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Autore: Katekat    12/01/2013    1 recensioni
Mi sembra di risentire dal passato la tua voce malinconica, intrisa di accorata rassegnazione:
"Verremo puniti, Gellert. Non ci sarà perdonato tutto questo."
[...] Ci siamo spinti troppo in là. Avevi ragione tu, Albus.
Siamo stati puniti.
Genere: Angst, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Albus Silente, Gellert Grindelwald | Coppie: Albus/Gellert
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Dai Fondatori alla I guerra
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Ὓβρις
 
 
Hýbris, pronuncia: iùbris
 
 
 
 
Definizione:
La hýbris è un accecamento mentale che impedisce all’uomo di riconoscere i propri limiti e di commisurare le proprie forze: chi ha ambizioni troppo elevate e osa oltrepassare il confine posto dagli dei pecca di hýbris e incorre in quella che viene chiamata “invidia degli dei” (fthònos theòn); traducibile con “tracotanza”,” superbia”.
 
 
*
 
 
 
 
[Gellert]
 
 
 
Ti ricordi quando mi aggrappavo alla tua schiena, come una bestia in agonia, e ti ordinavo, troppo orgoglioso per supplicare, di seppellire i tuoi segreti nella mia pelle?
 
Era un’implicita, assetata richiesta di darmi tutto te stesso.
 
Tutto di te volevo, esigevo; niente di ciò che ti riguardava dovevi osare tenermi nascosto.
 
Desideravo furiosamente che tu dimenticassi ogni altra cosa quando eri con me. Ti attiravo con possessiva violenza tra le mie braccia per sottrarti al resto del mondo; volevo che guardassi solo me, che sentissi me solo – che amassi incondizionatamente, unicamente me.
 
Ambivo a estirparti dall’aiuola del mondo, tu, fiore raro e bellissimo; anelavo a coglierti e portarti con me, stringendoti al petto, ovunque andassi.
 
E saremmo stati insieme per sempre, solo tu ed io, soli nel nostro spazio privato, gelosamente difeso con le unghie e con i denti, quel luogo noto a noi soltanto – che era un po’ del mio Inferno, un po’ del tuo Paradiso.
 
Guardami. Sentimi.” Ringhiavo, quando ti sentivo resistermi, esitare a lasciarti andare, a sprofondare con me nell’abisso.  
 
Ogni volta era un’avventura; ogni volta un miracolo, uscirne fuori.

Un lancio nel vuoto senza precauzioni, un precipitarsi a capofitto in battaglia, testa bassa e pugni serrati, senza scudo. Incoscienti e spericolati.
 
Il desiderio, la curiosità di sperimentare, di scoprire, di trovare, ci metteva il fuoco nelle vene.
 
Non sapevamo nemmeno se saremmo sopravvissuti a noi stessi.
 
Le nostre personalità si scontravano con forza olimpica, come il temporale e la burrasca, come Zeus e Poseidone.
 
I popoli dell’antica Grecia credevano fosse la furia divina a far tremare la terra ed eruttare i vulcani; che fosse l’ira soverchiante del Padre degli dei a trafiggere i cieli di livide saette, raggiungendo con puntuali, imparziali castighi i trasgressori del sacro ordine, della intoccabile legge.
 
Ho sempre coltivato un’insana passione per gli antichi miti, le saghe che affondano le loro radici in epoche perdute e ancestrali: tentativi ingenui di svelare gli arcani dell’origine della vita e della morte, prima che la legge e l’ordine calassero, dalla fronte accigliata del Padre soprannaturale, a domare la primitiva barbarie e i suoi allegri, rissosi istinti di vita e di libertà.
 
Quand’ero bambino, i miei occhi erano calamitati inesorabilmente dallo scatenarsi degli elementi. Bevevano quello spettacolo terrificante, misterioso e sfuggente, come se non ne esistesse l’eguale.
 
E per me davvero non era concepibile niente di così perfetto e violento come lo squarciarsi del cielo, durante la tempesta, in bocche sanguinanti che vomitavano luce vermiglia, fosforescente, e stralci di nubi come nere vele lacere di un relitto ballonzolante nel ventre di oceani rombanti.
 
Lì dove sono nato la terra sembra ancora più vicina al cielo, e questo ha forse contribuito a far sì che gli uomini della mia razza tendano a considerarsi superiori alle altre creature, proprio in virtù della loro posizione privilegiata in altezza.
 
