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Autore: Sophia Holloway    10/01/2013    2 recensioni
«Devo morire» annunciò.
«Che novità. Anch’io devo morire. Spero a novant’anni, magari dormendo» ironizzai.
«Io però non morirò a novant’anni, magari dormendo. Morirò a breve, perché la Morte ha deciso di divertirsi ancora un po’ con me, invece di farmi riposare in pace facendomi stirare sull’asfalto da un’auto».
«Senti. Tu non stai per morire, ok? Il fatto che tu abbia evitato la morte per un soffio non vuol dire che… che la Signora con la Falce, o che so io, si è offesa e adesso ti verrà a cercare…».
«Te l’avevo detto, che non mi avresti creduto» disse, fredda, quasi offesa o delusa.
Lasciarla andare sarebbe stato semplicissimo. Ma chissà perché, avevo sempre disprezzato le cose semplici.

Prima classificata al contest "Cosa vorresti fare prima di morire?" gestito da ErinThe
Genere: Malinconico, Romantico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Another Chance to Live

 

Like walking into a dream, so unlike what you've seen
so unsure but it seems, 'cause we've been waiting for you
Fallen into this place, just giving you a small taste
of your afterlife here so stay, you'll be back here soon anyway
I see a distant light, but girl this can't be right
Such a surreal place to see so how did this come to be
Arrived too early
And when I think of all the places I just don't belong
I've come to grips with life and realize this is going too far
I don't belong here, we gotta move on dear
Escape from this afterlife
'Cause this time I'm right to move on and on, far away from here
A place of hope and no pain, perfect skies with no rain
Can leave this place but refrain, 'cause we've been waiting for you
Fallen into this place, just giving you a small taste
of your afterlife here so stay, you'll be back here soon anyway
 
Oh Lord I'll try so hard but you gotta let go of me
Unbreak me, unchain me, I need another chance to live

[Afterlife, Avenged Sevenfold]



Prologo.
Boulevard of Broken Dreams


Sono in un lungo viale. Un sentiero sterrato taglia in due quello che sembra un bosco; agli alberi grigiastri dai rami ampi sono appese delle lucine dorate, simili a quelle di Natale, ma rotte e dall’aria vecchia. La maggior parte sono fulminate.
Sono in un lungo viale, e non so come ci sono finita.
Dietro di me c’è un cancello di ferro battuto nero, alto almeno sei metri, che abbraccia tutto il bosco e sparisce oltre gli alberi, dove probabilmente continua ancora. Capisco che è un anello. Il cancello serve a tenermi dentro. Non vedo cosa c’è fuori, anche se sono sicura che qualcosa ci sia; è come nei sogni, indistinti e sfocati ma dannatamente reali.
Nei sogni sai tutto; io non so nulla.
Un vento forte ma né caldo né freddo prende a soffiare, e muovo un passo lungo il viale. Poi un altro, e un altro, finché non mi lascio alle spalle quel bosco di alberi che sembrano ossa. Ho camminato in salita, e ora sono su una collina. Il bosco si estende tutt’intorno, e una sottile nebbia impedisce di vedere l’orizzonte. In mezzo alla nebbia emerge un suono, le note di un pianoforte, e poi balugina una luce dorata, quadrata. Una finestra.
Quando avanzo ancora riesco a vederlo: è un saloon, un saloon del vecchio west, fatto dello stesso legno bianco sporco degli alberi della foresta, e dall’aria cadente; l’insegna tarlata è avvolta dalla nebbia.
Spingo la porta a due ante, che mi lascia passare e torna al suo posto, alle mie spalle, ondeggiando senza emettere suono.
Dentro tutto è in rovina e coperto da uno spesso strato di polvere, da un tavolo rotondo rovesciato sul pavimento ai lampadari di vetro, al bancone, alle bottiglie di liquore stipate sulle mensole subito dietro. L’unica cosa intatta è il pianoforte.
Un ragazzo sta suonando. Indossa una giacca rosso scuro con il colletto ed il bordo delle maniche nere; i pantaloni, le scarpe lucide e il cravattino che penzola sciolto sulla camicia immacolata sono dello stesso colore. Ha i capelli ricci, quasi a molle, a ciocche rosso scuro, color rame e nero fuligginoso. Suona una melodia lenta, e non solo. Canta. Sta cantando a voce bassa.

