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Autore: Fanny Lestrange    13/01/2013    5 recensioni
Zama, 202 a. C.
Alla vigilia della battaglia decisiva, Annibale ripercorre il suo passato e s'interroga sull'imminente futuro. Un immaginario viaggio attraverso i dubbi, le speranze, le ambizioni e i rimpianti di uno dei più grandi condottieri della Storia.
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Antichità greco/romana
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Le larghe foglie delle palme proiettano la loro ombra scura su di me. Intorno, tutto tace. Si ode solo, in lontananza, l’incessante canto dei grilli, gli unici che non rispettino la quiete solenne del luogo.
Lo sguardo mi cade sui rovi da cui sono circondato, passa oltre, discende per il sentiero che si snoda davanti a me, s’inerpica su per altre dune sabbiose, e infine, non incontrando più alcun ostacolo, percorre l’intera piana di Zama, che si stende dinnanzi ai miei occhi battuta dal vento, sublime e insieme profetica visione. Scrutando attentamente l’orizzonte, oltre il sottile strato di foschia, mi pare quasi di intravedere le mura di Cartagine, così come le ho ricordate durante tutto questo tempo, prima di poterle finalmente rivedere; ma è solo un miraggio, o uno scherzo della mia vista difettosa. Alle mie spalle, nascosto dietro l’altura sulla quale ora mi trovo, è accampato il mio esercito. E là, su quella collina che si erge solitaria al centro della piana, ultima roccaforte prima della distesa sconfinata del deserto, appena poche ore fa ho incontrato il mio avversario.
Scipione guiderà l’esercito romano nella battaglia decisiva di domani. Non l’avevo neanche mai visto prima d’ora, ma la sua fama dilagante era giunta alle mie orecchie: otto anni fa espugnò e saccheggiò la nostra capitale iberica, Cartagena, dando inizio a un’opera di conquista che costrinse mio fratello a raggiungermi in Italia, dove avrebbe poi trovato la morte. E’ stato a causa sua che ho dovuto abbandonare il suolo italico e ho visto sfumare una volta per tutte la speranza di guardare Roma cadere, dopo esserle giunto così vicino che avrei potuto sfiorarla solo tendendo la mano. D’altra parte, è stato sempre a causa sua che ho rivisto la mia patria dopo trentatré anni: dovrei dunque essergli grato?
Tutt’altro. I miei occhi ormai ricoprono un ruolo poco più che marginale nell’ambito della mia percezione sensoriale; è ad altre risorse che mi sono affidato per mantenere saldo il ricordo di Cartagine nella mia memoria, così che non dimenticassi mai per cosa combattevo. Gli aromi pungenti delle spezie, il sapore dolce del passum, come lo chiamano i Romani, le melodie dei flauti durante le feste in onore a Baal, la ruvidità delle foglie di palma e il refrigerio dell’acqua delle sorgenti nelle giornate afose: Cartagine per me significa tutto questo; ogni piccolo dettaglio, ogni sensazione familiare capace di evocare la mia terra vale il prezzo delle battaglie combattute lontano da essa e delle difficoltà affrontate. Il suo ricordo era inciso in me così a fondo che nemmeno la lontananza, nel tempo e nello spazio, poteva intaccarlo. Tornarci mi ha confermato nel mio intento, mi ha infuso ulteriore coraggio e determinazione; ma non era necessario. Non mi sarei arreso ai Romani nemmeno se dopo altri diciassette anni non avessi ancora espugnato la loro capitale, se fosse dipeso unicamente da me.
Il senato, però, secondo quanto mi ha riferito un mio fedele portavoce, pare mi sia diventato ostile in questi anni; mi ha accusato di inerzia, per aver continuamente rimandato un attacco diretto a Roma, e ha colto al volo il pretesto dell’invasione di Scipione per richiamarmi in patria.
In fin dei conti, è stato costretto ad ammettere che aveva bisogno di me, anche se sospetto non sia troppo amareggiato di avermi strappato alle mie ambizioni di conquista. O meglio, a quelle che il senato ritiene le mie aspirazioni personali, rifiutandosi caparbiamente di riconoscere che sottomettere Roma sarebbe l’unico modo efficace per recuperare la nostra egemonia sul Mediterraneo. Fosse per loro, sarebbero persino disposti a un’alleanza, a una pace di compromesso. Non vogliono ammettere, perché sarebbe scomodo e dispendioso, che un accordo con Roma non è e non sarà mai possibile, finché io guiderò questo esercito. Compatisco la mollezza dei suffeti e degli altri uomini politici, poiché negli anni, essendo io lontano dalla mia patria e dalla mia gente, essa è diventata la mollezza del popolo, che ormai si riconosce più in loro che in me. Annibale, uno straniero. Uno straniero impegnato a combattere altrove la sua personale, folle guerra contro un nemico invincibile, a cui non valeva certo la pena  inviare rinforzi; d’altronde, perché avrebbero dovuto? Non era affare di Cartagine, ma unicamente mio.
