiando di colore le distese di verde. Camminavo catturando con lo sguardo tutti quei dettagli, forse per non imbattermi nei suoi occhi oppure semplicemente per seguire il percorso del parco.
- Mi dispiace. In passato hanno derubato anche casa mia. Presero di tutto, televisori e oggetti di valore.  So che significa, si ha sempre il terrore che questo possa riaccadere.
- Abiti qui vicino? – chiesi approfittando per conoscere qualcosa in più di lui.
- Si, non lontano da qui.
Dopo qualche secondo di imbarazzo mi decisi a parlare.
- Parlami di te! L’altra volta risposi solo io alle tue domande…
- Cosa ti va di sapere? – chiese sorridendomi. Abbassai lo sguardo impacciata cercando di riformulare le idee.
- Non so. Mi chiedesti della mia canzone preferita dei Coldplay, la tua qual è?
- Senza dubbio Lovers in Japan!
- Perché? – sussurrai.
- Le parole di quella canzone spesso mi sembrano così vicine a quella che è la mia vita! – disse scuotendo leggermente la testa e socchiudendo gli occhi a causa della luce del sole che ora abbagliava proprio di fronte a noi. Arricciò le labbra e passò una mano tra i capelli, per risistemare le ciocche ribelli che scesero sul suo volto.
- E com’è la tua vita? – chiesi incuriosita cercando di non essere invadente.
Harley  titubò un po’ sorridendo e seguendo con lo sguardo Jack. Aggrottò la fronte e, con la mano libera dal guinzaglio, prese ad accarezzarsi lentamente la barba rada. I suoi occhi, per pochi secondi, erano come persi in qualcosa che io non riuscivo a vedere, qualcosa di invisibile, qualcosa che, probabilmente, esisteva solo nella sua mente.
- Beh, potrei definirtela in breve come “ricca di passioni”. – disse dopo aver emesso un sommesso sorriso.
Voltò il viso e mi guardò; le sue iridi erano illuminate dalla luce dei raggi del sole. Il verde giocava ora con il color miele e lo sguardo profondo si assottigliò quasi a diventare misterioso e sensuale. Mi guardava come per ammaliarmi, i suoi occhi mi incatenarono facendomi arrossire lievemente. Ma forse era solo la luce che gli dava fastidio.
- E quali sono queste passioni? – gli chiesi staccandomi da quella presa visiva e abbassando repentinamente lo sguardo sui miei passi.
- Amo la fotografia. Non sono un professionista, non ho mai studiato. Ma mi diletto con la mia macchina fotografica. Poi adoro Jack – sorride guardandolo – e… il giardino di mia nonna!
Incuriosita non potei fare a meno di chiedergli a riguardo.
- Cos’ha di speciale? Non fraintendermi, non è per sminuirlo… - sussurrai  titubante.
- E’ la passione stessa con cui lei lo cura e come lo ha sempre fatto. – sembrò riflettere un istante tra i suoi pensieri - Il profumo, ecco! Amo il profumo di quel giardino.
- Le fai spesso visita quindi?
- In verità abita con me e Amélie. Teoricamente potrei anche presentarlo come il giardino di casa mia, ma se ne è sempre occupata mia nonna Yvonne.
- Yvonne, è davvero un bel nome! – affermai convinta.
- Mia nonna è francese. Si trasferì qui a Londra dopo il matrimonio con un alto e aitante militare, mio nonno. – le sue labbra si distesero leggermente a quel ricordo.
- E il tuo nome, invece?! I tuoi sono amanti delle moto?
Il suo sguardo si incupì di colpo. Qualcosa l’aveva toccato per un paio di secondi e portò la mano al mento accarezzandosi, come prima, la barba.
- Ti va un the?
Mi prese completamente alla sprovvista. Mi osservava con un pizzico di malinconia sul volto ma mi sorrise come se nulla fosse.
- O una cioccolata?
- Ehm… Vogliamo passare in caffetteria? – chiesi senza rendermene conto di aver accettato nell’immediato.
Mi piaceva stare con lui e non volevo che quegli istanti terminassero. Sembrava come se non pensassi più a nulla con razionalità. Io, la persona più razionale di questo mondo… Era una strana sensazione. Non riuscivo a capire se era lui o ciò che io ero con lui. I dubbi mi attanagliavano ma ero incapace di riflettere realmente.
Ci eravamo fermati e i suoi occhi mi asservirono nuovamente.
- In verità volevo mostrarti il giardino e farti conoscere mia nonna Ivonne, se ti va…
Jack strusciava il suo pelo contro il tessuto spesso e slavato dei miei jeans mentre la mia mano lo accarezzava istintivamente. Avvampai di nuovo costretta a prendere una decisione.


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Note: Eccomi con il terzo capitolo!!! Spero vi sia piaciuto. Purtroppo vado di corsa ma non volevo rimandare ancora la pubblicazione. Vi ringrazio di cuore per aver inserito la storia tra le vostre e un enrome ringraziamento per le vostre recensioni. Non vedo l'ora di leggerne altre **
Vi ricordo il link della pagina dove potrete seguire gli aggiormenti e tant altro http://www.facebook.com/PerlaSavvy
Vi mando un forte abbraccio, Perla ♥
   
 
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