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Autore: manicrank    11/01/2013    1 recensioni
Akira Suzuki - Racconto di un'ossessione
Genere: Dark, Erotico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Kai, Reita
Note: AU, Lemon | Avvertimenti: nessuno
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Devo fare una premessa, assolutamente. La storia presenta lemon ma non sono descritte. Non so come spiegarvi. Quindi ho deciso per il rating arancione dal momento che non c'è alcuna descrizione esplicita. Se la cosa non vi dovesse andare bene ditemelo che alzo il rating a rosso. 
Spero vi piacerà.
@manicrank




















 

Di sperma e di sangue









Con le mani pallide gli presi il viso. I suoi occhi d'ossidiana sembravano star marcendo, così come la sua anima senz'ali. Ed io deglutii, perdendomi in quel nero profondo, quel nero di spine. Seguii come fece Perseo nel labirinto, l'idea di quel mito, ma non avevo alcun filo a cui aggrapparmi dopo.

Mi ci gettai capofitto, sentendomi scottare, mi ci gettavo perché ormai era l'unica cosa che mi era rimasta. E lo scrutavo quasi stessi specchiando me stesso nei suoi occhi, mentre affogavo nel petrolio, mentre chiamavo aiuto senza aprir bocca.

E sospiravo, e gemevo. Non sapevo nemmeno io per cosa.

Ma quelle sue mani che sembravano scolpite, dalle vene a rilievo violacee e la pelle scura ed olivastra, che ricordava tanto il sole, sembravano fatte apposta per posarsi su di me. Per stringermi i fianchi ora nudi ora vestiti. Ed i suoi occhi di spine, affilati come lame, mi si piantavano nella carne ed alzavano ogni tendine per arrivare nel mio centro più intimo, per strapparmi e lacerarmi anche la sottile anima sporca.

Lui era la mia salvezza. Da dieci anni ormai. Non mi aveva abbandonato.

E chiusi gli occhi incapace di sostenere più i suoi, mi stava spogliando facendomi restare vestito. Mi stava scopando in modo violento mentre stava fermo. Quel suo corpo perfetto e solido, come un albero che affonda le radici alla terra e si alza al cielo, semplicemente standomi vicino sembrava fottermi. E non avevo parole dolci per lui da riservargli, non avevo grazie e non avevo prego quando finiva. Non avevo nemmeno un ciao. Perché dalla mia bocca dopo non riusciva ad uscire più nulla, graffiata nel profondo da quelle spine voraci e da quelle labbra di fiamma.

E lui coi capelli corvini e gli occhi uncinati, sotto l'incessante pioggia di metallo, veniva a porgermi l'ombrello sgualcito tenendomi per la mano.

Mi portava a riva dalla corrente d'urli e gemiti e con un solo gesto mi raccontava il mondo ed i suoi sogni. Stavo ore a sentirlo parlare quando non diceva nulla.

Lui che mai seppe di me, e dei miei strani pensieri. Lui che mai sentì da me un grazie, un prego ed un ciao. Ogni tanto saltava il nostro appuntamento di sabato sera, sul tardi, quando le case erano sbarrate ed i letti spalancati. Perché lui in realtà non aveva un appuntamento con me, mai. Ero solo ciò che passava il convento. E volevo affondargli le mani tra i capelli ogni momento e bearmi del calore di quel sole impuro che mi ustionava, e volevo farlo stendere sul giaciglio con un sospiro lento, sedermi su quelle gambe toniche e sfilargli ogni indumento, uno per uno, gettandolo in aria e facendolo perdere. E volevo chinarmi e leccargli il ventre, seguirne le morbide onde dei muscoli, morderlo, senza dolore, e donargli solo piacere.

Una sera, ricordai d'improvviso, mi disse che ero una fuga dal mondo malato in cui lui viveva. Non seppi mai cosa facesse nella vita, era un mistero, e non volevo svelarlo. Così come dimenticavo ogni desiderio d'oppormi o di chiedere, quando lui entrava dalla piccola porta che conduce a Wonderland, lui che possedeva la chiave per quel piccolo angolo di cielo spezzato. Come un vetro increspato dal vento e baciato dal tempo. Perché i suoi occhi graffianti mi spogliavano nudo togliendomi la pelle ed i muscoli ed ogni osso ed ogni vena, lasciando solo aria sul letto sfatto e tra le coltri broccate. Lui che si avvicinava spogliandosi in fretta mostrandomi quella statua che era il suo corpo perfetto. Lui che si voltava ogni volta in un rito per piegare la maglia e posarla composta e le spalle larghe guizzavano sotto pelle come fasci di nervi scoperti che si muovono sotto le ferite. E di nuovo il sordo desiderio di poterlo toccare era mio e mi invadeva regalandomi un calore freddo e gemiti vuoti. Mentre io dalle mani legate ed il corpo di ceramica rotta mi piegavo sotto la sua presa come un foglio di vetro e carta, legato dai sentimenti vibranti.