E’ la loro inerzia ad essermi costata cara, è il loro rifiuto di una presa di posizione contro cui mi scaglio ogni giorno, senza ottenere in cambio nient’altro che una scettica fiducia. D’altra parte, questi sono gli inconvenienti di un esercito di mercenari: con ogni probabilità i miei soldati riconoscono in me una guida molto più di quanto non facciano i cittadini cartaginesi. Non capiscono che le mie frustrazioni, i miei fallimenti sono anche i loro; e viceversa, che la mia vittoria sarebbe la vittoria di Cartagine intera.
Altrettanto non posso dire delle mie truppe: nonostante le abbia condotte lungo sentieri impervi, trascinati in imprese apparentemente impossibili, costretti ad affrontare difficoltà a prima vista insormontabili, la loro fedeltà non è mai venuta meno. Ed è stato grazie a loro, grazie all’obbedienza, all’abilità e al coraggio di quei mercenari tanto biasimati dagli altri popoli (non comprendono che è una pura questione di necessità), che le mie strategie hanno avuto successo, e abbiamo sbaragliato e decimato l’esercito nemico in numerose battaglie. Non se l’aspettavano, i Romani. Non credevano che avrei potuto attaccarli all’improvviso, cogliendoli di sorpresa, dopo aver valicato le Alpi insieme ai miei uomini e a diversi elefanti da combattimento che avevo portato con me dalla Spagna. Non credevano che avrei sconfitto, uno dopo l’altro, tutti i loro migliori generali, mano a mano che venivano mandati a tentare di bloccare, invano, la mia discesa in Italia. Non credevano, soprattutto, che a Canne sarei stato capace di infliggere loro perdite pari a 50.000 uomini, costringendoli alla fuga e seminando il terrore anche tra la popolazione della loro capitale.
Al ricordo mi sfugge un sorriso compiaciuto: era esattamente ciò che volevo. Avevo assediato Sagunto che, con la sua posizione ambigua, faceva al caso mio, con il chiaro intento di provocare Roma, e di certo non mi aspettavo una così fiacca resistenza da parte della sua protettrice. Espugnare la roccaforte iberica era stato sorprendentemente facile, poiché nel frattempo i Romani discutevano fra loro se intervenire o no, lasciando a me la via completamente libera. Fino a Canne, dunque, io e il mio esercito abbiamo mietuto vittorie, senza dover mai affrontare, tra l’altro, il problema di un ammutinamento (io stesso ero ben lungi dal temerlo). Poi è accaduto qualcosa, a me tuttora ignoto, che ha mandato a monte il mio piano e allontanato per sempre da me la speranza di veder capitolare la città maledetta.
Da allora non faccio che chiedermi dove ho sbagliato: quali mosse non ho calcolato adeguatamente, quali conseguenze non ho previsto, quali tattiche ho scartato e avrei invece dovuto scegliere; senza tuttavia essere ancora riuscito a darmi una risposta. Ero convinto che i popoli confinanti con Roma, sudditi travestiti da alleati, non avrebbero esitato a tradirla per seguire me, tenuto conto delle pesanti vessazioni a cui venivano sottoposti e dei pochi privilegi di cui godevano. Conoscevo bene la situazione, mi ero informato, ed ero sicuro che, con la giusta propaganda e le dovute strategie, in breve tempo li avrei avuti dalla mia parte. Difatti per alcuni così è stato: la città di Capua mi ha aperto le porte e lì ho stabilito i miei quartieri invernali. La maggior parte, però, ha dimostrato una stupidità tale da lasciarmi esterrefatto. Comprendo che non sia immediatamente facile affidarsi alle mani di uno straniero, nonostante prometta la libertà. Anche ammesso che fossi stato interessato a conquistarle (teoria questa del tutto infondata, altrimenti avrei devastato e sottomesso, non soccorso, le regioni che attraversavo), avrebbero dovuto capire che, date le condizioni in cui versavano, non avrebbero potuto trovarne di peggiori. Evidentemente, però, non avevo considerato il cieco, ottuso legame che molti di quei popoli avevano da lungo con Roma; nemmeno l’avvento di un liberatore sarebbe stato in grado di scioglierlo e ridestare le coscienze sopite di quelle genti. Questa si rivelò essere una grave falla; e mentre io riflettevo sul da farsi, consapevole che, con quasi tutta la penisola in mio potere, ormai non rimaneva che un attacco diretto alla città, anche il nemico approfittava del momento per riorganizzarsi.