Quando scoppia una tempesta, dalle mie parti, lo senti davvero Zeus urlare incomprensibili minacce nei tuoni che rimbombano tra le buie montagne, rotolando tra gli alberi, sotto la volta opprimente di foreste millenarie. Insieme alla terra sotto i tuoi piedi, tremano anche le ossa nel tuo corpo e i denti nella tua bocca. Senti di essere un tutt’uno con la Natura; nel momento in cui essa sfodera il suo dirompente arsenale, ritorni alle fosche ombre senza tempo e senza luogo che hanno partorito l’umanità stessa. Torni ad essere un bambino nel ventre della madre, quando la Natura ti svela il suo volto di Matrigna, costringendoti implicitamente a correre per rannicchiarti nel suo grembo. E’ così che dimostra di avere ancora potere su di te, Uomo, che puoi violarla quanto ti pare, ma ne resterai sempre succube figlio. Torni a quel timore primitivo che afferrava i cuori dei tuoi antenati quando, con la voce candida della loro rozza ignoranza, si chiedevano sgomenti da dove venisse quella furia inspiegabile e la attribuivano a figure che di umano avevano l’aspetto e i modi e il carattere e le passioni e le ire – ma di sovrumano i poteri su uomini, cose e animali.
 
 
*
 
 
Alcune nostre liti mi ricordavano la furia della Natura selvaggia e ribelle che punisce l’ardire degli uomini, terrorizzandoli a morte con le sue manifestazioni vitali di violenza inaudita.
 
Lo scontrarsi delle nostre anime era poi l’incontrarsi dei nostri corpi.

Se i pensieri ci dividevano, i desideri ci riconciliavano.
 
Nel reciproco piacere naufragava ogni dissidio; ogni contrasto si scioglieva in una dolcissima pace dei sensi. Gli affondi irosi scandivano il ritmo con cui i nostri cuori tornavano ad avvicinarsi, ritrovavano la segreta via per parlarsi.
 
Volevo che tu mi confidassi fino all’ultimo tuo più sporco, vergognoso, abietto segreto. 

Ma il tuo più sporco, vergognoso, abietto segreto ero io.
 
La tua colpa più ingiustificabile, il tuo errore più imperdonabile.
 
Io e solo io.
 
Io ero la tua dannazione e io la tua salvezza.
 
In me ogni tuo nodo interiore trovava la sua ragione e la sua risoluzione; ogni tuo peccato si assorbiva nei miei peccati. Ci ritrovavamo fusi in un amalgama palpitante in cui più non esistevano i confini ai quali eravamo abituati: il mio corpo il tuo corpo, il giusto lo sbagliato, il Bene il Male.
 
Le tue colpe al confronto delle mie si inabissavano. Di fronte a me, il sommo miscredente, l’irredimibile peccatore, il dannato per sempre, la tua coscienza si quietava con se stessa.

Come un cherubino, candido e roseo, al cospetto di Satana in persona, dei suoi occhi dal cupo fuoco segreto.
 
Era quando cercavi di scivolarmi via che ti stringevo più forte.
 
Famelica era la mia stretta, dicevi; mai sazia la mia fame.
 
Ti volevo fino all’ultima goccia – eppure avrei potuto spremerti fino al midollo, succhiarti fino all’osso e comunque, alla fine, mi sarebbe rimasta la sete. 
 
Inestinguibile sete.
 
Un po’ ti facevo paura, ecco perché non ti abbandonavi mai completamente, o m’imploravi il buio per nascondermi il tuo viso. Ti turbava che vi leggessi sopra gli affascinanti, mutevoli arabeschi delle tue emozioni.
Scaltro pianista, sceglievo con accortezza le melodie da suonare su di te, e godevo nell’osservare quello specchio così fedele dei tuoi sensi mutarsi al minimo tocco. 

 
Rispondere al mio pensiero, più che alle mie mani.
 
 
*
 
 
Ogni tanto ti lamentavi: 
 
Mi tieni troppo stretto, Gellert”.
 
Ti tenevo troppo stretto, in ogni senso. 
 
Ma non intendevo rinunciare alla più piccola parte di te. Rinunciare alla forza, che tu mi rimproveravi, in favore della debolezza.
 