E non seppi mai, e lui non seppe mai, quanto per l'uno l'altro fosse la salvezza.

Così come il corvo che alla finestra picchiettava nei giorni di pioggia ed io non lo accoglievo perché stavo accogliendo quel corpo. Ed il nostro sudore mischiato trovava almeno lui una fetta di pace tra le lenzuola ed il giaciglio sfatto. Mentre le mie labbra cucite riservavano solo mugolii rochi e le sue serrate non levavano nemmeno un soffio. Mentre la mia ossessione dilaniante si chiudeva con un ultimo e forte scatto del corpo, mentre ogni fibra di me urlava l'orgasmo.

Ma un giorno, un giorno non tornò. Lui sparì dalla mia vita, o forse arrivò solo in ritardo. Lasciando la mia pelle di ceramica rotta tra le mani di un uomo di una chiesa rinnegata con al collo un rosario fatto di perle di luna e vetrino povero. Che sfogava ogni suo rammarico con forti urli. Ed io piangevo lacrime amare perché quegli occhi graffianti e quel corpo perfetto erano lontani, lontani dove mai nulla poteva raggiungerli. Ed un giorno quello sporco uomo di chiesa dopo aver malamente gettato il suo pagamento in un cantuccio, mi sciolse le mani dalle catene rugginose e le labbra dalla cucitura di giuramenti, e mi fece alzare e mi fece uscire. E mi prese e mi gettò in terra, mi gettò su sassi e su fiori, marchiandomi come suo e suo soltanto. Mentre ambivo a quelle labbra sottili di pelle olivastra e volevo quei capelli corvini tra le dita. E per l'ennesima volta ancora macchiavo il mio corpo di sperma e di sangue.

 

Akira Suzuki – racconto di un'ossessione

 

 

Questo era il preludio, l'inizio di quello che fu un lungo racconto. Ora quello è solo un ricordo mescolato a fantasia nella mia mente fresca. Non c'è più traccia di ciò che ero e non c'è più traccia di quello sporco uomo di chiesa dai capelli slavati e gli occhi ambrati.

Ora c'è l'intermezzo fatto di rinascita dalle ceneri e di ali spiegate verso una libertà ambita e donata da un redento uomo di chiesa che salva anime per pagare i crimini. E c'è il desiderio di ritrovare quelle mani forti e quel corpo solido.

Ed ora c'è la fine, quella semplice che ti lascia l'amaro in bocca, perché quelle mani appartenevano ad una moglie infelice che sorrideva e ad un uomo infelice che sorrideva. E non appartenevano al ragazzo felice della sua vita che era diventata ma che non sorrideva perché non ne leggeva il futuro.

Ma ora, ora dopo la fine, si sa, c'è sempre una piccola scintilla che ti fa sorridere e sperare e la fantasia vola più lontano seguendo una trama immaginaria. Perché quei due frammenti di film sono stati i miei preferiti per la vita, quei frammenti così perfetti che mani nessuno sporcherà allungandoli a minuti. Ma quelle mani tanto ambite poggiano con lentezza un telo colorato sulle mie spalle, ed io che pigro scrivo su un computer questa storia frivola in un libro inutile. Quelle mani che sorreggono tazze di caffè che mi viene porto e che mi scaldano la schiena la sera tardi quando anche il sonno è andato a dormire. E quelle labbra tanto ambite si posano sulla mia nuca e mi lasciano baci infuocati così come i tramonti d'estate. E quel corpo tanto ambito è contro il mio ad ogni abbraccio e mi strappa sorrisi e gemiti da nudo e da vestito.

 

E questo non è il racconto di un'ossessione ma la conclusione di una storia per metà vera e per metà finta, ma non dirò mai io dalle labbra cucite quale delle due è frutto della mia fantasia. Non lo dirò perché sarò troppo impegnato a gemere fuori il risultato di tanto lavoro tra le braccia che amo. 

   
 
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