«Hide my head I want to drown my sorrow
No tomorrow,
No tomorrow.
 
And I find it kinda funny
I find it kinda sad
The dreams in which I'm dying
Are the best I've ever had
I find it hard to tell you
I find it hard to take
When people run in circles
It's a very, very Mad World,
Mad World…».


Smette quando faccio cigolare un’asse del pavimento con la punta di un mio stivale. Penso che non ho mai avuto stivali così: sono grigi, alti, pieni di lacci che li stringono fin sotto il ginocchio, con un piccolo tacco. Non ho mai avuto nemmeno il vestito. È azzurro spento, stretto all’altezza delle costole, finisce dove iniziano gli stivali; ha le maniche corte a sbuffo ed un colletto stretto che però è un po’ sbottonato.
Rialzo lo sguardo e vedo il pianista che mi guarda. Mi ero fatta avanti per vederlo in viso, ma vengo delusa. Non posso. È coperto da una maschera bianca, rigida, dalle sopracciglia fino a lasciare scoperte le labbra. Gli occhi che mi tengono inchiodata sono di un brillante azzurro ghiaccio, a tratti grigi. Sono bellissimi ma inquietanti, gelidi. Per un attimo ho l’impressione di essere totalmente trasparente, per lui. Poi mi sorride, girandosi del tutto verso di me.
«Ciao, Juliet» dice. È il mio nome, Juliet. Fino a un attimo fa non sapevo nemmeno questo. Non gli rispondo.
Si alza e si avvia verso il bancone da bar. «Vieni», mi dice. Mi siedo su uno degli sgabelli alti, mentre lui armeggia con le bottiglie di liquore. Le osserva con aria critica, poi sbatte due volte una mano sul bancone, facendomi sussultare. La polvere sul banco e sugli scaffali si solleva a mezz’aria e rimane lì, a un metro scarso dalle nostre teste, come nuvole scintillanti e argentee. Il ragazzo sceglie una bottiglia e due bicchieri, li riempie con due dita di liquido ambrato e me ne porge uno. Senza pensarci troppo bevo, e il sapore forte mi brucia la gola.
Ma è solo un sogno, mi dico.
«Chi sei?» chiedo dopo aver svuotato metà del mio bicchiere.
«Non ho un nome» risponde, osservando il bicchiere ancora intatto. La sala è illuminata da poche candele, che gettano una luce troppo forte e chiara per essere normali.
«Tutti hanno un nome» replico.
«Infatti non ho un nome. Ne ho tanti». Lo guardo, scettica, e lui m’ignora.
«Com’è andato il viaggio?» chiede invece.
«Che viaggio?».
«Ah. Sei una di quelli» capisce con un sorrisetto e uno scintillio negli occhi. Io non capisco nulla.
«Quelli quali?».
«Quelli che non ricordano».
«Cosa dovrei ricordare?».
Mi fissa per un lungo attimo. «Tu sei morta».
«Non è vero» dico, sicura.
«È verissimo. Sei morta. Sei stata investita da un’auto». Nel momento in cui lo dice, ricordo il rumore prolungato di un clacson, un dolore bruciante in tutto il corpo. E il vuoto. Il vuoto oltre i cancelli.
Capisco che oltre quel vuoto c’è la vita, la mia vita.
Prima che possa rendermene conto sono di nuovo di fronte al cancello, a scuoterlo, a spingere e tirare, ma quello non fa una piega, non tremola neppure. Lui è dietro di me, a osservare i miei patetici tentativi, le mani affondate nelle tasche dei pantaloni. «Non funzionerà», dice.
«E io ci provo lo stesso!».
«Non mi pare che sia la filosofia che hai adottato nel corso della tua vita» osserva, pacato.