Il vero amore, tu dicevi, non necessita di sfoggiare la sua potenza, non richiede violenza per manifestarsi. L’amore si gioca ad armi pari; non può esserci vero sentimento tra dominatore e dominato, perché chi domina prima o poi si stancherà di non trovare opposizione e cesserà di amare quando lo sfizio sarà tolto, mentre chi è dominato potrà forse trovare piacere nella propria masochistica degradazione, ma non proverà altro che tremante odio verso il proprio fustigatore, come un cane che si piega a un padrone violento per timore di altre botte.
 
“Dunque il meno forte non può concepire altro che rancore e terrore verso il più forte?” Ti provocavo io. “Non è possibile alcuna forma di amore sincero?”
 
“Sì che è possibile, se è il meno forte a delegare, di sua spontanea volontà, al più forte il diritto di tiranneggiarlo.”
 
“Lo credi davvero, Albus?”
 
“Lo sai benissimo, Gellert.” Mi rispondevi stancamente. “Ogni tua domanda è retorica.”
 
“Allora perché affannarti a cercare ogni volta una risposta?”
 
“Perché ti ho concesso ogni diritto sulla mia anima, Gellert.”
 
“Vuol dire che mi ami? O che ti senti il meno forte tra i due? O entrambe le cose?”
 
“Vedi, che ti dicevo? Ancora domande retoriche. Quando ne sarai stanco?”
 
“Quando lo sarai tu di rispondermi.”
 
Lo facevo apposta.
 
Adoravo provocarti, gettare il seme della discordia nella tua calma serafica che davvero doveva aver derivato il segreto della sua imperturbabilità da qualche spirito celeste. Non avrei saputo altrimenti spiegare perché mai, nemmeno una volta, perdessi le staffe –  quando ti intrappolavo nei complessi labirinti di specchi della mia psiche, tenendoti in scacco con i miei perversi, soffocanti giochi mentali.
 
O forse, semplicemente, comprendevi che erano il mio sporco, aberrante modo di tenerti unito a me.
 
Solo con la forza io concepivo il possesso.
 
Solo imprigionandoti mi convincevo che non mi saresti mai potuto sfuggire e si rasserenava, per un giorno o due, il cielo tempestoso dei miei pensieri.
 
E tu acconsentivi al ruolo di vittima sacrificale, perché mi avevi eletto padrone del tuo spirito. 
 
Non era un’imposizione, la mia, non era una prevaricazione. Eri tu a concedermelo. 
 
Mi avevi socchiuso la porta e avevi aspettato pazientemente che la buttassi giù a spallate, irrompendo nella tua vita come un uragano, facendoti tremare e sussultare e provare una paura e un amore che non avevi mai creduto possibili per esseri umani.
 
 
 
 
 
 
[Albus]
 
 
 
A volte il nostro amore mi ricordava, per la sua violenza da tragedia e la sua imperiosa tracotanza e la sua irrefrenabile trasgressività, la scalata che diedero i Giganti all’Olimpo, quando il regno di Zeus era ancora giovane. Quell’aneddoto mitologico che mi avevi raccontato in una notte senza luna, nel buio dei nostri respiri, attorniati da quell’atmosfera maledetta che tanto ti piaceva, perché si accordava perfettamente al brivido teatrale dei tuoi racconti.
 
Sai cosa volevano fare quei Giganti? –
 
La tua voce era una cantilena rauca, sussurrata – come se avesse timore di disturbare, risvegliandole, le forze primigenie di cui parlavi.
 
Una parte di te, pur così cinica e materialista, nel profondo ci credeva davvero alle forze che si sprigionavano dalla Natura, che ti faceva invidia per la sua assoluta libertà da ogni legge, se non quelle immutabili del tempo. Ambivi a dominarla da uomo, e a dominare gli uomini con essa.
 
Non c’è mai stata cosa che valesse la pena dominare che tu non abbia provato il pericoloso desiderio di conquistare.
 
Raccoglievi ogni provocazione, vedevi ovunque una sfida al tuo intelletto – sfida a mostrare la supremazia della tua intelligenza, perché non doveva esistere cosa che tu non potessi comprendere e dominare almeno col pensiero, se la forza bruta, da sola, non era sufficiente.
 
Era una delle cose di te che più mi incuriosiva e mi faceva crucciare: perché tu vivessi tutto, la vita stessa, come una continua provocazione alla tua persona; perché non riuscissi mai, nemmeno per un attimo, a rilassarti e a trovare la pace; perché dovessi inseguire, raggiungere, afferrare, espugnare e annientare ogni cosa. 
 