Ci riuscì: i nostri possibili alleati macedoni vennero trattenuti da contingenti romani; Cartagena venne espugnata da Scipione; le truppe di rinforzo che erano riuscite a sfuggirgli, comandate da mio fratello Asdrubale, vennero intercettate e sbaragliate presso il fiume Metauro, dove egli stesso rimase ucciso. Fummo così, tra l’altro, privati dei rifornimenti; e in quelle condizioni, ormai, benché io addestrassi quotidianamente il mio esercito, un assedio a Roma sarebbe stato una follia.
Io solitamente non rinuncio alle follie, se ben architettate; ma questa, proprio per scarsità di mezzi, avrebbe avuto di certo un esito disastroso. Qualcuno potrebbe obiettare che di tempo ne avevo avuto in abbondanza, e che il mio rifiuto ad agire sia stato un segno di inequivocabile viltà. Ha forse ragione il senato, dunque? La mia titubanza ha causato il fallimento dell’intera, quasi ventennale spedizione? E loro, i magistrati, cos’hanno fatto per sostenermi, eccetto tramare alle mie spalle e tentare con ogni mezzo di screditarmi? Si sono forse degnati di inviare aiuti, truppe, rifornimenti, affinché io potessi concludere al meglio la mia missione? Hanno idea di come si svolga una guerra e di cosa implichi il compito di un generale?
Ho atteso a lungo, è vero, perché sapevo che ormai, per non perdere terreno, tutti, me compreso, erano in attesa dell’ultima mossa, la più rischiosa. Questa volta, però, in gioco non c’eravamo solo io e i miei uomini, comunque disposti a sacrificarci, ma Cartagine stessa. La vittoria mi avrebbe portato gloria ineguagliabile, ma, una sconfitta avrebbe decretato lo sterminio dell’esercito, il disonore eterno e il crollo definitivo della mia città. Attesi, e persi. Ogni giorno avrebbe potuto essere quello decisivo, ma rimandai, trovando di volta in volta un pretesto, un dettaglio fuori posto che avrebbe potuto rivelarsi fatale. Avevo paura? Può darsi. Per me, per il mio orgoglio? Per il mio popolo? Forse entrambe. In fin dei conti, ne ero responsabile. Nella mia ostinata ricerca della Certezza, ella mi passò davanti senza che la riconoscessi; la scambiai per una delle tante Imperfezioni. Non capii che una qualsiasi di esse sarebbe stata quella giusta; toccava a me tramutarla in Decisione. Sta di fatto che l’occasione sfumò, per non tornare più.
 
 
Sospirando, alzo lo sguardo sui rami della palma e poso una mano sul suo tronco, ruvido e resistente. E’ una pianta forte, nata per sopravvivere al clima ostile del deserto; una combattente. Il simbolo di un intero popolo. Se i Romani dovessero vincere, Cartagine e tutto ciò che essa rappresenta cesserebbero di esistere. Non accetteranno mezzi termini, non saranno diplomatici; questo la mia gente l’ha ancora da capire. So cosa è accaduto ai territori da loro conquistati al di fuori della penisola; la Sicilia, per esempio: formalmente la chiamano provincia, ma in realtà i suoi abitanti altro non sono che sudditi, costretti a pagare pesanti tributi e privati di ogni diritto, primo fra tutti quello al voto. Non impiegherebbero molto a giungere alla repressione generale della cultura, della religione e della lingua locali, in poche parole dell’identità di un popolo, per imporre la loro. Non si farebbero scrupoli, non conoscono la pietà, ma noi non dovremo dar loro occasione di concedercela. Sono una potenza giovane, mio padre me lo ripeteva sempre, da poco affacciatasi, non richiesta, nel delicato equilibrio del Mediterraneo; non conoscono l’egemonia, non sanno gestirla, e noi dobbiamo fare in modo che così rimanga. Bisogna distruggere loro affinché loro non distruggano noi.