«E che ne sai?» ringhio. «Chi sei?».
«Qualcuno che ti ha osservata bene in tutto questo tempo».
«E che vuoi da me?».
«Aiutarti».
Faccio una risata amara e torno a dedicarmi al cancello; esasperata, gli tiro un calcio. Solo ora noto che ha una serratura. E che lui ne sta sventolando la chiave, facendola penzolare davanti a me, invitante. «Posso rimandarti indietro, se vuoi».
Irrigidisco la mascella, combattuta e diffidente. «Perché dovresti?».
«Pietà» mormora, liquidando le sue parole alzando le spalle.
«Non voglio la tua pietà» sputo, irritata.
«E allora prendilo come un favore. Torna indietro, metti le cose a posto… realizza i tuoi sogni, che ne so».
Sbuffo, quasi divertita. «Non ho grandi sogni».
«Siete strani, voi dell’altra parte» borbotta. «Pensate che le cose grandi siano solo quelle impossibili. Torna lì e fai quello che ti pare».
«Perché mi fai andare via?» chiedo, ancora dubbiosa. «Che t’importa?».
Si stringe nelle spalle, sorridendo sornione. «Io ti ho fatta entrare, io ti faccio uscire. E qui non c’è molto da fare».
Non voglio prendere in considerazione l’idea, perché so che è impossibile. Ma non posso evitarmi di ordinare: «Allora fallo».
«Ci sono delle condizioni».
«Quali?».
«Ti rispedirò nel momento in cui sei morta, ma cambierò le cose. Avrai altro tempo a disposizione, ma sarà limitato, e non potrai sprecarne un solo attimo, perché prima o poi dovrai tornare qui, e la morte non ama lasciare andare le sue vittime. Non avrai una seconda possibilità».
Mi lancia la chiave e io non esito a metterla nella toppa. I cancelli si spalancano e il nulla, simile a denso vapore grigio perla, inizia a inghiottirmi.
«Vivi ogni attimo del poco tempo che ti rimane come se fosse l’ultimo: perché presto uno sarà l’ultimo» mi raccomanda, suadente, mentre la nebbia mi si avvolge attorno come se avesse dei tentacoli.
Quando mi è rimasta fuori solo la testa, mi saluta toccandosi la fronte con due dita. «Ricordati, però, che chi ha molto ha anche molto da perdere», avverte. Troppo tardi.
La frase mi fa scendere un brivido freddo lungo la schiena. Inizio a dibattermi, tentando di liberarmi dal vapore che, se prima sembrava l’accesso a una seconda chance, ora mi appare come una trappola. Una forza misteriosa mi trattiene, mi riporta indietro a forza.
«Chi sei?» urlo, e stavolta pretendo una risposta. «Chi sei?!».
Fa una risata bassa e inquietante, e quando il fumo arriva ad appannarmi la vista sono convinta che non lo saprò mai. Poi, però, sento la sua voce forte e chiara, come se stesse sussurrando al mio orecchio.
«Sono Thanatos, sono Tod, sono Shi, sono Muerte, sono Mewt, sono Death» elenca. «Tu mi chiami Morte».




--
Angolo dell'autrice

Salve a tutti *agita la mano*
Non so assolutamente cosa dire quindi salto subito al punto:
questo è solo il prologo, ha uno stile lievemente diverso da quello dei capitoli
successivi, e soprattutto serve soltanto ad introdurre la vicenda.
Anche se è poco, spero che serva a intrigarvi abbastanza da farvi tornare a leggere questa storia.
Se vi va, o se non avete nulla da fare, mi farebbe piacere ricevere qualche
vostra recensione, positiva o negativa che sia.
Alla prossima,
Soph.

  
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