Forse lo ritenevi tuo diritto – diritto di dio sulla terra – assalire e corrompere con i tuoi pensieri sottili e insinuanti, che avevano la forza del granito, ogni creatura che ti capitasse sotto mano, che potessi convertire, traviare, ai tuoi foschi ideali.
 
Compreso me.
 
Ma nessuno, compreso me, è mai stato veramente vittima del tuo fascino, Gellert. 
 
Semplicemente, non era possibile non lasciarsi catturare dalla magia dei tuoi appassionati discorsi, delle tue idee folli e assolutistiche, del tuo estremismo che danzava sulle note della morte.
 
Impossibile chiudere le orecchie a quel richiamo irresistibile, come fu quello delle Sirene per Ulisse. 
 
Impossibile frenarsi dal lasciarsi precipitare nelle tue braccia spalancate, fin troppo pronte ad accogliere neofiti, anime giovani da dannare.
 
Sai cosa volevano fare quei Giganti? –
 
Di nuovo la magia della tua voce mormorante, inebriante come un’essenza segreta.
 
Detronizzare Zeus, certamente. 
 
Usurpare il trono del Padre degli dei e degli uomini.
 
Ma Zeus li precipitò, ed essi caddero giù dall’Olimpo come foglie morte da un albero tramortito dal vento.
 
Erano stati sciocchi, quei Giganti, urlerebbe il volgo, sciocchi e superbi.
 
Ὓβρις, chiamavano questo peccato gli antichi Greci.
 
Si erano sopravvalutati: avevano osato sfidare Zeus, e Zeus era l’incarnazione delle leggi inappellabili della Natura, del suo sacro ordine, dell’armonia insita in essa.
 
Si erano creduti più forte di lui, della Natura stessa. I figli si erano rivoltati contro la loro Madre ed erano stati puniti. La Natura non tollera disordine: al minimo mormorio dissidente non esita a smettere la maschera di Madre e a rivelarsi per quello che è, Matrigna.
E allora la punizione è inevitabile e implacabile.
 
 
*
 
 
Sai, a volte il nostro amore mi ricordava proprio la scalata dei Giganti all’Olimpo. 

E anche il nostro Grande Piano.
 
Lo stesso affronto impudente e testardo, incurante della propria incolumità, della salvezza personale, rovinoso eppure fatale.
 
Noi non avremmo dovuto amarci, né cospirare; non avremmo proprio dovuto incontrarci.
 
E siamo stati maledetti, evidentemente, per aver osato farlo, e siamo ancora in attesa, col fiato sospeso e gli occhi inariditi, della resa finale dei conti.
 
Non verremo perdonati, Gellert.”
 
Ero davvero convinto che avremmo scontato la nostra pena, in un modo o nell’altro.
 
Ma quando te lo rammentavo, tu ridevi.
 
Ridevi.
 
Ti prendevi gioco della mia aria grave e profetica, del mio cipiglio serio che, dicevi, tradiva la saggezza secolare che era stata partorita con me. Ero nato vecchio, solevi ripetere, finchè non avevo incontrato te, folletto perverso, malefico goblin, a sconvolgere la mia piatta esistenza pacata, all’insegna del buonsenso.
 
Tu ridevi e io tacevo.
 
Non perché non trovassi parole giuste per ribattere a quelle che consideravi “superstizioni” (come forse qualche volta avrai pensato), ma perché, semplicemente, adoravo vederti ridere.
 
Era così raro uno scoppio di sincero, infantile divertimento da parte tua che accoglievo ogni tuo sorriso, ogni volta, come un dono raro e preziosissimo, al di sopra di tutte le ricchezze di questo mondo. Ogni volta che la tua bocca, stretta per consuetudine in una linea fiera e indisponente, o arricciata nello scherno che ti suscitava quella che tu chiamavi “mediocrità”, cedeva in un sorriso, coincideva col rompersi in me di una diga, con l’inondarmi di una gioia dolorosa, tanto era intensa.
 
Scoprivi appena i denti superiori, solo per un attimo me li mostravi, bianchissimi e scintillanti – e la forma dei tuoi denti mi faceva rabbrividire, perché ricordava così da vicino quella delle zanne dei lupi delle tue tetre, sconfinate foreste natie.
 
La stessa ferocia fulminea, l’implacabile brutalità che niente, tuttavia, riusciva a detrarre dal tuo fascino pericoloso, corrosivo, e dalla conturbante eleganza dei tuoi gesti – mai affettati, misurati eppure fieramente istintivi, come le tue parole, scolpite nel ghiaccio, ma che liquefacevano come fuoco.
 