 
Poche ore fa, ho tentato di trovare un accordo con Scipione: il mio esercito è ben addestrato ma indebolito, e, paradossalmente, gli uomini si trovavano più a loro agio in territorio nemico che qui. Inoltre, ho saputo che il mio avversario ha stretto un’alleanza con Massinissa, sovrano dei Numidi, una popolazione a noi confinante. I cavalieri numidi sono notoriamente molto abili, forse persino in grado di rivaleggiare con i miei; Scipione si è dimostrato scaltro. Con queste premesse, ho ritenuto opportuno cercare prima di scendere a patti, senza tuttavia l’intenzione di piegarmi al suo volere; il mio avversario, però, si è dimostrato sorprendentemente avido e superbo, come tutti quelli della sua gente, affermando che le mie proposte non offrivano a Roma nulla che non possedesse già. L’ho fissato, alzando il mento e ostentando un’aria fiera, rifiutando a mia volta di accettare le sue condizioni. Abbiamo dunque deciso di dare battaglia domani, alle prime luci dell’alba, nella pianura che si stende ora davanti ai miei piedi.
Zama. Ripeto fra me questo nome, scandagliandolo, tentando di indovinare il significato che assumerà per me, di associarlo a un trionfo o a una disfatta. La battaglia di domani, infatti, si è deciso che segnerà le sorti di questa guerra. Hanno deciso, io non sono stato consultato. Mi è stato chiesto di tornare in patria per difenderla, il tempo a disposizione per riuscire nell’impresa era terminato, e io ho accettato; altra scelta non avevo. Anche se così può sembrare, però, non ritengo che i miei sforzi e i risultati raggiunti durante tutti questi anni siano stati vani, tutt’altro. Roma ha tremato, e se domani vincerò non avrà pace, poiché intendo ricominciare l’opera da dove sono stato costretto ad interromperla, pur se con strategie nuove e differenti. Se invece Scipione dovesse avere la meglio, sarà un predominio temporaneo e illusorio; farò in modo di intuire fin da subito le sorti della battaglia, così da potermi mettere in salvo qualora i Romani dovessero prevalere. Questa volta non si tratta di viltà (se mai un’altra volta c’è stata), bensì di lungimiranza. Cartagine avrà bisogno di me, anche nella sconfitta, per riprendersi e scendere in campo di nuovo.
 
Fisso ancora lo sguardo sulla piana, riflettendo.
Zama. La vittoria decisiva di Annibale.
Zama. Il trionfo che riscattò Roma da tutte le precedenti sconfitte.
Entrambe appaiono ugualmente verosimili. Valutando analiticamente le possibilità, la situazione resta ambigua: dalla mia ho la superiorità numerica, alcune schiere di elefanti, anni di esperienza e successi; Scipione, dal canto suo, per quanto giovane, è inebriato dalle recenti vittorie e dotato di un’astuzia da non sottovalutare, oltre che della cavalleria numida.
Le probabilità, a mio parere, si equivalgono. Sarà il valore dei combattenti a decretare l’esito. Qualunque esso sia, nessuno potrà affermare che Cartagine non si sia battuta con coraggio degno del suo nome. Qualunque esso sia, prego il nostro dio che il mio popolo si mantenga sempre fiero e indomito, e che agli abitanti di questa terra non venga mai negata la libertà di sentirsene parte, la libertà di contemplarla all’ombra delle larghe foglie di una palma.
 
 
 
 
Note: Salve a tutti! Se siete arrivati fin qua, vi meritate un applauso solo per questo! Probabilmente non solo l’unica che a scuola ha trovato interessanti le guerre puniche, e in particolare Annibale; ma altrettanto probabilmente sono la sola pazza che ne è rimasta ossessionata al punto da scriverci una… fanfiction? Chiamiamola bizzarra creazione del mio inconscio, a cui ho deciso di dare questo spazio su efp. Forse il generale in questione si starà rivoltando nella tomba, ma io ho tentato di dargli voce come meglio potevo, provando a ritrarlo così come le fonti ce lo tramandano: un condottiero fiero e spavaldo, abile stratega, dotato di un grande carisma e di un inestinguibile odio per Roma. Vista la crudele fine che hanno poi riservato a Cartagine, non aveva tutti i torti. J
Un’ultima cosa: il passumaltro non è che il nome latino dell’uva passa (quello originale temo non sia pervenuto, ahimé…), che i Cartaginesi conoscevano e usavano da prima dei Romani. Riguardo alla vista difettosa di Annibale, non è una metafora, ho letto da qualche parte che rimase davvero ferito a un occhio.
Grazie mille a chiunque vorrà farmi sapere cosa ne pensa! J
Baci,
Fanny
 
  
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