Ciò non impediva, comunque, che ogni tuo balenio sorridente equivalesse per me allo sprazzo di un raggio purissimo che, trafiggendo nembi di tempesta, piove nel buio solido di una cella ai confini del mondo.
 
A quel tempo, nessuno mi aveva detto che davvero ci saresti finito, in una cella stretta, sperduta nel gelo sterminato di una landa inospitale, e che sarei stato proprio io a precipitarti lì, decretando il consumarsi dei tuoi ultimi anni.
 
Eppure, chi sa perché, lo presentivo.
 
Lo presentivo dalla prima volta che i miei occhi, vagando ignari, inciamparono nei tuoi e, invece di cozzare contro la loro muraglia indifferente che sbalzava indietro, sbigottito e intontito, ogni altro sguardo, giudicandolo inferiore e indegno, ne rimasero invischiati, sprofondarono con essi.
 
Fu il primo segno che mi avevi accolto, che mi consideravi degno di gettare uno sguardo sul tuo animo, che mi ritenevi tuo pari.
 
Ma tu mi facesti un’impressione così grande e sconvolgente che i miei occhi fuggirono, atterriti, solo per tornare – rincorsi, braccati – a inabissarsi nei tuoi.
 
Lì rimasero intrappolati, per sempre.
 
 
*
 
 
Lo sapevo fin dall’inizio che avevamo i giorni contati, Gellert.
 
Quegli antichi Greci che tu ammiravi così tanto erano molto più saggi di noi, presunti uomini moderni, sedicenti eroi del nostro tempo: primitivi come bambini, saggi come vecchi, incommensurabilmente più sapienti dei nostri coevi.
 
Loro erano a conoscenza dell’invidia degli dei: gli dei non perdonano una felicità troppo grande, loro solo sono µακὰρι, beati; l’uomo non ha diritto a tale beatitudine che, per definizione, è prerogativa esclusiva dell’Olimpo; deve accontentarsi di una felicità di bassa lega, di minore qualità, scadente, l’unica alla sua portata: εὐδαιμονὶα.
 
 E la nostra felicità aveva davvero superato i limiti concessici.
 
E anche i tuoi progetti rivoluzionari, catastrofici, Gellert, erano diventati troppo radicali per poter continuare a chiudere un occhio davanti alla loro impudente arroganza.
 
E con te i miei. Non potevo abbandonarti sul sentiero che ti aprivi a colpi di falce, facendo terra bruciata davanti, dietro e intorno a te.
 
Senza di me, chi ti sarebbe rimasto?
 
Chi avrebbe appoggiato le tue mire dispotiche, la tua megalomania parossistica, la tua superbia beffarda?
 
Verremo puniti, Gellert.”
 
Cercavo di ammonirti, senza intenderlo davvero, e per questo senza riuscirci.
 
Non ci sarà perdonato tutto questo.”
 
Ma tu ridevi, liquidando con una mano i ritornelli funesti di questa inascoltata, paranoica, lugubre Cassandra, che ormai si ripetevano troppo spesso e, fiacchi, si frangevano contro il tuo riso sardonico e le tue pungenti stilettate.
 
E le mie paure premonitrici si dileguavano, con le ali ai piedi, al balenio candido dei tuoi denti di lupo.
 
Tu non vedevi.
 
E io non ho voluto vedere insieme a te.
 
Ho preferito condividere la cecità con te, privarmi della vista per te.
 
Ci ho condannati entrambi.
 
 
 
 
 
 
 
[Gellert]
 
 
 
Me lo ricordo il nostro ultimo litigio, quello che ci avrebbe divisi fino al giorno in cui non ci saremmo ritrovati uno di fronte all’altro, acerrimi rivali di un duello indesiderato da entrambi, ma necessario e vitale per definire compiutamente le sorti di quel mondo magico che avevamo sognato insieme di condurre, sotto la nostra guida, a vette di splendore mai neppure immaginate prima.
 
Tutto quello splendore sognato ci avrebbe dato alla testa.
 
La vertigine ci avrebbe colti, una volta arrampicati troppo in alto, e quel nostro delirio si sarebbe smorzato nell’unico modo possibile, con la rottura della nostra amicizia.
 
Successe per via di Ariana.
 
La sua perdita ti distrusse, psicologicamente e spiritualmente.
 
Ti vedevo: ti eri piegato su te stesso, rannicchiandoti come un cucciolo lontano dal fuoco, bruciato dai sensi di colpa.
 
Se avessi saputo la verità, che ero stato io a uccidere tua sorella, il tuo dolore si sarebbe centuplicato.
 
Ma mi avresti perdonato, ne sono certo. Non mi avresti odiato.
 
E fu proprio la consapevolezza di non poter in alcun modo accettare il tuo perdono, dopo averti ferito così profondamente; che, dal momento in cui tu avessi saputo, sarebbe sparita l’innocenza con cui mi guardavi – come sparì da Adamo quando gli fu rivelato il peccato originale – a indurmi a lasciarti.
 
La prima e unica volta in cui ho pensato al bene di qualcuno che non fossi io.
 
Con Ariana non ero stato realmente altruista – una parte di me lo sapeva, l’altra lo negava violentemente e provocatoriamente: avevo voluto più liberare me stesso, uccidendola, dalla schiavitù, che lei dalla prigione in cui vegetava.
 
Con te, invece, era diverso.
 
Ero consapevole che ti stavo facendo a pezzi; che, continuando così, non sarebbe rimasta che un’ombra del mio amico e compagno.
 
E io non volevo questo.
 
Non avevo mai voluto distruggerti; solo tenerti al mio fianco quando avremmo scalato il mondo.
 
Ci tenevo troppo a te, con ogni parte di me, per farti questo.
 
Già te ne avevo fatto troppo; avevo superato i limiti, lo riconoscevo, io che mi reputavo aldilà di qualsiasi limite pensato e creato per l’uomo.
 
 
*
 
 
E così maturai la funesta, ma necessaria decisione di lasciarti.
 
Sì, non potevo fare altro.
 
Ma la mia natura selvaggia e crudele, “tragica”, mi impediva di darti un semplice addio. 
 
Allo stesso modo, mi ripugnava e irritava indicibilmente darti spiegazioni della mia decisione. Spiegazioni che sentivo di doverti, ma che mi artigliavano il cuore nei momenti meno opportuni; pensieri fastidiosi e ingombranti che non mi lasciavano mai in pace.
 
Ed ecco che il genio del male che era in me escogitò lo stratagemma perfetto per trarsi d’impiccio, facendo ricadere la colpa su di te.
 
Dovevo recitare quella farsa, Albus: non potevo denudare a tal punto il mio cuore, avrei dovuto spiegarti il dilemma irrisolto di Ariana e non avrei sopportato che tu mi guardassi – ma soprattutto mi perdonassi – per quello che avevo fatto.
 
Ti avrei odiato, se lo avessi fatto.
 
Per non doverti odiare ho cercato di farmi odiare da te.
 
Un meccanismo tormentato e complesso, dicevi, riferendoti a me; scatole cinesi nascoste l’una nell’altra, la mia multiforme personalità, che tracimava di ombre e segreti e vergogne inconfessate, che non chiedevi altro che di abbracciare, se solo mi fossi aperto a te. 
 
Ma non potevo rovesciarti addosso il mio marasma, ne saresti stato sommerso.
 
Non perché ti reputassi debole – eri l’unico che abbia considerato mio pari, in tutta la mia vita.
 
Ma perché ero troppo innamorato della tua luce per spegnerla nel mio buio.
 
Mi piacevi così com’eri: angelico, anche se la maggior parte del tempo ti assalivo e assillavo con le mie idee, una più fosca dell’altra, perversamente curioso di vedere fino a che punto la tua bontà rischiava di vacillare sotto la persecuzione delle mie beffarde, minacciose provocazioni.
 
In sostanza, sei stato l’unico essere che abbia mai desiderato spontaneamente di risparmiare.
 
Che abbia rinunciato a soggiogare.
 
 
*
 
 
Fui meschino.
 
Ti accusai di viltà, di essere un coniglio, di aver paura di mettere in atto progetti troppo sovversivi, di non essere degno della tua intelligenza, di sprecare l’immenso dono che la Natura ti aveva dato, l’arma che ti aveva fornito per comandarla, di avermi mentito e ingannato tutto quel tempo, illudendomi di approvare e condividere i miei progetti per poi rivelarti, alla resa dei conti, per quello che eri veramente: un codardo.
 
Eravamo meno simili di quanto pensassimo.
 
Ti gettai in faccia tutte le tue parabole di bontà e umanità – ricordavo a memoria le tue parole, una per una – e le usai deliberatamente per offenderti, per sfogare la mia rabbia su di te, per schernirti.
 
Ho dovuto colpirti a morte per poterti allontanare da me. Sarei stato la tua rovina.
 
Meritavo di marcire da solo nel lerciume delle mie colpe, delle quali quella commessa contro di te spiccava per orrore e abiezione, perché compiuta contro un amico – più di un amico.
 
Ma tu intuisti qualcosa delle mie ragioni profonde e nascoste.
 
Certo, eri troppo intelligente per non accorgertene.
 
E mi conoscevi abbastanza bene, ma non a sufficienza.
 
Cercasti di interrogarmi, ma nessuna parola che non fosse di scherno o di minaccia uscì dalle mie labbra. Non capisti che era per amore che dovevo –  avevo l’obbligo morale con me stesso – di lasciarti andare. 
 
Se fossi rimasto con me, non avresti avuto nessuna possibilità.
 
Mi illudevo di essere abbastanza forte da sopravvivere al tuo abbandono – sopravvalutavo il mio cuore. 
 
Era sempre stato, sì, pieno di tempesta e incapace di reale attaccamento, ma in quegli anni si era abituato alla tua presenza, a essere riscaldato dalla tua serena saggezza.
 
Perciò tanto più duro fu il colpo quando allentai le dita e ti guardai sgusciare via dalla mia stretta, per sempre.
 
Mi ero convinto di essere abbastanza cattivo, indurito, da fregarmene. 
 
E lo ero, ma non avevo fatto i conti con la seconda debolezza umana che più odiavo dopo la morte: l’amore.
 
Mi costrinsi a non cedere – fu uno sforzo disumano.
 
Mi ripetevo che dovevo stare solo, perché solo così non avrei canalizzato su di te l’odio che nutrivo per me stesso e per le mie vergognose azioni.
 
Era quello il mio destino: masticare odio frustrato in un’amara, perpetua solitudine.
 
Non meritavo la tua luce, la tua compagnia – non mi ero mai soffermato a chiedermi se meritassi o meno qualcosa, prima di prendermela.
 
Ma con te avevo capito quanta malvagità irrancidisse nel mio animo, e la parte meno malvagia che ancora mi restava mi aveva convinto a mettere almeno te al sicuro dalla mia furia devastatrice, che presto si sarebbe abbattuta sul mondo.
 
Un altruismo involontario, insomma, contro e malgrado la mia natura.
 
Un uomo comune non sarebbe riuscito a farsi una simile violenza.
 
Ma io non sono mai stato un uomo comune, vero, Albus?
 
 
*
 
 
Quando vegetavo a Nurmengard, ridotto all’ombra schernevole di quello che ero, mi mandavi lettere.
 
Eccole, bastava la vista della tua grafia affilata e sinuosa per darmi una stretta al cuore, risvegliando con un palpito improvviso quel muscolo freddo e intirizzito nel mio petto.
 
Mi ricordava ben altre linee, altrettanto sinuose, affusolate, eleganti, che il mio corpo ben conosceva del tuo.
 
Sentivo il frusciare della carta, lo scricchiolio della pergamena nella fessura sotto la porta della mia cella, verso cui allungavo una mano improvvisamente non più stanca.
 
Un brancicare rapido per portarla fulmineo alla bocca, lo sguardo di un lampo assassino intorno per smascherare eventuali testimoni del mio puerile, vergognoso sentimentalismo.
 
Ma non potevo fare a meno di respirare nella carta il tuo profumo: l’unico modo per tenermi unito a te, attraverso gli anni e le miglia. Osservavo per qualche istante, rapito e indispettito, l’impronta umida della mia saliva sull’adorata calligrafia e immaginavo che era un po’ come baciare te, le tue labbra, e subito il ricordo dei nostri baci mi afferrava con prepotenza e vividezza agghiaccianti, come se nemmeno un giorno fosse trascorso dall’ultimo incontro tra la tua bocca e la mia.
 
E il rimpianto era così feroce, così insostenibile, che tornavo a rifugiarmi nella rabbia per anestetizzare il dolore.
 
Mi dicevo che era anche un po’ colpa tua: che non avevi lottato per trattenermi, ti eri lasciato lapidare dalle mie frecciate velenose, che non potevi odiarmi abbastanza da amarmi – perché per me odio e amore erano la stessa cosa.
 
Ma la vita ci ha dimostrato che avevamo una diversa concezione dell’amore.
 
Ti ho allontanato da me perché ti amavo, e allontanandoti ti ho odiato, e quell’odio non ha fatto che attizzare il mio amore e questo esasperare l’odio: un serpente che si morde la coda, insomma.
 
Quando ci separammo, pensasti di essere tu a lasciarmi andare.
 
Ma io ero livido di rabbia e disperazione nascoste. Rimasi attaccato morbosamente a te, al tuo ricordo, alle tue lettere. Rinnovavano il mio tormento, ma ne avevo bisogno come l’ossigeno stesso.
 
Ti ho lasciato andare veramente, definitivamente, solo poco prima di morire, quando il volto di un uomo senza pietà ha decretato la morte di ogni speranza.
 
Volevo che mi odiassi, ma non ci sono riuscito.
 
Volevo odiarti, dandoti la colpa di avermi condannato a morte per salvare la pelle, di essere fuggito via, abbandonandomi nel cuore dei nostri progetti, di esserti dimostrato uguale a tutti gli altri, di non valere un decimo del compagno che mi ero scelto al mio fianco.
 
Non sono riuscito nemmeno a odiarti.
 
Sono stato un bugiardo tutta la vita, ho mentito per il mio personale tornaconto innumerevoli volte, ma con te non sono riuscito a ingannare me stesso.
 
Il mio cuore parla da sé; la mia coscienza ha voce propria che fastidiosamente mi costringe ad ascoltare.
 
Non posso odiarti per averti rovinato la vita.
 
E nemmeno, in ultima istanza, perché tu mi hai perdonato di averlo fatto.
 
Non so se conservi ancora affetto per la mia memoria. Se è così, se davvero ancora ti importa di me, per favore, non farmelo mai sapere.” *
 
Non ti ho mai spedito quella lettera... 
 
Non te ne spedii mai nessuna.
 
 
*
 
 
Ci siamo spinti troppo in là. Avevi ragione tu, Albus: siamo stati giustamente puniti, abbiamo perso entrambi ogni cosa.
 
Mi sembra di risentire dal passato la tua voce malinconica, intrisa di accorata rassegnazione:
 
Verremo puniti, Gellert.”
 
Siamo stati puniti, Albus.
 
 
*
 
 
Eppure, non mi pento di nulla di ciò che ho fatto. 
 
Spirito dannato e corrotto fino in fondo, coerente con i miei principi o, meglio, con la mia mancanza di principi e di morale, come direbbero gli sciocchi aggranfiati alla tradizione, storcendo il naso. Gente che non ha mai saputo cogliere la bellezza del nuovo, del rivoluzionario, della forza, della passione, della vita senza regole, all’insegna della libertà.
 
Sì, sarei pronto a rifare tutto daccapo, a gioire e soffrire tutto di nuovo, a ripeterlo cento, mille, diecimila volte, se il mondo fosse una ruota e il tempo un eterno avvolgersi in se stesso.
 
Prenderei su di me il peso di una sofferenza imperitura, perché sono le anime elette quelle che sostengono il mondo sulle proprie spalle, come Atlante, e lo portano avanti, e perché solo le scelte che rifaremmo sempre e nonostante tutto, e ancora e ancora e ancora, solo ciò che siamo pronti a rivivere infinite volte come se non dovesse mai avere termine, in ogni vita futura, solo questo ha senso.
 
Ebbene, io continuerò a essere peccatore e malvagio per l’eternità, Albus, continuerò a macchiarmi di ὕβρις e a tentare di scalare l’Olimpo, pur sapendo che ne verrò scagliato giù come una pietruzza.
 
Ma non cesserò mai di provarci, di arrabattarmi con ogni mia forza – mai rinuncerò al tentativo di elevare l’uomo al di sopra di se stesso.
 
Siamo stati puniti, Albus, proprio come tu languivi al mio orecchio in quelle notti che ci apparivano senza fine, nonostante l’ombra della minaccia incombesse dall’alto.
 
Ma io non sono mai stato più convinto della mia scelta, più orgoglioso del mio peccato.
 
Se esistesse un eterno ritorno, io ritornerei ad amarti per l’eternità.
 
 
 
 
Fine
 
 
 
 
 
 
 
*Nota: parte del monologo di Gellert è ispirata alla canzone Snuff degli Slipknot. 
  
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